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RACCONTO

101. Il male esiste?   2

Aneddoto attribuito ad Albert Einstein

Germania, primi anni del XX secolo.

Durante una conferenza tenuta per gli studenti universitari, un professore ateo dell'Università di Berlino lancia una sfida ai suoi alunni con la seguente domanda:
"Dio ha creato tutto quello che esiste?"
Uno studente diligentemente rispose: "Sì certo!".

"Allora Dio ha creato proprio tutto?" - Replicò il professore.
"Certo!", affermò lo studente.

Il professore rispose: "Se Dio ha creato tutto, allora Dio ha creato il male, poiché il male esiste e, secondo il principio che afferma che noi siamo ciò che produciamo, allora Dio è il Male".

Gli studenti ammutolirono a questa asserzione. Il professore, piuttosto compiaciuto con se stesso, si vantò con gli studenti che aveva provato per l’ennesima volta che la fede religiosa era un mito.

Un altro studente alzò la sua mano e disse: "Posso farle una domanda, professore?".
"Naturalmente!" - Replicò il professore.

Lo studente si alzò e disse: "Professore, il freddo esiste?".

"Che razza di domanda è questa? Naturalmente, esiste! Hai mai avuto freddo?". Gli studenti sghignazzarono alla domanda dello studente.

Il giovane replicò: "Infatti signore, il freddo non esiste. Secondo le leggi della fisica, ciò che noi consideriamo freddo è in realtà assenza di calore. Ogni corpo od oggetto può essere studiato solo quando possiede o trasmette energia ed il calore è proprio la manifestazione di un corpo quando ha o trasmette energia. Lo zero assoluto (-273 °C) è la totale assenza di calore; tutta la materia diventa inerte ed incapace di qualunque reazione a quella temperatura. Il freddo, quindi, non esiste. Noi abbiamo creato questa parola per descrivere come ci sentiamo... se non abbiamo calore".
Lo studente continuò: "Professore, l’oscurità esiste?".
Il professore rispose: "Naturalmente!".

Lo studente replicò: "Ancora una volta signore, è in errore, anche l’oscurità non esiste. L’oscurità è in realtà assenza di luce. Noi possiamo studiare la luce, ma non l’oscurità. Infatti possiamo usare il prisma di Newton per scomporre la luce bianca in tanti colori e studiare le varie lunghezze d’onda di ciascun colore. Ma non possiamo misurare l’oscurità. Un semplice raggio di luce può entrare in una stanza buia ed illuminarla. Ma come possiamo sapere quanto buia è quella stanza?

Noi misuriamo la quantità di luce presente. Giusto? L’oscurità è un termine usato dall’uomo per descrivere ciò che accade quando la luce... non è presente".

Finalmente il giovane chiese al professore: "Signore, il male esiste?".

A questo punto, titubante, il professore rispose, “Naturalmente, come ti ho già spiegato. Noi lo vediamo ogni giorno. E’ nella crudeltà che ogni giorno si manifesta tra gli uomini. Risiede nella moltitudine di crimini e di atti violenti che avvengono ovunque nel mondo. Queste manifestazioni non sono altro che male".

A questo punto lo studente replicò "Il male non esiste, signore, o almeno non esiste in quanto tale. Il male è semplicemente l’assenza di Dio. E’ proprio come l’oscurità o il freddo, è una parola che l’uomo ha creato per descrivere l’assenza di Dio. Dio non ha creato il male. Il male è il risultato di ciò che succede quando l’uomo non ha l’amore di Dio presente nel proprio cuore. E’ come il freddo che si manifesta quando non c’è calore o l’oscurità che arriva quando non c’è luce".

Il giovane fu applaudito da tutti in piedi e il professore, scuotendo la testa, rimase in silenzio.

Il rettore dell'Università si diresse verso il giovane studente e gli domandò: "Qual è il tuo nome?".

"Mi chiamo, Albert Einstein, signore!" - Rispose il ragazzo.

benemaleDiofreddoamoretenebrebuioluceesistenza di Diovitasenso della vita

5.0/5 (2 voti)

inviato da Mesiti Pasquale, inserito il 25/01/2009

TESTO

102. Deboli come la Parola

Dietrich Bonhoeffer, Sequela

L'inquietudine attivistica del gruppo dei discepoli, che non vuol riconoscere limiti alla propria operatività, e lo zelo che non tiene conto della resistenza, scambiano la parola del vangelo con un'idea capace di imporsi.

L'idea esige dei fanatici, che non conoscono e non badano ad alcuna resistenza.

L'idea è forte. La parola di Dio invece è così debole da lasciarsi disprezzare e respingere dagli uomini.

Per la parola ci sono cuori induriti e porte chiuse; la parola prende atto della resistenza che incontra, e la patisce. È duro a riconoscersi: per l'idea non c'è niente di impossibile, per il vangelo ci sono invece cose impossibili. La parola è più debole dell'idea. Per cui anche i testimoni della parola nel portare questa parola sono più deboli dei propagandisti di un'idea. Ma in questa debolezza sono liberi dall'inquietudine morbosa dei fanatici, essi patiscono appunto assieme alla parola.

I discepoli possono anche cedere, fuggire, purché cedano e fuggano solo con la parola, purché la loro debolezza sia la debolezza della parola stessa, purché essi, nella loro fuga, non abbandonino la parola.

Essi, infatti, non sono altro che servitori e strumenti della parola e non vogliono essere forti, là dove la parola vuole essere debole.

Se volessero imporre al mondo la parola con qualsiasi mezzo, a qualsiasi condizione, trasformerebbero la parola viva di Dio in idea, e a buon diritto il mondo si difenderebbe da un'idea che non può giovarli.

Ma proprio nella loro debole testimonianza, essi sono tra coloro che non cedono, che mantengono le posizioni - naturalmente, solo là dove c'è la parola.

I discepoli che non si rendessero conto affatto di questa debolezza della parola, non riconoscerebbero il mistero dell'abbassamento di Dio.

Questa debole parola, che è capace di patire l'opposizione dei peccatori, è in effetti la sola parola forte e misericordiosa, che converte i peccatori nella profondità del cuore. La sua forza è nascosta nella debolezza; se la parola si presentasse scopertamente nella sua forza si avrebbe il giudizio finale.

È un grande compito di cui viene fatto carico ai discepoli, quello di riconoscere i limiti del loro incarico. Ma l'abuso della parola si ritorcerà contro di loro.

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inviato da Giovanni Vacca, inserito il 07/09/2008

TESTO

103. Software per il cuore   1

Come installare il software Amore per rendere poi operativi anche tutti gli altri programmi.

Assistenza tecnica: Sì... come posso aiutarti?

Cliente: Ho deciso di installare Amore. Potete guidarmi nella procedura di caricamento?

Assistenza tecnica: Sì, posso aiutarti. Sei pronto a procedere?

Cliente: Beh, non sono molto esperto, ma credo di essere pronto. Qual è la prima cosa da fare?

Assistenza tecnica: Il primo passo è aprire il Cuore. Hai localizzato dove si trova Cuore?

Cliente: Sì, ma ci sono diversi altri programmi attualmente operativi. Va bene installare Amore con altri programmi aperti?

Assistenza tecnica: Quali sono i programmi aperti?

Cliente: Vediamo. Attualmente sono attivi sofferenze passate, scarsa autostima, risentimenti e rancori.

Assistenza tecnica: Non c'è problema. Amore cancellerà gradualmente sofferenze passate dal tuo sistema operativo attuale. Potrebbe rimanere nella memoria permanente ma non disturberà più gli altri programmi. Alla fine Amore renderà obsoleto scarsa autostima. Però devi chiudere completamente risentimenti e rancori: questi programmi impediscono la corretta installazione di Amore. Puoi chiuderli?

Cliente: Non so come fare a chiuderli. Può spiegarmi come si fa?

Assistenza tecnica: Con piacere. Vai al menu di partenza e clicca su perdono. Ripeti l'operazione finché risentimenti e rancori sono stati completamente cancellati.

Cliente: Bene, ho fatto! Amore ha cominciato a installarsi da solo. È normale?

Assistenza tecnica: Sì, ma ricorda che attualmente ha solo il programma di base. Devi cominciare a collegarti con altri Cuori per scaricare le estensioni.

Cliente: Oh oh. Vedo già un messaggio di errore. Dice, "Errore: il programma non è operativo su supporti esterni." Cosa devo fare?

Assistenza tecnica: Non ti preoccupare. Significa che il software Amore è programmato per operare su cuori interiori, ma non è ancora stato inizializzato sul tuo cuore. In termini non tecnici, vuol dire semplicemente che tu devi Amare te stesso prima di poter amare altri.

Cliente: Che cosa devo fare adesso?

Assistenza tecnica: Vai al menu accettazione di sé, poi apri i seguenti file: perdonarsi, rendersi conto del proprio valore, riconoscere i propri limiti.

Cliente: Bene, fatto.

Assistenza tecnica: Ok. Ora copia questi file nella cartella "Mio Cuore". Il sistema eliminerà automaticamente i file contrari e comincerà a riparare la programmazione difettosa. Devi anche cancellare autocritica soffocante da tutte le cartelle e svuotare il cestino per assicurarti che il file sia eliminato completamente e non torni mai più.

