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TESTO

1. Testamento di Raoul Follereau

Raoul Follereau

Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi. Scrivevo, venticinque anni fa: "O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l'uomo vivrà per l'uomo, o gli uomini moriranno". Tutti e tutti insieme.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire. Bisogna scegliere. Subito. E per sempre. Ieri, l'allarme. Domani, l'inferno.
I Grandi - questi giganti che hanno cessato di essere uomini - possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all'idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un'intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore. L'Apocalisse è all'angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire "no" al suicidio dell'umanità.
"Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere". Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele...
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me. Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare. Questa è l'ultima ambizione della mia vita, e l'oggetto di questo "testamento".

Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C'è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l'umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: "la pace, la pace", perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.
I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano. Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.
Allontanatevi dai mascalzoni dell'intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste "tecniche divinizzate" che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi "progressi" e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell'anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell'uomo. Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione! La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l'Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell'umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d'amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.

Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un "progresso" folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido "ho fame!" che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: Essere veramente fratelli.
Allora... domani?
Domani, siete voi.

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inviato da Fra Roberto Brunelli, inserito il 28/12/2016

TESTO

2. La vera comunità   1

Jacques Loew

Per poter riflettere su che cos'è la comunità prendiamo l'immagine di un grande albero pieno di frutti.

L'unità in questa immagine è data dall'albero stesso, ma sull'albero i frutti non hanno alcuna relazione fra loro: ciascuno per sé, il sole per tutti. Non è questa l'immagine giusta della vera comunità!

Prendiamo allora i singoli frutti, li cogliamo uno ad uno e li mettiamo in un unico canestro: è la comunità-contenitore, comunità-scompartimento del treno, stiamo insieme perché viaggiamo sullo stesso scompartimento, siamo nella stessa casa, ma siamo dei perfetti estranei.
Neanche questa è l'immagine della vera comunità!

Proviamo allora a immaginare di prendere i nostri frutti, sbucciarli e metterli nel frullatore per farne un beverone. Stesso sapore, stesso colore, stessa consistenza tutti uguali. Annullate le differenze.
Non è nemmeno questa la vera comunità!

L'immagine che più rispecchia la vera comunità è questa: La macedonia.

Per arrivare ad avere la macedonia devo necessariamente compiere alcuni passaggi non sempre indolori per ogni singolo frutto:

- Prendo la frutta, e come prima cosa la lavo, oppure tolgo la buccia che la rende dura.
- Poi la taglio a cubetti e mescolo tutto.
- Infine, aggiungendo lo zucchero faccio la macedonia.

Nella macedonia posso ancora gustare ogni singolo pezzo da solo se voglio, oppure posso mangiare i pezzettini di più frutti insieme con un cucchiaino.

Ognuno mantiene il suo gusto. Ognuno ha perso la sua durezza perché viene tolta la buccia, si viene spezzati (vuol dire morire, morire a se stessi).
Unendoci però prendiamo più gusto!
E' questa la comunità - macedonia.

Ti metti in comune, ti giochi. Per perdere la durezza bisogna essere fatti a fettine.

E... nella comunità-macedonia, quali sono i frutti che vengono spezzati di meno?

Sono i più piccoli: il ribes, i frutti di bosco. Nella macedonia più sei piccolo e meno ti devi spezzare, più sei grande più devi essere fatto a fette per essere gustato.

E' questa anche l'immagine più appropriata della vita della comunità cristiana, della parrocchia. Non è pensare tutti nella stessa maniera, bensì vivere la propria identità, la propria originalità, la propria diversità ma in vista di un bene più grande, di un bene comune.

Nella comunità-macedonia dall'unione di diversi tipi di frutta viene fuori un sapore straordinario e buono; siamo frutti differenti, ma unendoci, prendiamo più gusto e ci arricchiamo a vicenda. Come la macedonia, nello stare insieme e nel rispetto delle diversità, creiamo l'unità.

Solo allora Gesù potrà aggiungere lo zucchero dello Spirito Santo e trasformarci in cibo prelibato!

Da una parabola di Jacques Loew raccontata da Padre Chiodaroli.

comunitàcomunionefraternitàgruppoparrocchiachiesaSpirito Santounità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cristina Corradini, inserito il 23/08/2016

TESTO

3. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione lunga)

don Primo Mazzolari, Scritti

«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».

Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.

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«Gesù sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre»...

Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli; ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre allo spirituale, dal parziale all'universale, dal temporale all'eterno.

Il distacco, che prepara il transito, non può avvenire che per un accrescimento d'amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».

