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ESPERIENZA

61. La messa si fa missione

padre Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione

Ad un giovane medico indiano, induista e profondamente religioso, venne offerta una borsa di studio per l'università di Roma: avrebbe potuto specializzarsi in chirurgia. Nella sua città non c'era nessun chirurgo. Egli ne fu felicissimo, evidentemente per la specializzazione, ma anche per un motivo religioso: avrebbe incontrato persone di altre religioni e avrebbe potuto pregare con loro. E' una nota culturale ed eclettica comune agli Indù. Per loro tutte le religioni sono ugualmente valide e tutte, per vie diverse, portano allo stesso fine. Nessuna religione può pretendere di essere l'unica vera e di conseguenza non ha senso convertirsi da una all'altra. La pensava così anche Gandhi, che ammirava Cristo e fece proprio il discorso della montagna, ma non pensò mai di divenire cristiano e condannò l'opera dei missionari cattolici. Si legge in un libro indù: "Il cristiano non deve diventare un indù, né un buddista. Un indù, o un buddista, non deve diventare un cristiano. Ognuno deve assimilare lo spirito altrui e conservare nel tempo stesso la propria individualità" (Vivekananda).

Durante il viaggio il nostro medico entrò nelle moschee e pregò con i musulmani. Incontrò gli ebrei e volle pregare con loro nelle sinagoghe. A Roma, si riprometteva di pregare anche con i cristiani. Non conosceva nulla del cristianesimo. Aveva intuito solo che i cristiani a volte si radunano in edifici particolarmente belli, per pregare insieme.

Fu così che una domenica si unì alla folla che entrava in S. Andrea della Valle. Era per la Messa, ma lui non la conosceva: era unicamente animato da una grande attenzione per poter pregare con i cristiani. Ad un certo momento vide tutti frugare nelle tasche e offrire del denaro, mentre una processione si mosse dal fondo della chiesa: venivano portati dei pani e dei vasi, che il sacerdote accolse ed elevò sull'altare con somma dignità. Pensò: "Si vede che i cristiani, quando pregano, donano qualche cosa".

Non aveva portato nulla con sé. Si sentì indotto a supplire con una preghiera: "Signore, lavorerò per i poveri".

Ora diventato chirurgo, è nella sua città natale, Madras, ed è il primario dell'ospedale. E' famoso per questo: non si concede tempo libero, e dopo il normale turno quotidiano si attarda ancora nel suo studio per ricevere i poveri, e li riceve gratuitamente!

Lo Spirito Santo aveva trovato la via aperta per comunicarsi a lui e ispirargli il dono di sé.

Questo medico insegna la partecipazione: a Messa non si va "come estranei o muti spettatori" (Sacrosanctum Concilium 47). Ma soprattutto insegna che la Messa si proietta sulla vita. Il medico induista non fu più quello di prima: quella Messa lo fece missionario dell'amore.

La Messa ci fa "sacrificio a Dio gradito", cioè persone nuove, toccate da Lui. La Messa ci ha chiamati, ci ha trasformati e ci invia. Messa e vita; Messa e missione, dunque!

L'esperienza dell'Eucarestia non si chiude alle spalle con le porte della chiesa dopo la celebrazione, ma "va'" in tutto il mondo. Ci è stato detto: "La Messa è finita". Il suo genuino significato è: "La Messa non è finita". "Si scioglie l'assemblea perché ognuno torni alle sue occupazioni lodando e benedicendo Dio".

La carica eucaristica è tale che riscopre il suo vero nome: missione.

E' la missione della pace, come suggerisce l'augurio liturgico: "andate in pace!".

EucaristiamissionetestimonianzasacrificioMessaoffertorio

5.0/5 (2 voti)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

62. L'albero generoso   1

Shel Silverstein

C'era una volta un albero che amava un bambi­no. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni. Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arram­picava sul suo tronco e dondolava attaccato ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti e poi, insieme, giocava­no a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all'ombra dell'albero, mentre le fronde gli cantava­no la ninna-nanna. Il bambino amava l'albero con tutto il suo picco­lo cuore. E l'albero era felice. Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l'albero rimane­va spesso solo. Un giorno il bambino venne a vedere l'albero e l'albero gli disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi su­gli alberi e per giocare», disse il bambino. «Io vo­glio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace», rispose l'albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va' a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice». Allora il bambino si arrampicò sull'albero, rac­colse tutti i frutti e li portò via. E l'albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritor­nare... E l'albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l'albero tremò di gioia e disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampi­carmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa. Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa», disse l'albero. «La mia ca­sa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e cotruirti una casa. Allora sarai felice». Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per co­struirsi una casa. E l'albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando tornò, l'albero era così felice che riusciva a mala­pena a parlare. «Avvicinati, bambino mio», mormorò, «vieni a giocare».

­Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare» disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l'albero. ­«Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una bar­ca per fuggire. E l'albero fu felice..., ma non del tutto.
Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l'albero «ma non resta più niente da donarti... Non ho più frutti».
«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.
«Non ho più rami». continuò l'albero «non puoi più dondolarti».
«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami», disse il bambino.
«Non ho più il tronco», disse l'albero. «Non puoi più arrampicarti».
«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.
«Sono desolato», sospirò l'albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa... ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto...».
«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».
«Ebbene», disse l'albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuo­le per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».
Così fece il bambino.
E l'albero fu felice.

gratuitàgratitudinesacrificio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 08/06/2002

RACCONTO

63. Il sogno dei tre cedri del Libano   1

Racconta una vecchia leggenda che nelle belle foreste dei Libano nacquero tre cedri. Come tutti sappiamo, i cedri impiegano molto tempo a crescere e questi alberi trascorsero interi secoli riflettendo sulla vita la morte, la natura e gli uomini.

Assistettero all'arrivo di una spedizione da Israele inviata da Salomone e, più tardi, videro la terra ricoprirsi di sangue durante la guerra con gli Assiri. Conobbero Gezabele e il profeta Elia, mortali nemici. Assistettero all'invenzione dell'alfabeto e s'incantarono, a guardare le carovane che passavano, piene di stoffe colorate.
Un bel giorno, si misero a conversare sul futuro.

"Dopo tutto quello che ho visto - disse il primo albero - vorrei essere trasformato nel trono dei Re più potente della terra".

"A me piacerebbe far parte di qualcosa che trasformasse per sempre il Male in Bene", spiegò il secondo.

"Per parte mia, vorrei che gli uomini, tutte le volte che mi guardano, pensassero a Dio", fu la risposta del terzo.

Ma dopo un po' di tempo apparvero dei boscaioli e i cedri furono abbattuti e caricati su una nave per essere trasportati lontano. Ciascuno di quegli alberi aveva un suo desiderio ma la realtà non chiede mai che cosa fare dei sogni.

Il primo albero servì per costruire un ricovero per gli animali e il legno avanzato fu usato per contenere il fieno. Il secondo albero diventò un tavolo molto semplice che fu venduto ad un commerciante di mobili. E poiché il legno del terzo albero non trovò acquirenti, fu tagliato e depositato nel magazzino di una grande città.

Infelici, gli alberi si lamentavano: "Il nostro legno era buono ma nessuno ha trovato il modo di usarlo per costruire qualcosa di bello!".

Passò il tempo e, in una notte piena di stelle, una coppia di sposi che non riusciva a trovare un rifugio dovette passare la notte nella stalla costruita con il primo albero. La moglie gemeva in preda ai dolori del parto e finì per dare alla luce lì stesso suo figlio, che adagiò tra il fieno, nella mangiatoia di legno. In quel momento il primo albero capì che il suo sogno era stato esaudito: il bambino che era nato lì era il più grande di tutti i re mai apparsi sulla Terra.

Anni più tardi, in uno casa modesta, alcuni uomini si sedettero attorno al tavolo costruito con il legno del secondo albero. Uno di loro, prima che tutti incominciassero a mangiare, disse alcune parole sul pane e sul vino che aveva davanti a sé. E il secondo albero comprese che, in quel momento, non sosteneva solo un calice e un pezzo di pane ma l'alleanza tra l'Uomo e Dio.

Il giorno seguente prelevarono dal magazzino due pezzi dei terzo cedro e li unirono a forma di croce. Lasciarono la croce buttata in un angolo e alcune ore dopo portarono un uomo barbaramente ferito e lo inchiodarono al suo legno. Preso dall'orrore, il cedro pianse la barbara eredità che la vita gli aveva lasciato. Prima che fossero trascorsi tre giorni, tuttavia, il terzo albero capì il suo destino: l'uomo che era stato inchiodato al suo legno era ora la Luce che illuminava ogni cosa. La croce che era stata costruita con il suo legno non era più il simbolo di una tortura ma si era trasformata in un simbolo di vittoria.

Come sempre avviene nel sogni, i tre cedri dei Libano avevano visto compiersi il destino in cui speravano anche se in modo diverso da come avevano immaginato.

Clicca qui per una versione simile.

desideriprogetto di Diocroce

inviato da Giuliana Babini, inserito il 29/05/2002

ESPERIENZA

64. Andate in missione per cercare luoghi e modi per dare la vita

Roberta Pignone

Questo titolo un po' strano è quello che meglio descrive il mio viaggio in Bangladesh fatto proprio lo scorso settembre. Fin dall'inizio del mio cammino di preparazione al PIME, iniziato lo scorso ottobre, ho sempre avuto come motivazione principale quella di scoprire cosa avrei potuto fare come medico in una Missione.

