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RACCONTO

1. Il bambino e il cucciolo zoppo   1

web

Il padrone di un negozio stava esponendo sulla porta un cartello con la scritta “Si vengono cuccioli”.
Da lì a poco si presentò un ragazzino:
«Quanto costano i cagnolini?»
«Tra i 30 e i 50 euro.»

Il bambino estrasse alcune monete dalla tasca.
«Ho solo 2,37 euro... posso vederli?»

L'uomo sorrise e fece un fischio. Dal retrobottega entrò il suo cane seguito da cinque cuccioli. Uno di questi era rimasto indietro zoppicando. Il ragazzino lo indicò:
«Che cosa gli è successo?»
L'uomo gli spiegò che alla nascita il veterinario gli aveva detto che quel cucciolo aveva un'anca difettosa e che sarebbe rimasto zoppo per sempre.

Il bambino esclamò:
«Vorrei comprare quel cagnolino!»
«No, non dovrai comprarlo! Se lo vuoi davvero te lo regalerò!»

Il bambino guardò l'uomo negli occhi:
«Non voglio che me lo regali: vale tanto quanto gli altri cagnolini e le pagherò il prezzo intero. Se è d'accordo, le darò subito ciò che ho, e 50 centesimi ogni mese fino a quando lo avrò pagato completamente.»

L'uomo insistette:
«Questo cagnolino non sarà mai in grado di correre, saltare e giocare come gli altri cagnolini!»
Allora il bambino si piegò ed estrasse dai pantaloni la sua gamba sinistra malformata e imprigionata in un pesante apparecchio metallico. Guardò di nuovo l'uomo e disse:
«Non importa: anche io non posso correre e il cagnolino avrà bisogno di qualcuno che lo capisca!»

disabilitàsofferenzaempatiacompassione

inviato da Simona, inserito il 23/02/2023

RACCONTO

2. Peter e il filo magico   1

Robin Sharma, Il monaco che vendette la sua Ferrari

C'era una volta Peter, un ragazzino molto vivace a cui tutti volevano bene: la sua famiglia, i suoi maestri e i suoi amici... Ma Peter aveva un piccolo, grande problema. Peter non riusciva a vivere il presente. Non aveva imparato a godere della vita. Quando era a scuola, sognava di essere fuori a giocare. Quando giocava, sognava di essere già in vacanza. Peter sognava sempre ad occhi aperti, non godendosi mai il presente che la vita gli offriva.

Un mattino, Peter stava camminando nel bosco vicino a casa. Siccome si sentiva stanco, decise di fermarsi in una radura e di fare un pisolino. Si addormentò come un sasso, ma dopo qualche minuto, si sentì chiamare per nome: «Peter, Peter!», ripeteva una voce stridula. Quando aprì gli occhi... sorpresa! Si ritrovò dinnanzi una donna vecchia di almeno cent'anni, con i capelli candidi che le ricadevano sulle spalle come matasse di lana arruffata. Nella mano rugosa aveva una pallina magica, con un foro nel centro da cui pendeva un lungo filo dorato. «Peter - disse la vecchia - questo è il filo della vita. Se lo tiri piano piano, in pochi secondi passerà un'ora; se tiri più forte, in pochi minuti passeranno giorni interi. Se tiri con tutta la tua forza, in pochi giorni passeranno dei mesi o addirittura degli anni». Peter era eccitato dalla scoperta. «Oh, mi piacerebbe tanto averlo!» esclamò smanioso. Allora la vecchietta si chinò e gli diede la pallina con il filo magico.

Il giorno dopo, Peter era seduto nel suo banco a scuola, e si sentiva annoiato e irrequieto. Improvvisamente si ricordò del suo nuovo giocattolo. Tirò il filo pian piano e si trovò subito a casa, a giocare nel suo giardino. Rendendosi conto dei poteri del filo magico, Peter presto si stancò di andare a scuola e desiderò essere un ragazzo più grande, alla scoperta della vita. Allora tirò il filo un po' più forte e si ritrovò adolescente, con una ragazza di nome Elise. Ma Peter non era ancora soddisfatto. Egli non era in grado di cogliere la bellezza di ogni istante e di esplorare le semplici meraviglie offerte dalle diverse fasi della vita. Sognava invece di essere già adulto, e così tirò di nuovo il filo, sicché gli anni passarono in un lampo. Si ritrovò allora trasformato in un uomo maturo. Elise era diventata sua moglie e Peter era circondato da tanti bambini. Ma notò un'altra cosa: i suoi capelli neri avevano iniziato a diventare grigi, e la sua dolce e adorata mamma era diventata vecchia e debole. Eppure, Peter ancora non riusciva a vivere il presente. Perciò, tirò un'altra volta il filo d'oro e attese la nuova trasformazione.

Adesso aveva novant'anni. Ormai i suoi folti capelli scuri erano diventati bianchi come la neve e la moglie, un tempo bellissima, era morta già da qualche anno. I suoi deliziosi bambini erano cresciuti ed erano usciti di casa per vivere la loro vita. Così, a un tratto, Peter si rese conto di non essersi mai fermato a godere di nulla. Non era mai andato a pescare con suo figlio, non aveva mai fatto una passeggiata al chiaro di luna con sua moglie, non aveva mai piantato un albero... e non aveva mai nemmeno trovato il tempo di leggere quei bellissimi libri che tanto piacevano a sua madre. Era sempre andato di corsa, senza fermarsi a guardare le bellezze che adornavano il suo cammino. Questa scoperta rattristò molto Peter. Allora, per riordinare le idee e rasserenarsi un po', decise di andare a fare un giro nel bosco dove era solito giocare da bambino. Entrò nel bosco, si accorse che gli alberelli della sua infanzia erano diventati querce gigantesche; era stupendo, sembrava di trovarsi in un Paradiso Terrestre. Allora si distese sull'erba di una radura e si addormentò profondamente.

Dopo qualche minuto, qualcuno lo chiamò: «Peter, Peter!» Aprì gli occhi e con suo grande stupore rivide la vecchia che gli aveva regalato la pallina molti anni prima. «Ti è piaciuto il mio regalo?» «All'inizio è stato divertente, ma ora lo odio a morte», disse Peter. «Tutta la vita mi è passata davanti agli occhi senza che potessi goderne un solo istante. Certo, ci saranno anche stati dei momenti molto belli e altri molto tristi, ma non ho avuto la possibilità di coglierli. Ora mi sento vuoto, mi manca il dono della vita». «Sei davvero un ingrato - disse la vecchietta. - Ma ti concederò di esprimere un ultimo desiderio». Peter ci pensò un istante e poi rispose fulmineamente: «Vorrei ridiventare bambino e riprovare a vivere daccapo». Poi si riaddormentò.

A un tratto sentì di nuovo che qualcuno lo chiamava, e si risvegliò. «Chi sarà questa volta?», si chiese. Quando aprì gli occhi, scoprì con gioia che era sua madre che lo stava chiamando, e che era tornata giovane, sana e forte. Allora Peter si rese conto che la vecchietta aveva mantenuto la promessa e che l'aveva riportato all'infanzia. «Su, Peter, dormiglione! Se non ti sbrighi ad alzarti farai tardi a scuola», lo ammoniva sua madre. Naturalmente Peter scattò su dal letto e da quel momento incominciò a vivere come aveva sperato: una vita piena, ricca di gioie, soddisfazioni e successi... Ma tutto ebbe inizio quando smise di sacrificare il presente per il futuro e si rese conto di dovere vivere nell'oggi.

tempopresentefuturovitavalore del tempopazienzaconsapevolezza

inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2018

RACCONTO

3. Il bambino rapito

C'era una pacifica tribù che viveva in pianura ai piedi delle Ande. Un giorno, una feroce banda di predoni, che aveva il covo nascosto tra le vertiginose vette delle montagne, attaccò il villaggio. In mezzo al bottino che portarono via c'era anche un bambino, figlio di una famiglia della tribù di pianura, e lo portarono con loro in montagna.
La gente di pianura non sapeva come fare a scalare la montagna. Non conoscevano nessuno dei sentieri usati dalla gente di montagna, non sapevano come trovare quella gente o come trovare le loro tracce su quel terreno scosceso. Ciò nonostante mandarono un gruppo di uomini, i loro migliori guerrieri, a scalare la montagna per riportare a casa il bambino.
Gli uomini cominciarono la scalata prima in un modo, poi in un altro. Provarono un sentiero, poi un altro. Dopo diversi giorni di duri sforzi, erano riusciti ad andare solo un centinaio di metri su per la montagna. Sentendosi completamente impotenti, gli uomini di pianura si diedero per vinti e si prepararono a tornare al villaggio giù in basso.
Mentre stavano per fare marcia indietro videro la madre del bambino che veniva verso di loro. Si accorsero che stava scendendo dalla montagna che loro non erano riusciti a scalare. E poi videro che portava il bambino in una sacca dietro le spalle. Uno degli uomini dei gruppo la salutò e disse: «Non siamo riusciti a scalare questa montagna. Come hai fatto tu a riuscirci quando noi, che siamo gli uomini più forti del villaggio, non ce l'abbiamo fatta?».
La donna scrollò le spalle e disse: «Non era il vostro bambino!».

Dio ha detto a ciascuno di noi:
«Tu sei il figlio che amo.Tu sei il mio bambino».
E niente e nessuno lo ha fermato per riportarci a casa.

amore di Diosalvezzaamorericercagenitorifiglipaternitàmaternitàtenaciaforzaimpossibile

inviato da Qumran2, inserito il 02/12/2017

RACCONTO

4. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

RACCONTO

5. I baffi del leone   2

Antica favola etiope

Un uomo, rimasto vedovo, con un figlio ancora bambino, sposò una giovane donna. Nel giorno del matrimonio, la donna, commossa dal dolore così evidente sul viso del bambino, fece una promessa a se stessa: «Aiuterò questo bambino a guarire dal suo dolore e sarò per lui una buona madre».
Da quel momento ogni suo pensiero ed energia furono spesi per questo obiettivo, ma invano.
Il bambino opponeva un netto rifiuto a tutte le sue attenzioni e cure. I cibi preparati amorevolmente non erano buoni come quelli della mamma naturale, i vestiti lavati e rammendati venivano sporcati e strappati di proposito, i baci ricevuti venivano prontamente ripuliti col dorso della mano, gli abbracci allontanati, e così via. Per quanto la donna cercasse di consolare il dolore del bambino e si sforzasse di conquistare il suo affetto non incontrava altro che rifiuto e rabbia.

Un giorno, al colmo del dispiacere e del senso d'impotenza, decise, tra le lacrime, di chiedere consiglio allo stregone del villaggio.
«Ti supplico! Aiutami! Prepara una magia così ch'io possa conquistare l'amore di questo bambino! Ti pagherò quanto vorrai! Aiutami Stregone!».
«Va bene, ti aiuterò e preparerò questa magia, ma è essenziale che tu mi porti due baffi del leone più feroce della foresta».
«Ma Stregone! E' impossibile! Non c'è nessuna speranza allora! Se mi avvicinerò a quel leone mi sbranerà! Non conquisterò mai l'amore di questo bambino».
«Mi dispiace donna, ma questa è la condizione necessaria per la magia».

La donna, in lacrime, si avviò verso la sua capanna ancora più scoraggiata. Dopo una notte insonne, resasi conto che in nessun modo avrebbe rinunciato al suo proposito di conquistare l'affetto del bambino, la giovane sposa decise di procurarsi i baffi del leone ad ogni costo.
La mattina seguente si mise in cammino verso la foresta con una ciotola di carne sul capo. Giunta al limitare del territorio del leone depose la ciotola a terra e fece quindi ritorno verso la sua capanna.
Il giorno successivo, poco dopo l'alba, si avviò nuovamente con una nuova ciotola piena di carne verso la foresta, ma questa volta depositando il tutto qualche passo più avanti, nel territorio del re della foresta.
Il terzo giorno ancora una ciotola di carne e ancora qualche passo più avanti.
Il quarto giorno lo stesso.
Così il quinto, il sesto, il decimo, il ventesimo, il trentesimo, il centesimo... giorno.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, avanzando con coraggio e costanza. Fino a vedere la tana e l'animale, e poi, dopo giorni, ad incontrare il leone che ormai attendeva la sua ciotola di carne e osservava placido la donna, concedendole di avvicinarsi.

Sino al giorno in cui la ciotola viene deposta davanti al leone, e la donna, col cuore in tumulto nel petto, capisce che è giunto il momento di agire.
Mentre l'animale, ormai perfettamente a suo agio con lei, divora il suo pasto, ecco che lei può strappare i due baffi preziosi senza che il leone neppure se ne accorga.
Allora sorridendo tra le lacrime, con i due baffi stretti al petto, corre a perdifiato verso la capanna dello stregone: «Stregone!!! Stregone!!! Ho i baffi!!! Puoi fare la tua magia!!!»

«Mi dispiace donna, non posso fare ciò che mi chiedi. Non bastano due baffi di leone per conquistare l'amore di un bambino. Non ho questo potere».
«Mi hai ingannata!!! Mi hai tradita! Mi hai fatto rischiare la vita per nulla! Perché? Perché l'hai fatto?». Urlava tra le lacrime la donna al culmine della disperazione. «Avevi promesso! Come farò adesso?».
Lo stregone, in silenzio, attende che la donna esaurisca le sue lacrime e la sua rabbia e poi risponde: «Io non posso compiere alcuna magia, donna. La magia è nelle tue mani. Guarda cos'hai fatto col leone. Ebbene, la magia è questa: fai col tuo bambino ciò che hai fatto col leone!».

Il Tempo. Ogni cosa necessita del suo tempo, ma c'è un tempo che pare infinito.
E' il tempo della trasformazione, del cambiamento, della guarigione, dell'attesa.
Quel tempo che vorremmo poter cancellare come d'incanto, o che almeno vorremmo accelerare. Soprattutto noi, noi che viviamo in questo momento storico e culturale dove il tutto dev'essere subito, dove ogni cosa si consuma in un attimo, dove l'attesa genera insofferenza e aggiunge spesso sofferenza alla sofferenza.
Non è possibile accelerare.
Ci sono ritmi e tempi che non possiamo modificare, che appartengono alla natura dell'uomo e all'universo.
Quando si dice: il tempo aggiusta tutto...
In realtà siamo noi e sono gli avvenimenti che necessitiamo di tempo per «aggiustarci». Noi per adeguarci, per abituarci, per trasformarci. Gli avvenimenti per evolvere, maturare, manifestarsi.
Non esistono interruttori.
Click! No, nessun click.
Solo la costanza, la tenacia e la paziente attesa mentre «si lavora per».