Un «passaggio» o una «conversione» che diminuisse le affezioni naturali e ci sottraesse alle parziali emozioni che tali affetti giustamente ci comandano, non sarebbe un'ascensione.

Si sale verso il Padre, con cuore purificato, ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescerne il valore nella santità.

Niente ci deve impedire di portare «sino alla fine», nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.

Proprio quando Gesù sa che «il diavolo aveva già messo in cuore» a Giuda Iscariota di tradirlo, quando ha la certezza che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare a Dio «...si levò da tavola, depose le sue vesti e preso un asciugatoio, se ne cinse...».

Facendosi uomo aveva preso «la forma del servo». Ma nessuno se n'era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava sul monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.

Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L'amore ve l'avrebbe fissato per sempre e in un gesto che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.

«Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio».

Non ha cominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per subito gustare l'estrema ripugnanza di servire l'inservibile, di amare l'inamabile.

Quando arriva a Pietro si sente dire: - Tu Signore, lavare i piedi a me? - Pietro misurava soltanto la propria miseria, e non poneva l'occhio sul mandato di carità che lo avrebbe impegnato come seguace di Cristo, per tutta la vita.

- Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo. Capiva il fatto dell'umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva dargli attraverso il mistero dell'umiliazione. Pietro voleva aver parte con Cristo immaginando chi sa quali ricompense; per questo era disposto a farsi lavare anche le mani e il capo. Neanche il primo degli apostoli sapeva che l'unica condizione per aver parte con lui, è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.

«Come dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: - Capite quel che vi ho fatto?».

E poiché gli apostoli non capivano l'istituzione della carità, che doveva precedere di poco l'istituzione del sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione.

«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro v'ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v'ho fatto io».

L'istituzione dell'eucaristia si chiude con parole quasi eguali: - Fate questo in memoria di me.

I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza eucaristica della presenza della carità, dimenticando che non si può capire una mensa dalla quale, almeno uno, dietro l'esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del mistero.

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Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.

Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.

I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

Clicca qui per la versione breve.

lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo

inviato da Qumran, inserito il 09/06/2015

TESTO

4. E' nato il nostro Salvatore: rallegriamoci!

San Leone Magno

Oggi, dilettissimi, è nato il nostro Salvatore: rallegriamoci! Non è bene che vi sia tristezza nel giorno in cui si nasce alla vita, che, avendo distrutto il timore della morte, ci presenta la gioiosa promessa dell'eternità. Nessuno è escluso dal prendere parte a questa gioia, perché il motivo del gaudio è unico e a tutti comune: il nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, è venuto per liberare tutti, senza eccezione, non avendo trovato alcuno libero dal peccato.

nataleincarnazioneredenzionegioia

5.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 23/12/2013

TESTO

5. L'impegno politico

Giorgio La Pira, Discorsi

Non si dica quella solita frase poco seria: la politica è una cosa brutta! No: l'impegno politico - cioè l'impegno diretto alla costruzione cristianamente ispirata della società in tutti i suoi ordinamenti a cominciare dall'economico - è un impegno di umanità e di santità: è un impegno che deve potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità.

politicabene comuneservizioimpegno

5.0/5 (1 voto)

inviato da Paola Berrettini, inserito il 13/03/2013

TESTO

6. Meditazione e ritorno al mondo

Dietrich Bonhoeffer, Vita comune

Ogni giorno porta al cristiano molte ore di solitudine in mezzo ad un mondo non cristiano. Questo è il tempo della verifica. Esso è la prova della bontà della meditazione personale e della comunione cristiana. La comunità ha reso gli individui liberi, forti, adulti, o li ha resi invece dipendenti, non autonomi? Li ha condotti un po' per mano, per far loro imparare di nuovo a camminare da soli, o li ha resi paurosi e insicuri?… Qui si tratta di decidere se la meditazione personale ha portato il cristiano in un mondo irreale da cui si risveglia con spavento, nel ritornare al mondo terreno del suo lavoro, o se viceversa lo ha fatto entrare nel vero mondo di Dio, che permette di affrontare la giornata dopo aver attinto nuova forza e purezza. Si è trattato di un'estasi spirituale per brevi attimi, cui poi subentra la quotidianità, o di un radicarsi essenziale e profondo della Parola di Dio nel cuore?… Solo la giornata potrà deciderlo… Ognuno deve sapere che anche il momento in cui è isolato ha una sua retroazione sulla comunione. Nella sua solitudine egli può dilacerare e macchiare la comunione o viceversa rafforzarla e santificarla….

solitudinecomunitàrapporto con Dioimpegnoessere cristiani

inviato da Qumran2, inserito il 12/08/2012

TESTO

7. Tempo per l'ascolto   2

Dietrich Bonhoeffer, La vita comune

Colui che stima il suo tempo troppo prezioso per poterlo perdere ad ascoltare gli altri, in realtà non avrà mai tempo né per Dio né per il prossimo; ne avrà soltanto per se stesso e per le proprie idee.

ascoltoaperturachiusuradisponibilità

2.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 11/08/2011

TESTO

8. Io voglio servire Gesù

Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008, pp. 39-43

Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l'amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora - in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan - Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.

Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa', hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all'ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d'essere d'aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

Shahbaz Bhatti, ucciso a Islamabad il 2/03/2011

testimonianzamartiriopersecuzione

inviato da Qumran2, inserito il 08/03/2011

TESTO

9. Il mistero cristiano

Lettera a Diogneto, capitolo V

I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio.

cristianicristianesimotestimonianzavita cristianapersecuzione

inviato da Anna Barbi, inserito il 24/11/2010

TESTO

10. Beatitudini degli sposi   5

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).
Beati voi coniugi, quando siete capaci di fare grandi rinunzie per amore dell'altro; beati voi, quando, consapevoli della vostra inadeguatezza di fronte ai problemi della vita, li deponete insieme ai piedi del Signore.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,4).
Beati voi, quando la prova vi trova uniti, quando la preghiera comune diventa lo strumento per affrontarla, quando vi lasciate illuminare dallo Spirito per gioire e crescere nella conoscenza del progetto di Dio su di voi. La sua consolazione sarà la vostra forza.

Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5,5).
Beati voi, quando non date sfogo alla vostra aggressività, quando abbandonate il linguaggio prepotente dell'offesa e della rivendicazione dei meriti, del giudizio o della spartizione fredda dei compiti e assumete le vesti della mitezza inerme e generosa, della tenerezza ospitale e gratuita, del dono disarmato di voi stessi.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).
Beati voi, quando vi lasciate guidare dalla Parola di Dio per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, quando lo insegnate ai vostri figli, quando desiderate che a tutto il mondo arrivi il messaggio di speranza contenuto nel Vangelo. Beati voi, quando la vostra vita diventa testimonianza viva della Parola che salva.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7).
Beati voi, quando avrete imparato a perdonarvi, ad accettarvi nella vostra debolezza e fragilità, beati voi, quando della crisi fate un momento di crescita personale e comune, quando la vostra riconciliazione diventa pedagogia d'amore per i vostri figli.

Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5,8).
Beati voi sposi, quando sgombrate gli occhi e la mente dalle lusinghe del mondo e guardate a ciò che è essenziale, cercandolo nella Parola di Dio. Beati voi, quando la Parola diventa stile di vita, quando vi riconosceranno discepoli di Cristo, pur restando in silenzio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).
Beati voi, uniti nel Sacro Vincolo del Matrimonio, quando coltivate la pace nelle relazioni all'interno della vostra famiglia, beati voi quando, usciti fuori dell'appartamento, sentite insopprimibile il desiderio di creare ponti, di collegare cuori con l'infinita misericordia di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10).
Beati voi, quando decidete di andare contro corrente e rimanete sordi alle logiche del mondo. Beati voi, quando mostrate la bellezza del progetto di Dio sulla famiglia e lo sostenete con la tenacia e la forza che solo il Signore può dare. Beati voi quando, attaccati da ogni parte, continuate a mostrare la gioia del mattino di Pasqua.

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4.5/5 (2 voti)

inviato da Antonietta, inserito il 08/12/2009

TESTO

11. Chiostri interiori

Chiara Lubich

Non c'è cuore di un uomo, credo, e tanto meno di donna, che almeno una volta, specie durante la giovinezza, non abbia sentito l'attrattiva del chiostro.

Non è l'attrattiva per una forma claustrale di vita, ma per cosa che pare sia concentrato proprio lì, fra quattro mura, e si fa sentire, sonoro, anche da lontano.

Eppure anche la mia casa può avere il profumo del chiostro; anche le pareti del mio abitato possono divenire regno di pace, fortezze di Dio in mezzo al mondo.

Non è tanto il chiasso esterno della radio aperta a tutto spiano, dell'inquilino accanto, e lo strepito delle macchine, o l'urlo degli strilloni, che tolgono l'incanto alla mia casa; è piuttosto ogni rumore dentro di me che fa del mio abitato una piazza senza protezione di mura, perché senza protezione di amore. Il Signore è dentro di me. Egli vorrebbe muovere i miei atti, permeare della sua luce il mio pensiero, accendere la mia volontà, darmi la legge insomma del mio stare e del mio andare.