Cliente: Bene. Ehi! Il mio cuore si sta riempiendo di file nuovi. È comparso sorriso sul mio monitor, e pace e soddisfazione si stanno copiando in tutto il mio cuore. È normale?

Assistenza tecnica: Succede. Qualche volta ci vuole del tempo, ma alla fine tutto arriva al momento giusto. Bene, Amore è installato e operativo. Ancora una cosa prima di interrompere la comunicazione: Amore è un software gratuito. Se fai circolare Amore e le sue estensioni a tutti quelli che incontri, verrà condiviso con molti altri e riceverai in cambio dei sottoprogrammi utili.

Cliente: Grazie, Dio.

amoreinterioritàaccettazione di séaccettazioneperdonopaceserenità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Miriam Bolfissimo, inserito il 07/09/2008

TESTO

104. Io credo   1

Michel Quoist, Parlami d'Amore

Io credo che Dio "è" amore
Io credo che Egli "è'" famiglia
Padre, Figlio, Spirito Santo
tre persone totalmente unite dall'amore
che fanno uno.
Credo che Dio è felicità infinita
perché è amore infinito.

Io credo che la creazione è frutto dell'amore
perché l'amore vuol far partecipare alla sua felicità.
Io credo che ogni uomo, prima ancora di esistere,
è amato personalmente e infinitamente da Dio
e che sarà sempre amato, quali che siano la sua faccia e i cammini della sua vita.
Io credo che l'uomo è pensiero d'amore di Dio, fatto carne,
e che questa immagine di Dio in lui
può essere sfigurata ma non può mai essere distrutta.
Io credo che l'uomo fatto per mezzo dell'amore è stato
creato per l'amore
e dunque libero
e invitato alla felicità infinita dell'amore.

Io credo che Dio ha donato tutta la creazione agli uomini
perché insieme ne prendano possesso, la completino
e la mettano al servizio di tutti.
Io credo che Dio ha creato l'uomo creatore con Lui
per mezzo della famiglia umana, immagine della sua famiglia
e libero di far sgorgare la vita o di rifiutarla.

Io credo che "Dio ha tanto amato il mondo che ha inviato il suo figlio
nel mondo"
e che così l'amore infinito ha preso, in Maria, volto d'uomo, corpo d'uomo
cuore di uomo
Gesù di Nazareth
trentatre anni di vita, che è piantato al centro della storia umana e
la ricopre intera.
Io credo che Gesù,
perché è uomo, è fratello di tutti gli uomini
perché è fratello di tutti gli uomini, è solidale con i loro peccati,
il non-amore,
e soffre delle loro sofferenze così come ha sofferto le proprie.

Io credo che Gesù, dando la sua vita per amore dei suoi fratelli,
ha ridato a ognuno di noi e all'umanità intera
tutto l'amore da noi sprecato
e che, restituendo l'amore, ci ha restituito la vita.
Io credo che Gesù ha traversato la morte, che è vivo
tra noi fino alla fine dei tempi
e che gli uomini, per mezzo di Lui e in Lui,
possono vivere la vita che non finirà.

Io credo che i credenti e amanti di Gesù formano insieme un grande popolo,
una grande comunità: la Chiesa.
Io credo che questa comunità-chiesa, di cui sono membro in Gesù
e con i miei fratelli,
è, per opera nostra, povera e peccatrice
e che non ha saputo conservare la sua unità.
Ma io credo che è chiamata ad essere Santa
una e segno dell'amore.
Io credo che Gesù ha voluto per lei dei responsabili,
e che questi responsabili sono degli uomini e dunque che sono
peccatori e possono sbagliare.
Ma li rispetto e li amo perché Gesù li ha voluti, scelti, chiamati,
e che il suo spirito li accompagna per i lunghi cammini della storia.

Io credo che lo Spirito di Gesù, lo Spirito Santo, è soffio d'amore.
Che viene incontro all'uomo - libero -
libertà che può aprirsi a Lui
per accoglierlo
lasciarsi invadere da Lui, permeare da Lui
ed essere inviato verso gli altri.
Soffio d'amore che unisce l'uomo all'uomo
gli uomini agli uomini e all'universo
e che costituisce il "Regno del Padre".
Regno d'amore radicato nell'oggi della storia umana
per fiorire domani nell'amore trinitario.

Io credo che l'amore non può morire,
perché viene da Dio
e ritorna a Dio,
passando attraverso l'uomo libero
che si apre, riceve e a sua volta ridona.

fedecrederecredoamore di Dio

4.0/5 (1 voto)

inviato da Patrizia, inserito il 07/09/2008

TESTO

105. C'ero anch'io...   3

Mariangela Forabosco

C'ero anch'io, Signore Gesù, quella notte, nel giardino del Getsemani!
Ero lì, con i tuoi Apostoli ancora sconvolti per tutto quello che ti avevano sentito dire, quella sera; per quei piedi lavati proprio da te, il Maestro; per quel incomprensibile, straziante annuncio della tua imminente morte!

Ero lì, e ti ho visto piangere lacrime e sudare sangue, ti ho sentito implorare il Padre tuo di allontanare l'amaro calice della passione che sentivi vicino...io non capivo!

Avrei voluto inginocchiarmi accanto a te, sulle pietre aguzze, asciugare il tuo sudore di sangue, accarezzare il tuo volto sconvolto, implorarti di fuggire lontano, di metterti in salvo dalla crudeltà degli uomini, ma ti ho sentito dire:" Non sia fatta la mia, ma la tua volontà, Padre"!
Il peso di queste parole è stato troppo grande, per me: ti ho lasciato solo, mi sono allontanata e ho dormito, insieme ai tuoi apostoli.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel pretorio di Pilato!
Ero lì, e sentivo la folla rumoreggiare, fuori; erano come impazziti, tanto da scegliere, urlando, la liberazione di Barabba e la tua condanna.

Ero lì, quando i soldati ti legavano alla colonna; ero lì, quando i flagelli incidevano la tua carne, quando la tua schiena si inarcava per il dolore atroce. Avrei voluto strappare di mano ai soldati quelle fruste che si accanivano sulla tua carne innocente, avrei voluto liberare quelle tue mani che avevano portato sollievo a tante persone, avrei voluto gridare la mia rabbia per tanto strazio, ma non ho saputo fare altro che rintanarmi in un cantuccio nascosto: ho avuto paura di svelare apertamente il mio amore per te, avevo paura di essere riconosciuta come tua sorella, tua amica e mi sono nascosta.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel cortile del pretorio, quando Pilato ti consegnò ai soldati per la crocifissione!

Ero lì, quando l'intera coorte iniziò a torturare il tuo corpo martoriato dalla flagellazione. Ti rivestirono di porpora e, intrecciata una corona con pungentissime spine, te la conficcarono nel capo, profondamente; si inginocchiavano davanti a te, uomo dei dolori, dicendoti:"Salve, re dei Giudei!", e ti sputavano addosso e continuavano a percuotere il tuo corpo straziato.

Avrei voluto strappare spina per spina dal tuo capo, avrei voluto liberare il tuo santo corpo da tanta crudeltà, avrei voluto gridare a tutti che si ricordassero quante parole sananti avevi pronunciato, quanti peccati avevi perdonato, con quelle labbra ora tumefatte e sanguinanti. Invece, ancora una volta mi sono nascosta dietro le mie paure, la mia voglia di quieto vivere, la tentazione di non impicciarmi, di non rischiare, e sono fuggita.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quando, carico della croce, percorrevi la via che portava al luogo del supplizio. Tanta gente urlava, ai lati, e ti scherniva: erano gli stessi che la domenica delle Palme stendevano i loro mantelli sotto i tuoi passi e ti chiamavano "Figlio di Davide".

Ero lì, quando cadevi sotto il peso di quel legno! Avrei voluto togliertelo di dosso, asciugarti il volto come ha fatto la Veronica, offrirti dell'acqua, gridarti il mio dolore e la rabbia che provavo nel vederti sopportare così passivamente tanta crudeltà. Invece, non ho trovato il coraggio di farmi riconoscere; ho preferito assistere al tuo martirio senza compromettermi troppo.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quando i colpi del martello risuonavano nell'universo e il Figlio di Dio veniva inchiodato ad una croce, tra due malfattori. Ero lì, quando, ormai allo stremo, trovavi la forza di perdonare i tuoi carnefici "perché non sanno quello che fanno": così hai detto!

Ero lì, quando hai consegnato tua Madre a Giovanni e Giovanni a tua Madre; c'ero anch'io, in quella consegna; c'ero anch'io, in quel perdono; c'era anche la mia salvezza, in quel "tutto è compiuto"! Avrei voluto abbracciare quella croce, che tratteneva il tuo corpo ormai senza vita; avrei voluto strappare di mano la spada che ti ha trafitto il costato; avrei voluto dare la mia vita per la tua, ma, ormai, era troppo tardi, tutto era irrimediabilmente finito!