Illustrazione di Roberta Tezza

gentilezzapazienzaperseveranza

4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 21/08/2017

RACCONTO

6. La corda della dignità   3

Don Luca Murdaca, https://ilbuongiorno.wordpress.com

C'era un bambino che tutti i giorni chiedeva un pezzo di pane al nonno, poi lo metteva in tasca e si inoltrava nella foresta per poi riapparire dopo una decina di minuti. Dopo un paio di settimane il nonno incuriosito segue il nipotino e lo vede fermarsi in un pozzo abbandonato, tirato fuori il pezzo di pane lo getta nel pozzo, rassicurando: «Torno domani non piangere». Il nonno si avvicina e vede in fondo al pozzo un bambino di un'altra tribù che piangendo continuava a dire nel suo dialetto: «Aiuto, ti prego, salvami». Allora il nonno si rivolge al nipotino dicendo: «Che bravo nipotino che ho, che si prende cura di un bambino affamato, ma se conoscessi il suo dialetto, sapresti che lui ogni giorno ti diceva: "Grazie fratellino per il pane, ma la prossima volta, ti prego, porta una corda per tirarmi su!"».

Alcune volte il pane che doniamo ai poveri non è sufficiente, alcune volte i poveri hanno bisogno di una corda, per tirarsi fuori da quel pozzo di povertà che li rende così tristi.
Ti prego Signore, illumina coloro che hanno la possibilità di fabbricare quelle corde per poter sollevare tanti fratelli caduti nel pozzo poco dignitoso della povertà.

povertàresponsabilitàamiciziaaiutosolidarietà

inviato da Don Luca Murdaca, inserito il 08/05/2017

RACCONTO

7. Dov'è finita la stella cometa?   2

Bruno Ferrero, L'iceberg e la duna

Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all'asino. Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.

«La nostra missione è compiuta!», disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. «Torniamo a casa!», esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco. «Guardate! La stella continua a guidarci», annunciò Baldassarre.

La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente. La corte dei Magi si avviò serpeggiando attraverso il deserto di Giudea. La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri. Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile. Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.

Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo. Era scomparsa. «La nostra stella non c'è più», si lamentò Melchiorre. «Non l'abbiamo nemmeno salutata». C'era una sfumatura di pianto nella sua voce. «Pazienza!», ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico. «Adesso possiamo cavarcela da soli. Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio».

Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella. Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c'era proprio più. «Dove sarà andata?», domandò, deluso. Nessuno rispose. In silenzio, ripresero al marcia verso Oriente.

La silenziosa carovana si trovò presto ad un incrocio di piste. Qual era quella giusta? Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore. Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera. Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire, poi con semplicità offrì a tutti latte e formaggio. In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.

I Magi ripartirono pensierosi. Dopo un po', incontrarono un villaggio. Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino. Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise. Cominciava a capire.

Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno ad uno dei suoi dromedari che era caduto e aveva disperso il carico all'intorno. Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia. Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.

«Adesso so dov'è finita la nostra stella!», esclamò Baldassarre in tono acceso. «È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c'è un cuore buono e generoso!». Melchiorre approvò: «La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino: ciò che conta è l'amore». «I gesti concreti dell'amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa», concluse Gaspare. E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d'avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.

Ci sono uomini e donne che conservano in sé un frammento di stella cometa. Si chiamano cristiani.

epifaniare Magistellabontàtestimonianza

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inviato da Don Antonello Pelisseri, inserito il 28/12/2016

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8. La lucciola di Natale

Ad adorare il bambino Gesù nella capanna di Betlemme insieme con gli altri animali accorsero anche gli insetti. Per non spaventare il piccolo restarono in gruppo sulla soglia. Ma Gesù, con un gesto delle rosee manine, li chiamò ed essi si precipitarono, portando i loro doni. L'ape offrì il suo dolce miele, la farfalla la bellezza dei suoi colori, la formica un chicco di riso, il baco un filo di finissima seta. La vespa, non sapendo che cosa offrire, promise che non avrebbe più punto nessuno, la mosca si offrì di vegliare, senza ronzare, il sonno di Gesù.

Solo un insetto piccolissimo non osò avvicinarsi al bambino, non avendo nulla da offrire.

Se ne stette timido sulla porta; eppure avrebbe tanto voluto dirgli il suo amore. Ma, mentre con il cuore grosso e la testa bassa stava per lasciare la capanna, udì una vocina: «E tu, piccolo insetto, perché non ti avvicini?». Era Gesù stesso che glielo domandava. Allora, commosso l'insetto volò fino alla culla e si posò sulla manina del bambino.

Era così emozionato per l'attenzione ricevuta, che gli occhi gli si colmarono di lacrime. Scivolando giù, una lacrima cadde proprio sul piccolo palmo di Gesù. «Grazie», sorrise il bambinello. «Questo è un regalo bellissimo». In quel momento un raggio di luna, che curiosava dalla finestra, illuminò la lacrima. «Ecco è diventata una goccia di luce!», disse Gesù sorridendo. «Da oggi porterai sempre con te questo raggio luminoso. E ti chiamerai lucciola perché porterai con te la luce ovunque andrai».

nataleluce

inviato da Don Antonello Pelisseri, inserito il 28/12/2016

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9. La catena infinita   3

Josè Real Navarro, C'era una volta... al Catechismo

Un giorno un bambino giocava in casa con la palla. Sua madre glielo aveva proibito, ma siccome era assente, egli disubbidì. E così accadde quel che doveva accadere: con il pallone ruppe il vaso preferito di sua madre. Quando ella ritornò, il bambino le disse una bugia per evitare il castigo. Le disse che era stato il fratellino, che, camminando a gattoni, lo aveva rotto. La madre si irritò molto. Raccolse i pezzi e cercò di ricomporre il vaso.

Era così arrabbiata che dimenticò di togliere l'arrosto da forno, e quello si bruciò. Quando il padre arrivò a casa, non c'era niente da mangiare. Dopo aver bisticciato con la moglie per quel motivo, seccato andò a pranzare al bar dell'angolo.

Adirato come era, trattò in malo modo il cameriere che divenne molto nervoso, e, senza volerlo, versò una tazza di caffè su una signora, macchiandole il vestito.

La signora salì in macchina arrabbiatissima e si diresse verso casa per cambiarsi, ma piangeva tanto che non vedeva bene la strada, Così, senza accorgersene, tamponò un'auto ferma al semaforo. L'autista uscì molto arrabbiato, e dopo aver discusso e presi i dati per l'assicurazione, si diresse molto infastidito al suo lavoro.

Era un maestro, e casualmente aveva tra gli scolari il fanciullo che aveva rotto il vaso. Entrò in classe di pessimo umore, e gli parve di sentire qualcuno che disturbava. Allora castigò il primo che gli capitò, ed era proprio il ragazzo che aveva provocato tutte queste contrarietà.

Senza prevederlo, il fanciullo, disubbidendo a sua madre e mentendo, aveva cominciato una catena di irritazioni e di discussioni. E ora pagava le conseguenze di quello che aveva fatto.

«Il male, come le processioni, ritorna al suo punto di partenza».
Non sempre siamo consapevoli delle conseguenze che le nostre azioni possono avere, ben al di là della vostra volontà. E a volte il male che riceviamo provoca ulteriore male, come in una catena negativa che continua... siamo disposti ad interrompere questa catena per provare ad immettere nel mondo amore e perdono, per iniziare una catena inarrestabile di bene?

bugieresponsabilitàrabbiamalebeneperdonorancore

inviato da Qumran2, inserito il 18/10/2016

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10. Dio è come lo zucchero   7

Mancavano cinque minuti alle 16. Trenta bambini, tutti della quinta elementare, quel pomeriggio, erano eccezionalmente irrequieti, agitati, emozionati, chiassosi, rumorosi. Alle ore 16 in punto arrivò la maestra per iniziare l'esame scritto di catechismo: i promossi sarebbero stati ammessi alla prima comunione, esattamente una settimana dopo. Immediatamente un silenzio generale piombó nella sala dove erano seduti i bambini in attesa delle domande.

Prima domanda: "Chi mi sa dire con parole sue chi è Dio?", cominciò a dettare la maestra.
Seconda domanda: "Come fate a sapere che Dio esiste, se nessuno l'ha mai visto?".

Dopo venti minuti, tutti avevano consegnate le risposte. La maestra lesse ad una ad una le prime ventinove; erano piú o meno ripetizione di parole dette e ascoltate molte volte: "Dio è nostro Padre, ha fatto la terra, il mare e tutto ciò che esiste" Le risposte erano esatte, per cui si erano guadagnati la promozione alla Prima Comunione.

Poi chiamò Ernestino, un piccolo vispo bambino biondo, lo fece avvicinare al suo tavolo e gli consegnò il suo foglietto, dicendogli di leggerlo ad alta voce davanti a tutti i suoi compagni. Ernestino, temendo una pesante umiliazione davanti a tutta la classe, con la conseguente bocciatura, cominciò a piangere. La maestra lo rassicurò e lo incoraggiò. Singhiozzando Ernestino lesse:

"Dio è come lo zucchero che la mamma ogni mattina scioglie nel latte per prepararmi la colazione. Io non vedo lo zucchero nella tazza, ma se la mamma non lo mette, ne sento subito la mancanza. Ecco, Dio è così, anche se non lo vediamo. Se lui non c'è la nostra vita è amara, è senza gusto".

Un applauso forte riempì l'aula e la maestra ringraziò Ernestino per la risposta così originale, semplice e vera. Poi completò: "Vedete bambini, ciò che ci fa saggi non è il sapere molte cose, ma l'essere convinti che Dio fa parte della nostra vita".

Se la nostra vita è amara, forse è perché manca lo zucchero...

rapporto con Diopreghierainterioritàfede

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inviato da Qumran2, inserito il 08/02/2016

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11. Il più grande fabbro di spade del mondo   2

Efficacemente.com

Tanto, tanto tempo fa, in una terra lontana, viveva un fabbro di spade, conosciuto in tutto il mondo per la sua sublime capacità di forgiare il ferro e trasformarlo in spade eleganti e letali.

Un giorno, il racconto dell'incredibile abilità del fabbro di spade giunse a corte, ed il Re, affascinato da questa storia, volle incontrare quanto prima un suddito tanto dotato. I cavalieri del Re iniziarono a cercare il fabbro di spade in lungo ed in largo, setacciando l'intero regno, finché non lo trovarono in un piccolo villaggio vicino alle montagne. Di fronte all'invito del Re, il fabbro di spade non poté fare altro che accettare e, salutata la propria famiglia, seguì i cavalieri a corte.

Durante il loro primo incontro, il Re fu subito affascinato dall'umiltà e dalla gentilezza del fabbro di spade e decise di ricambiarla con altrettanta cortesia. Dopo una breve chiacchierata, il Re fece al fabbro di spade la domanda che poneva a tutti i grandi maestri ed esperti della sua corte: "Fabbro di spade, dimmi, qual è il tuo segreto? Come riesci a forgiare spade tanto belle?"

Il fabbro di spade, per nulla intimorito, rispose al proprio Re con reverenza, ma fermezza: "Sire, non esiste alcun segreto". Il Re sembrava perplesso, ma lasciò continuare il suo ospite. "Fin da quando ero bambino ho avuto l'opportunità di osservare, prima mio nonno e poi mio padre, lavorare il ferro."

Come catturato dall'estasi dei ricordi il fabbro di spade continuò il suo racconto. "Ben presto mi innamorai di questa arte che forgia elementi tanto potenti della natura: il ferro, il fuoco e l'acqua. Vedere nascere spade così eleganti dal ferro grezzo non solo affascinò la mia mente, ma catturò anche il mio cuore. Fu allora che, ancora bambino, decisi che sarei diventato il più grande fabbro di spade del mondo."

Il Re e tutta la corte continuarono ad ascoltare in silenzio l'umile artigiano. "Crescendo, lessi tutti il libri che furono scritti sull'arte della fabbricazione della spada ed imparai ogni tecnica sulla lavorazione del ferro. Non solo. Se un libro non conteneva la parola ‘spada', se una discussione non trattava della lavorazione del ferro, ed in generale, se un'attività non aveva nulla a che fare con le spade, semplicemente non sprecavo il mio tempo con essa. Credo che sia questo il segreto della mia eccellenza, Maestà."

impegnosuccessocostanzasacrificio

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inserito il 18/07/2015

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12. La morte del pessimismo

Leggenda araba

C'era una volta un vecchio, così vecchio che non ricordava neppure di essere stato giovane. E forse non lo era mai stato. In tutto il tempo che era stato in vita, ancora non aveva imparato a vivere. E, non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.

Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Nulla esisteva al mondo che potesse addolorarlo e stupirlo. Trascorreva i suoi giorni inoperosi sulla soglia della sua capanna, guardando con occhi indifferenti il cielo, quello zaffiro immenso che Allah pulisce ogni giorno con la soffice bambagia delle nuvole. A volte qualcuno si fermava ad interrogarlo. Così carico d'anni qual era, la gente lo credeva molto saggio e cercava di trarre qualche consiglio dalla sua secolare esperienza.

«Che cosa dobbiamo fare per conquistare la gioia?» gli chiedevano i giovani. «La gioia è un'invenzione degli stolti», rispondeva lui.

Passavano uomini dall'animo nobile, apostoli bramosi di rendersi utili: «In che modo possiamo sacrificarci, per giovare ai nostri fratelli?» gli domandavano. «Chi si sacrifica per l'umanità è un pazzo», rispondeva il vecchio con un ghigno sinistro.

«Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?», domandavano i padri e le madri. «I figli sono serpi», rispondeva il vecchio. «Da essi non ci si può aspettare che morsi velenosi».

Anche gli artisti e i poeti, nella loro ingenuità, si recavano talvolta a consultare quell'uomo. «Insegnaci ad esprimere quell'anelito che abbiamo nel cuore!», gli dicevano. «Fareste meglio a tacere», sogghignava il vegliardo.

Le convinzioni malvagie di colui che non sapeva né vivere né morire, poco a poco si diffondevano nel mondo. L'Amore, la Bontà, la Poesia, investiti dal ventaccio del Pessimismo (poiché tale era il nome del Vecchio), si appannavano e inaridivano. L'esistenza umana veniva sommersa in una gora di stagnante malinconia.

Alla fine Allah si rese conto dello sfacelo che il Pessimismo operava nel mondo, e decise di porvi riparo. «Poveretto», pensò, «scommetto che nessuno gli ha mai dato un bacio». Chiamò un bambino e gli disse: «Va' a dare un bacio a quel povero vecchio».