Ma c'è il mio io, a volte, che non lo lascia vivere. Se quello cessa di disturbare, Iddio stesso prenderà possesso di tutto il mio essere e saprà dare anche a queste mura l'importanza di un'abbazia e a questa stanza la sacralità di una chiesa, al mio seder a mensa la dolcezza di un rito, alle mie vesti il profumo di un abito benedetto, al suono della porta o del telefono la nota gioiosa di un incontro con i fratelli, che rompe, eppur continua il colloquio con Dio.

Allora sul silenzio di me parlerà un Altro e sullo spegnersi mio si accenderà una luce. Ed essa brillerà molto lontano, oltrepassando e quasi consacrando queste mura che proteggono un membro di Cristo, un tempio dello Spirito Santo. E altra gente verrà alla casa mia per cercare con me il Signore e, nella nostra comune ricerca amorosa, s'accrescerà la fiamma, s'alzerà il tono della melodia divina. E il cuor mio pur stando in mezzo al mondo, non chiederà più altro. Cristo sarà il mio chiostro, il Cristo del mio cuore, Cristo in mezzo ai cuori

preghierarumoresilenzioamorevita interioreinterioritàrapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Luca, inserito il 29/05/2009

TESTO

12. La vita comune

Dietrich Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia 1973, p. 46-47

Infinite volte tutta una comunità cristiana si è spezzata, perché viveva di un ideale...

Dobbiamo essere profondamente delusi degli altri, dei cristiani in generale, se va bene, anche di noi stessi, quant'è vero che Dio vuole condurci a riconoscere la realtà di una vera comunione cristiana... Il Signore non è Signore di emozioni, ma della verità. Solo la comunità che è profondamente delusa per tutte le manifestazioni spiacevoli connesse con la vita comunitaria, incomincia ad essere ciò che deve essere di fronte a Dio, ad afferrare nella fede le promesse che le sono state fatte. Quanto prima arriva, per il singolo e per tutta la comunità, l'ora di questa delusione, tanto meglio per tutti. Una comunità che non fosse in grado di sopportare una tale delusione e non le sopravvivesse, che cioè restasse attaccata al suo ideale, quando questo deve essere frantumato, in quello stesso istante perderebbe tutte le promesse di comunione cristiana stabile e, prima o dopo, si scioglierebbe...

Chi ama il suo ideale di comunità cristiana più della comunità cristiana stessa, distruggerà ogni comunione cristiana, per quanto sincere, serie, devote siano le sue intenzioni personali.

Dio odia le fantasticherie, perché rendono superbi e pretenziosi. Chi nella sua fantasia si crea un'immagine di comunità, pretende da Dio, dal prossimo e da se stesso la sua realizzazione.

Egli entra a far parte della comunità di cristiani con pretese proprie, erige una propria legge e giudica secondo questa i fratelli e Dio stesso.

Egli assume, nella cerchia dei fratelli, un atteggiamento duro, diviene quasi un rimprovero vivente per tutti gli altri.

Agisce come se fosse lui a creare la comunità cristiana, come se il suo ideale dovesse creare l'unione tra gli uomini.

Considera fallimento tutto ciò che non corrisponde più alla sua volontà. Lì dove il suo ideale fallisce, gli pare che debba venire meno la comunità. E così egli rivolge le sue accuse prima contro i suoi fratelli, poi contro Dio, ed infine accusa disperatamente se stesso.

comunitàvita comunedelusionefallimentorapporto con gli altriamiciziaidealirealtàconcretezzachiesaparrocchia

inviato da Qumran2, inserito il 25/01/2009

TESTO

13. Trenta consigli per genitori frettolosi   4

Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano 2006

Qualche semplice regola che può migliorare la vita familiare e l'educazione.

1. I primi anni di vita sono importanti: è in questo periodo che si posano le strutture fondamentali della persona.

2. I bambini sono persone con carattere, temperamento, bisogni, desideri, cambiamenti di umore proprio come voi. Lasciate che anche i vostri figli qualche volta diano in escandescenze.

3. I bambini imitano quello che fate voi. Non faranno mai quello che ordinate. Soprattutto non fate prediche. I bambini imparano solo quello che vivono.

4. I due genitori devono avere la stessa idea di educazione. Questo non significa che devono fare le stesse cose o apparire un muro di cemento armato.