E così mi sono completamente affidata a questo cammino, io ho deciso di parteciparvi, tutto il resto mi è stato donato.

Nel mese di aprile ho saputo che la mia destinazione sarebbe stata il Bangladesh.

Non sapevo nulla di questo paese, solo che è il più povero del mondo...

Sono partita per questa esperienza caricata molto positivamente, la gioia e la curiosità erano davvero grandi, ma avevo anche un po' di paura. Le aspettative erano molte ma ho voluto un po' accantonarle dicendo: "Lascio al Signore di decidere quello che vorrà donarmi con questa esperienza".

Al momento della partenza sapevo solo che io, a differenza delle due ragazze che sono partite con me, sarei stata da sola in un'altra missione più a nord del paese, dove mi aspettava il lavoro in un dispensario.

Il primo impatto all'arrivo a Dahka è stato davvero traumatico, la prima sera i miei sentimenti e le emozioni erano incontrollabili continuavo a ripetermi: Perché sono qui? Non potevo seguire i consigli di chi mi ha sempre un po' scoraggiato in questo viaggio?!. Ma chi me lo ha fatto fare? Voglio tornare a casa!

Dahka è una città lasciata a metà, tutto è stato iniziato ma ben poco è stato portato a termine, grande caos, forti rumori, traffico peggio che a Milano, odori nauseabondi...

Ma in fondo la mia destinazione era un piccolo villaggio del nord, questo mi faceva avere la speranza che le cose sarebbero cambiate.

Dopo due giorni ho raggiunto Boldipukur, la mia piccola e accogliente missione. Le case diroccate hanno lasciato spazio al verde che è la nota caratteristica del B, qua la gente vive nelle capanne in mezzo alla natura, proprio intorno alla missione.
Uno spettacolo meraviglioso!

Così le angosce e le paure che mi avevano accompagnato fino a quel momento hanno lasciato spazio ad una sensazione di pace. Sono stata ospite di una piccola comunità di cinque suore, tre bengalesi e due italiane, suor Eleonora e suor Mariangela. Mi sono sentita subito ben accolta, mi sentivo come a casa mia.

A differenza di Dahka dove sono stata solo spettatrice di un mondo che sentivo estremamente estraneo a me e anche un po' ostile, in questo ambiente sono dovuta scendere allo scoperto, entrando nella quotidianità di questa gente, nelle loro case, nelle loro vite.

Sono entrata con timore, quasi in punta di piedi per non voler far notare troppo la differenza e mi sono scontrata subito con una povertà che disarma e fa cadere tutte le certezze.

Appena arrivata in missione mi hanno mostrato la mia camera e subito mi ha colto una sensazione di disagio: non funzionava il ventilatore, assolutamente necessario per affrontare alcuni momenti della giornata, e l'acqua che scendeva dal mio rubinetto era arancione. "Voglio tornare a casa" e il solito "Chi me lo ha fatto fare?!".

In risposta a queste mie domande mi hanno portato a fare un giro nel villaggio appena fuori le mura della missione e ho visto gente che vive nelle capanne, in una unica stanza c'è tutto e soprattutto nessuna comodità, niente ventilatore, niente acqua corrente, solo la luce per chi è fortunato.

La povertà che ho incontrato nel piccolo villaggio è diversa da quella di Dahka, è una povertà dignitosa, hanno davvero poco per il loro sostentamento, ma quel poco lo condividono.

Ho voluto conoscere la realtà della Sanità in B, suor Mariangela si è fatta carico di questa cosa e mi ha fatto vedere tutto quello che le era possibile, portandomi da una cittadina all'altra, consapevole che di fronte ad alcune realtà sarei rimasta senza parole.

Così ho visitato l'ospedale governativo di Rangpur, la città più grande vicino alla mia missione, una decina di chilometri, penso che le parole non riescano a rendere il significato di quello che ho visto: non credevo di essere in un ospedale. La struttura è fatiscente, mi verrebbe da paragonarla alla stazione centrale, ogni angolo di corridoio o di scala è utilizzato come bagno o spazzatura. Nel reparto di chirurgia generale, uno stanzone enorme nel quale sono ricoverati una cinquantina di persone, uomini e donne insieme, chi su di un letto dalle lenzuola putride, chi addirittura per terra adagiato su delle coperte di lana anch'esse molto sporche. Ogni paziente ha al suo fianco la famiglia per qualsiasi necessità, l'ospedale non dà cibo, ma nemmeno i farmaci necessari al ricovero. Tutto è a carico del paziente.