Subito il bambino obbedì: mise le braccia intorno al collo del vecchio e gli scoccò un bacio sulla faccia rugosa. Il vegliardo fu molto stupito - lui che non si stupiva di niente. Difatti, nessuno mai gli aveva dato un bacio. E così il Pessimismo aperse gli occhi alla vita, e morì sorridendo al bambino che lo aveva baciato.

pessimismoottimismofiduciasorrisotenerezza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015

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13. Parlami di Dio   5

C'era una volta un uomo che voleva conoscere più cose possibili su Dio.
Un mattino, dunque, partì per chiedere a tutti gli uomini e a tutte le cose di parlargli di Dio.
Disse al soldato: "Parlami di Dio!" E il soldato lasciò cadere le armi.
Disse al povero: "Parlami di Dio!' E il povero gli offrì il suo mantello.
Disse al ciliegio: "Parlami di Dio!". E il ciliegio fiorì.
Disse alla casa: "Parlami di Dio!". E la casa aprì la sua porta.
Disse all'albero: "Parlami di Dio!". E l'albero allargò i suoi rami per proteggerlo dai raggi di sole.
Disse al bambino: "Parlami di Dio!". E il bambino si mise a sorridere.
Disse alla neve: "Parlami di Dio!". E la neve continuò a fioccare lieve, lieve.
Disse al pesce: "Parlami di Dio!". E il pesce guizzò via come una freccia.
Disse all'ippopotamo: "Parlami di Dio!". E l'ippopotamo si mise a ciondolare.
Disse al cielo: "Parlami di Dio!". E il cielo indicò la terra e il creato.

Arrivata la sera, l'uomo se ne tornò a casa, tutto contento: non aveva mai imparato tante cose su Dio come in quel giorno! Allora, per non dimenticare nulla, ripassò a memoria tutti gli incontri, e gli venne spontaneo ringraziare.

Grazie soldato: da te ho imparato che Dio è Pace.
Grazie, povero: da te ho imparato che Dio è generosità.
Grazie, ciliegio: da te ho imparato che Dio è bellezza.
Grazie casa: da te ho imparato che Dio accoglie tutti.
Grazie, albero: da te ho imparato che Dio è benigno.
Grazie, bambino: da te ho imparato che Dio è un sorriso.
Grazie, neve: da te ho imparato che Dio è silenzio.
Grazie, pesce: da te ho imparato che Dio è sempre giovane.
Grazie, ippopotamo: da te ho imparato che Dio è umorista.
Grazie, cielo: da te ho imparato che Dio è il grande Creatore di tutto!

Diocreatocreazione

5.0/5 (6 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 21/06/2014

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14. Martin, il calzolaio che aspettava Gesù   11

Comunità missionaria Villaregia

Martin, avvicinandosi il Natale desiderava preparare qualcosa per Gesù. Gli preparò un paio di scarpe, una torta, e mise da parte dei risparmi che potevano servire a Gesù per i suoi poveri.

Quando era tutto pronto si mise ad aspettarlo. Improvvisamente qualcuno fuori gridò: "Al ladro, al ladro...". Una donna afferrava un bambino che le aveva rubato una mela. Martin, si addolorò e pensò: "Adesso, se arriva la polizia o lo prende, come passerà il Natale?". Prese i risparmi che aveva messo da parte per Gesù e li diede alla donna, pregandola di lasciar andare il bambino.

Nuovamente incominciò ad aspettare Gesù e per la finestra si accorse di un paio di piedi che camminavano scalzi sulla neve. "Chi sarà?", si domandò. E uscì a cercare il proprietario di quei piedi. Era un giovane: "Vieni, entra in casa mia, riscaldati un poco", gli disse. Afferrò le scarpe che aveva fatto per Gesù e gliele diede. Si disse felice: "Per Gesù mi rimane ancora la torta". Già il sole tramontava e vide un anziano che camminava curvo sulla strada. "Povero vecchietto, forse non avrà mangiato niente tutto il giorno". Lo invitò ad entrare nella sua casa, non gli restava che la torta, pazienza, pensò tra sè, offrendo la torta al povero, accoglierò Gesù un'altra volta. Dopo che anche l'anziano se ne andò, il povero Martin, si sentiva felice e nello stesso tempo triste, aveva preparato tutto per Gesù, ma lui non era arrivato: pazienza!

Durante la notte fece un sogno: nel sogno gli si presentò Gesù e gli disse:
"Martin, mi stavi aspettando?".
"Sì, ti ho atteso tutto il giorno..."
"Ma io sono venuto a visitarti per ben tre volte. Grazie dei tuoi regali!"

E Martin vide che Gesù aveva nelle sue mani i risparmi e la torta, ai suoi piedi le scarpe. Si svegliò felice: Gesù era venuto a visitarlo.

attesaNatalepoveriincarnazionegenerosità

5.0/5 (9 voti)

inviato da Don Paolo Benvenuto, inserito il 23/12/2013

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15. Essenzialità

Il filosofo Diogene non solo era contrario ad ogni lusso, ma evitava di utilizzare e di possedere tutto ciò che non era strettamente necessario. Fedele ai suoi principi, egli viveva in una botte ed unico suo utensile era una ciotola di legno con la quale prendeva l'acqua per bere.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, vide un bambino che, per bere, prendeva acqua da una fontana utilizzando solo le mani. Così, ritenendola un inutile lusso, Diogene gettò via la sua ciotola.

essenzialitàpovertà

3.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 05/07/2013

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16. Il flauto del pastore   5

C'era una volta un vecchio pastore, che amava la notte e conosceva bene il percorso degli astri. Appoggiato al suo bastone, con lo sguardo rivolto verso le stelle, il pastore stava immobile sul campo.
"Egli verrà!" disse.
"Quando verrà?" chiese il suo nipotino.
"Presto!".
Gli altri pastori risero.
"Presto!", lo schernirono. "Lo dici da tanti anni!".

Il vecchio non si curò del loro scherno. Soltanto il dubbio che vide sorgere negli occhi del nipote lo rattristò. Quando fosse morto, chi altri avrebbe riferito la predizione del profeta? Se lui fosse venuto presto! Il suo cuore era pieno di attesa.

"Porterà una corona d'oro?". La domanda del nipote interruppe i suoi pensieri. "Sì!".
"E una spada d'argento?". "Sì!".
"E un mantello purpureo?". "Sì! Sì!".

Il nipotino era contento. Il ragazzo era seduto su un masso e suonava il suo flauto. Il vecchio stava ad ascoltare. Il ragazzo suonava sempre meglio, la sua musica era sempre più pura. Si esercitava al mattino e alla sera, giorno dopo giorno. Voleva essere pronto per quando fosse venuto il re. Nessuno sapeva suonare come lui.

"Suoneresti anche per un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo?", chiese il vecchio.
"No!", disse il nipote.

Un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, come avrebbe potuto ricompensarlo per la sua musica? Non certo con oro e argento! Un re con corona, con spada e mantello purpureo l'avrebbe fatto ricco e gli altri sarebbero rimasti a bocca aperta, l'avrebbero invidiato.

Il vecchio pastore era triste. Ahimé, perché aveva promesso al nipote ciò a cui egli stesso non credeva? Come sarebbe venuto? Su nuvole dal cielo? Dall'eternità? Sarebbe stato un bambino? Povero o ricco? Di certo senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, e tuttavia sarebbe stato più potente di tutti gli altri re. Come poteva farlo capire al suo nipotino?

Una notte in cielo comparvero i segni che il nonno così a lungo aveva cercato con gli occhi. Le stelle splendevano più chiare del solito. Sopra la città di Betlemme c'era una grande stella. E poi apparvero gli angeli e dissero: "Non abbiate paura! Oggi è nato il vostro Salvatore!".

Il ragazzo corse avanti, verso la luce. Sotto il mantello sentiva il flauto sul suo petto. Corse più in fretta che poteva. Arrivò per primo e guardò fisso il bambino, che stava in una greppia ed era avvolto in fasce. Un uomo e una donna lo contemplavano lieti. Gli altri pastori, che l'avevano raggiunto, si misero in ginocchio davanti al bambino. Il nonno lo adorava. Era dunque questo il re che gli aveva promesso?
No, doveva esserci un errore. Non avrebbe mai suonato qui.

Si voltò deluso, pieno di dispetto. Si allontanò nella notte. Non vide né l'immensità del cielo, né gli angeli che fluttuavano sopra la stalla.

Ma poi sentì piangere il bambino. Non voleva sentirlo. Si tappò le orecchie e corse via. Ma quel pianto lo perseguitava, gli toccava il cuore e infine lo costrinse a tornare verso la greppia.
Eccolo là, per la seconda volta.

Vide che Maria, Giuseppe e anche i pastori erano spaventati e cercavano di consolare il bambino piangente. Ma tutto era inutile. Che cosa poteva avere il bimbo?

Non c'era altro da fare. Tirò fuori il suo flauto da sotto il mantello e si mise a suonare. Il bambino si quietò subito. Si spense anche l'ultimo, piccolo singhiozzo che aveva in gola. Guardò il ragazzo e gli sorrise.

Allora egli si rallegrò, e sentì che quel sorriso lo arricchiva più di tutto l'oro e l'argento del mondo.

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4.2/5 (5 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 18/03/2013

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17. Figli   4

Una donna arrivò disperata dal suo ginecologo e disse: "Dottore, lei mi deve aiutare, ho un problema molto, ma molto serio... mio figlio ancora non ha ancora compiuto un anno ed io sono di nuovo incinta, non voglio altri figli in un cosi corto spazio di tempo, ma con qualche anno di differenza...".

Allora il medico domandò: "Bene, allora lei cosa desidera che io faccia?". La signora rispose: "Voglio interrompere questa gravidanza e conto sul suo aiuto".

Il medico allora iniziò a pensare e dopo un lungo silenzio disse: "Per risolvere il suo problema penso di aver trovato il metodo meno pericoloso per lei".

La signora sorrise pensando che il medico avesse accettato la sua richiesta.

Il dottore continuò: "Allora cara signora, per risolvere il suo problema e non stare con due neonati in un così breve spazio di tempo, uccidiamo questo che è fra le sue braccia, cosi lei potrà riposare per nove mesi finché avrà l'altro. Se dobbiamo uccidere, non fa differenza fra questo o quell'altro, anche perché sacrificare questo che lei ha tra le sue braccia è molto più facile, perché non ci saranno rischi per lei".

La donna rimase molto più che disperata e disse: "No dottore, uccidere un bambino è crimine!".

Il dottore rispose: "Anch'io la penso come lei, ma lei era tanto convinta che ho pensato di aiutarla".

Dopo alcune considerazioni, il dottore capì che la sua lezione aveva fatto il suo effetto, e riuscì a far capire alla madre che non c'era la minima differenza fra il figlio tenuto in braccio e quello dentro del suo ventre. Sorrise e disse: "Ci vediamo fra una settimana per la prima ecografia e per sentire il cuoricino del fratellino".

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4.6/5 (15 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 18/10/2012

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18. La pecora nera alla grotta di Betlemme   8

Angelillo D'Ambrosio, Racconti di Natale, ediz. Aquaviva

C'era una volta una pecora diversa da tutte le altre. Le pecore, si sa, sono bianche; lei invece era nera, nera come la pece. Quando passava per i campi tutti la deridevano, perché in un gregge tutto bianco spiccava come una macchia di inchiostro su un lenzuolo bianco: «Guarda una pecora nera! Che animale originale; chi crede mai di essere?». Anche le compagne pecore le gridavano dietro: «Pecora sbagliata, non sai che le pecore devono essere tutte uguali, tutte avvolte di bianca lana?».

La pecora nera non ne poteva più, quelle parole erano come pietre e non riusciva a digerirle. E così decise di uscire dal gregge e andarsene sui monti, da sola: "Almeno là avrebbe potuto brucare in pace e riposarsi all'ombra dei pini." Ma nemmeno in montagna trovò pace. «Che vivere è questo? Sempre da sola!», si diceva dopo che il sole tramontava e la notte arrivava. Una sera, con la faccia tutta piena di lacrime, vide lontano una grotta illuminata da una debole luce. «Dormirò là dentro!» e si mise a correre. Correva come se qualcuno la attirasse.

«Chi sei?», le domandò una voce appena fu entrata. «Sono una pecora che nessuno vuole: una pecora nera! Mi hanno buttata fuori dal gregge». «La stessa cosa è capitata a noi! Anche per noi non c'era posto con gli altri nell'albergo. Abbiamo dovuto ripararci qui, io Giuseppe e mia moglie Maria. Proprio qui ci è nato un bel bambino. Eccolo!». La pecora nera era piena di gioia. Prima di tutte le altre poteva vedere il piccolo Gesù. «Avrà freddo; lasciate che mi metta vicino per riscaldarlo!». Maria e Giuseppe risposero con un sorriso. La pecora si avvicinò stretta stretta al bambino e lo accarezzò con la sua lana. Gesù si svegliò e le bisbigliò nell'orecchio: «Proprio per questo sono venuto: per le pecore smarrite!».

nataleaccoglienzadiversità

4.6/5 (7 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 24/06/2012

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19. L'amore di una mamma   4

Un angelo scappò dal paradiso per trascorrere la giornata vagando sulla terra. Al tramonto decise di portarsi via dei ricordi di quella visita. In un giardino c'erano delle rose: colse le più belle e compose un mazzo da portare in paradiso. Un po' più in là un bambino sorrideva alla madre. Poiché il sorriso era molto più bello del mazzo di rose, prese anche quello. Stava per ripartire quando vide la mamma che guardava con amore il suo piccolo nella culla. L'amore fluiva come un fiume in piena e l'angelo disse a se stesso: "L'amore di quella mamma è la cosa più bella che c'è sulla terra, perciò prenderò anche quello".