5. Non entrate in conflitto con i vostri figli. Ogni volta che entrerete in conflitto con i vostri figli voi avrete già perso.

6. Siate pazienti. Anche con voi stessi. Nessuno ha mai detto che sia facile essere un genitore.

7. I genitori non sono i soli educatori: c'è anche la società in cui i figli sono immersi.

8. Dite "no". In questo modo i vostri figli sapranno che li proteggete anche dai loro errori. Insegnate ai vostri figli che non possono avere tutto e subito. È prudente, perciò, usare con cautela il sistema di assecondare: i bambini devono imparare a manovrare le frustrazioni, perché la vita dell'adulto ne è piena. È pura assurdità partire dal principio che il bambino sarà in grado di affrontarle quando sarà più grande; che cosa, infatti, c'è di magico nella crescita per fornire una capacità che si dovrebbe rivelare fin dai primi anni di vita?

9. Riservate del tempo per ridere insieme e divertitevi insieme. Vivete i vostri valori nella gioia. Se fate la morale tutto il giorno ai vostri figli verrà voglia di scappare.

10. Scambiatevi dei regali.

11. Imparate a relativizzare i problemi, ma risolveteli.

12. Accogliete in casa gli amici dei vostri figli.

13. L'incoraggiamento è l'aspetto più importante nella pratica di educazione del bambino. E' tanto importante, che la mancanza di esso si può considerare quale causa fondamentale di certe anomalie del comportamento. Un bambino che si comporta male è un bambino scoraggiato.

14. Consentite ai vostri figli di non avere il vostro parere. E soprattutto ascoltateli veramente. Fa parte del nostro pregiudizio comune sui bambini pretendere di capire quello che vogliono dire senza in realtà ascoltarli. I figli hanno una diversa prospettiva e spesso soluzioni intelligenti da proporre. Il nostro orgoglio ci impedisce di ascoltarli.

Quante volte potremmo approfittare della loro sensibilità se li trattassimo alla pari e li ascoltassimo davvero.

15. Sottolineate i lati positivi dei vostri figli. I bambini non ne sono sempre coscienti. I complimenti piacciono a tutti, anche ai vostri figli.

16. Consentite loro di prendere parte alle decisioni della famiglia. Spiegate bene i motivi delle vostre scelte. Rispondete ai loro «perché».

17. Mantenete la parola. Siate coerenti. Attenetevi alle decisioni prese. Non promettete o minacciate a vanvera.

18. Riconoscete i vostri errori e scusatevi. Abbiate il coraggio di essere imperfetti e consentite ai vostri figli di esserlo.

19. Giocate con i vostri figli.

20. Quando dovete fare un "discorso serio" con i vostri figli, aspettate che siano in posizione orizzontale. Non fatelo mai quando sono in posizione verticale.

21. Ricordate che ogni bambino è unico. Non esiste l'educazione al plurale.

22. Alcuni verbi non hanno l'imperativo. Non potete dire: «Studia!», «Metti in ordine!», «Prega!» e sperare che funzioni.

23. Spiegate ai vostri figli che cosa provate. Raccontate come eravate voi alla loro età.

24. Aiutateli a essere forti e a riprendersi quando le cose vanno male.

25. Raccogliete la sfida della TV. La televisione non è tanto pericolosa per quello che fa quanto per quello che non fa fare.

26. Non siate iper/protettivi. Cercate le occasioni giuste per tirarvi indietro e consentire ai vostri figli di mettere alla prova la loro forza e le loro capacità.

27. Un bambino umiliato non impara nulla. Eliminate la critica e minimizzate gli errori. Sottolineando costantemente gli errori, noi scoraggiamo i nostri figli, mentre dobbiamo ricordarci che non possiamo costruire sulla debolezza, ma soltanto sulla forza.

28. Non giudicate gli altri genitori dai loro figli e non mettetevi in competizione per i figli con parenti e amici.

29. Date loro il gusto della lettura.

30. Raccontate loro la storia di Gesù. Tocca a voi.

famigliafigligenitorieducatorieducazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 20/08/2007

