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TESTO Commento su Es 34,4-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18

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Santissima Trinità (Anno A) (04/06/2023)

Vangelo: Es 34,4-6.8-9; Dn 3,52-56; 2Cor 13,11-13; Gv 3,16-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 3,16-18

16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

Terminato il tempo di Pasqua la liturgia ci propone ancora due domeniche, questa e la prossima, centrate sulla figura del Cristo risorto. Quella di oggi ci propone di fermarci a riflettere sul grande mistero della trinità.
La Trinità è un tema difficile. Per coglierne la ricchezza dobbiamo trovare un approccio diverso da quello che abbiamo imparato dai vecchi catechismi, ma partire dalle domande imposte dalla vita che ci obbligano a capire, con la luce che ci viene dal messaggio evangelico, la realtà in cui siamo immersi e compromessi. Nel vangelo troviamo la ricchezza del mistero della Trinità, reso accessibile a tutti; occorre però riconoscersi nell'esperienza umana di Cristo, così simile alla nostra, per incontrare l'amore di Dio Padre, anche nelle situazioni più difficili, come sono state per Gesù la passione e la morte. Occorre capire che il suo amore non si rivela nell'assenza di sofferenza, cioè nel sogno di un'umanità irreale, che non esiste e non può esistere, ma in una vicinanza che aiuta a capire il senso della sofferenza e a vincerla, trasformandola in un'occasione di crescita.
La festa della Trinità vuole aiutarci a riscoprire l'immagine del Dio rivelato da Gesù, cioè quello di un Dio relazione.
Quante volte abbiamo pronunciato le parole “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, ma di rado ci siamo fermati a riflettere sul significato di questa formula, nella quale troviamo il senso della nostra storia proclamando che Dio è amore nella comunione delle tre persone.
Nella pagina dell'Esodo troviamo la descrizione emblematica dell'idolatria. Mosè, sul monte Sinai, è impegnato a dare al popolo una legge, cioè un progetto di crescita, secondo il volere di Dio. Scoprire la volontà di Dio è un compito arduo, richiede una lunga maturazione. Il popolo si stanca dell'attesa e vuole subito la risposta ai suoi problemi, vuole subito un Dio a cui affidarsi, un Dio fatto su misura delle proprie attese. Così nasce l'idolo. Nasce dall'impazienza, dall'ossessione dell'immediato, dall'incapacità di attendere il chiarirsi del volere di Dio e di capire, in tempi lunghi, la propria vocazione, ma esso è senza verità e, quindi, senza prospettiva, senza avvenire. Questo episodio esprime bene le contraddizioni di tanta religiosità moderna, che manifesta un diffuso bisogno di Dio, ma che (come l'antico popolo dell'Esodo) vuole un Dio fatto sulla misura delle proprie attese e delle proprie esigenze. Ma Mosè ha la sorpresa di trovare un Dio che si proclama Signore misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà.
Questo Dio è un Padre, che ci vuole protagonisti responsabili della nostra crescita. Il vangelo ce lo rivela con parole commoventi: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” come modello di umanità. E' un dono molto esigente che ci chiama a superarci continuamente, perché il Dio che si rivela nelle parole e nella vita di Gesù ci apre a un altissimo modello di umanità. Non è il Dio della legge, ma il Dio dell'amore, che si apre agli uomini, alle loro pene e alle loro speranze. Un Dio che non opprime l'uomo, ma lo risana, che ha cura di quelli che cadono, che invece di condannare perdona, che invece di punire libera, che invece di fare giustizia chiama a una vita nuova, un Dio che sembra amare più il figlio perduto che quello fedele rimasto nella casa, il pubblicano più del fariseo, l'adultera più dei suoi giudici presuntuosi, che si siede a tavola con i peccatori, i disprezzati e i falliti. Immagini, quelle del vangelo, provocanti e scandalose non solo per quei tempi, ma anche per il nostro perbenismo moderno. Un Dio che vuole “la legge per l'uomo e non l'uomo per la legge”, che supera i nostri confini istintivi tra vicini e lontani, tra amici e nemici, tra buoni e cattivi, che vuole criteri più veri e più umani: il rispetto profondo per tutti, anche per chi sbaglia, la disponibilità al servizio, la libertà dai nostri egoismi, il coraggio di perdonare.
La festa di oggi ci dice che Dio non è solitudine ma comunità gioiosa all'interno della trinità e gioisce quando le sue creature escono dalla solitudine dei loro egoismi, per rispondere alla vocazione all'amore che Lui ha iscritto nel loro cuore.
La famiglia può diventare immagine della Trinità perché in essa si realizzano quelle dinamiche che ne sono caratteristiche: l'amore, il dialogo, la misericordia. Anche l'intera umanità è chiamata a diventare famiglia, famiglia di popoli. Gli odi, gli egoismi, le ingiustizie feriscono il sogno di Dio che vuole che tutti gli uomini vivano da fratelli. Solo la "civiltà dell'amore" è capace di costruire un'umanità nuova, basata sul rispetto, sulla giustizia e sull'accoglienza.

Per la riflessione di coppia e di famiglia.
- Davanti a questo messaggio di perdono, di accoglienza e di speranza, noi come reagiamo? Come ci comportiamo?
- Dall'esperienza della Parola di Dio scopriamo che Dio cammina in mezzo a noi: riusciamo a cogliere queste tracce?

Don Oreste, Anna e Carlo - CPM Torino

 

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