E' stato sufficiente vedere quel reparto per chiedere alla suora di portarmi via, non volevo veder più nulla e nel cuore la speranza che non succeda mai nulla per cui i missionari abbiano bisogno di un ricovero urgente.

La speranza si è accesa quando invece a Dinajpur ho visto l'ospedale gestito dai Missionari, una stretta al cuore, nella povertà e nella semplicità della struttura, riesco comunque a riconoscere un ospedale. Corridoi e stanze pulite, ognuno ha un proprio letto con lenzuola degne di essere chiamate tali.

L'esperienza comunque più significativa l'ho vissuta proprio al dispensario dove ho potuto agire direttamente.

Il dispensario raccoglie tutti i giorni dalle 100 alle 150 persone e più provenienti dai villaggi limitrofi, solo donne e bambini. Vi lavorano solo due suore infermiere, il numero di utenti sarebbe troppo alto con gli uomini.

Vengono fatte accomodare 5 o 6 persone tutte insieme e ognuno dice apertamente il proprio problema, non esiste certo la legge sulla privacy.

Così le suore gestiscono i loro pazienti, ascoltandoli, facendo diagnosi, consigliando terapie con farmaci che loro stessi devono pagare. E non si può certo eccedere con i farmaci, dipende da quanti soldi può offrire il paziente.

I primi giorni mi domandavo che senso avessero tali terapie che non duravano più di quattro giorni a dosi che da noi non utilizziamo nemmeno nei bambini. E ho fatto fatica a mettere da parte le mie conoscenze e le mie certezze per entrare in un'ottica che è completamente diversa dalla mia.

Ho subito pensato a come noi, facilmente, possiamo avere dei farmaci che ci aiutano e a quanti Km di strada devono fare loro per raggiungere il dispensario che copre un territorio vastissimo. Certo nei villaggi ci sono i loro dottori che nella maggior parte dei casi sono stregoni che impongono terapie che io non ho voluto nemmeno conoscere.

Certo che i ricordi sono davvero tanti e potrei stare raccontare per ore...

Prima di partire mi hanno consigliato di non andare a vivere un'esperienza di questo tipo con l'idea di andare a fare grandi cose, con l'idea di salvare il mondo, ma anzi, di lavorare poco e di guardare, ascoltare, imparare.

E così ho fatto, sono partita dicendo: "Non dirò di no a nulla e farò tutto quello che mi verrà proposto...".

Ora il sentimento che sento davvero forte nel mio cuore è quello della gratitudine, io non ho fatto assolutamente nulla in questa esperienza, ho solo ricevuto tanti doni.

E quello davvero più grosso è stato quello di una comunità accogliente che mi ha permesso di essere davvero libera di guardare, ascoltare, registrare tutto quello che veniva messo sul mio cammino.

Ho fatto migliaia di km per scoprire in terra straniera uomini e donne italiane, sì, i missionari!!

"Negli occhi una terra lontana, nel cuore una speranza, andare ai confini del mondo per far conoscere te" sono le parole di un canto che porto nel cuore da quando sono tornata e racchiudono davvero il senso del mio viaggio.

Porto nel cuore queste persone che mi hanno insegnato uno stile di vita davvero semplice e sobrio, il loro sguardo carico di amore, i loro sorrisi... riflesso di un amore più grande che li accompagna e li sostiene ogni giorno.

Non posso che chiedervi di pregare per queste persone perché possano davvero continuare questa grande opera che non è altro che la loro vita per Dio!

missionepovertàdonare

inviato da Mariangela Molari, inserito il 26/05/2002

PREGHIERA

65. Ballata della speranza

David Maria Turoldo, Il sesto angelo, Mondadori, 1976

Tempo del primo avvento
tempo del secondo avvento
sempre tempo d'avvento:
esistenza, condizione
d'esilio e di rimpianto.

Anche il grano attende
anche l'albero attende
attendono anche le pietre
tutta la creazione attende.

Tempo del concepimento
di un Dio che ha sempre da nascere.

(Quando per la donna è giunta la sua ora
è in grande pressura
ma poi tutta la sua tristezza
si muterà in gaudio
perché è nato al mondo un uomo.)