TESTO

14. Vita comunitaria

Jean Vanier, Ogni uomo è una storia sacra

La vita comune può diventare una vera scuola in cui si cresce nell'amore; è la rivelazione della diversità, anche di quella che ci da fastidio e ci fa male; è la rivelazione delle ferite e delle tenebre che ci sono dentro di noi, della trave che c'è nei nostri occhi, della nostra capacità di giudicare e di rifiutare gli altri, delle difficoltà che abbiamo ad ascoltarli e ad accettarli. Queste difficoltà possono condurre a tenersi alla larga dalla comunità, a prendere le distanze da quelli che danno fastidio, a chiudersi in se stessi rifiutando la comunicazione ad accusare e a condannare gli altri; ma possono anche condurre a lavorare su se stessi per combattere i propri egoismi e il proprio bisogno di essere al centro di tutto, per imparare a meglio accogliere, comprendere e servire gli altri. Così la vita in comune diventa una scuola di amore e una fonte di guarigione. L'unione di una vera comunità viene dall'interno, dalla vita comune e dalla fiducia reciproca; non è imposta dall'esterno, dalla paura. Deriva dal fatto che ciascuno è rispettato e trova il suo posto: non c'è più rivalità. Unita da una forza spirituale, questa comunità è un punto di riferimento ed è aperta agli altri; non è elitista o gelosa del proprio potere. Desidera semplicemente svolgere la propria missione insieme ad altre comunità, per essere un fattore di pace in un mondo diviso.

comunitàgruppo

inviato da Qumran2, inserito il 19/08/2007

TESTO

15. Risposarsi ogni momento   2

Risposarsi ogni momento significa
donarsi ogni giorno un amore grande.
Significa accettarsi a vicenda
e unirsi l'uno all'altro.
Significa dedicare tutta la vita
ad aiutare l'altro amandolo.

Risposarsi ogni momento non significa
solo camminare tenendosi per mano,
perché è facile unire i corpi,
ma significa camminare unendo i cuori,
perché è più difficile intendersi con l'animo.

Risposarsi ogni momento significa
mettere in comune tutte le idee,
tutte le reazioni, tutte le impressioni,
fare propri tutti i rimpianti,
tutti i progetti, tutti i sogni, ,
tutti gli scoraggiamenti dell'altro.

Risposarsi ogni momento significa
presentare le proprie anime
davanti a Dio con le mani giunte
insieme all'altro nella preghiera

matrimoniocoppiaamoresposifedeltà

5.0/5 (1 voto)

inserito il 25/02/2006

TESTO

16. Il timore di Dio

A. Hesche, Dio alla ricerca dell'uomo

Il timore è un modo di essere in rapporto con il mistero di tutta la realtà.

Il timore che percepiamo o dovremmo percepire quando ci troviamo alla presenza di un essere umano è un momento di intuizione della somiglianza di Dio che si cela nella sua essenza. Non soltanto l'uomo, ma anche gli oggetti inanimati hanno relazione con il Creatore. Segreto di ogni creatura è l'attenzione e la sollecitudine di cui sono investite da parte di Dio. Qualcosa di sacro è in gioco in ogni avvenimento.

Il timore è l'intuizione della dignità di creature comune a tutte le cose e del grande valore che esse hanno per Dio; è il riconoscere che le cose non sono soltanto quello che sono ma implicano anche, se pure alla lontana, qualcosa di assoluto. Il timore è percezione della trascendenza, percezione del fatto che tutto in ogni luogo si riferisce a colui che è al di là delle cose. Un'intuizione che si manifesta meglio negli atteggiamenti che nelle parole. Tanto più siamo desiderosi di esprimerlo, tanto meno vi riusciamo.

Il significato del timore è di rendersi conto che la vita si svolge sotto orizzonti vasti, che si estendono oltre il breve lasso di tempo di una vita individuale o perfino della vita di una nazione, di una generazione o di un'epoca.

Il timore ci permette di percepire nel mondo le allusioni al divino, di sentire nelle piccole cose il principio di un significato infinito, di sentire ciò che è essenziale nel comune e nel semplice; di avvertire nel fluire del transitorio il silenzio dell'eternità.

timore di Dioricercameravigliastuporericerca di senso

inviato da Luca Peyron, inserito il 28/07/2004

TESTO

17. Maria, tu non hai chiesto nulla di più

Santa Teresa del Bambino Gesù

Io so bene, o Vergine piena di grazia,
che a Nazaret tu sei vissuta poveramente,
senza chiedere nulla di più.
Né estasi, né miracoli, né altri fatti straordinari
abbellirono la tua vita, o Regina degli eletti.
Il numero degli umili, dei «piccoli»,
è assai grande sulla terra: essi possono
alzare gli occhi verso di te senza alcun timore.
Tu sei la madre incomparabile che cammina
con loro per la strada comune,
per guidarli al cielo.
O Madre diletta, in questo duro esilio
io voglio vivere sempre con te
e seguirti ogni giorno.
Mi tuffo rapita
nella tua contemplazione e scopro
gli abissi di amore del tuo cuore.
Tutti i miei timori svaniscono
sotto il tuo sguardo materno
che mi insegna a piangere e a gioire.