Volò verso il cielo, ma prima di passare i cancelli perlacei, decise di esaminare i ricordi per vedere come si erano conservati durante il viaggio. I fiori erano appassiti, il sorriso del bambino era svanito, ma l'amore della mamma era ancora là in tutto il suo calore e la sua bellezza. Scartò i fior appassiti e il sorriso svanito, chiamò intorno a se tutti gli ospiti del cielo disse: "Ecco l'unica cosa che ho trovato sulla terra e che ha mantenuto la sua bellezza nel viaggio per il paradiso: L'amore di una mamma".

mammaamore materno

5.0/5 (3 voti)

inviato da Don Giuseppe Ghirelli, inserito il 12/05/2012

RACCONTO

20. L'albergatore di Betlemme   3

don Davide Caldirola

Mi avete messo dalla parte di cattivi. Da secoli spio la mia statuina nei vostri presepi. La vedo sulla porta dell'osteria, la faccia truce, lo sguardo severo, il dito alzato in segno di rifiuto; oppure dietro le porte dell'albergo, china sui profitti della giornata, incurante della coppia di galilei che bussa per domandare un giaciglio. Forse non avete l'idea di cosa significhi gestire una locanda in un borgo come Betlemme. Pochi guadagni, lavoro di bassa lega, rogne a grappoli. Clientela non selezionata, e ladri e farabutti pronti a portarti via i magri ricavi appena giri le spalle. È vero: in quel periodo gli affari andavano bene. Merito della follia di Cesare Augusto, e del suo ordine assurdo di bandire un censimento. Ma più degli introiti, ad essere sinceri, crescevano le preoccupazioni. La mia locanda era invasa da persone di ogni tipo: viaggiatori sconosciuti, gente comune che veniva a farsi registrare, facce da galera pronte a tagliare la gola per due denari, vagabondi di passaggio, avventori con pochi soldi e tante richieste. E quella notte io, l'albergatore di Betlemme, semplicemente non ce la facevo più. Tutti a pretendere un posto, a gridare ordini, a tirarmi per i capelli, a lamentarsi per la minestra insipida o il vino annacquato; tutti pronti a darmi addosso perché il servizio era lento, il letto sporco, il cibo cattivo. Gli uomini bestemmiavano, i bambini gridavano, le donne si accapigliavano. Altro che notte di stelle e di amore, come cantate nelle vostre canzoni. Era una bolgia, un inferno. C'erano persone sdraiate sul tavolo della cucina, bestie ed esseri umani buttati l'uno sull'altro, animali e ragazzi coricati insieme. Non mi restava nemmeno il mio letto, ceduto per quattro spiccioli all'ultimo avventore, e dormivo in piedi, come un somaro.

E allora ho detto no. Non per cattiveria, non perché Maria e Giuseppe (si chiamano così, vero?) erano dei poveracci che non potevano pagare. Semplicemente perché non ce la facevo più. Cosa ne sapete voi, che mi avete messo tra i cattivi? Magari - oltre a tutto questo - avevo anch'io una vecchia madre malata, o una moglie bisbetica con cui bisticciare, o un figlio scappato di casa, o un dolore sordo nel cuore, una ferita nelle viscere, un rimorso, un fallimento, un rimpianto. Da secoli vedo che fate come me, del resto. Come me chiudete le porte a Dio, incatenati dai vostri dispiaceri, schiantati dalla stanchezza della vita, torchiati da pesi che non riuscite a portare, da paure che vi tolgono la speranza e il respiro. E Dio arriva, e bussa alla soglia. Ma non ce la fate più, e la vostra casa rimane chiusa.

Eppure - i vostri vangeli non lo raccontano - eppure non è finita così. Quella notte, quella stessa notte, mi sono destato di soprassalto. Un rumore, un tuono, un canto: non chiedetemi cos'è stato. Ho aperto gli occhi di colpo, e ho rivisto come in un sogno Maria e Giuseppe che camminavano verso la stalla che avevo loro indicato. Ho raccolto un paio di coperte, un po' di formaggio, del pane avanzato. Mi sono messo il fagotto sulle spalle e sono uscito dall'albergo di nascosto, come un ladro. La capanna era poco distante, avvolta da una luce strana; qualcuno si allontanava nel buio, verso le colline dei pascoli. Sono entrato quasi di soppiatto e mi sono fermato in un angolo, nascosto dietro una trave di legno. Ho lasciato le quattro cose che mi ero portato appresso, e sono caduto in ginocchio. Non so quanto tempo sono rimasto, incantato, a fissare il Bambino. Quel tanto che basta per capire che io gli avevo detto di no, ma lui mi diceva di sì. Che per lui non c'era posto nel mio albergo, ma per me c'era posto nella sua vita, nel suo cuore, tutte le volte che avrei voluto.

E vorrei dirvi che poco m'importa se nei vostri presepi e nelle vostre recite sarò sempre l'oste cattivo: perché lui non mi vede così, perché - ne sono sicuro - mi aspetta di nuovo, come quella notte, ogni notte, ogni giorno, in ogni istante. Siete, siamo ancora in tempo. Non importa se gli abbiamo detto no. Non importa se l'affanno, la stanchezza, la tristezza della vita ci ha fatto, un giorno, chiudere le porte a Dio. C'è tempo. La sua casa rimane aperta, non ci manderà indietro. E forse cadremo, finalmente, in ginocchio davanti a lui, nel pentimento e nel perdono, in un sorriso di tenerezza o nella consolazione del pianto.
Buon Natale!

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inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

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21. L'angelo del dopo-Natale   4

Don Angelo Saporiti, Commento sul Natale

Ancora un poco e sarà già tempo di disfare il nostro presepe e di buttare via l'albero di Natale che abbiamo messo su all'inizio dell'avvento.
Solo qualche patacca qua le là o qualche luccichio d'argento ci ricorderanno i giorni di festa trascorsi.
Ogni angioletto, ogni luce dorata so che li ritroverò intatti al prossimo Natale.
C'è una cosa che però rimarrà con me e non metterò nello scatolone...
Quando l'anno scorso misi via il presepe e i cinque angioletti, tenni l'ultimo tra le mie mani...
"Tu resti", gli dissi, "ho bisogno di un po' della gioia di Natale per tutto questo nuovo anno".
"Hai avuto fortuna!" mi rispose.
"Come?" gli chiesi.
"Ehm, io sono l'unico angelo che può parlare...".
"È vero! Ma guarda un po'! Un angelo che parla? Non l'ho mai visto. Non può esistere!".
"Certo che può esistere. Succede soltanto quando qualcuno, dopo che il Natale è passato, vuole tenere con sé un angioletto, non per errore, ma perché desidera rivivere un po' della gioia di Natale, come succede adesso con te. Solo in questi casi noi angeli possiamo parlare. Ma capita abbastanza raramente... A proposito, mi chiamo Enrico".
Da allora Enrico è sulla libreria nella mia stanza.
Nelle sue mani regge stranamente un cestino della spazzatura. Abitualmente sta in silenzio, fermo al suo posto. Ma quando mi arrabbio per qualcosa, mi porge il suo cestino e mi dice: "Getta qua!".
Io getto dentro la mia rabbia. E la rabbia non c'è più. Qualche volta è un piccolo nervosismo, o un stress, altre volte è una preoccupazione, a volte un bisogno, altre volte un dolore o una ferita che io da solo non posso chiudere, né riparare...
Un giorno notai con più attenzione, che il cestino di Enrico era sempre vuoto.
Gli chiesi: "Scusa ma dove porti tutto quello che ci getto dentro?".
"Nel presepe", mi risponde.
"E c'è così tanto posto nel piccolo presepe?".
Enrico, sorrise.
"Stai attento: nel presepe c'è un bambino, che è ancora più piccolo dello stesso presepe. E il suo cuore è ancora più piccolo. Le tue difficoltà, non le metto proprio nel presepe, ma nel cuore del bambino. Capisci adesso?".
Stetti un po' a pensare.
"Questo che mi dici è veramente complicato da comprendere. Ma, nonostante ciò, sento che mi fa felice. Strano, vero?".
Enrico, aggrottò la fronte e poi aggiunse: "Non è per niente strano, ma è la gioia del Natale. Capisci?".
Avrei voluto chiedere ad Enrico molte cose. Ma lui mise il suo dito sulla sua bocca: "Pssst", mi fece in tono garbato. "Non parlare. Semplicemente, gioisci!".

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inviato da Don Angelo Saporiti, inserito il 09/12/2011

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22. Leggenda di Natale a Cresburg   2

Cresburg è l'unico paese del mondo cristiano in cui le campane suonano la gloria della nascita del Redentore cinque minuti dopo la mezzanotte.

Viveva a Cresburg una vecchina di oltre cent'anni: si chiamava Gret.
Una sera, era la sera del ventiquattro dicembre, nella piccola casa entrò improvvisamente la Morte: era passata dalla porta chiusa, silenziosamente.

Gret, che stava sferruzzando lestamente, alzò gli occhi su lei:
- E' ora? - chiese ansiosa.
- E' ora - rispose la Morte.
- Aspetta ancora un poco, te ne prego - supplicò la vecchina - Devo finire questa maglia di lana.

- Quanto tempo occorre?
Gret diede un rapido sguardo al lavoro, fece un breve conto e rispose: - Due ore. Due ore mi bastano.
- E' troppo.
- Ma io devo assolutamente finire la maglia. Tutti gli anni ne faccio una per il Bambino che nasce. E se non riesco a finirla, il Bambino avrà freddo. Non senti che gelo?
- Due ore di ritardo nell'ubbidire alle leggi di Dio - rispose gravemente la Morte - significano duecento anni di pene da scontarsi prima di raggiungere la pace divina.
La vecchina ebbe un moto di sgomento.

Ma poi scosse il capo: - Non importa - rispose - Il Bambino, senza maglia, soffrirebbe. Duecento anni? Pazienza.
E continuò a sferruzzare veloce, mentre la Morte, in un angolo, attendeva.
Mancavano pochi minuti alla mezzanotte, allorché Gret alzò il capo: Sono pronta, disse alla Morte.

Uscirono insieme e s'incamminarono vicine sotto il cielo coperto di stelle.
Troc, troc, faceva la falce, picchiando sulle scapole nude della Morte.
Sulla grande strada alberata dovettero fermarsi.

Circondato da un alone di luce bianchissima, avanzava il Bambino che si recava a Betlemme.
La vecchina si inginocchiò, e, quando Egli le fu vicino, gli porse umilmente la maglia.
Gesù si fermò, guardò la Morte che attendeva, poco discosto e chiese: - Dove andate?
- A scontar duecento anni di pene per raggiungere la felicità eterna - rispose la vecchina.

Il Bambino la fece alzare e si rivolse alla Morte: - Vattene - le disse - L'accompagno io.
La prese per mano e ritornò indietro sulla via percorsa, fino in Paradiso.
Poi riprese il cammino per andare a Betlemme: quando vi giunse era la mezzanotte e cinque minuti.

Di cosa ha bisogno il Dio Bambino?
Di nulla, se non del calore dell'amore di chi si mette in gioco per lui, come lui si è messo in gioco per salvare i suoi fratelli!

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inviato da Suor Maria Nerina, inserito il 08/07/2011

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23. Non c'è posto nella locanda... ma se vogliamo, possiamo cambiare la storia   6

Guido Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media. Era già stato bocciato due volte. Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di comprendonio, ma benvoluto dai compagni. Sempre servizievole, volenteroso e sorridente, era diventato il protettore naturale dei bambini più piccoli.
L'avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia. A Guido sarebbe piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la signorina Lombardi gli diede una parte più impegnativa, quella del locandiere, perché comportava poche battute e il fisico di Guido avrebbe dato più forza al suo rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria.

La sera della rappresentazione c'era un folto pubblico di genitori e parenti. Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di Guido Purlini. E venne il momento dell'entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano verso la porta della locanda sorreggendo teneramente Maria. Giuseppe bussò forte alla porta di legno inserita nello scenario dipinto. Guido il locandiere era là, in attesa.

"Che cosa volete?" chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
"Cerchiamo un alloggio".
"Cercatelo altrove. La locanda è al completo". La recitazione di Guido era forse un po' statica, ma il suo tono era molto deciso.
"Signore, abbiamo chiesto ovunque invano. Viaggiamo da molto tempo e siamo stanchi morti".
"Non c'è posto per voi in questa locanda", replicò Guido con faccia burbera.
"La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e ha bisogno di un luogo per riposare. Sono certo che riuscirete a trovarle un angolino. Non ne può più".
A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e guardò verso Maria. Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo d'imbarazzo tra il pubblico.
"No! Andate via!", sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
"No!", ripeté Guido automaticamente. "Andate via!".

Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei. Invece di richiudere la porta, però, Guido il locandiere rimase sulla soglia con lo sguardo fisso sulla miseranda coppia. Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da rughe di preoccupazione, e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. Tutto ad un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre.
"Non andar via, Giuseppe", gridò Guido. "Riporta qui Maria". E, con il volto illuminato da un grande sorriso, aggiunse: "Potete prendere la mia stanza".
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva mandato a pallino la rappresentazione. Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la più natalizia di tutte le rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.

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inviato da Marcello Rosa, inserito il 08/07/2011

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24. Un asino nella notte   2

suor Ch. Augusta Lainati, clarissa

L'asino camminava nella notte. Camminava e pensava a quella madre che portava sul dorso, tutta ravvolta nel mantello oscurato dall'ombra.

Un passo dietro l'altro, attento a che il suo andare fosse quieto e sempre uguale, per non destare il bimbo che dormiva. Un passo dietro l'altro, misurati dal battito del cuore: finché i battiti divennero più frequenti dei passi e il cuore, in petto, parve scoppiare.

Allora smise di fissare il cielo e la notte che si stendeva davanti a perdita d'occhio e, piegato il capo, cominciò a guardare a terra, sul sentiero appena segnato, ora per evitare un sasso troppo acuto, ora per posare lo zoccolo sui ciuffi d'erba bianchi di brina.

Cominciava a sentire il peso del carico; le gambe si stendevano nel passo ogni volta più faticosamente, finché l'andatura divenne secca, legnosa, e ad ogni piegare di ginocchi gli sembrava di udire come un ramo secco spezzarsi. Si ricordò della catasta di legna ammucchiata nella sua stalla tiepida, dell'alone di luce fumosa intorno alla lucerna pendente sopra la greppia, e l'immagine divenne tanto seducente che gli parve di sentire su per le narici l'odore penetrante di una manciata di fieno fresco.

Si volse, allora, con occhi imploranti verso l'uomo che gli camminava a fianco. Era giovane, ma la strada lo aveva curvato sopra il bastone, e il vento freddo della notte invernale gli incollava il mantello contro un fianco. Il ciuco non riuscì a vedergli bene il volto, ma vide che l'oscurità, interrotta solo dalla luce delle stelle, incavava le occhiaie dell'uomo e riduceva ad una oscura macchia ansante il collo vigoroso, e il petto, che ad ogni passo si alzava e si abbassava.

"Sta peggio di me" pensò l'asino: e riprese a camminare. Camminò per un'ora con la testa bassa, con l'odore di fieno che sempre gli solleticava le narici con l'aumentare della stanchezza: finché il desiderio di cibo scomparve e rimase solo un'acuta brama di paglia tiepida su cui stendersi, della paglia che aveva lasciato a Betlemme quando l'avevano destato nella notte appena cominciata. Fu proprio il tepore associato al ricordo di Betlemme, di Betlemme con la sua piccola tiepida stalla, che lo aiutò a proseguire ancora sul terreno accidentato. Via, via e via.

Dopo qualche ora, ricominciò a sentire che non ne poteva più. Nessun ricordo veniva ad addolcire la sua andatura e ad ogni passo migliaia di fitte gli trapassavano il corpo.