C'ero anch'io, Signore Gesù, davanti al sepolcro vuoto, quel mattino del primo giorno della settimana! Ero lì, con le altre donne, con Pietro, con Giovanni, con la Maddalena, a guardare stupita la pietra rimossa, le bende piegate, a chiedermi dove fosse il mio Signore.

Ero lì, e non capivo, perché la mia fede era provata duramente dalla tua morte, ma anche perché sapevo di averti lasciato solo, e il mio cuore mi suggeriva rimorso e rimpianto.

Ero lì, e piangevo e avrei voluto ancora una volta fuggire lontano, nascondermi al mio stesso dolore, consapevole che avevo cercato tanto il mio Signore, ma che la mia paura me l'aveva fatto perdere per sempre! Ed ecco che, improvvisamente, quando stavo per andarmene, sconsolata, ho sentito una voce dolcissima chiamarmi per nome: era la tua voce, Signore Gesù!

Eri tornato, eri vivo, eri lì, davanti a me; eri venuto a cercarmi e mi avevi trovata. I miei abbandoni, i miei tradimenti li hai presto dimenticati; hai voluto dirmi che tu sei il vivente, che non mi lascerai mai, che la morte è vinta per sempre ed io sto partecipando, insieme a tutta la creazione, alla tua risurrezione.

Cristo è risorto, alleluia!

crocepassionerisurrezionepasquaresurrezionepauratradimentogetsemanitestimonianzavergogna

5.0/5 (2 voti)

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 21/03/2008

RACCONTO

106. La missione di Angiolino

Miriam Soter

Angiolino era preoccupato. L'Eterno Padre gli aveva assegnato la missione di consolare il suo Figlio agonizzante. "Di che cosa potrà mai aver bisogno il Signore?", pensava tra sé.

In un baleno lasciò la Gloria del Paradiso, raggiunse la Palestina, si diresse verso Gerusalemme e deviò sul Getsemani. Là si arrestò pieno di stupore: lo stesso Dio che aveva contemplato sfolgorante d'infinita gloria, quello stesso Dio davanti al quale stava sempre in adorazione, ora era lì, al buio, prostrato a terra, tutto tremante e angosciato.

«Devo assolutamente trovare qualcuno che lo possa consolare!», si disse dirigendosi verso gli Apostoli. «Sicuramente loro sono disposti ad aiutarmi: hanno ricevuto tanti insegnamenti e hanno visto tanti miracoli!». Ma i discepoli dormivano.

«Che delusione! Forse tra i miracolati troverò qualcuno disposto a consolarlo!». Il povero Angiolino girò tutta la Giudea: visitò ciechi che vedevano, storpi che camminavano, sordi che sentivano, ma tutti erano intenti a festeggiare la Pasqua.

«Tutti pensano a festeggiare e non c'è nessuno che pensi al Signore! Vorrà dire che andrò avanti e indietro nel tempo radunando le anime sante del passato e del futuro!».

Angiolino non ci mise molto: con una velocità supersonica portò un esercito di anime. Tra quelle del passato si distingueva il Re Davide, il profeta Isaia, Mosè, Geremia e tutti gli altri profeti. Brillavano con una luce tutta speciale san Giuseppe e san Giovanni Battista. Tra le anime del futuro c'erano gli Apostoli ormai diventati coraggiosi, schiere sterminate di martiri, di vergini e di confessori. Si vedeva santa Chiara che commossa sussurrava: «Era tutta la vita che chiedevo questa grazia...», accanto a lei c'era san Francesco, sant'Antonio, santa Veronica, poi san Domenico, santa Caterina da Siena, santa Gemma, san Giovanni Bosco, san Massimiliano Maria Kolbe... e San Pio che confuso e profondamente commosso assumeva su di sé la pesantissima Croce, condividendo con Cristo le atroci sofferenze della Passione.

Gesù ne ebbe un gran sollievo, ma la visione delle numerosissime anime che avrebbero disprezzato il suo Sacrificio lo prostrava e addolorava ancora profondamente.

Allora Angiolino come un lampo si diresse verso la casa dell'immacolata. La Signora stava offrendo tutto con Gesù. «Mia dolce Regina, non volevo disturbarti perché so che stai soffrendo molto e avresti bisogno di essere consolata tu stessa, ma sei l'unica che può aiutarmi!».

«Angiolino caro, in questo momento l'unica mia consolazione è proprio quella di poter consolare Gesù! Su, presto! Torna nell'Orto degli Ulivi e portagli il mio Cuore!».

Angiolino tutto tremante prese quel preziosissimo Cuore nelle sue mani di luce e lo portò subito a Gesù.

venerdì santogetsemanidoloreagoniaconsolazionesperanza

4.5/5 (2 voti)

inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008

RACCONTO

107. Gastone il centurione

Miriam Soter

Gastone era un centurione e ormai da 30 anni si trovava alle dipendenze di Pilato. Di condannati ne aveva visti tanti, ma nessuno come questo Galileo. «Con tutte le torture che gli sono state fatte dovrebbe essere già morto... e invece mantiene sempre la calma, pur tra inaudite sofferenze... e poi... mi ricorda qualcuno...».

Intanto Gesù fu caricato della croce e il triste corteo si avviò verso il Calvario. Ad un tratto lungo la strada apparve una Donna. «E' la madre del condannato», sussurrò qualcuno. Gastone si voltò ed ebbe un sussulto: come un lampo il passato gli tornò davanti agli occhi.

Era un giovane soldato, appena giunto dall'Italia, quando venne mandato con dei colleghi in Galilea a causa di una sommossa. Come gli altri soldati era un prepotente: entrava nei villaggi e saccheggiava le case senza aver rispetto per nessuno. Un giorno la sua guarnigione rimase senza viveri e i soldati decisero di prendere con la violenza un po' di provviste. Gridando e schiamazzando misero in subbuglio il paesino di Nazaret: le urla delle donne e il pianto dei bambini, invece di impietosirli, li facevano divertire.

Mancava ancora una casetta: Gastone fu il primo ad entrare; ma si fermò di colpo. All'interno non c'era niente di strano: solo una donna con un bambino; eppure l'atmosfera era talmente soprannaturale che i soldati entrando rimanevano ammutoliti. Gastone una volta aveva visto da vicino Cesare, eppure da quei due si irradiava una maestà ben superiore a quella dell'imperatore.

Con una voce dolcissima e molto calma la Signora domandò: «Avete bisogno di qualcosa?». I soldati si guardavano imbarazzati. Gastone si fece coraggio e rispose: «Avremmo bisogno di un po' di cibo, ma non vorremmo essere di disturbo...». La Donna si rivolse al bambino: «Gesù, vai a prendere un po' di provviste». Il bambino subito si alzò e corse in dispensa. Quando tornò aiutò la Mamma a preparare tanti fagottini quanti erano i soldati. Infine, la Donna distribuì le provviste a ciascuno di loro.

Pur essendo molto giovane, tutti ebbero l'impressione di trovarsi di fronte alla propria madre. Gastone non aveva più dimenticato quello sguardo e adesso era sicuro di riconoscerlo in quella Donna.

«Il condannato dev'essere quel bambino!». Era la prima volta che provava compassione per un condannato. Un pensiero gli si affacciò alla mente: «Quest'uomo ha affermato di essere Figlio di Dio... E se fosse vero?». La Donna intanto seguiva il Figlio con una compostezza e una dignità che ferivano profondamente il cuore del buon centurione.

Arrivarono sul Calvario e dopo tre ore di tremenda agonia, alla morte di Gesù Gastone cadde in ginocchio ed esclamò: «Costui era veramente Figlio di Dio!», e così dicendo gli tornarono alla mente le Sue ultime parole: «Donna ecco tuo Figlio»: solo allora capì che si trattava di una Maternità universale ed ebbe un sussulto: era proprio questa l'impressione che aveva avuto quando aveva visto la Donna per la prima volta.

calvariocrocevenerdì santomariamadonna

3.0/5 (2 voti)

inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008

TESTO

108. Maria, donna accogliente

Tonino Bello, Nigrizia, giugno 1991, p. 58

La frase si trova in un testo del Concilio Vaticano II, ed è splendida per dottrina e concisione. Dice che, all'annuncio dell'Angelo, Maria «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio».

Nel cuore e nel corpo
Fu, cioè, discepola e madre del Verbo. Discepola, perché si mise in ascolto della Parola e la conservò per sempre nel cuore. Madre, perché offrì il suo grembo alla Parola e la custodì per nove mesi nello scrigno del corpo.
Forse per capire fino in fondo la bellezza di questa verità, il vocabolario non basta. Bisogna ricorrere alle espressioni visive. E allora non c'è di meglio che rifarsi ad una celebre icona orientale, che raffigura Maria con il divin Figlio Gesù inscritto sul petto. È indicata come "la Madonna del segno", ma potrebbe essere chiamata "la Madonna dell'accoglienza", perché, con gli avambracci levati in alto, in atteggiamento di offertorio o di resa, essa appare il simbolo della più gratuita ospitalità.

