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TESTO Commento su Giovanni 3,16-18

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Santissima Trinità (Anno A) (18/05/2008)

Vangelo: Gv 3,16-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

Ci sono feste in onore dei Santi, quelle della Madonna, quelle che celebrano i misteri della vita di Gesù. Oggi è la festa di Dio, la celebrazione gioiosa del mistero della Santissima Trinità, il Dio cristiano, "il più grande di tutti i misteri, la fonte ed il fondamento degli altri", secondo l'espressione di papa Leone XIII, che aggiunge: "È per conoscere e contemplare questo mistero che gli angeli sono stati creati nel cielo, e gli uomini sulla terra".

La domanda di Mosé al popolo smarrito nel deserto – vi è mai stata cosa più grande di questa: che un popolo abbia udito la voce di Dio? – è l'intuizione credente che l'inimmaginabile è divenuto disponibile e l'inaudito sperimentato. In Gesù, poi, la voce, la Parola di Dio, si è fatta visibile, carne dell'uomo.

Il mistero abissale e indicibile di Dio – i Tre che sono Uno! – non solo si è svelato e reso vicino nella persona e nella vita di Gesù, ma dice che anche la vita degli uomini è modellata sulla vita di Dio. C'è un passo ispirato del Vaticano II, nella Costituzione "Gaudium et Spes", che lo dichiara in modo semplice e vertiginoso: "Il Signore Gesù quando prega il Padre perché tutti siano una sola cosa, come io e te siamo una cosa sola, mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l'unione delle persone divine e l'unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l'uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé". Significa che la somiglianza dell'uomo con Dio è connessa – legata! – alle relazioni interpersonali, all'amore tra le persone umane: la sola analogia possibile con le relazioni tra le Persone divine della Santissima Trinità.

Teresa, l'adolescente entrata nel Carmelo di Lisieux a 15 anni e morta a 24, la più giovane "dottore della Chiesa", scoprì nella sua breve vita la partecipazione alle relazioni trinitarie proprio nel rapporto con le altre sorelle: reciprocità e gratuità, abbassamento (piccolezza) e carità. La piccola Teresa scoprì, proprio nell'amore all'altro, la chiave per aprire il mistero di Dio che è Padre, Figlio e Spirito.

Se un filosofo è arrivato a dire che "l'altro è l'inferno", il cristiano sa che l'altro è il suo Cielo.

Gesù è la permanente immagine che rende visibile l'amore del Padre. Eppure gli stessi apostoli, guardando Gesù semplicemente con i loro occhi, non vedevano il Padre. Per "vederlo" avrebbero dovuto riflettere su quello che Gesù faceva e diceva. Indispensabile è l'esperienza, ma altrettanto lo è la riflessione credente su di essa. Già Agostino diceva che "una fede che non è pensata, non è fede". Certo, si può pensare senza credere, ma mai credere senza pensare. Oggi, dunque, com'è il pensiero? È "debole", come pure una larga religiosità: debole nel senso che mancano scelte forti e coerenti, oppure si crede e si è religiosi, ma senza la Chiesa. C'è perfino chi "crede di credere". È inevitabile: a un pensiero debole corrisponde una fede debole.

Paolo VI, uomo pensoso e fervido credente, scrisse il suo "credo": "Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, invisibili e Creatore in ciascun uomo dell'anima spirituale e immortale. Noi crediamo che questo unico Dio... è Colui che è, ed egli è Amore: cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa Realtà divina di colui che ha voluto darsi a conoscere a noi... Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di lui a partecipare, quaggiù nell'oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l'eterna vita".

Il mistero della Trinità è vetta altissima per la nostra intelligenza. E i pochi versi del Vangelo di oggi non possono contenere il tutto. Può aiutare tornare indietro di qualche verso e scoprire che le parole ascoltate oggi fanno parte di un colloquio fra Gesù e Nicodemo. Quest'ultimo, fariseo, capo dei giudei, uomo giusto e saggio, si reca da Gesù, di notte. Un colloquio notturno a simboleggiare la notte protesa verso il giorno, il dubbio che cerca la luce della verità. Gesù, in risposta, indica il segno della croce dove la notte si fa giorno, il dolore manifesta l'amore, la maledizione si tramuta in salvezza.

Sulla croce si sale e dalla croce si scende; in qualche modo essa è il luogo dove si congiunge la nostra infinita tensione a voler scalare il cielo all'infinita umiltà di Dio che scende fino al nostro niente per solo amore. Di croce si muore e dalla croce si riceve la vita: è il mistero che riesce a sciogliere il nodo ultimo dell'esistenza: perché il dolore? Perché la morte?

Di queste cose parlavano Gesù e Nicodemo, di notte.

Commento a cura di don Angelo Sceppacerca

 

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