Decise di fermarsi, di sdraiarsi sul terreno ad aspettare il sonno, la morte. Si guardò attorno, voltò il capo per trovare un riparo dal vento; e fu come se una mano gelida gli si fosse posata sul cuore: la donna sulla sua groppa era tutta un tremito per il freddo e il suo alito gelava nell'aria appena uscito dalle labbra dischiuse.
"Sta peggio di me" pensò ancora il somaro.

Continuò a camminare e un'altra ora passò, un'ora di stanchezza infinita, di contrasti col vento, di paura per quella dama, per quel Bambino, per quella figura scolpita dall'ombra che gli camminava al fianco e sulla cui andatura cercava faticosamente di regolare il passo.

Non ne poteva veramente più. Il terreno sassoso aveva a poco a poco ceduto ad un molle strato di sabbia; prima poche manciate insinuatesi tra le zolle indurite dal freddo e i sassi denudati dal vento, poi un tappeto soffice su cui era stato agevole camminare, e infine uno strato alto, dove gli zoccoli sprofondavano e si appesantivano e non venivano più fuori.

Ansimava; il sudore scendeva copioso giù per la fronte, nonostante il freddo, e si raccoglieva in due rivoletti lungo naso. Non sapeva che cosa fare, se lasciarsi cadere sfinito lì, sotto la volta del cielo, o se continuare impazzito di dolore e di freddo, senza avere più nozione, né di tempo, né di strada, finché la morte lo cogliesse e gli irrigidisse il passo nell'ultimo sforzo.

Fra le due prospettive, la prima gli sembrava infinitamente più desiderabile: doveva essere pur dolce lasciarsi cadere sulla sabbia ad aspettare la morte come liberazione dal male, riempire l'attesa con il ricordo di pigre giornate di sole, di terra smossa e odorosa, di mosche fastidiose che era divertente scacchiare con subito fremere delle membra. Anche il ricordo della pesante macina gli avrebbe fatto piacere, purché potesse distendersi ad aspettare la morte.

Aveva deciso. Ma, prima di lasciarsi cadere raccolse le forze per un ultimo raglio, l'addio alla vita. Al deserto, alla volta celeste: pensò che tra poco le stelle sarebbero impallidite nei suoi occhi spenti. Usò quanta forza gli rimaneva, e il raglio si alzò acuto, più sonoro nel silenzio del deserto.

E fu allora, mentre le ginocchia già si piegavano, mentre già assaporava la dolcezza di quella sabbia, pur fredda, che udì il pianto cheto del Bambino, del Bambino che non aveva pianto per il disagio dell'andare, non per il vento che si insinuava fin sotto le fasce, ma piangeva per il raglio dell'asino che non voleva più soffrire.

Fu così, per quel pianto infantile, che il ciuco scelse di continuare.

E andò, appesantito dalla sabbia, sferzato dal vento, sotto la volta concava e scura del cielo, finché le stelle impallidirono: e credette di sognare quando, nella luce ancora incerta, si profilò la sagoma di un villaggio straniero.

Gli diedero un giaciglio di paglia fresca, colmarono la greppia di fieno odoroso e l'acqua che versarono nell'abbeveratoio della stalla rispecchiava, insieme alle travi rozze del soffitto, una lampada lucente.

Ma non riuscì né a bere né a mangiare, per lungo tempo; rimase disteso sulla paglia senza neppure goderne il contatto, né vide l'immagine increspata della lampada nell'acqua dell'abbeveratoio. Ma quando, risvegliatosi dal torpore di morte avvertì il profumo penetrante del fascio di fieno nella mangiatoia e cercò di alzarsi, facendo forza sulle zampe anteriori, vide - e lo vide lui solo - l'Angelo che aveva invitato alla fuga Giuseppe. Aspettava il suo risveglio, e lo aspettava lieto, come a ringraziarlo per quanto aveva fatto.

Il ciuco si alzò del tutto, gli si avvicinò tanto da essere nella sua stessa luce, coronato dalla sua stessa aureola: allora soltanto, quando vide che l'Angelo non si ritraeva, che non rifiutava di fasciarlo del suo stesso fulgore, raccolse tutto il coraggio, tutta la forza che ancora gli restava nelle membra e, chinata la testa, chinatala fino a terra, ebbe l'ardire di chiedere una ricompensa.

Chiese, piano: "Fa' che sia io a riportarli indietro."

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inviato da Marcello Rosa, inserito il 08/07/2011

RACCONTO

25. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

amoresacrificiodonazionedonareamicizia

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

RACCONTO

26. Adamo ed Eva a Betlemme   1

Tra i pastori
che accorsero alla grotta di Betlemme,
c'erano anche Adamo ed Eva:
avevano desiderato tanto il Salvatore!

Umili s'inginocchiarono fuori della grotta.
Di tanto in tanto guardavano i doni sinceri
che i pastori deponevano
davanti al neonato Signore.

Che dono gradito avrebbero essi
potuto offrire a Gesù Bambino?
Si guardarono in faccia
e, quando ci fu un po' di quiete,
si alzarono e si avvicinarono
all'Atteso dalle genti.

Si prostrarono profanamente,
come per invocare la più grande pietà.
Quando Maria li invitò ad alzarsi,
avevano il pianto negli occhi.

Fu allora che Adamo si fece coraggio:
estrasse dalla sua bisaccia
un frutto bellissimo già morsicato:
il frutto del bene e del male
colto nel paradiso perduto.

Così pregò Adamo:
"Signore, perdona:
non abbiamo altro da offrirti
che il nostro peccato!"

Fu Maria che prese
dalle mani di Adamo quel dono
e lo depose ai piedi del Figlio.
Quando Maria accompagnò
Adamo ed Eva sulla soglia,
erano uomini nuovi.

pentimentopeccatoperdono di Dioconversioneepifaniare magi

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inviato da Don Giuseppe Ghirelli, inserito il 05/01/2011

RACCONTO

27. La ragione dell'asino   7

Bruno Ferrero, Tante storie per parlare di Dio

Una volta gli animali fecero una riunione.
La volpe chiese allo scoiattolo:"Che cos'è per te Natale?"
Lo scoiattolo rispose: "Per me è un bell'albero con tante luci e tanti dolci da sgranocchiare appesi ai rami".
La volpe continuò: "Per me naturalmente è un fragrante arrosto d'oca. Se non c'è un bell'arrosto d'oca non c'è Natale".
L'orso l'interruppe: "Panettone! Per me Natale è un enorme profumato panettone!".
La gazza intervenne: "Io direi gioielli sfavillanti e gingilli luccicanti. Il Natale è una cosa brillante!".
Anche il bue volle dire la sua: "E' lo spumante che fa il Natale! Me ne scolerei anche un paio di bottiglie".
L'asino prese la parola con foga: "Bue sei impazzito? E' il Bambino Gesù la cosa più importante del Natale. Te lo sei dimenticato?".
Vergognandosi, il bue abbassò la grossa testa e disse: "Ma questo gli uomini lo sanno?".

Solo l'asino conosce la risposta giusta alla domanda fondamentale: «Ma che cosa si festeggia a Natale?».
Anche noi oggi vogliamo chiederci: "Qual è l'elemento essenziale del Natale?" Proviamo a dire il nostro parere.

natale

3.5/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 28/12/2010

RACCONTO

28. Cicatrici   1

In un caldo giorno d'estate nel sud della Florida, un bambino decise di andare a nuotare nella laguna dietro casa sua. Uscì dalla porta posteriore correndo e si gettò in acqua nuotando felice. Sua madre lo guardava dalla casa attraverso la finestra e vide con orrore quello che stava succedendo. Corse subito verso suo figlio gridando più forte che poteva. Sentendola il bambino si allarmò e nuotò verso sua madre ma era ormai troppo tardi.

La mamma afferrò il bambino per le braccia, proprio quando il caimano gli afferrava le gambe. La donna tirava determinata, con tutta la forza del suo cuore. Il coccodrillo era più forte, ma la mamma era molto più determinata e il suo amore non l'abbandonava. Un uomo sentì le grida, si precipitò sul posto con una pistola e uccise il coccodrillo. Il bimbo si salvò e, anche se le sue gambe erano ferite gravemente, poté di nuovo camminare.

Quando uscì dal trauma, un giornalista domandò al bambino se voleva mostrargli le cicatrici sulle sue gambe. Il bimbo sollevò la coperta e gliele fece vedere.

Poi, con grande orgoglio si rimboccò le maniche e disse: "Ma quelle che deve vedere sono queste". Erano i segni delle unghie di sua madre che l'avevano stretto con forza. "Le ho perché la mamma non mi ha lasciato e mi ha salvato la vita".

Anche noi abbiamo cicatrici di un passato doloroso. Alcune sono causate dai nostri peccati, ma alcune sono le impronte di Dio quando ci ha sostenuto con forza per non farci cadere fra gli artigli del male. Ricorda che se qualche volta la tua anima ha sofferto.... è perché Dio ti ha afferrato troppo forte affinché non cadessi!

sofferenzaamore di Diosalvezzaabbandono in Dio

4.3/5 (3 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 15/04/2010

RACCONTO

29. La principessa   4

Bruno Ferrero, 365 storie per l'anima

C'era una volta un re che aveva una figlia di grande bellezza e straordinaria intelligenza.

La principessa soffriva però di una misteriosa malattia. Man mano che cresceva, si indebolivano le sue braccia e le sue gambe, mentre vista e udito si affievolivano. Molti medici avevano invano tentato di curarla.

Un giorno arrivò a corte un vecchio, del quale si diceva che conoscesse il segreto della vita. Tutti i cortigiani si affrettarono a chiedergli di aiutare la principessa malata. Il vecchio diede alla fanciulla un cestino di vimini, con un coperchio chiuso, e disse: «Prendilo e abbine cura. Ti guarirà».

Piena di gioia e attesa, la principessa aprì il coperchio, ma quello che vide la sbalordì dolorosamente. Nel cestino giaceva infatti un bambino, devastato dalla malattia, ancor più miserabile e sofferente di lei.

La principessa lasciò crescere nel suo cuore la compassione. Nonostante i dolori prese in braccio il bambino e cominciò a curarlo. Passarono i mesi: la principessa non aveva occhi che per il bambino. Lo nutriva, lo accarezzava, gli sorrideva. Lo vegliava di notte, gli parlava teneramente. Anche se tutto questo le costava una fatica intensa e dolorosa.

Quasi sette anni dopo, accadde qualcosa di incredibile. Un mattino, il bambino cominciò a sorridere e a camminare. La principessa lo prese in braccio e cominciò a danzare, ridendo e cantando. Leggera e bellissima come non era più da gran tempo. Senza accorgersene era guarita anche lei.

Signore, quando ho fame mandami qualcuno che ha bisogno di cibo;
quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua;
quando ho freddo, mandarmi qualcuno da riscaldare;
quando sono nella sofferenza, mandami qualcuno da consolare;
quando la mia croce diviene pesante, dammi la croce di un altro da condividere;
quando sono povero, portami qualcuno che è nel bisogno;
quando non ho tempo, dammi qualcuno da aiutare per un momento;
quando mi sento scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare;
quando sento il bisogno di essere compreso, dammi qualcuno che ha bisogno della mia comprensione;
quando vorrei che qualcuno si prendesse cura di me, mandami qualcuno di cui prendermi cura;
quando penso a me stesso, rivolgi i miei pensieri ad altri.

compassionetenerezzamalattiadonaredonoapertura verso gli altrialtruismochiusura

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inviato da Stefania Chiari, inserito il 21/12/2009

RACCONTO

30. Lacrime di donna   2

Un bambino chiede alla mamma: «Perché piangi?».
«Perché sono una donna» gli risponde.
«Non capisco» dice il bambino.
La mamma lo stringe a sé e gli dice: «E non potrai mai capire...»
Più tardi il bambino chiede al papà: «Perché la mamma piange?»
«Tutte le donne piangono senza ragione», fu tutto quello che il papà seppe dirgli.
Divenuto adulto, chiese a Dio: «Signore, perché le donne piangono così facilmente?»
E Dio rispose:
«Quando l'ho creata, la donna doveva essere speciale.
Le ho dato delle spalle abbastanza forti per portare i pesi del mondo,
e abbastanza morbide per renderle confortevoli.
Le ho dato la forza di donare la vita,
quella di accettare il rifiuto che spesso le viene dai suoi figli.
Le ho dato la forza per permettele di continuare quando tutti gli altri abbandonano.
Quella di farsi carico della sua famiglia senza pensare alla malattia e alla fatica.
Le ho dato la sensibilità di amare i suoi figli di un amore incondizionato,
anche quando essi la feriscono duramente.
Le ho dato la forza di sopportare il marito nelle sue debolezze
e di stare al suo fianco senza cedere.
E finalmente, le ho dato lacrime da versare quando ne sente il bisogno.
Vedi figlio mio, la bellezza di una donna
non è nei vestiti che porta, né nel suo viso, o nella sua capigliatura.
La bellezza di una donna risiede nei suoi occhi.
Sono la porta d'entrata del suo cuore, la porta dove risiede l'amore.
Ed è spesso con le lacrime che vedi passare il suo cuore».

mammamadredonnasposabellezzaamoretenaciagratuitàamore

4.0/5 (3 voti)

inviato da Giovanna, inserito il 06/12/2009

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31. Dove finirono l'oro, l'incenso e la mirra?   2

Bruno Ferrero, Storie di Natale

Anche se non lo davano a vedere, i più eccitati erano l'asino e il bue. Non riuscivano ad addormentarsi. Quella notte e quella giornata erano state meravigliosamente caotiche: la nascita del bambino, gli angeli, i pastori, la stella e poi l'arrivo dei tre re con i manti di stoffe ricamate e le pellicce e i loro strani quadrupedi con la gobba. E soprattutto il luccichio degli scrigni che racchiudevano i doni portati dai tre re. Li avevano ammirati tutti e ora stavano là, abbandonati sulla paglia, mentre la donna cullava dolcemente il bambino e l'uomo dalle mani grandi e forti attizzava il fuoco e porgeva un po' di fieno alle due bestie.

Tra le fessure sconnesse della baracca, altri due occhi fissavano eccitati i doni dei re. Erano occhi pieni di ingenua astuzia. Non avevano perso un solo attimo della giornata e ora osservavano con interesse il primo sbadiglio di stanchezza fiorito sulla bocca dell'uomo. Erano gli occhi di Disma, il più bravo dei ladruncoli di Betlemme, agile e svelto come un furetto.

Il bambino si addormentò per primo, poi la madre si assopì sul mucchio di paglia che l'uomo aveva preparato e rassettato. L'uomo aspettò che il fuoco si spegnesse, poi si abbandonò anche lui sulla paglia con un sospiro di stanchezza e si addormentò. L'asino e il bue lo imitarono. Un silenzio profondo avvolse la baracca.