Accolse nel cuore
Fece largo, cioè, nei suoi pensieri ai pensieri di Dio. ma non si sentì, per questo, ridotta al silenzio. Offrì volentieri il terreno vergine della sua intimità alla germinazione del Verbo, ma non si considerò espropriata di nulla. Gli cedette con gioia il suolo più inviolabile della sua vita, ma senza dover ridurre gli spazi della sua libertà. Diede alloggio al Signore nella sua casa, ma non ne sentì, la presenza come violazione di domicilio. Gli aprì le porte delle stanze più segrete, ma senza subirne lo sfratto.

Accolse nel corpo
Sentì, cioè, il peso fisico di un altro essere che prendeva dimora nel suo grembo di madre. Adattò, quindi, i suoi ritmi a quelli dell'ospite. Modificò le sue abitudini in funzione di un compito che non le alleggeriva certo la vita. Consacrò i suoi giorni alla gestazione di una creatura che non le avrebbe risparmiato preoccupazioni e fastidi. E poiché il frutto benedetto del seno suo era il Verbo di Dio che s'incarnava per la salvezza dell'umanità, capì di aver contratto con tutti i figli di Eva un debito di accoglienza che avrebbe pagato con cambiali di lacrime.

Quell'ospitalità fondamentale la dice lunga sullo stile di Maria e delle sue mille altre accoglienze di cui il vangelo non parla, ma che non ci è difficile intuire. Nessuno fu mai respinto da lei. Tutti trovarono riparo sotto la sua ombra. Dalle vicine di casa, alle antiche compagne di Nazaret. Dai parenti di Giuseppe, agli amici di gioventù di suo figlio. Dai poveri della contrada, ai pellegrini di passaggio. Da Pietro, in lacrime dopo il tradimento, a Giuda che, forse, quella notte non riuscì a trovarla in casa.

Santa Maria, donna accogliente, aiutaci ad accogliere la Parola nell'intimo del cuore. A capire, cioè, come hai saputo fare tu, le irruzioni di Dio nella nostra vita. Egli non bussa alla porta per intimarci lo sfratto, ma per riempire di luce la nostra solitudine. Non entra in casa per metterci le manette, ma per restituirci il gusto della vera libertà.

Lo sappiamo: è la paura del nuovo a renderci spesso inospitali nei confronti del Signore che viene. I cambiamenti ci danno fastidio. E siccome lui scombina sempre i nostri pensieri, mette in discussione i nostri programmi e manda in crisi le nostre certezze, ci nascondiamo come Adamo nell'Eden, ogni volta che sentiamo i suoi passi. Facci comprendere che Dio, se ci guasta i progetti, non ci rovina la festa; se disturba i nostri sonni, non ci toglie la pace. E una volta che l'avremo accolto nel cuore, anche il nostro corpo brillerà della sua luce.

Santa Maria, donna accogliente, rendici capaci di gesti ospitali verso i fratelli. Sperimentiamo tempi difficili, in cui il pericolo di essere defraudati dalla cattiveria della gente ci fa vivere dietro porte blindate e sistemi di sicurezza. Non ci fidiamo più l'uno dell'altro. Vediamo agguati dappertutto. Il sospetto è diventato organico nei rapporti con il prossimo. Il terrore di essere ingannati ha preso il sopravvento sugli istinti di solidarietà che pure ci portiamo dentro. E il cuore se ne va a pezzi, dietro i cancelli dei nostri recinti.

Disperdi, ti preghiamo, le nostre diffidenze. Facci uscire dalla trincea degli egoismi corporativi. Sfascia le cinture delle leghe. Allenta le nostre ermetiche chiusure nei confronti di chi è diverso da noi. Abbatti le nostre frontiere. Quelle culturali, prima di quelle geografiche. Queste ultime cedono ormai sotto l'urto dei popoli "altri", ma le prime restano tenacemente impermeabili. Visto allora che siamo costretti ad accogliere stranieri nel corpo della nostra terra, aiutaci ad accoglierli anche nel cuore della nostra civiltà.

Santa Maria, donna accogliente, ostensorio del corpo di Gesù deposto dalla croce, accoglici sulle tue ginocchio, quando avremo reso lo spirito anche noi. Dona alla nostra morte la quiete fiduciosa di chi poggia il capo sulla spalla della madre e si addormenta sereno. Tienici per un poco sul tuo grembo, così come ci hai tenuti nel cuore per tutta la vita. Compi su di noi i rituali delle ultime purificazioni. E portaci, finalmente, sulle tue braccia davanti all'Eterno.

Perché solo se saremo presentati da te, sacramento della tenerezza, potremo trovare pietà.

mariamadonnaaccoglienzastranieriospitalitàmigrazione

inviato da Giovanni Graziano Tassello, inserito il 11/01/2008

TESTO

109. Il primo presepe

Johann Jorgensen

La santa sera tutto era pronto, a Greccio, come frate Francesco aveva desiderato; verso l'ora di mezzanotte, tutto il popolo di quei pressi era convenuto intorno al presepe per festeggiare la nascita del Signore. Come ci racconta Tomaso da Celano: «Greccio era diventata una nuova Betlemme; la foresta risuonava di voci melodiose e le rocce echeggiavano ai canti della folla». Ognuno portava torce accese, mentre, vicino al presepe, stavano i frati coi loro ceri; tanto che i boschi erano rischiarati come fosse pieno giorno. Sulla mangiatoia che serviva d'altare, un prete lesse la messa, perché il divino fanciullo fosse presente, sotto le specie del pane e del vino, al modo stesso che lo era stato corporalmente a Betlemme. Ci fu pure un istante in cui Giovanni Vellita ebbe l'impressione di vedere un vero bambino coricato nella mangiatoia, ma che sembrava morto, o, per lo meno, addormentato. Ed ecco che frate Francesco si avvicina al bambino e lo prende teneramente tra le braccia; ed ecco che anche il bambino si sveglia, sorride a frate Francesco, e, con le sue piccole mani, gli accarezza le guance barbute e la stoffa grigia della sottana! Visione che, del resto, non aveva nulla di stupefacente per messer Vellita: poiché egli conosceva già parecchi cuori, in cui, allo stesso modo, Gesù era stato morto, o per lo meno addormentato, fino al giorno in cui frate Francesco, con la sua parola e il suo esempio, non l'aveva risvegliato e risuscitato.

Dopo la lettura del Vangelo, frate Francesco, in veste di diacono, si avanzò verso la folla. «Sospirando profondamente, ci dice Celano, accasciato sotto la pienezza della sua pietà, e traboccante di meravigliosa gioia, il santo di Dio si drizzò presso la mangiatoia. E la sua voce, la sua voce forte e dolce, la sua voce chiara e sonora, trascinò gli uditori a ricercare il bene supremo».

Frate Francesco predica alla folla. «Con parole d'una dolcezza squisita, parla del povero re nato quella notte che è il Signore Gesù, nella città di David. E, ogni volta che vuole pronunciare il nome di Gesù, ecco che egli è tutto arso dal fuoco del suo amore, e che, invece di dirgli questo nome, lo chiama teneramente il Bambino di Betlemme! E, questa parola Betlemme, la dice col tono d'un agnello belante; e quando ha proferito il nome di Gesù, lascia scivolare la lingua sulle labbra, come per assaporare la dolcezza che quel nome ha sparso dietro di sé, passando su quelle labbra. E non fu che molto tardi che terminò quella santa notte di vigilia, e che ciascuno, con il cuore pieno di gioia, se ne ritornò alla sua casa».

«In seguito, questo luogo, dove era stato piantato il presepe, fu consacrato al Signore con l'erezione di un tempio; e sopra la mangiatoia fu alzato un altare in onore del nostro beato Padre Francesco: così che, là dove poco prima le bestie senza ragione mangiavano il fieno dalla greppia, oggi gli uomini, per la salute delle loro anime e del loro corpo, ricevono l'Agnello immacolato, Nostro Signore Gesù Cristo, che, spinto da ineffabile amore, ha dato la sua carne per la vita del mondo, e che, col Padre e lo Spirito Santo, vive e regna in somma grandezza per tutti i secoli dei secoli. Così sia!».

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inviato da Franco Canzian, inserito il 19/12/2007

RACCONTO

110. Quando le croci sono troppe

Giovanni Francile

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un crocifisso, se ne lamentò con il signore così:

"Ah, signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... Ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai date tante e così pesanti che io non ho più forza per portarle...".

Il Signore però gli disse: "ieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco... Ecco, questa è la croce più grossa e la più pesante; guarda cosa c' è scritto sopra...".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?", disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, di golosità, di divertimenti... E di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".

"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest' altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l'ho data io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... E di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".

"E' vero, è vero! Anche questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto gelosia, su quell'altra: avarizia, su quest'altra...".

"Ho capito, ho capito Signore, è troppo giusto quello che tu dici...".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se le era poste sulle spalle.

Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle, esclamò:

"Oh! Come è piccola questa! E pesa poco!". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".

Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!". Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: "Vedi, figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al cielo, perché io l'ho detto: 'Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua...', ma ho detto anche: 'il mio giogo è soave e il mio peso è leggerò".

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù.

Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del paradiso.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Cosimo Di Lella, inserito il 15/11/2007

PREGHIERA

111. Maria, vergine del mattino, del meriggio, della sera, della notte

Maria, Vergine del mattino,
nel tuo sguardo apro la mia giornata
densa di imprevisti, piena di provvidenze.
Donami il coraggio
di passi fermi e decisi sulla strada che è Gesù,
senza soste, senza sospiri,
con te accanto.
Colma i miei occhi di stupore
per tutto ciò che mi accadrà di bene o di male,
di gioia o di sofferenza,
per cogliere in tutto i doni e i passi di Dio;
mai lamento o ribellione sporchino le mie labbra,
mai il peccato mi venga a turbare.

Maria, vergine del meriggio
donami acqua viva sotto il sole che batte,
donami soste di riposo e non di sconforto,
pronto a riprendere il cammino verso il domani.
Sia il mio andare un audace cammino verso l'infinito.
Liberami dalla tentazione
di lasciare Dio alla porta delle mie scelte.
Rendimi coraggioso testimone di Resurrezione
in un mondo immerso di tenebre.
Sia ogni mio incontro, un incontro di cuore,
dove ogni persona è specchio del volto del tuo Figlio
e ogni uomo in cui mi imbatto, mio fratello.
Sia io, samaritano di speranza con chi è nel bisogno.

Maria, Vergine della sera,
madre dell'ora dei rientri,
non tramonti il sole senza che io possa
essere in pace sulle ire delle umane debolezze
con la grazia del perdono.
Fammi dono di comunione di famiglia,
di dolci e teneri incontri di affetti.

Fammi gustare lo stare in famiglia
e, se per caso ne fossi orfano,
con te e con tuo Figlio voglio fare famiglia
per vincere la mia solitudine.

Maria, Vergine della notte,
illumina la notte della sofferenza,
del dolore e della solitudine.
Nel buio del mio calvario
rimani accanto alla mia croce.
Nella dolcezza e nella forza della tua maternità,
illumina, per me, l'ora delle tenebre.
In pace io mi corico e mi addormento
perché tu, sicuro, mi fai riposare.
Passa la notte in trepida veglia accanto a me, tuo figlio,
donami di attendere sereno,
in pace e senza peccato,
l'aurora del giorno senza tramonto,
perché viva ora il già e il non ancora.

maria

inviato da Luigi De Bernardi, inserito il 24/05/2007

PREGHIERA

112. Preghiera per i laici   1

Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici"

O Vergine santissima,
Madre di Cristo e Madre della Chiesa,
con gioia e con ammirazione,
ci uniamo al tuo Magnificat,
al tuo canto di amore riconoscente.

Con te rendiamo grazie a Dio,
«la cui misericordia si stende
di generazione in generazione»,
per la splendida vocazione
e per la multiforme missione
dei fedeli laici,
chiamati per nome da Dio
a vivere in comunione di amore
e di santità con lui
e ad essere fraternamente uniti
nella grande famiglia dei figli di Dio,
mandati a irradiare la luce di Cristo
e a comunicare il fuoco dello Spirito
per mezzo della loro vita evangelica
in tutto il mondo.

Vergine del Magnificat,
riempi i loro cuori
di riconoscenza e di entusiasmo
per questa vocazione e per questa missione.

Tu che sei stata,
con umiltà e magnanimità,
«la serva del Signore»,
donaci la tua stessa disponibilità
per il servizio di Dio
e per la salvezza del mondo.
Apri i nostri cuori
alle immense prospettive
del Regno di Dio
e dell'annuncio del Vangelo
ad ogni creatura.

Nel tuo cuore di madre
sono sempre presenti i molti pericoli
e i molti mali
che schiacciano gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Ma sono presenti anche
le tante iniziative di bene,
le grandi aspirazioni ai valori,
i progressi compiuti
nel produrre frutti abbondanti di salvezza.

Vergine coraggiosa,
ispiraci forza d'animo
e fiducia in Dio,
perché sappiamo superare
tutti gli ostacoli che incontriamo
nel compimento della nostra missione.
Insegnaci a trattare le realtà del mondo
con vivo senso di responsabilità cristiana
e nella gioiosa speranza
della venuta del Regno di Dio,
dei nuovi cieli e della terra nuova.

Tu che insieme agli Apostoli in preghiera
sei stata nel Cenacolo
in attesa della venuta dello Spirito di Pentecoste,
invoca la sua rinnovata effusione
su tutti i fedeli laici, uomini e donne,
perché corrispondano pienamente
alla loro vocazione e missione,
come tralci della vera vite,
chiamati a portare molto frutto
per la vita del mondo.

Vergine Madre,
guidaci e sostienici perché viviamo sempre
come autentici figli e figlie
della Chiesa di tuo Figlio
e possiamo contribuire a stabilire sulla terra
la civiltà della verità e dell'amore,
secondo il desiderio di Dio
e per la sua gloria.
Amen.

laiciimpegnoresponsabilitàlaicato

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 24/05/2007

RACCONTO

113. Il bambino che tolse i chiodi a Gesù   1

Questa storia è vera per la prima parte, mentre la seconda ne è un possibile proseguimento, suggerito dalla fede e dal cuore di chi scrive, liberamente interpretabile da chi legge, purché resti emblematica nel suo contenuto che vuol essere comunque educativo.

C'era una volta un bambino (oggi non è più quel bambino perché è regolarmente cresciuto) di nome Lorenzo, piccolo mulatto, birichino, occhi pieni di curiosità, denti bianchissimi nella bocca sorridente, voglia continua di correre e giocare, fantasioso, spericolato, sempre protetto dal vigile Angelo Custode.

E non c'era solo quel bambino, c'era anche un castello, dove il bimbo andava a giocare e dove l'aspettavano tante zie che se lo contendevano per appagare tutti i suoi desideri e raccontarsi poi le sue prodezze.

Nel castello c'era una piccola chiesa, perché le zie che lo custodivano erano delle suore secolari che sapevano coniugare la consacrazione al Signore l'amore materno ad ogni piccola creatura.

Ed ecco che un giorno, nel mezzo del gioco, mentre il bimbo corre calciando il pallone, nel corridoio accanto alla piccola chiesa la voce della zia "Annamalia", la madrina di battesimo, chiama: "Lorenzo, vieni a conoscere Gesù".

Così Lorenzo scende per la prima volta i gradini della chiesetta ed entra nel vano sacro, dove gli viene mostrato Gesù nel grande crocifisso appeso alla parete sopra l'altare.

Il bimbo alza gli occhi e vede i piedi forati dal chiodo, sovrapposti e sanguinanti. Ecco quello è Gesù e lui gli manda bacetti con la mano, rammaricandosi di non poterlo raggiungere, impotente a togliergli quei chiodi che forano i piedi e le mani fino a farli sanguinare.

Cominciò così il suo amore per Gesù, un misto di ammirazione e compassione che si rinnovava ad ogni nuova visita.

Per Lorenzo era un grosso sacrificio lasciare il gioco per andare a rivedere Gesù, ma ne valeva la pena... specialmente dopo che aveva assaggiato il "Pane di Gesù", che zia Annamaria aveva preso da un armadietto della sacrestia, e dopo aver saputo che la casa di Gesù era nel tabernacolo di marmo, proprio sotto la grande croce da cui Gesù non poteva discendere. In braccio alla madrina lui però poteva baciare la porticina di quella "casa" e stabilire con Gesù una grande amicizia, più importante di quella che aveva con i suoi compagni della Scuola Materna.

Ma il cuoricino di Lorenzo soffriva per quei grossi chiodi che non sapeva come fare a togliere perché Gesù potesse guarire e scendere dalla croce. Una volta che zia Roberta si ferì un piede e mostrò al bambino la ferita, egli si slanciò a baciarlo per farlo guarire come avrebbe voluto fare con Gesù.

Passò il tempo e venne il grande momento: una scala era rimasta abbandonata in chiesa con qualche attrezzo, come quelli che usava papà Mario per i lavori di casa. Lorenzo non aspettava altro! Ormai era abbastanza alto e forte per sollevare la scala, avvicinarla al grande crocifisso, prendere gli attrezzi e salire fino in alto. Ora finalmente poteva "lavorare" per togliere quei chiodi ai piedi e alle mani di Gesù.

Lavora, smuovi, tira... e uno! Poi due, ma il terzo che fatica! Non si arrese: tirò finché anche quello fu divelto, ma intanto la scala oscillò e si piegò all'indietro. Un grido: "Gesù!". Una risposta: "Lorenzo!".

E mentre il bimbo stava perdendo l'equilibrio, stava cadendo indietro, le mani libere di Gesù lo afferrarono e lo portarono in posizione sicura. Lorenzo, ignaro del pericolo corso, esultava di gioia: Gesù finalmente aveva parlato!

Le zie intanto cercavano il bambino e lo trovarono sulla scala sorridente. "Lorenzo che hai fatto?".
"Non ha più i chiodi! E Gesù mi ha risposto!".

Zia Ilva sale subito sulla scala e va a prendere il bambino, lo riconduce a terra illeso, fra la grande gioia di tutte le zie dal cuore materno che per lui hanno trepidato e stentano a capire che cosa è successo.