Questo è il vero lungo inverno del mondo:
Avvento, tempo del desiderio
tempo di nostalgia e ricordi
(paradiso lontano e impossibile!)
Avvento, tempo di solitudine
e tenerezza e speranza.
Oh, se sperassimo tutti insieme
tutti la stessa speranza
e intensamente
ferocemente sperassimo
sperassimo con le pietre
e gli alberi e il grano sotto la neve
e gridessimo con la carne e il sangue
con gli occhi e le mani e il sangue;
sperassimo con tutte le viscere
con tutta la mente e il cuore
Lui solo sperassimo;
oh se sperassimo tutti insieme
con tutte le cose
sperassimo Lui solamente
desiderio dell'intera creazione;
e sperassimo con tutti i disperati
con tutti i carcerati
come i minatori quando escono
dalle viscere della terra,
sperassimo con la forza cieca
del morente che non vuol morire,
come l'innocente dopo il processo
in attesa della sentenza,
oppure con il condannato
avanti il plotone d'esecuzione
sicuro che i fucili non spareranno;
se sperassimo come l'amante
che ha l'amore lontano
e tutti insieme sperassimo,
a un punto solo
tutta la terra uomini
e ogni essere vivente
sperasse con noi
e foreste e fiumi e oceani,
la terra fosse un solo
oceano di speranza
e la speranza avesse una voce sola
un boato come quello del mare,
e tutti i fanciulli e quanti
non hanno favella
per prodigio
a un punto convenuto
tutti insieme
affamati malati disperati,
e quanti non hanno fede
ma ugualmente abbiano speranza
e con noi gridassero
astri e pietre,
purché di nuovo un silenzio altissimo
- il silenzio delle origini -
prima fasci la terra intera
e la notte sia al suo vertice;
quando ormai ogni motore riposi
e sia ucciso ogni rumore
ogni parola uccisa
- finito questo vaniloquio! -
e un silenzio mai prima udito
(anche il vento faccia silenzio
anche il mare abbia un attimo di silenzio,
un attimo che sarà la sospensione del mondo),
quando si farà questo
disperato silenzio
e stringerà il cuore della terra
e noi finalmente in quell'attimo dicessimo
quest'unica parola
perché delusi di ogni altra attesa
disperati di ogni altra speranza,
quando appunto così disperati
sperassimo e urlassimo
(ma tutti insieme
e a quel punto convenuti)
certi che non vale chiedere più nulla
ma solo quella cosa
allora appunto urlassimo
in nome di tutto il creato
(ma tutti insieme e a quel punto)
VIENI VIENI VIENI, Signore
vieni da qualunque parte del cielo
o degli abissi della terra
o dalle profondità di noi stessi
(ciò non importa) ma vieni,
urlassimo solo: VIENI!

Allora come il lam po guizza dall'oriente
fino all'occidente così sarà la sua venuta
e cavalcherà sulle nubi;
e il mare uscirà dai suoi confini
e il sole più non darà la sua luce
né la luna il suo chiarore
e le stelle cadranno fulminate
saranno scosse le potenze dei cieli.

E lo Spirito e la sposa dicano: Vieni!
e chi ascolta dica: vieni!
e chi ha sete venga
chi vuole attinga acqua di vita
per bagnarsi le labbra
e continuare a gridare: vieni!

Allora Egli non avrà neppure da dire
eccomi, vengo - perché già viene.

E così! Vieni Signore Gesù,
vieni nella nostra notte,
questa altissima notte
la lunga invincibile notte,
e questo silenzio del mondo
dove solo questa parola sia udita;
e neppure un fratello
conosce il volto del fratello
tanta è fitta la tenebra;
ma solo questa voce
quest'unica voce
questa sola voce si oda:

VIENI VIENI VIENI, Signore!
- Allora tutto si riaccenderà
alla sua luce
e il cielo di prima
e la terra di prima
son sono più
e non ci sarà più né lutto
né grido di dolore
perché le cose di prima passarono
e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi
perché anche la morte non sarà più.
E una nuova città scenderà dal cielo
bella come una sposa
per la notte d'amore
(non più questi termitai
non più catene dolomitiche
di grattacieli
non più urli di sirene
non più guardie
a presiedere le porte
non più selve di ciminiere).

- Allora il nostro stesso desiderio
avrà bruciato tutte le cose di prima
e la terra arderà dentro un unico incendio
e anche i cieli bruceranno
in quest'unico incendio
e anche noi, gli uomini,
saremo in quest'unico incendio
e invece di incenerire usciremo
nuovi come zaffiri
e avremo occhi di topazio:

quando appunto Egli dirà
"ecco, già nuove sono fatte tutte le cose"

allora canteremo
allora ameremo
allora allora...

MARANATHA', VIENI SIGNORE GESU'!

avventoattesa

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

ESPERIENZA

66. Stupendo "Presepe vivente" non pubblicizzato a...

Fra Angelo De Padova

In questi giorni tutti i mezzi di comunicazione annunciano che le amministrazioni comunali, le parrocchie, le associazioni, hanno organizzato il: "Presepe vivente a..., nei giorni..., dalle ore... alle ore...; il 6 gennaio l'arrivo dei Magi con i doni...; comparse numero...; scenario suggestivo sul...; prenotarsi allo..., offerta libera" e noi annotiamo le date per poterli vedere tutti. Con questa mia lettera volevo fare anche io un po' di pubblicità ad un presepe reale...