Un fagotto tintinnante

Disma scivolò nell'ombra e si avvicinò alla porta. Era sbarrata da un robusto paletto. Non poteva scardinarla: avrebbe svegliato tutti. Esaminò le pareti, sfiorandole con la mano. Un' assicella si mosse. Disma intuì che poteva allargare la fessura quel tanto che bastava per permettergli di infilarsi dentro la vecchia stalla. Con consumata abilità, il ragazzo spostò l'asse cercando di non farlo cigolare e si infilò nel varco con le movenze sinuose di un gatto.

Si mosse leggero, cercando di abituare gli occhi all'oscurità. I tre scrigni erano sotto la culla improvvisata del bambino, illuminati dall'ultimo bagliore delle braci del fuoco.

Il bue sbuffò nel sonno e l'asino scalciò nella paglia. Sognavano anche loro. Disma trattenne il fiato, immobile. Nella stalla i respiri ripresero regolari.

Il ragazzo si mosse rapidamente. Afferrò i tre scrigni e li infilò nella bisaccia di tela che portava a tracolla. Diede un'occhiata al bambino e gli parve di vedere sul suo piccolo viso un sorriso, scosse le spalle e uscì dalla fessura che aveva aperto. Quando fu fuori della stalla, sorridendo rimise a posto l'assicella che aveva spostato per entrare, poi si allontanò di corsa. Faceva grandi balzi di gioia, tenendo con le due mani il fagotto tintinnante della refurtiva. Ripassava a memoria il contenuto e pensava eccitato alla bella somma che ne avrebbe ricavato. Il più grosso degli scrigni conteneva monili, bracciali e monete d'oro, il secondo era pieno di purissimo incenso e il terzo conteneva una fiala di preziosissima mirra. Un colpo di fortuna incredibile. Doveva solo essere prudente e nascondere tutto bene. Il mondo era pieno di ladri.

La sorpresa

Entrò in casa dal tetto, come faceva di solito. Non aveva né padre né madre e il vecchio parente che lo teneva in casa non si curava di lui.

Nella sua stanzetta, sotto il pavimento ricoperto di paglia, Disma aveva scavato una nicchia in cui nascondeva le sue cose preziose.

«Terrò nascosti per qualche mese l'oro, l'incenso e la mirra. Poi li venderò un poco alla volta, a Gerusalemme o anche a Damasco, dove non desterà sospetti...» pensava.

Accese una lampada ad olio finemente incisa che proveniva dall'atrio della casa del centurione romano, che la stava ancora cercando, ed esaminò il bottino. Aprì con cautela il primo scrigno e non riuscì a trattenere un'imprecazione stizzita: «Ma che diavolo è successo?». Spalancò con furia gli altri due astucci, guardò, annusò e poi imprecò ancora più rabbiosamente. Qualcuno gli aveva giocato uno scherzo terribile. Forse quell'uomo era molto più furbo di quanto desse a vedere. Invece dell'oro, lo scrigno conteneva un grosso martello, al posto dell'incenso c'erano tre grossi chiodi e la bottiglietta, invece della mirra raffinata, conteneva volgare aceto.

«Accidenti, accidenti! Che me ne faccio di questa robaccia? La rifilerò ai soldati romani per qualche moneta...».

Tre croci

Passarono gli anni. Disma era diventato il più ricco e sfrontato predone del deserto. I suoi uomini compivano razzie nelle più ricche città d'Oriente e l'esercito di Roma era stato costretto più volte a scendere a patti con lui. Ma un giorno, arrivò da Roma un governatore ambizioso di nome Ponzio Pilato che, per fare carriera e ingraziarsi i notabili di Gerusalemme, decise di catturare Disma. Ci riuscì con un tranello e Disma fu condannato alla pena più terribile ed infamante: la morte mediante crocifissione.

Erano in tre a salire sul Golgota, il luogo delle condanne, poco fuori Gerusalemme, dove erano state preparate tre croci. Disma conosceva il vecchio brigante legato con lui, ma non riusciva a spiegarsi il terzo condannato. Aveva il volto nobile e pieno di bontà, anche sotto i segni della tortura. Dicevano che era un profeta di Galilea di nome Gesù, che faceva miracoli, che era stato condannato perché si era proclamato Figlio di Dio e Messia.

Gli occhi gelidi e feroci di Disma si incontrarono con quelli del terzo condannato. Per il bandito tutto divenne stranamente diverso: la sua rabbia feroce svanì e si sentì stranamente in pace.

Il boia cominciò il suo miserabile compito con il profeta galileo: impugnò un grosso martello e tre grossi chiodi, mentre un soldato inzuppava una spugna di aceto. Improvvisamente Disma capì: eccoli i doni dei re che lui aveva rubato tanti anni prima in una stalla di Betlemme, dove c'erano un uomo e una madre e un bambino. Quel bambino era il Messia! Quindi anche lui aveva contribuito a crocifiggere il Figlio di Dio... Con le lacrime agli occhi, Disma sentì che Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Con la solita insensibilità, i soldati si misero a litigare per dividersi le vesti dei condannati. Quando le tre croci furono innalzate con il loro carico di dolore, la gente cominciò a farsi beffe dei condannati. Si accanivano particolarmente contro Gesù. I capi del popolo lo schernivano: «Ha salvato tanti altri, ora salvi se stesso, se egli è veramente il Messia scelto da Dio». Anche i soldati lo schernivano: si avvicinavano a Gesù, gli davano da bere aceto e gli dicevano: «Se tu sei davvero il re dei Giudei salva te stesso!».

L'altro bandito crocifisso si era unito agli schernitori e insultava Gesù: «Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!». Disma lo rimproverò con asprezza: «Tu che stai subendo la stessa condanna non hai proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male».

Poi aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno».

Gli occhi del Messia torturato e morente guardarono Disma con bontà infinita, poi il feroce bandito udì le parole più belle e amorevoli di tutta la sua vita disperata: «Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso».

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inviato da Patrizia Traverso, inserito il 24/11/2009

RACCONTO

32. Il Natale di Martin   1

Leone Tolstoi

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: - La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.

Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.

L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica! - rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera - rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.

Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta.

Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.

Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: «Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me».
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

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4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 24/11/2009

RACCONTO

33. Incantato   1

S. Lawrence

Un giorno le statuine del presepio se la presero con il pastorello soprannominato Incantanto, perché a differenza delle altre statuine, lui se ne stava lì, davanti alla grotta, con le mani vuote, senza alcun dono da portare a Gesù.

"Non hai vergogna? Vieni a trovare Gesù e non porti niente?". Incantato non rispondeva: era totalmente assorto nel guardare il bambino. I rimproveri cominciarono a farsi più fitti. Allora Maria, la mamma di Gesù, prese le sue difese: "Incantato non viene a mani vuote. Guardate: porta la sua meraviglia, il suo stupore! L'amore di Dio, fatto bambino piccolissimo, lo incanta".

Quando tutti compresero, la mamma di Gesù concluse: "Il mondo sarà meraviglioso quando gli uomini, come Incantato, saranno capaci di stupirsi. Capite? Dio per amore nostro si è fatto come noi, per farci come lui".

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3.3/5 (3 voti)

inviato da Giovanna Cavaliere, inserito il 22/05/2009

RACCONTO

34. La drogheria del Paradiso   1

Camminavo lungo l'autostrada della vita, tanto tempo fa.

Un giorno vidi un cartello che indicava: "Drogheria del Paradiso". Non appena mi avvicinai di più la porta si spalancò da sola e, appena mi ripresi dallo stupore, mi ritrovai dentro. Vidi una schiera di Angeli: stavano dappertutto. Uno mi porse un cestino e mi disse: "Fai la spesa con attenzione, ragazzo mio! Tutto ciò che occorre a un buon Cristiano si può trovare in questa drogheria del Paradiso; tutto quello che tu non riuscissi a portar via oggi, puoi ritornare a prenderlo domani!"

Per prima cosa presi un po' di pazienza: l'Amore si trovava nello stesso scaffale.

Più in basso c'era il Discernimento, di cui si ha bisogno ovunque si vada.

Poi presi una o due scatole di Saggezza e uno o due sacchetti di Fede.

Non mi dimenticai di prendere lo Spirito Santo, dal momento che si trovava ovunque nel negozio.

Mi fermai ed acquistai un po' di Forza e un po' di Coraggio perché mi aiutasse nel cammino.

Mi accorsi allora che il cestino era quasi pieno, ma avevo ancora bisogno di comperare un po' di Grazia.

Non dimenticai di prendere la Salvezza che, per fortuna, era in offerta gratuita, e così cercai di prenderne abbastanza da salvare te e me.

Mi avviai poi alla cassa per pagare il conto della drogheria.

Non appena arrivai al corridoio vidi la Preghiera e la misi dentro perché sapevo che, una volta fuori, sarei incappato nel Peccato.

Nell'ultimo scaffale c'era una gran quantità di Pace e di Gioia e lì vicino erano appesi canti e lodi e così mi servii.

Quindi chiesi all'Angelo quanto gli dovevo. Egli si limitò a sorridermi e mi disse: "Porta ogni cosa con te, dovunque tu vada!"

A mia volta gli sorrisi e gli chiesi: "Sul serio, quanto ti devo?"

L'Angelo sorrise di nuovo e disse: "Gesù Bambino ha pagato il tuo conto, tanto, tanto, tanto tempo fa!"

vitavalori

3.0/5 (2 voti)

inviato da Roberto Domanico, inserito il 19/05/2009

RACCONTO

35. La storia della matita   5

Paolo Coelho

Il bambino guardava la nonna che stava scrivendo una lettera. Ad un certo punto, le domandò: "Stai scrivendo una storia che è capitata a noi? E che magari parla di me".

La nonna interruppe la scrittura, sorrise e disse al nipote: "E' vero, sto scrivendo qualcosa di te. Tuttavia, più importante delle parole è la matita con la quale scrivo. Vorrei che la usassi tu, quando sarai cresciuto".

Incuriosito il bimbo guardò la matita senza trovarvi alcunché di speciale.

"Ma è uguale a tutte le altre matite che ho visto nella mia vita!".

"Dipende tutto dal modo in cui guardi le cose. Questa matita possiede cinque qualità: se riuscirai a trasporle nell'esistenza, sarai sempre una persona in pace con il mondo.

Prima qualità: puoi fare grandi cose, ma non devi mai dimenticare che esiste una mano che guida i tuoi passi."Dio": ecco come chiamiamo questa mano! Egli deve condurti sempre verso la sua volontà.

Seconda qualità: di tanto in tanto, devo interrompere la scrittura e usare il temperino. E' un'azione che provoca una certa sofferenza alla matita ma, alla fine, essa risulta più appuntita. Ecco perché devi imparare a sopportare alcuni dolori: ti faranno diventare un uomo migliore.

Terza qualità: il tratto della matita ci permette di usare una gomma per cancellare ciò che è sbagliato. Correggere è un'azione o un comportamento non è necessariamente qualcosa di negativo: anzi, è importante per riuscire a mantenere la retta via della giustizia.

Quarta qualità: ciò che è realmente importante nella matita non è il legno o la sua forma esteriore, bensì la grafite della mina racchiusa in essa. Dunque, presta sempre attenzione a quello che accade dentro di te.

Ecco la quinta qualità della matita: essa lascia sempre un segno. Allo stesso modo, tutto ciò che farai nella vita lascerà una traccia: di conseguenza, impegnati per avere piena coscienza di ogni tua azione".

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5.0/5 (3 voti)

inviato da Raffaella Pisanti, inserito il 07/09/2008

RACCONTO

36. Gastone il centurione

Miriam Soter

Gastone era un centurione e ormai da 30 anni si trovava alle dipendenze di Pilato. Di condannati ne aveva visti tanti, ma nessuno come questo Galileo. «Con tutte le torture che gli sono state fatte dovrebbe essere già morto... e invece mantiene sempre la calma, pur tra inaudite sofferenze... e poi... mi ricorda qualcuno...».

Intanto Gesù fu caricato della croce e il triste corteo si avviò verso il Calvario. Ad un tratto lungo la strada apparve una Donna. «E' la madre del condannato», sussurrò qualcuno. Gastone si voltò ed ebbe un sussulto: come un lampo il passato gli tornò davanti agli occhi.

Era un giovane soldato, appena giunto dall'Italia, quando venne mandato con dei colleghi in Galilea a causa di una sommossa. Come gli altri soldati era un prepotente: entrava nei villaggi e saccheggiava le case senza aver rispetto per nessuno. Un giorno la sua guarnigione rimase senza viveri e i soldati decisero di prendere con la violenza un po' di provviste. Gridando e schiamazzando misero in subbuglio il paesino di Nazaret: le urla delle donne e il pianto dei bambini, invece di impietosirli, li facevano divertire.

Mancava ancora una casetta: Gastone fu il primo ad entrare; ma si fermò di colpo. All'interno non c'era niente di strano: solo una donna con un bambino; eppure l'atmosfera era talmente soprannaturale che i soldati entrando rimanevano ammutoliti. Gastone una volta aveva visto da vicino Cesare, eppure da quei due si irradiava una maestà ben superiore a quella dell'imperatore.

Con una voce dolcissima e molto calma la Signora domandò: «Avete bisogno di qualcosa?». I soldati si guardavano imbarazzati. Gastone si fece coraggio e rispose: «Avremmo bisogno di un po' di cibo, ma non vorremmo essere di disturbo...». La Donna si rivolse al bambino: «Gesù, vai a prendere un po' di provviste». Il bambino subito si alzò e corse in dispensa. Quando tornò aiutò la Mamma a preparare tanti fagottini quanti erano i soldati. Infine, la Donna distribuì le provviste a ciascuno di loro.

Pur essendo molto giovane, tutti ebbero l'impressione di trovarsi di fronte alla propria madre. Gastone non aveva più dimenticato quello sguardo e adesso era sicuro di riconoscerlo in quella Donna.

«Il condannato dev'essere quel bambino!». Era la prima volta che provava compassione per un condannato. Un pensiero gli si affacciò alla mente: «Quest'uomo ha affermato di essere Figlio di Dio... E se fosse vero?». La Donna intanto seguiva il Figlio con una compostezza e una dignità che ferivano profondamente il cuore del buon centurione.

Arrivarono sul Calvario e dopo tre ore di tremenda agonia, alla morte di Gesù Gastone cadde in ginocchio ed esclamò: «Costui era veramente Figlio di Dio!», e così dicendo gli tornarono alla mente le Sue ultime parole: «Donna ecco tuo Figlio»: solo allora capì che si trattava di una Maternità universale ed ebbe un sussulto: era proprio questa l'impressione che aveva avuto quando aveva visto la Donna per la prima volta.