In realtà nessuno mai capì bene la cosa, solo Lorenzo sapeva che Gesù non aveva più i chiodi perché lui glieli aveva tolti e poi era felice perché Gesù gli aveva parlato come ad un vero amico.

Quando Lorenzo crebbe e diventò un uomo, non si sa cosa fece nella vita: forse divenne papà ed ebbe dei figli; forse partì missionario ed andò a fare del bene ad altri bambini. Comunque siano andate le cose, Lorenzo ebbe sempre tanto amore per Gesù ed insegnò ai bambini ad amarlo tanto. Così il mondo divenne più buono.

Gesùcrocifissocrocerapporto con Diosemplicità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Una Catechista, inserito il 25/03/2007

TESTO

114. L'uccellino e il sole divino

S. Teresa di Lisieux, Storia di un'anima

Gesù, Gesù, se è tanto delizioso il desiderio di amarti, che sarà possederti, godere del tuo amore?

In qual modo può, un'anima imperfetta quanto la mia, aspirare a possedere la pienezza dell'Amore? Gesù, mio primo, mio solo Amico, tu che amo unicamente, dimmi, quale mistero è questo? Perché non riservi queste aspirazioni immense alle anime grandi, alle aquile che roteano altissime? Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po' di piuma lieve; non sono un'aquila, ho dell'aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fissare il Sole divino, il Sole dell'Amore, e il mio cuore prova tutte le aspirazioni dell'aquila... L'uccellino vorrebbe volare verso quel Sole che affascina gli occhi, vorrebbe imitare le aquile, sue sorelle che vede elevarsi fino alla divina dimora della santissima Trinità... Ahimé! Tutto quello che può fare, è sollevare le sue alucce, ma volar via, questo non è nelle sue piccole possibilità. Che ne sarà di lui? Morirà di dolore vedendosi così impotente? No! L'uccellino non se ne affliggerà nemmeno. Con un abbandono audace vuol fissare ancora il suo Sole divino: niente gli fa paura, né vento, né pioggia, e se le nuvole pesanti nascondono l'Astro d'amore, l'uccellino non cambia posto, sa che di là dalle nubi il Sole splende sempre, che la sua luce non si offuscherà nemmeno per un attimo.

In certi momenti il suo cuore si trova assalito dalla tempesta, gli pare che non esistano altre cose se non le nubi che lo circondano; e allora è il momento della gioia perfetta per il povero esserino debole. Che felicità per lui restare lì ugualmente, e fissare la luce invisibile la quale si nasconde alla sua fede! Gesù, fino da ora capisco il tuo amore per l'uccellino, perché non si allontana da te... Ma io lo so, e tu lo sai, spesso questo cosino minimo e imperfetto, pur rimanendo al suo posto (cioè sotto i raggi del Sole), si lascia distrarre un poco dalla sua occupazione unica, becca un granellino di qua o di là, corre dietro a un vermiciattolo... Poi, trovando una pozzanghera, si bagna le piume appena spuntate, vede un fiore che gli piace, allora la sua piccola testa si occupa di quel fiore... e poi, non potendo planare come le aquile, il povero uccellino s'interessa ancora alle piccolezze della terra. Tuttavia, dopo questi malestri, invece di andare a nascondersi in un angolino per piangere la sua miseria e morir di pentimento, l'uccellino si volge verso il Sole amato, presenta ai raggi benefici le alucce bagnate, geme come la rondine, e con un canto dolce racconta tutti i particolari della sua infedeltà, pensando nel suo abbandono temerario di acquistare così maggior diritto, attirare più pienamente l'amore di Colui che non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.

Se l'Astro adorato rimane sordo al lamento cinguettato della sua creaturina, se rimane velato, ebbene, la creaturina resta bagnata, accetta di essere intirizzita di freddo, e si rallegra ancora di questa sofferenza che ha pur mentata... Gesù, com'è felice il tuo uccellino di essere debole e piccolo. Oh, che sarebbe di lui se fosse grande? Mai avrebbe l'audacia di comparire alla tua presenza, di sonnecchiare dinanzi a te... Si, ecco un'altra debolezza dell'uccellino: quando vuoi fissare il Sole divino e le nuvole gli impediscono di vedere anche un solo raggio, nonostante la sua buona volontà gli occhi gli si chiudono, la testolina si nasconde sotto l'ala, e il povero esserino si addormenta, credendo di fissar sempre il suo Astro amato. Quando si desta, non si cruccia; il suo cuoricino rimane in pace, ricomincia il suo ufficio d'amore, invoca gli Angeli e i Santi i quali s'innalzano come aquile verso il fuoco divorante oggetto della sua brama, e le aquile, impietosite, proteggono il fratellino, e mettono in fuga gli avvoltoi che vorrebbero divorarlo.

Gli avvoltoi, immagini dei demoni, l'uccellino non li teme, non è destinato a diventar la loro preda, bensì sarà preda dell'Aquila che egli contempla nel centro del Sole d'amore. O Verbo divino, tu sei l'Aquila adorata, io ti amo. Tu mi attiri, sei tu che, slanciandoti verso la terra dell'esilio, hai voluto soffrire e morire per attirare le anime fino al seno dell'intimità eterna della Santissima Trinità, sei tu che, risalendo verso la Luce inaccessibile ove soggiornerai sempre, resti pur sempre nella valle delle lacrime, nascosto entro l'aspetto di un'Ostia bianca... Aquila eterna, tu vuoi nutrire della tua sostanza divina me, povero esserino che rientrerei nel nulla se il tuo sguardo divino non mi desse la vita minuto per minuto. Oh, Gesù, lasciami dire, nell'eccesso della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva fino alla follia... Come vuoi che, dinanzi a questa follia, il mio cuore non si slanci verso te? Come potrebbe aver limiti la mia fiducia? Per te, lo so, i Santi hanno fatto anch'essi delle follie, hanno fatto grandi cose perché erano aquile.

Gesù, sono troppo piccola per fare cose grandi, e la follia mia è sperare che il tuo Amore mi accolga come vittima! La mia follia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, perché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell'Amore con le ali stesse dell'Aquila divina... Così, per quanto tempo tu lo vorrai, o mio Amato, il tuo uccellino rimarrà senza forza e senza ali; terrà sempre fissi in te gli occhi; vuole essere affascinato dal tuo sguardo divino, vuol diventare preda del tuo Amore... Un giorno, oso sperare, Aquila adorata, verrai in cerca del tuo uccellino, e risalendo con lui al focolare dell'Amore, lo immergerai per l'eternità nell'abisso ardente di quell'Amore al quale egli si è offerto come vittima...

O Gesù, perché non posso dire a tutte le piccole anime quanto ineffabile è la tua condiscendenza... Sento che se, cosa impossibile, tu trovassi un'anima più debole, più piccola della mia, ti compiaceresti di colmarla con favori anche più grandi, se si abbandonasse con fiducia completa alla tua misericordia infinita. Ma perché desiderare di comunicare i tuoi segreti d'amore, Gesù, non sei tu solo che me li hai insegnati, e non puoi forse rivelarti ad altri? Sì, lo so, e ti scongiuro di farlo, ti supplico di abbassare il tuo sguardo divino sopra un gran numero di piccole anime... Ti supplico di scegliere una Legione di piccole vittime degne del tuo Amore....

abbandono in Diorapporto con Dio

inviato da Debora Cavallone, inserito il 14/07/2006

PREGHIERA

115. Il desiderio di Dio

Sant'Anselmo, Proslògion, 1

Orsù, misero mortale, fuggi via per breve tempo dalle tue occupazioni, lascia per un po' i tuoi pensieri tumultuosi. Allontana in questo momento i gravi affanni e metti da parte le tue faticose attività. Attendi un poco a Dio e riposa in lui.

Entra nell'intimo della tua anima, escludi tutto tranne Dio e quello che ti aiuta a cercarlo, e, richiusa la porta, cercalo. O mio cuore, di' ora con tutto tè stesso, di' ora a Dio: Cerco il tuo volto. ' II tuo volto, Signore, io cerco ' (Sal 26, 8).

Orsù dunque. Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti. Signore, se tu non sei qui, dove cercherò te assente? Se poi sei dappertutto, perché mai non ti vedo presente? Ma tu certo abiti in una luce inaccessibile. E dov'è la luce inaccessibile, o come mi accosterò a essa? Chi mi condurrà, chi mi guiderà a essa sì che in essa io possa vederti? Inoltre con quali segni, con quale volto ti cercherò? O Signore Dio mio, mai io ti vidi, non conosco il tuo volto.

Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da te, ma che a te appartiene? Che cosa farà il tuo servo tormentato dall'amore per te e gettato lontano dal tuo volto? Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto.

Signore, tu sei il mio Dio, tu sei il mio Signore e io non ti ho mai visto. Tu mi hai creato e ricreato, mi hai donato tutti i miei beni, e io ancora non ti conosco. Io sono stato creato per vederti e ancora non ho fatto ciò per cui sono stato creato.