La Società Consumista, Egoista, ha organizzato sulla Campi - Lecce, un presepe vivente, dal 1 gennaio al 31 dicembre (fin quando non ci diamo una mossa); dalle ore 00,00 alle ore 24,00; arrivano i doni (vestiti usati, pasta, olio, burro tutto aiuto CEE). I personaggi (non comparse) sono circa 300; le grotte sono fatte di roulotte bucate, senza finestre, freddissime d'inverno, bollenti in estate; le luminarie: poca luce di giorno (la notte salta sempre perché non avendo il bue e l'asino per riscaldarsi accendono tutti le stufe ed è normale che la piccola cabina elettrica non riesca a mantenere e quindi i vari bambinelli rimangono al freddo e al gelo, riscaldati dalla disperazione dei genitori che danno un po' di calore abbracciandoli, col rischio di soffocarli); gli animali: topi, scarafaggi; i servizi (se così si possono chiamare): una quindicina per 300 persone, acqua fredda; l'assistenza medica (solo le urgenze al pronto soccorso, se fanno in tempo; ma è meglio prevenire che curare). Il resto lo vedrete voi. Ah! Dimenticavo, non bisogna prenotarsi, né fare lunghe code, l'ingresso è gratuito, anzi uscendo da questo presepe vi accorgerete come loro vi avranno dato qualcosa: sì, capirete molte cose della vita. Uscendo non direte Che bello e poi tutto finisce lì. Non avrete parole, ma ve lo ricorderete per tutta la vita. Lo spazio Campo Sosta Panareo per realizzare questo presepe è stato messo a disposizione (e abbandonato) dal Comune di Lecce.

I personaggi di questo presepe mi fanno venire in mente i pastori al tempo di Gesù: non godevano di diritti civili ed erano considerati gli ultimi della società. Vivevano immersi nell'abiezione e dal punto di vista delle norme religiose nell'impurità totale, senza alcuna possibilità di riscatto. Venivano trattati alla stregua di bestie, con una differenza a favore delle bestie: si può tirare un animale caduto in un fosso, ma non un pastore. Proprio a costoro si rivolge l'angelo. Non parole di condanna, ma un annunzio di grande gioia, la nascita di colui che li libererà dall'emarginazione. Quelli che gli uomini avevano confinato nelle tenebre (in un campo sosta) sono i primi a rendersi conto della luce che risplende, mentre quanti vivono nello splendore (ricchezza) rimangono nelle tenebre. Quando Gesù si presenta nella storia, nessun sacerdote di Gerusalemme se ne accorge. I pastori sì, loro se ne andarono dalla grotta "glorificando e lodando Dio": questo era compito esclusivo degli angeli.

Correremo anche noi il rischio di non accorgerci della nascita di Gesù? Ci inginocchieremo davanti ad un bambino fatto di gesso che non soffre né il caldo né il gelo e ci dimenticheremo che nasce in carne ed ossa nel "Campo Sosta Panareo"?. E i musulmani del Campo quella notte ascolteranno gli angeli che canteranno "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama", e il giorno di Natale, stando ai semafori delle nostre città o davanti alle porte delle nostre chiese, ci annunceranno la grande gioia che Gesù è nato anche per loro. Ci vogliamo impegnare quanto prima a cambiare un po' lo scenario di questo presepe vivente (ci vuole qualche novità per l'anno prossimo)? Andate a vedere e decidete quale modifica apportare. Magari un prefabbricato andrebbe bene.
Santo Natale a tutti.

Natalepovertàsolidarietàcaritàamore

inviato da Fra Angelo De Padova, inserito il 30/04/2002

TESTO

67. Quanto mi hai fatto soffrire, Chiesa, eppure...   4

Carlo Carretto

Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!
Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo!
Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza.
Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità!
Nulla ho visto al mondo di più oscurantista, più compresso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello.
Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porte della mia anima, quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure.

No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te.
E poi, dove andrei?
A costruirne un'altra?
Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo.
Sono abbastanza vecchio per capire che non sono migliore degli altri.

L'altro ieri un amico ha scritto una lettera ad un giornale: "Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi, non è più credibile". Mi fa pena!
O è un sentimentale che non ha esperienza, e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri.
Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra...
La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo.