MadonnaMariaumiltà

inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002

TESTO

18. San Paolo, non un pazzo qualsiasi

Scout d'Europa, Foggia 2

Vi sono solo due notizie di dominio pubblico su san Paolo.
Uno: è caduto da cavallo.

Due: le sue lettere (tre volte su quattro la seconda lettura domenicale) sono incomprensibili. Beh, almeno difficili.

Fino a poco tempo fa anch'io la pensavo così: Paolo di Tarso? Pessimo cavallerizzo e criptico scrittore. Ora ho qualche notizia in più su costui. Per esempio so che era pazzo.

Non una comune follia, ma una follia lucida, rigorosamente logica e metodica. Era un ebreo. Colto. Ricco. Rispettato. Discendeva dall'elite d'Israele, aveva cultura e autorità: tutte le carte in regola per fare carriera. In effetti, la stava facendo. Stava sterminando una setta giudaica per conto della gerarchia di Gerusalemme, e questo era un ottimo trampolino di lancio. Poi Paolo di Tarso impazzisce. Molla tutto e si mette con quelli che stava catturando. Matto. Completamente andato.

Eppure Paolo ci credeva a quello che faceva. Ci credeva più di tutti gli altri ebrei. Forse ci credeva troppo. Insomma, non è molto simpatico quando inizi a incatenare tutti quelli che la pensano un po' diversamente da te. Il fatto che Paolo sia passato proprio alla fazione opposta ci dice una cosa importante: e cioè che Paolo non era un fossile. Certo, aveva delle idee, e ci teneva parecchio. Ma si lasciava interrogare dai fatti. E, a costo di venire apostrofato "traditore" e "voltabandiera" sapeva cambiare. Anche se questo andava contro il sistema. Era un tipo dinamico, e quando qualcuno gli ha aperto gli occhi sulla realtà non ha avuto paura di dire: "Ok, ragazzi, si cambia registro. Ho fatto qualche errore, ma non rinnego il mio passato. Io sono io, ma adesso che so ho il dovere di agire di conseguenza". Detto fatto.

Paolo ha o non ha avuto una visione sulla strada di Damasco? E' caduto da cavallo? Ha davvero sentito la voce di Gesù che gli parlava? O è solo un genere letterario, una metafora per dire che Paolo ha fatto il salto di qualità?
A dire il vero, non è molto importante.
L'importante sono i fatti.

Quali sono i fatti? Il primo fatto è la pazzia di Paolo: abbia visto o meno il Signore, è fuori discussione che con lui aveva un rapporto intimissimo. I loro pensieri coincidevano, e poiché Dio la pensa un po' diversamente dall'uomo, Paolo parve un pazzo agli occhi di moltissimi.

Paolo si faceva dei grandi viaggi. Materialmente, intendo dire. Per portare quell'annuncio sconvolgente che gli aveva scardinato la vita girò tutto il mondo conosciuto allora. Dall'Oriente all'Occidente, mai stanco, sempre avanti, sempre, attraverso tutte le difficoltà. Viaggiare non era una cosa di piacere, allora. Significava muoversi per lo più a piedi, a cavallo, con carovane, navi. Itinerari lunghi, difficili, sotto un cielo straniero, ma sempre con un motore spirituale a farlo andare avanti. "Non sono ancora giunto abbastanza lontano. C'è ancora gente afflitta ed oppressa che attende una parola di liberazione". San Paolo non va in vacanza, non si prende periodi di riposi, perché se lo facesse... ah! Guai a lui! Sa qual è il compito della sua vita.

Predica in tutti i modi possibili. Non si accontenta di andare di persona nelle città, come gli altri apostoli, ma scrive. Scrive lettere per le comunità che ha cresciuto, aiutato. Sono lettere bellissime, piene di fuoco, di passione, di fervore. Paolo si tiene sempre informato di come stanno i suoi, li sorregge, li conforta. Chiarisce i loro dubbi, li guida con dolcezza. Ma se c'è qualcosa che non funziona, va giù dritto. Ha le idee chiare. Dice sempre quello che pensa, senza guardare in faccia nessuno. Non si lascia zittire dalle minacce. Oh, perché di minacce ne ha avute: dava fastidio a troppa gente in alto. Ma la sua testardaggine non si piegava alle bastonate, ed il suo ardore non si spegneva nemmeno nelle carceri. Non scendeva a compromessi neppure a costo della propria vita.
Paolo è pazzo.
E' pazzo perché è un innovatore.