Ma tu, Signore, fino a quando ti dimenticherai di noi, fino a quando distoglierai da noi il tuo sguardo? Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai la tua faccia? Quando ti restituirai a noi?

Guarda, Signore, esaudiscici, illuminaci, mostrati a noi. Ridonati a noi perché ne abbiamo bene: senza di te stiamo tanto male. Abbi pietà delle nostre fatiche, dei nostri sforzi verso di te: non valiamo nulla senza te.

Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, ne trovarti

Se non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti.

desiderio di Dioricerca di Dio

inviato da Leo, inserito il 13/07/2006

TESTO

116. Lettera di chi non ha tutto

Caro Gesù,

quest'anno ho voluto anch'io scriverti per Natale. Questa lettera non la leggerà mai nessuno, ma non importa: l'importante è che arrivi a te.

Non ho particolari cose da chiederti.. anzi nessuna, se non una. Voglio pregarti per tutte le persone che incontro ogni giorno, che incrocio per le strade, che mi passano accanto nei supermercati, che vedo alla televisione, che assistono ai concerti e ascoltano la musica come me. Voglio pregarti perché siano felici.

Eh sì... perché qualche volta ho l'impressione che non sia così. Mi sembrano tanto tristi... E non capisco cosa gli manchi! Secondo la logica di questo mondo io non ho niente e loro tutto...
Pensa... io vorrei parlare, ma non posso.
Urlare... men che meno!
Vorrei correre... ma come faccio?
Saltare non esiste...
Un po' camminare.. ma che fatica!
Mangiare... mai da solo!
Bere... quando me lo danno.
Andare ai servizi... non ne parliamo!
Cantare: un sogno!
Per la musica che fanno gli altri... impazzisco!
Scrivere... non se ne parla;
prima vorrei imparare i colori, ma non ci riesco!
Adoro il calcio, ma non ci gioco...

Una cosa bella, però, ce l'ho anch'io; è una cosa spettacolare, il più grande dono che potessi ricevere: il sorriso.
Quello non lo risparmio mai a nessuno: né ai genitori, né a mia nonna o a mia sorella, né agli educatori né ai volontari, né ai bambini né agli sconosciuti...
È la mia arma vincente e la uso fino in fondo.

Allora, Gesù, ti prego: dona un po' di questo mio sorriso agli altri; è un sorriso semplice, di chi non parla, non canta, non corre, non gioca... ma che viene dal cuore; dal cuore di chi, nel suo silenzio, ti incontra ogni giorno e ti parla nel segreto. Il sorriso di chi, come te, quando giacevi nella mangiatoia in fasce, avevi bisogno di tutto: di essere nutrito, cambiato, lavato, compreso per le espressioni del tuo viso perché senza parole... Ma io ho 26 anni. Nella mia povertà mi sento vicino a te, e per me questo è tutto. Per questo niente di ciò che mi manca potrà mai togliermi il sorriso.

Questa lettera non la leggerà mai nessuno, perché non potrò mai scriverla. Ma ce l'ho nel cuore e vorrei urlarla al mondo intero.

sorrisointerioritàesterioritàgioiafelicitàrapporto con Dio

inviato da Laura De Capitani, inserito il 13/07/2006

RACCONTO

117. Il miracolo di Natale   1

Suor Angela Benedetta, clarissa

Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.

Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.

Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.

Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.

Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.

Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.

"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".

Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.

Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.

Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.

Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".

Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".

Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.

Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.

Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".

Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.

Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.

nataleamicizia

2.0/5 (1 voto)

inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006

RACCONTO

118. I tre alberi   1

Sulla vetta di una montagna, coperta di pascoli e pinete profumate di resina, spuntarono un giorno tre piccoli alberi. Nei primi tempi erano così teneri e verdi che si confondevano con l'erba e i fiori che prosperavano intorno a loro.
Ma, primavera dopo primavera, il loro piccolo tronco si irrobustì. Le sfide autunnali e invernali per fronteggiare i venti e le bufere li riempivano di gioia baldanzosa.
Dall'alto della loro casa verde guardavano il mondo e sognavano.
Come tutti coloro che stanno crescendo, sognavano quello che avrebbero voluto diventare da grandi.

Il primo albero guardava le stelle che brillavano come diamanti trapuntati sul vestito di velluto nero della notte.
"Io sopra ogni cosa vorrei essere bello. Vorrei custodire un tesoro" disse. "Vorrei essere coperto d'oro e contenere pietre preziose. Diventerò il più bello scrigno per tesori del mondo".
Il secondo alberello guardava il torrente che scendeva serpeggiando dalla montagna, aprendosi il cammino verso il mare. L'acqua correva e correva, gorgogliando e scherzando con i sassi, un momento era lì e poco dopo già era scomparsa all'orizzonte. E niente riusciva a fermarla. "Io voglio essere forte. Sarò un grande veliero" disse. "Voglio navigare sugli oceani sconfinati e trasportare capitani e re potenti. Io sarò il galeone più forte del mondo".
Il terzo alberello contemplava la valle che si stendeva ai piedi della montagna e guardava la città che si indovinava nella foschia azzurrina.
Laggiù formicolavano uomini e donne. "Io non voglio lasciare questa montagna" disse. "Voglio crescere tanto che quando la gente si fermerà per guardarmi, dovrà alzare gli occhi al cielo e pensare a Dio. Io diventerò il più grande albero del mondo!".

Gli anni passarono. Caddero le piogge, brillò il sole, e i piccoli alberelli divennero tre alberi alti e imponenti.
Un giorno, tre boscaioli salirono sulla montagna, con le loro scuri a tracolla.
Uno dei boscaioli squadrò ben bene il primo albero e disse: "E' un bell'albero. E' perfetto".
Dopo pochi minuti, stroncato da precisi colpi d'ascia, il primo albero piombò al suolo.
"Ora sto per trasformarmi in un magnifico forziere" pensò l'albero. "Mi affideranno in custodia un tesoro favoloso".
Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "Questo albero è vigoroso e solido. E' proprio quello che ci vuole". Sollevò la scure, che lampeggiò al sole, e abbatté l'albero.
"D'ora in poi, navigherò sui mari infiniti e i vasti oceani" pensò il secondo albero. "Sarò una nave importante, degna dei re".
Il terzo albero si sentì mancare il cuore, quando il boscaiolo lo fissò.
"Per me va bene qualunque albero" pensò il boscaiolo. L'ascia balenò nell'aria e, poco dopo, anche il terzo albero giaceva sul terreno.
I loro bei rami, che fino a poco prima avevano scherzato con il vento e protetto uccelli e scoiattoli, furono stroncati uno a uno.
I tre tronchi furono fatti rotolare lungo il fianco della montagna, fino alla pianura.

Il primo albero esultò quando il boscaiolo lo portò da un falegname. Ma il falegname aveva ben altri pensieri che mettersi a fabbricare forzieri. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per animali. L'albero che era stato un tempo bellissimo non fu ricoperto di lamine d'oro né riempito di tesori. Era coperto di rosicchiature e riempito di fieno per nutrire gli animali affamati della fattoria.
Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò al cantiere navale, ma quel giorno nessuno pensava a costruire un veliero. Con grandi colpi di martello e di sega, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pescatori.
Troppo piccola, troppo fragile per navigare su un oceano o anche solo su un fiume, la barca fu portata in un laghetto. Tutti i giorni, trasportava carichi di pesce, che la impregnavano di odore sgradevole.
Il terzo albero divenne tristissimo quando il boscaiolo lo squadrò per farne rozze travi che accatastò nel cortile della sua casa.
"Perché mi succede questo?" si domandava l'albero, ricordando il tempo in cui lottava con il vento sulla cima della montagna.
"Tutto quello che volevo era svettare sul monte per invitare la gente a pensare a Dio".
Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi quasi dimenticarono i loro sogni.

Ma una notte, la luce dorata di una stella accarezzò con i suoi raggi il primo albero, proprio nel momento in cui una giovane donna con infinita tenerezza sistemava nella mangiatoia il suo bambino appena nato.
"Avrei preferito costruirgli una culla" mormorò suo marito. La giovane mamma gli sorrise, mentre la luce della stella scintillava sulle assi lucide e consunte che un tempo erano state il primo albero.
"Questa mangiatoia è magnifica" rispose la mamma.
In quel momento, il primo albero capì di contenere il tesoro più prezioso del mondo.
Altri giorni e altre notti passarono. Una notte, un viaggiatore stanco e i suoi amici si imbarcarono sul vecchio battello da pesca, che un tempo era stato il secondo albero.
Mentre il secondo albero, diventato barca, scivolava tranquillamente sull'acqua del lago, il viaggiatore si addormentò.
All'improvviso, dopo lo schianto di un tuono, in una ridda di fulmini e violente ondate, scoppiò la tempesta.
Il piccolo albero tremò. Sapeva di non avere la forza di trasportare in salvo tante persone con quel vento e con la violenza di quelle onde. Le sue fiancate scricchiolavano penosamente per lo sforzo.
Preoccupati, gli amici svegliarono il misterioso viaggiatore. L'uomo si alzò, spalancò le braccia, sgridò il vento e disse all'acqua del lago: "Fa' silenzio! Calmati!". La tempesta si quietò immediatamente e si fece una grande calma.
In quel momento, il secondo albero capì che stava trasportando, come desiderava, un re, anzi, il re dei cieli, della Terra e degli infiniti oceani.
Poco tempo dopo, un Venerdì mattino, il terzo albero fu molto sorpreso quando le sue rozze travi furono tolte di malagrazia dalla catasta di legname dimenticato.
Furono trasportate nel mezzo di una folla vociante e irosa, sbattute sulle spalle torturate di un uomo, che poi su di esse fu inchiodato. Il povero albero si sentì orribile e crudele. E piangeva, reggendo quel povero corpo tormentato... lui che voleva che la gente grazie a lui vedesse Dio!