Forse che la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse che la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?
Quando Paolo arrivò a Gerusalemme portando nel cuore la sua sete di universalità, forse che i discorsi di Giacomo sul prepuzio da tagliare o la debolezza di Pietro che si attardava con i ricchi di allora e che dava lo scandalo di pranzare solo con i puri, poterono dargli dei dubbi sulla veridicità della Chiesa, che Cristo aveva fondato fresca fresca, e fargli venire la voglia di andarne a fondare un'altra ad Antiochia o a Tarso?
Forse che a Santa Caterina da Siena, vedendo il Papa che faceva una sporca politica contro la sua città, poteva saltare in capo l'idea di andare sulle colline senesi, trasparenti come il cielo, e fare un'altra Chiesa più trasparente di quella di Roma cosi spessa, così piena di peccati e così politicante?

...La Chiesa ha il potere di darmi la santità ed è fatta tutta quanta, dal primo all'ultimo, di soli peccatori, e che peccatori!
Ha la fede onnipotente e invincibile di rinnovare il mistero eucaristico, ed è composta di uomini deboli che brancolano nel buio e che si battono ogni giorno contro la tentazione di perdere la fede.
Porta un messaggio di pura trasparenza ed è incarnata in una pasta sporca, come è sporco il mondo.
Parla della dolcezza dei Maestro, della sua non-violenza, e nella storia ha mandato eserciti a sbudellare infedeli e torturare eresiarchi.
Trasmette un messaggio di evangelica povertà, e non fa' che cercare denaro e alleanze con i potenti.

Coloro che sognano cose diverse da questa realtà non fanno che perdere tempo e ricominciare sempre da capo. E in più dimostrano di non aver capito l'uomo.

Perché quello è l'uomo, proprio come lo vede visibile la Chiesa, nella sua cattiveria e nello stesso tempo nel suo coraggio invincibile che la fede in Cristo gli ha dato e la carità dei Cristo gli fa vivere.
Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo Papa- Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che avere fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nella umiltà e nella coscienza della propria fragilità.

No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una roccia così debole, perché ne fonderei un'altra su una pietra ancora più debole che sono io.

...E se le minacce sono così numerose e la violenza del castigo così grande, più numerose sono le parole d'amore e più grande è la sua misericordia. Direi proprio, pensando alla Chiesa e alla mia povera anima, che Dio è più grande della nostra debolezza.

E poi cosa contano le pietre? Ciò che conta è la promessa di Cristo, ciò che conta è il cemento che unisce le pietre, che è lo Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo è capace di fare la Chiesa con delle pietre mai tagliate come siamo noi!...
E il mistero sta qui.
Questo impasto di bene e di male, di grandezza e di miseria, di santità e di peccato che è la Chiesa, in fondo sono io...

Ognuno di noi può sentire con tremore e con infinito gaudio che ciò che passa nel rapporto Dio-Chiesa è qualcosa che ci appartiene nell'intimo.
In ciascuno di noi si ripercuotono le minacce e la dolcezza con cui Dio tratta il suo popolo di Israele, la Chiesa. A Ognuno di noi Dio dice come alla Chiesa: "Io ti farò mia sposa per sempre" (Osea 2, 21), ma nello stesso tempo ci ricorda la nostra realtà: "La tua impurità è come la ruggine. Ho cercato di toglierla, fatica sprecata! E' così abbondante che non va via nemmeno col fuoco" (Ezechiele 24, 12).

Ma poi c'è ancora un'altra cosa che forse è più bella. Lo Spirito Santo, che è l'Amore, è capace di vederci santi, immacolati, belli, anche se vestiti da mascalzoni e adulteri.

Il perdono di Dio, quando ci tocca, fa diventare trasparente Zaccheo, il pubblicano, e immacolata la Maddalena, la peccatrice.

E' come se il male non avesse potuto toccare la profondità più intima dell'uomo. E' come se l'Amore avesse impedito di lasciar imputridire l'anima lontana dall'amore.

"Io ho buttato i tuoi peccati dietro le mie spalle", dice Dio a ciascuno di noi nel perdono, e continua: "Ti ho amato di amore eterno; per questo ti ho riservato la mia bontà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine Israele" (Geremia 3 1, 3-4).

Ecco, ci chiama "vergini" anche quando siamo di ritorno dall'ennesima prostituzione nel corpo, nello spirito e nel cuore.
In questo, Dio è veramente Dio, cioè l'unico capace di fare le "cose nuove".
Perché non m'importa che Lui faccia i cieli e la terra nuovi, è più necessario che faccia "nuovi" i nostri cuori.
E questo è il lavoro di Cristo.
E questo è l'ambiente divino della Chiesa...

chiesacomunitàpeccatopapato

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002

RACCONTO

68. Il dono del rabbino   1

La storia racconta di un monastero che stava vivendo tempi difficili. In passato aveva ospitato un ordine importante, ma in seguito a un'ondata di persecuzioni antimonastiche verificatesi nel diciasettesimo e diciottesimo secolo e a una crescente tendenza verso il secolarismo nel diciannovesimo secolo, tutti i suoi conventi secondari erano andati distrutti e l'ordine era rappresentato soltanto dall'abate e altri quattro monaci, tutti ultra settantenni, che vivevano nella cadente abbazia. Era chiaramente destinato a scomparire.