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3.0/5 (2 voti)

inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008

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37. Un pezzo di umanità

A una cena di raccolta fondi per una scuola che serve i disabili mentali, il padre di uno degli studenti fece un discorso che nessuno di coloro che partecipavano avrebbe mai dimenticato.

Dopo aver lodato la scuola e il personale dedito, fece una domanda: "Quando influenze esterne non interferiscono dall'esterno, la natura di tutti è perfetta. Mio figlio Shay, tuttavia, non può imparare le cose che imparano gli altri. Non può capire le cose come gli altri. Dov'è l'ordine naturale delle cose, in mio figlio?". Il pubblico fu zittito dalla domanda.

Il padre continuò. "Io ritengo che, quando un bambino come Shay, fisicamente e mentalmente handicappato viene al mondo, si presenta un'opportunità di realizzare la vera natura umana, ed essa si presenta nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino".

Poi raccontò la storia che segue: Shay e suo padre stavano camminando vicino a un parco, dove c'erano alcuni ragazzi che Shay conosceva che giocavano a baseball. Shay chiese: "Credi che mi lascerebbero giocare?". Il padre di Shay sapeva che la maggior parte dei ragazzi non volevano un ragazzo come lui nella squadra, ma comprendeva anche che se al figlio fosse stato permesso giocare, la cosa gli avrebbe dato un senso di appartenenza di cui aveva molto bisogno, e un po' di fiducia nell'essere accettato dagli altri, nonostante i suoi handicap.

Il padre di Shay si avvicinò a uno dei ragazzi sul campo e chiese se Shay poteva giocare, non aspettandosi un granché in riposta. Il ragazzo si guardò attorno, in cerca di consiglio e disse: "Siamo sotto di sei e il gioco è all'ottavo inning. Immagino che possa stare con noi e noi cercheremo di farlo battere all'ultimo inning".

Shay si avvicinò faticosamente alla panchina della squadra, indossò una maglietta della squadra con un ampio sorriso e suo padre si sentì le lacrime negli occhi e una sensazione di tepore al cuore. Il ragazzo vide la gioia di suo padre per essere stato accettato. In fondo all'ottavo inning, la squadra di Shay ottenne un paio di basi, ma era ancora indietro di tre. Al culmine del nono e ultimo inning, Shay si mise il guantone e giocò nel campo giusto. Anche se dalla sua parte non arrivarono dei lanci, era ovviamente in estasi solo per essere nel gioco e in campo, con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all'altro, mentre suo padre lo salutava dalle gradinate.
Alla fine del nono inning, la squadra di Shay segnò ancora.

Ora, con due fuori e le basi occupate, avevano l'opportunità di segnare la battuta vincente e Shay era il prossimo, al turno di battuta.

A questo punto, avrebbero lasciato battere Shay e perso l'opportunità di far vincere la squadra? Sorprendentemente, a Shay fu assegnato il turno di battuta. Tutti sapevano che gli era impossibile colpire la palla, perché Shay non sapeva neppure tenere bene la mazza, per non dire cogliere la palla. Comunque, mentre Shay andava alla battuta, il lanciatore, capendo che l'altra squadra stava mettendo da parte la vincita per far sì che Shay avesse questo momento, nella sua vita, si spostò di alcuni passi per lanciare la palla morbidamente, così che Shay potesse almeno riuscire a toccarla con la mazza. Arrivò il primo lancio e Shay girò la mazza a vuoto. Il lanciatore fece ancora un paio di passi avanti e gettò di nuovo lentamente la palla verso Shay.

Mentre la palla era in arrivo, Shay girò goffamente la mazza, la colpì e la spedì lentamente sul terreno, dritta verso il lanciatore.

Il gioco avrebbe dovuto finire, a quel punto, ma il lanciatore raccolse la palla e avrebbe potuto facilmente lanciarla al primo che copriva la base e squalificare il battitore. Shay sarebbe stato fuori e questo avrebbe segnato la fine della partita. Invece, il lanciatore raccolse la palla e la lanciò proprio al di là della testa

del primo in base, fuori dalla portata dei compagni di squadra. Tutti quelli che si trovavano sugli spalti e i giocatori cominciarono a gridare: "Shay, corri in prima base! Corri in prima!" Shay non aveva mai corso in vita sua così lontano, ma riuscì ad arrivare in prima base. Corse lungo la linea, con gli occhi spalancati e pieno di meraviglia. Tutti gli gridarono: "Corri alla seconda, alla seconda, ora!" Trattenendo il fiato, Shay corse ancor più goffamente verso la seconda, ansimando e sforzandosi di raggiungerla. Quando Shay curvò verso la seconda base, la palla era fra le mani del giocatore giusto, un piccoletto, che ora aveva la possibilità per la prima volta di essere lui l'eroe della propria squadra. Avrebbe potuto lanciarla alla seconda base per squalificare il battitore, ma comprese le intenzioni del lanciatore e anche lui gettò intenzionalmente la palla in alto, ben oltre la portata della terza base. Shay corse verso la terza base in delirio, mentre gli altri si spostavano per andare alla casa base. Tutti gridavano: "Shay, Shay, Shay, vai Shay".

Shay raggiunse la terza base, quello opposto a lui corse per aiutarlo e voltarlo nella direzione giusta, e gridò: "Shay, corri in terza! Corri in terza!".

Mentre Shay girava per la terza base, i ragazzi di entrambe le squadre e quelli che guardavano erano tutti in piedi e strillavano: "Shay, corri alla base! Corri alla base, sali sul piatto!" Shay corse, salì sul piatto e fu acclamato come l'eroe che aveva segnato un 'grand slam' e fatto vincere la sua squadra.

Quel giorno, disse il padre a bassa voce e con le lacrime che ora gli rigavano la faccia, i ragazzi di entrambe le squadre aiutarono a portare in questo mondo un pezzo di vero amore e umanità.

Shay non superò l'estate e morì in inverno, senza mai scordare di essere stato l'eroe e di aver reso suo padre così felice, e di essere tornato a casa fra il tenero abbraccio di sua madre per il piccolo eroe del giorno!

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4.0/5 (3 voti)

inviato da Stefania Calzavara, inserito il 29/10/2007

RACCONTO

38. Il bambino che tolse i chiodi a Gesù   1

Questa storia è vera per la prima parte, mentre la seconda ne è un possibile proseguimento, suggerito dalla fede e dal cuore di chi scrive, liberamente interpretabile da chi legge, purché resti emblematica nel suo contenuto che vuol essere comunque educativo.

C'era una volta un bambino (oggi non è più quel bambino perché è regolarmente cresciuto) di nome Lorenzo, piccolo mulatto, birichino, occhi pieni di curiosità, denti bianchissimi nella bocca sorridente, voglia continua di correre e giocare, fantasioso, spericolato, sempre protetto dal vigile Angelo Custode.

E non c'era solo quel bambino, c'era anche un castello, dove il bimbo andava a giocare e dove l'aspettavano tante zie che se lo contendevano per appagare tutti i suoi desideri e raccontarsi poi le sue prodezze.

Nel castello c'era una piccola chiesa, perché le zie che lo custodivano erano delle suore secolari che sapevano coniugare la consacrazione al Signore l'amore materno ad ogni piccola creatura.

Ed ecco che un giorno, nel mezzo del gioco, mentre il bimbo corre calciando il pallone, nel corridoio accanto alla piccola chiesa la voce della zia "Annamalia", la madrina di battesimo, chiama: "Lorenzo, vieni a conoscere Gesù".

Così Lorenzo scende per la prima volta i gradini della chiesetta ed entra nel vano sacro, dove gli viene mostrato Gesù nel grande crocifisso appeso alla parete sopra l'altare.

Il bimbo alza gli occhi e vede i piedi forati dal chiodo, sovrapposti e sanguinanti. Ecco quello è Gesù e lui gli manda bacetti con la mano, rammaricandosi di non poterlo raggiungere, impotente a togliergli quei chiodi che forano i piedi e le mani fino a farli sanguinare.

Cominciò così il suo amore per Gesù, un misto di ammirazione e compassione che si rinnovava ad ogni nuova visita.

Per Lorenzo era un grosso sacrificio lasciare il gioco per andare a rivedere Gesù, ma ne valeva la pena... specialmente dopo che aveva assaggiato il "Pane di Gesù", che zia Annamaria aveva preso da un armadietto della sacrestia, e dopo aver saputo che la casa di Gesù era nel tabernacolo di marmo, proprio sotto la grande croce da cui Gesù non poteva discendere. In braccio alla madrina lui però poteva baciare la porticina di quella "casa" e stabilire con Gesù una grande amicizia, più importante di quella che aveva con i suoi compagni della Scuola Materna.

Ma il cuoricino di Lorenzo soffriva per quei grossi chiodi che non sapeva come fare a togliere perché Gesù potesse guarire e scendere dalla croce. Una volta che zia Roberta si ferì un piede e mostrò al bambino la ferita, egli si slanciò a baciarlo per farlo guarire come avrebbe voluto fare con Gesù.

Passò il tempo e venne il grande momento: una scala era rimasta abbandonata in chiesa con qualche attrezzo, come quelli che usava papà Mario per i lavori di casa. Lorenzo non aspettava altro! Ormai era abbastanza alto e forte per sollevare la scala, avvicinarla al grande crocifisso, prendere gli attrezzi e salire fino in alto. Ora finalmente poteva "lavorare" per togliere quei chiodi ai piedi e alle mani di Gesù.

Lavora, smuovi, tira... e uno! Poi due, ma il terzo che fatica! Non si arrese: tirò finché anche quello fu divelto, ma intanto la scala oscillò e si piegò all'indietro. Un grido: "Gesù!". Una risposta: "Lorenzo!".

E mentre il bimbo stava perdendo l'equilibrio, stava cadendo indietro, le mani libere di Gesù lo afferrarono e lo portarono in posizione sicura. Lorenzo, ignaro del pericolo corso, esultava di gioia: Gesù finalmente aveva parlato!

Le zie intanto cercavano il bambino e lo trovarono sulla scala sorridente. "Lorenzo che hai fatto?".
"Non ha più i chiodi! E Gesù mi ha risposto!".

Zia Ilva sale subito sulla scala e va a prendere il bambino, lo riconduce a terra illeso, fra la grande gioia di tutte le zie dal cuore materno che per lui hanno trepidato e stentano a capire che cosa è successo.

In realtà nessuno mai capì bene la cosa, solo Lorenzo sapeva che Gesù non aveva più i chiodi perché lui glieli aveva tolti e poi era felice perché Gesù gli aveva parlato come ad un vero amico.

Quando Lorenzo crebbe e diventò un uomo, non si sa cosa fece nella vita: forse divenne papà ed ebbe dei figli; forse partì missionario ed andò a fare del bene ad altri bambini. Comunque siano andate le cose, Lorenzo ebbe sempre tanto amore per Gesù ed insegnò ai bambini ad amarlo tanto. Così il mondo divenne più buono.

Gesùcrocifissocrocerapporto con Diosemplicità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Una Catechista, inserito il 25/03/2007

RACCONTO

39. Il miracolo di Natale   1

Suor Angela Benedetta, clarissa

Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.

Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.

Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.

Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.

Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.

Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.

"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".

Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.

Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.

Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.

Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".

Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".

Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.

Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.

Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".

Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.

Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.

nataleamicizia

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inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006

RACCONTO

40. I tre alberi   1

Sulla vetta di una montagna, coperta di pascoli e pinete profumate di resina, spuntarono un giorno tre piccoli alberi. Nei primi tempi erano così teneri e verdi che si confondevano con l'erba e i fiori che prosperavano intorno a loro.
Ma, primavera dopo primavera, il loro piccolo tronco si irrobustì. Le sfide autunnali e invernali per fronteggiare i venti e le bufere li riempivano di gioia baldanzosa.
Dall'alto della loro casa verde guardavano il mondo e sognavano.
Come tutti coloro che stanno crescendo, sognavano quello che avrebbero voluto diventare da grandi.

Il primo albero guardava le stelle che brillavano come diamanti trapuntati sul vestito di velluto nero della notte.
"Io sopra ogni cosa vorrei essere bello. Vorrei custodire un tesoro" disse. "Vorrei essere coperto d'oro e contenere pietre preziose. Diventerò il più bello scrigno per tesori del mondo".
Il secondo alberello guardava il torrente che scendeva serpeggiando dalla montagna, aprendosi il cammino verso il mare. L'acqua correva e correva, gorgogliando e scherzando con i sassi, un momento era lì e poco dopo già era scomparsa all'orizzonte. E niente riusciva a fermarla. "Io voglio essere forte. Sarò un grande veliero" disse. "Voglio navigare sugli oceani sconfinati e trasportare capitani e re potenti. Io sarò il galeone più forte del mondo".
Il terzo alberello contemplava la valle che si stendeva ai piedi della montagna e guardava la città che si indovinava nella foschia azzurrina.
Laggiù formicolavano uomini e donne. "Io non voglio lasciare questa montagna" disse. "Voglio crescere tanto che quando la gente si fermerà per guardarmi, dovrà alzare gli occhi al cielo e pensare a Dio. Io diventerò il più grande albero del mondo!".

Gli anni passarono. Caddero le piogge, brillò il sole, e i piccoli alberelli divennero tre alberi alti e imponenti.
Un giorno, tre boscaioli salirono sulla montagna, con le loro scuri a tracolla.
Uno dei boscaioli squadrò ben bene il primo albero e disse: "E' un bell'albero. E' perfetto".
Dopo pochi minuti, stroncato da precisi colpi d'ascia, il primo albero piombò al suolo.
"Ora sto per trasformarmi in un magnifico forziere" pensò l'albero. "Mi affideranno in custodia un tesoro favoloso".
Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "Questo albero è vigoroso e solido. E' proprio quello che ci vuole". Sollevò la scure, che lampeggiò al sole, e abbatté l'albero.
"D'ora in poi, navigherò sui mari infiniti e i vasti oceani" pensò il secondo albero. "Sarò una nave importante, degna dei re".
Il terzo albero si sentì mancare il cuore, quando il boscaiolo lo fissò.
"Per me va bene qualunque albero" pensò il boscaiolo. L'ascia balenò nell'aria e, poco dopo, anche il terzo albero giaceva sul terreno.
I loro bei rami, che fino a poco prima avevano scherzato con il vento e protetto uccelli e scoiattoli, furono stroncati uno a uno.
I tre tronchi furono fatti rotolare lungo il fianco della montagna, fino alla pianura.