Ma la Domenica mattina, quando il sole si levò alto nel cielo e tutta la Terra vibrò di una gioia immensa, il terzo albero seppe che non aveva trasportato un uomo qualunque, ma aveva trasportato Dio!
In quel mattino seppe e capì che l'amore di Dio aveva trasformato tutto.
Aveva fatto del primo albero il meraviglioso scrigno del più tenero e incredibile dei tesori. Aveva reso il secondo albero forte portatore del Creatore del cielo e della Terra.
E ogni volta che una persona avesse guardato il terzo albero avrebbe visto Dio! Ogni persona, anche noi, non solo i pochi della Valle...
E questo era più che essere solo il più bello, il più forte o il più grande albero del mondo...

Clicca qui per una versione simile.

Il racconto ci è stato inviato nel 2005 indicando come autore Paulo Coelho, nel tempo però abbiamo avuto segnalazioni che lo attribuiscono a Stefano Valeri:
http://www.club.it/autori/sostenitori/stefano.valeri/prefazione2.html
ed Elena Pasquali ne ha fatto una riscrizione definendolo un racconto popolare:
http://www.paolinestore.it/shop/la-leggenda-dei-tre-alberi.html

desideriprogetto di Diocroce

inviato da Fabio, inserito il 03/05/2006

PREGHIERA

119. Preghiera di lode e di ringraziamento per la fine dell'anno

Ai tuoi occhi, Signore, mille anni
Sono come il giorno che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Ancora informi ci hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i nostri giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
passano presto e noi ci dileguiamo.
Si dissolvono in fumo i nostri giorni,
sono come ombra che declina
e come l'erba inaridiscono.
Ma tu, Signore, rimani in eterno,
il tuo ricordo per ogni generazione.

Tua, Signore, è la grandezza, la potenza,
la gloria, la maestà e lo splendore,
perché tutto, nei cieli e sulla terra, è tuo...
Ti t'innalzi sovrano su ogni cosa...
Tu domini tutto;
nella tua mano c'è forza e potenza.
Prima che nascessero i monti
E la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, Dio...

Si parlerà del Signore
Alla generazione che viene;
annunzieremo la tua giustizia;
al popolo che nascerà diremo:
Ecco l'opera del Signore!
Del Signore è la terra e quanto contiene,
l'universo e i suoi abitanti.
E' lui che l'ha fondata sui mari,
e sui fiumi l'ha stabilita.
A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome.

Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
E' meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell'uomo.
E' meglio rifugiarsi nel Signore
Che confidare nei potenti.
Signore, il tuo nome è per sempre.
Signore, il tuo ricordo per ogni generazione.

Composta da versetti di vari salmi che ben esprimono il desiderio del cuore nell'azione di grazie e di lode dovute al Signore del tempo e della storia. Dio per farsi lodare ci pone sulla bocca le sue stesse parole: un'intuizione felice di S. Agostino nel sottolineare la duttilità e la "vicinanza" del salterio al bisogno di preghiera nascosto nel cuore di ogni uomo.

loderingraziamentote deum

4.0/5 (1 voto)

inviato da Don Tommaso Cuciniello, inserito il 03/05/2006

RACCONTO

120. Le tre sorelle   2

Gianni Capotorto

C'erano una volta, e ci sono ancora, tre sorelle. La prima stava sempre in chiesa a pregare. Per tutti. Perché, diceva, le preghiere non sono mai abbastanza. In parrocchia era onnipresente; lei curava il catechismo e l'animazione liturgica. Se avesse potuto, forse avrebbe anche celebrato. Sapeva trasmettere agli altri la sua incrollabile fiducia in Dio e nella sua bontà. Non era mai triste o preoccupata. Sapeva che Lui avrebbe aggiustato ogni cosa.

La seconda invece era sempre in movimento. Aiutava gli altri, instancabile. Dovunque qualcuno soffriva lei era sempre lì per soccorrerlo. Aveva imparato a curare molte malattie. Ma spesso era la sua sola presenza operosa a guarire. Anche lei andava in chiesa, ma si fermava solo per poco. C'era tanto da fare e non voleva sottrarre tempo ai suoi poveri. Sentiva che quello era il suo modo per glorificare Dio, ponendosi al servizio delle creature più bisognose. E poi, comunque c'era sempre sua sorella a pregare per tutti.

La più piccola si chiamava Speranza. A volte si fermava con Fede a pregare, altre volte aiutava Carità nel suo giro. Ma spesso era triste e, di nascosto, piangeva. Le sue sorelle servivano continuamente Dio. L'una con le preghiere, l'altra con le opere. Lei invece si sentiva inutile. Non aveva un ruolo preciso e credeva di non poter amare come loro.

Quel giorno davanti al portone della chiesa era seduto un uomo che piangeva, disperato. Passò Fede e cercò di consolare la sua pena parlandogli della bontà divina. L'uomo entrò in chiesa e pregò a lungo insieme a lei. Ne usci rincuorato, ma in fondo al suo cuore la sua pena non era svanita.

Non aveva più niente, nessuno da amare. Si sentiva inutile. Camminò a lungo, senza una meta, chiedendo a Dio di guidare i suoi stanchi passi, di mostrargli lo scopo della sua vita. Cadde stremato dalla fatica e dalla fame.

Passò Carità e lo raccolse, offrendogli un pasto caldo ed un posto per dormire. Si addormentò subito, finalmente su un letto vero. In sogno vide un sentiero ripido, tortuoso che portava verso la cima di un monte. Non riusciva a vederla, ma sentiva che emanava una forte luce, come se il sole si fosse divertito a nascondersi dietro al monte. Tanti cercavano di percorrere il sentiero, ma solo pochi si spingevano fino alla cima. Alcuni si fermavano a metà strada, incerti se proseguire. Erano pieni di lividi per le tante cadute e spesso, sconsolati, si volgevano indietro.

Ai piedi del monte c'era Fede che indicava la cima ad alcune persone assorte in preghiera. Chiedevano la forza per salire. L'uomo comprese chi c'era su quel monte. Era seduto sul bordo della strada, chiedendosi se continuare quella scalata apparentemente impossibile. Attorno a lui c'era tanta gente che piangeva e si lamentava. Alcuni erano a terra, ormai esausti, pieni di lividi, incapaci di proseguire il cammino. E Carità era accanto a loro per curare le loro membra stanche.

L'uomo si guardò intorno. Sul sentiero adesso c'era solo un vecchio barcollante, incapace di stare in piedi. C'era anche una bambina che cercava di sorreggerlo, di aiutarlo. Piangeva perché il peso era troppo grande per lei. Il suo compito era portarlo fino in cima. Si disperava, impotente. L'uomo vide il suo sforzo sovrumano e provò ammirazione per quella bimba così testarda. Istintivamente si alzò e corse per aiutarla. Afferrò il vecchio sottobraccio e subito i suoi muscoli si gonfiarono per lo sforzo. Sembrava troppo pesante anche per lui, ma non si arrese. Per la prima volta nella sua vita era felice di poter essere utile a qualcuno. Riprovò a spingere, aiutato dalla piccola, e finalmente il vecchio si mosse. Lentamente cominciarono a salire. Passo dopo passo il peso sembrava diminuire. Quando raggiunsero la cima, l'uomo ormai esausto, si pose a sedere.

Il vecchio si voltò verso di lui, come per ringraziarlo. Aveva il suo stesso volto, consumato dagli anni e dalla disperazione. L'uomo provò un brivido di terrore, vedendosi come in uno specchio distorto. Comprese subito l'arcano messaggio. Quel peso immane era la sua vita senza senso, i suoi peccati.

La bambina gli fece un cenno e scese di nuovo. La seguì; non era più stanco.

Al mattino la piccola Speranza svegliò l'uomo col suo dolce sorriso. Lui la riconobbe subito e la prese per mano. Anche lei aveva fatto quel sogno. Non si sentiva più inutile. Aveva capito. Le sue sorelle indicavano la meta, aiutando chi si perdeva per strada. Ma solo lei poteva salire. Insieme, mano nella mano, andarono a cercare il senso delle loro vite. Ai piedi del monte c'era tanta gente che aspettava e solo lei, solo loro potevano aiutarli ad arrivare in cima. E loro sapevano chi c'era su quel monte.

fedesperanzacarità

4.0/5 (2 voti)

inviato da Gianni Capotorto, inserito il 01/05/2006

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