Nel fitto bosco che circondava il monastero, si trovava una piccola capanna che un rabbino proveniente da una città vicina usava di tanto in tanto come eremo. Nei lunghi anni di preghiera e contemplazione i vecchi monaci avevano sviluppato una sensibilità quasi paranormale ed erano quindi sempre in grado di dire quando il rabbino si trovava nel suo eremo. "Il rabbino è nel bosco, il rabbino è di nuovo nel bosco", si sussuravano a vicenda, l'abate decise di recarsi all'eremo e di chiedere al rabbino se non avesse alcun consiglio da dargli per salvare il monastero.

Il rabbino accolse l'abate nella capanna, ma quando l'abate gli spiegò lo scopo della sua visita, il rabbino non potè far altro che condividere il suo dolore. "Conosco questo problema", esclamò. "La gente ha perso la spiritualità. Accade lo stesso nella mia città. Quasi nessuno viene più alla sinagoga". Così si lamentarono insieme il vecchio abate e il vecchio rabbino. Poi lessero alcuni brani dalla Torah e presero a conversare serenamente di profonde questioni spirituali. Venne per l'abate il momento di andarsene e i due si abbracciarono. "E' stato meraviglioso incontrarsi dopo tutti questi anni", disse l'abate, ma venendo qui non ho raggiunto il mio scopo. Non c'è nulla che puoi dirmi, nessun consiglio che puoi darmi, per aiutarmi a salvare il mio ordine dalla morte?". "No, mi dispiace", rispose il rabbino, non ho consigli da darti. L'unica cosa che posso dirti è che il Messia è tra voi".

Quando l'abate tornò al monastero i monaci gli si radunarono intorno e gli chiesero: "Ebbene, cosa ti ha detto il rabbino?". Non è stato in grado di autarmi", rispose l'abate. "Abbiamo soltanto pianto insieme e letto la Torah. L'unica cosa che mi ha detto, proprio mentre me ne stavo andando, è stato qualcosa di oscuro. Ha detto che il Messia è tra noi. Ma non so cosa intendesse".

Nei giorni, nelle settimane, nei mesi che seguirono, i vecchi monaci rifletterono su questa frase chiedendosi se le parole del rabbino avessero un qualche particolare significato. Il Messia è tra noi? Voleva forse dire che il Messia è uno di noi? E se è così, chi? Intendeva forse l'abate? Si, se si riferiva a qualcuno, probabilmente si riferiva all'abate. Ci ha guidati per più di una generazione. D'altra parte avrebbe anche potuto riferirsi a fratello Thomas. Sicuramente fratello Thomas è un sant'uomo. Tutti sanno che Thomas è un uomo illuminato. Certamente non poteva rifersi a fratel Elred! A volte Elred è irascibile. E' una spina nel fianco per tutti, anche se praticamente ha sempre ragione. Chissà se il rabbino non intendesse proprio fratel Elred. Ma sicuramente non fratel Phillip. Phillip è così passivo, una vera nullità. Eppure ha il dono di essere sempre presente quando c'è bisogno di lui. Forse il Messia è proprio lui. Non è proprio possibile che intedesse me. Io sono una persona qualsiasi. Eppure se fosse proprio così? Se fossi io il Messia? Oh no, non io. Non potrei essere così importante per Te, non è vero?

Immersi in questi pensieri, i vecchi monaci cominciarono a trattarsi fra di loro con straordinario rispetto poiché esisteva la possibilità, per quanto remota, che il Messia fosse tra di loro. E per la possibilità, ancor più remota, che il Messia fosse ciascuno di loro, ognuno cominciò a trattare se stesso con altrettanto rispetto.

Accadeva che di tanto in tanto alcuni visitatori si trovassero da quelle parti, quando senza nemmeno rendersene conto cominciarono ad avvertire l'alone di straordinario rispetto che circondava i cinque vecchi monaci, c'era qualcosa di straordinariamente affascinante, persino irresistibile. I visitatori cominciarono a tornare per fermarsi a pregare, portarono gli amici e gli amici portarono altri amici.

Accadde così che qualcuno di loro iniziò a intrattenersi sempre più frequentemente con i monaci. E dopo qualche tempo uno chiese di potersi unire a loro. Poi un altro e un altro ancora. Così, nel giro di pochi anni, il monastero riprese a ospitare un ordine prosperoso e, grazie al dono del rabbino, tornò a essere un vivo centro di luce e di spiritualità.

testimonianzaamorecaritàrispettovita comunitaria

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 09/04/2002

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