E' pazzo perché sfida tutte le mentalità del tempo. Paolo ha una mentalità aperta, ha viaggiato, conosce gli uomini. In un mondo di discriminazioni razziali e tra i sessi annuncia che non c'è differenza tra uomo e donna, tra schiavo e padrone, tra ebrei e pagani, che tutti sono uguali, tutti figli di Dio, tutti amati. Paolo fa saltare tutte le caste ed i sistemi di catalogazione degli uomini. Porta un messaggio di tolleranza, anzi di più: un messaggio di amore per tutti gli uomini. "Se non ho l'Amore non sono nulla". Avanti, sempre. Farsi tutto a tutti. Tendere la mano. Proporre e non imporre.

San Paolo è pazzo. Vive di ideali grandi, che sembrano quasi utopie. Sono utopie? Chissà. Ma sempre meglio che razzolare nella mediocrità. Le persone con la vista corta non arrivano lontano. Sopravvivono, ma non Vivono veramente.
Paolo è pazzo.

Ma sono questi pazzi che costruiscono il mondo nuovo.

San Paoloconversionecoerenzamissioneevangelizzazioneapostoli

inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/11/2002

TESTO

19. La pace come perdono

Tonino Bello

Solo chi perdona può parlare di pace e teorizzare sulla non violenza.

Non vorrei essere frainteso.

E' vero: la pace è conquista, cammino, impegno. Ma sarebbe un brutto guaio se qualcuno pensasse che essa sia semplicemente il frutto dei nostri sforzi umani o il risultato del nostro volontarismo titanico o una merce elaborata nelle nostre cancellerie diplomatiche o un prodotto costruito nei nostri cantieri popolari.

La pace è soprattutto dono che viene dall'alto. E' la strenna pasquale che Gesù ha fatto alla terra. È il regalo di nozze che ha preparato per la sua sposa. Con tanto di marchio di fabbrica: "Made in Cielo".

Qual è allora il ruolo degli operatori di pace? Quello di non respingere il dono al mittente. E' in particolare, quello di rendere attuale e fruibile per tutti questo regalo di Dio. Mi spiego con immagini. Gesù è sceso sulla terra tormentata dalla sete. Con la sua croce, piantata sul Calvario come una trivella, ha scavato un pozzo d'acqua freschissima. Una volta risorto, ha consegnato questo pozzo agli uomini dicendo: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace". Ora tocca a noi

attingere l'acqua della pace per dissetare la terra. A noi, il compito di farla venire in superficie, di canalizzarla, di proteggerla dagli inquinamenti, di farla giungere a tutti.

La pace, dunque, è dono. Anzi, è " per-dono". Un dono "per". Un dono moltiplicato. Un dono di Dio che, quando giunge al destinatario, deve portare anche il "con-dono" del fratello.

E qui il discorso si fa concreto. Come possiamo dire parole di pace, se non sappiamo perdonare? Con quale coraggio pretendiamo che siano credibili le nostre scelte di pace a livello di massimi sistemi, quando nel nostro entroterra personale prevale la legge del taglione? Come possiamo rifiutare la "deterrenza" e respingere la logica del missile per missile, se nella nostra vita pratichiamo gli schemi dell'"occhio per occhio e dente per dente"? Quali liberazioni pasquali vogliamo annunciare, se siamo protagonisti di stupide smanie di rivincita, di deprimenti vendette familiari, di squallide faide di Comune? Chi volete che ci ascolti quando facciamo comizi sulla pace, se nel nostro piccolo guscio domestico siamo schiavi dell'ideologia del nemico?

Solo chi perdona può parlare di pace. E a nessuno è lecito teorizzare sulla non violenza o ragionare di dialogo tra popoli o maledire sinceramente la guerra, se non è disposto a quel disarmo unilaterale e incondizionato che si chiama "perdono".

perdonoamare i nemicipaceconflitti

inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002

TESTO

20. I cristiani nel mondo

Lettera a Diogneto, autore anonimo del II secolo

I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. Ma pur vivendo in città greche o barbare - come a ciascuno è toccato - e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l'esempio di una vita sociale mirabile, o meglio - come dicono tutti - paradossale. Abitano nella propria patria come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini ma da tutto sono staccati come stranieri, ogni nazione è la loro patria e ogni patria è una nazione straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non espongono i loro nati. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi.

testimonianzaessere cristiani

inviato da Emilio Centomo, inserito il 04/05/2002

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