Il primo albero esultò quando il boscaiolo lo portò da un falegname. Ma il falegname aveva ben altri pensieri che mettersi a fabbricare forzieri. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per animali. L'albero che era stato un tempo bellissimo non fu ricoperto di lamine d'oro né riempito di tesori. Era coperto di rosicchiature e riempito di fieno per nutrire gli animali affamati della fattoria.
Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò al cantiere navale, ma quel giorno nessuno pensava a costruire un veliero. Con grandi colpi di martello e di sega, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pescatori.
Troppo piccola, troppo fragile per navigare su un oceano o anche solo su un fiume, la barca fu portata in un laghetto. Tutti i giorni, trasportava carichi di pesce, che la impregnavano di odore sgradevole.
Il terzo albero divenne tristissimo quando il boscaiolo lo squadrò per farne rozze travi che accatastò nel cortile della sua casa.
"Perché mi succede questo?" si domandava l'albero, ricordando il tempo in cui lottava con il vento sulla cima della montagna.
"Tutto quello che volevo era svettare sul monte per invitare la gente a pensare a Dio".
Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi quasi dimenticarono i loro sogni.

Ma una notte, la luce dorata di una stella accarezzò con i suoi raggi il primo albero, proprio nel momento in cui una giovane donna con infinita tenerezza sistemava nella mangiatoia il suo bambino appena nato.
"Avrei preferito costruirgli una culla" mormorò suo marito. La giovane mamma gli sorrise, mentre la luce della stella scintillava sulle assi lucide e consunte che un tempo erano state il primo albero.
"Questa mangiatoia è magnifica" rispose la mamma.
In quel momento, il primo albero capì di contenere il tesoro più prezioso del mondo.
Altri giorni e altre notti passarono. Una notte, un viaggiatore stanco e i suoi amici si imbarcarono sul vecchio battello da pesca, che un tempo era stato il secondo albero.
Mentre il secondo albero, diventato barca, scivolava tranquillamente sull'acqua del lago, il viaggiatore si addormentò.
All'improvviso, dopo lo schianto di un tuono, in una ridda di fulmini e violente ondate, scoppiò la tempesta.
Il piccolo albero tremò. Sapeva di non avere la forza di trasportare in salvo tante persone con quel vento e con la violenza di quelle onde. Le sue fiancate scricchiolavano penosamente per lo sforzo.
Preoccupati, gli amici svegliarono il misterioso viaggiatore. L'uomo si alzò, spalancò le braccia, sgridò il vento e disse all'acqua del lago: "Fa' silenzio! Calmati!". La tempesta si quietò immediatamente e si fece una grande calma.
In quel momento, il secondo albero capì che stava trasportando, come desiderava, un re, anzi, il re dei cieli, della Terra e degli infiniti oceani.
Poco tempo dopo, un Venerdì mattino, il terzo albero fu molto sorpreso quando le sue rozze travi furono tolte di malagrazia dalla catasta di legname dimenticato.
Furono trasportate nel mezzo di una folla vociante e irosa, sbattute sulle spalle torturate di un uomo, che poi su di esse fu inchiodato. Il povero albero si sentì orribile e crudele. E piangeva, reggendo quel povero corpo tormentato... lui che voleva che la gente grazie a lui vedesse Dio!

Ma la Domenica mattina, quando il sole si levò alto nel cielo e tutta la Terra vibrò di una gioia immensa, il terzo albero seppe che non aveva trasportato un uomo qualunque, ma aveva trasportato Dio!
In quel mattino seppe e capì che l'amore di Dio aveva trasformato tutto.
Aveva fatto del primo albero il meraviglioso scrigno del più tenero e incredibile dei tesori. Aveva reso il secondo albero forte portatore del Creatore del cielo e della Terra.
E ogni volta che una persona avesse guardato il terzo albero avrebbe visto Dio! Ogni persona, anche noi, non solo i pochi della Valle...
E questo era più che essere solo il più bello, il più forte o il più grande albero del mondo...

Clicca qui per una versione simile.

Il racconto ci è stato inviato nel 2005 indicando come autore Paulo Coelho, nel tempo però abbiamo avuto segnalazioni che lo attribuiscono a Stefano Valeri:
http://www.club.it/autori/sostenitori/stefano.valeri/prefazione2.html
ed Elena Pasquali ne ha fatto una riscrizione definendolo un racconto popolare:
http://www.paolinestore.it/shop/la-leggenda-dei-tre-alberi.html

desideriprogetto di Diocroce

inviato da Fabio, inserito il 03/05/2006

RACCONTO

41. Arrivarono solo in tre   3

Bruno Ferrero, Novena di Natale per i bambini, LDC

Forse non tutti sanno che un tempo, quando non esistevano i computer, tutto il sapere del mondo era concentrato nella mente di sette persone sparse nel mondo: i famosi Sette Savi, i sette sapienti che conoscevano i come, i quando, i perché, i dove di ogni cosa che accadeva. Erano talmente importanti che erano considerati dalla gente dei re, anche se non lo erano; per questo erano chiamati Re Magi.

Nell'anno O, studiando le loro pergamene segrete, tutti e sette i Magi giunsero ad una strabiliante conclusione: proprio in una notte di quell'anno sarebbe apparsa una straordinaria stella che li avrebbe guidati alla culla dei Re dei re. Da quel momento passarono ogni notte a scrutare il cielo e a fare preparativi, finché davvero una notte nel cielo apparve una stella luminosissima; i Sette Savi partirono dai sette angoli del mondo dove si vivevano e si misero a seguire la stella che indicava loro la strada. Tutto quello che dovevano fare era non perderla mai di vista.

Ognuno dei sette Magi, tenendo gli occhi fissi sulla stella, che poteva vedere giorno e notte, cavalcava per raggiungere il Monte delle Vittorie, dove era stabilito che i sette savi dovevano incontrarsi per formare una sola carovana.

Olaf, re Mago della Terra dei Fiordi, attraversò le catene dei monti di ghiaccio e arrivò presto in una valle verde, dove gli alberi erano carichi di frutti squisiti e il clima dolce e riposante; il mago vi si trovò così bene che decise di costruirsi un castello. Così, ben presto, si scordò della stella.

Igor, re Mago del Paese dei Fiumi, era un giovane forte e coraggioso, abile con la spada e molto generoso. Attraversando il regno del re Rosso, un sovrano crudele e malvagio, decise di riportare la pace e la giustizia per quel popolo maltrattato; così divenne il difensore dei poveri e degli oppressi, perse di vista la stella e non la cercò più.

Yen Hui era il re Mago del Celeste Impero, era uno scienziato e un filosofo, appassionato di scacchi. Un giorno arrivò in una splendida città dove uno studioso teneva una conferenza sulle origini delll'universo; Yen Hui non riuscì a resistere, lo sfidò ad un dibattito pubblico, si confrontarono su tutti i campi del sapere e per ultimo iniziarono una memorabile partita a scacchi che durò una settimana. Quando si ricordò della stella era troppo tardi: non riuscì più a trovarla.

Lionel era un re Mago poeta e musicista, che veniva dalle terre dell'Ovest e viaggiava solo con strumenti musicali. Una sera fu ospitato per la notte da un ricco signore di un pacifico villaggio. Durante il banchetto in suo onore, la figlia del signore danzò e cantò per gli invitati e Lionel se ne innamorò perdutamente; così finì per pensare solo a lei e nel suo cielo la stella miracolosa scomparve piano piano.

Solo Melchior, re dei Persiani, Balthasar, re degli Arabi e Gaspar, re degli Indi, abituati alla fatica e ai sacrifici, non diedero mai riposo ai loro occhi, per non rischiare di perdere di vista la stella che segnava il cammino, certi che essa li avrebbe guidati alla culla del Bambino, venuto sulla terra a portare pace e amore. Così ognuno di loro arrivò puntuale all'appuntamento al Monte delle Vittorie, si unì ai compagni e insieme ripresero la loro marcia verso Betlemme, guidati dalla stella cometa, più luminosa che mai.

Soltanto i Magi che hanno davvero vigilato non hanno perso l'appuntamento più importante della loro vita. Ogni cristiano, come una sentinella, deve stare all'erta e non lasciarsi prendere dalla pigrizia o dal torpore, perché il Signore ci aspetta alla sua culla.

perseveranzapazienzavigilanzaNatalere magiepifania

inviato da Silvia Ongaro, inserito il 03/05/2006

RACCONTO

42. Giuseppe e il pastore

Quella notte d'inverno, fredda e rigida, Giuseppe cercava disperatamente qualcosa che potesse riscaldare sua moglie e il figlio appena nato. Era andato di casa in casa, aveva bussato a tutte le porte, ma nessuno gli aveva dato un po' di carbone o una fascina di legna. Camminò fino ad essere esausto. Quando oramai credeva inutile ogni ricerca scorse in un campo un bagliore di fuoco. Corse verso di esso. Un gregge di pecore si riscaldava intorno alla fiamma mentre un vecchio pastore lo sorvegliava.

Quando il pastore, che era un vecchio scorbutico, vide avvicinarsi il forestiero afferrò il lungo bastone ferrato e glielo scagliò contro.

Giuseppe non fece una mossa per scansarlo, ma prima che lo raggiungesse il bastone deviò la traiettoria e cadde a terra innocuo. Giuseppe si avvicinò al pastore e disse gentilmente: «Ho bisogno di aiuto: per favore posso prendere alcuni carboni ardenti? Mia moglie ha appena messo al mondo un bambino e devo accendere un fuoco per riscaldarli». Il pastore avrebbe preferito rifiutare, ma vedendo che Giuseppe non aveva niente per trasportare le braci volle prendersi gioco di lui: "Prendine quanti ne vuoi," disse. Giuseppe, senza scomporsi, raccolse le braci a mani nude e le mise nel suo mantello come se fossero nocciole o mele. Il pastore disse meravigliato: «Che notte è mai questa?». Pieno di curiosità seguì Giuseppe e giunse così alla stalla dove c'erano Maria e il bambino adagiato sulla fredda paglia. Il suo cuore si intenerì. Per la prima volta provò il grande desiderio di offrire qualche cosa. Tirò fuori dallo zaino una morbida pelle di pecora e la offrì a Giuseppe perché vi avvolgesse il bambino. In quel momento i suoi occhi si aprirono e vide gli angeli e la gloria di Dio che circondava la mangiatoia dove il bambino sorrideva contento. Il pastore si inginocchiò tutto felice perché aveva capito che in quella notte il suo cuore si era aperto all'amore.

NataleamorecuoreGiuseppe

inviato da Anna Lianza, inserito il 13/07/2005

RACCONTO

43. Il fiore più bello

In un paesino di montagna c'è un'usanza molto bella. Ogni primavera si svolge una gara tra tutti gli abitanti. Ciascuno cerca di trovare il primo fiore della primavera. Chi trova il primo fiore sarà il vincitore e avrà fortuna per tutto l'anno. A questa gara partecipano tutti, giovani e vecchi. Quest'anno, quando la neve iniziava a sciogliersi e larghi squarci di terra umida rimanevano liberi, tutti gli abitanti di quel paesino partirono alla ricerca del primo fiore. Per ore e ore iniziarono a cercare alle pendici del monte, ma non trovarono alcun fiore.

Stavano già ritornando verso casa quando il grido di un bambino attirò l'attenzione di tutti. "È qui! L'ho trovato". Tutti accorsero per vedere. Quel bambino aveva trovato il primo fiore, sbocciato in mezzo alle rocce, qualche metro sotto il ciglio di un terribile dirupo. Il bambino indicava col braccio teso giù in basso, ma non poteva raggiungerlo perché aveva paura di precipitare nel terribile burrone. Il bambino però desiderava quel fiore anche perché voleva vincere la gara.

Cinque uomini forti portarono una corda. Intendevano legare il bambino e calarlo fino al fiore. Il bambino però aveva paura. Aveva paura che la corda si rompesse e di cadere nel burrone. "No, no - diceva piangendo - ho paura!". Gli fecero vedere una corda più forte e quindici uomini che l'avrebbero tenuto. Tutti lo incoraggiavano. Ad un tratto il bambino cessò di piangere. Tutti fecero silenzio per sentire che cosa avrebbe fatto il bambino. "Va bene - disse il bambino - andrò giù se mio padre terrà la corda!".

Dio Padreaffidamento in Dioabbandono in Dio

inviato da Don Gianni Castignoli, inserito il 23/04/2005

RACCONTO

44. E Dio creò la mamma   4

Bruno Ferrero, 40 Storie nel deserto

Il buon Dio aveva deciso di creare... la mamma. Ci si arrabattava intorno già da sei giorni, quand'ecco comparire un angelo che gli fa: "Questa qui te ne fa perdere di tempo, eh?". E Lui: "Sì, ma hai letto i requisiti dell'ordinazione? Dev'essere completamente lavabile, ma non di plastica... avere 180 parti mobili tutte sostituibili... funzionare a caffè e avanzi del giorno prima... avere un bacio capace di guarire tutto, da una sbucciatura ad una delusione d'amore... e sei paia di mani". L'angelo scosse la testa e ribatté incredulo: "Sei paia?!". "Il difficile non sono le mani - disse il buon Dio - ma le tre paia di occhi che una mamma deve avere". "Così tanti?". Dio annuì. "Un paio per vedere attraverso le porte chiuse quando domanda "che state combinando lì dentro, bambini?", anche se lo sa già; un altro paio dietro la testa, per vedere quello che non dovrebbe vedere, ma che deve sapere; un altro paio ancora per dire tacitamente al figlio che si è messo in un guaio "capisco e ti voglio bene lo stesso".

"Signore - fece l'angelo sfiorandogli gentilmente un braccio - va' a dormire. Domani è un altro...". "Non posso - ripose il Signore - ho quasi finito ormai. Ne ho già una che guarisce da sola se è malata, che può lavorare 18 ore di seguito, preparare un pranzo per sei con mezzo chilo di carne tritata e che riesce a tenere sotto la doccia un bambino di nove anni". L'angelo girò lentamente intorno al modello di madre, esaminandolo con curiosità: "E' troppo tenera", disse poi con un sospiro. "Ma resistente - ribatté il Signore con foga - tu non hai idea di quello che può sopportare una mamma!". "Sa pensare?". "Non solo, ma sa anche fare un ottimo uso della ragione e venire a compromessi", ribatté il Creatore. A quel punto l'angelo si chinò sul modello della madre e le passò un dito su una guancia: "Qui c'è una perdita", dichiarò. "Non è una perdita - lo corresse il Signore - è una lacrima". "E a che serve?". "Esprime gioia, tristezza, delusione, dolore, solitudine, orgoglio". "Ma sei un genio!", esclamò l'angelo. Con sottile malinconia Dio aggiunse: "A dire il vero, non sono stato io a mettercela quella cosa lì...".

mammamadrematernità

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inviato da Silvia Ongaro, inserito il 21/04/2005

RACCONTO

45. Portami ciò che nella tua vita è imperfetto...   1

E' la notte di Natale. Tommaso sogna che sta andando insieme ai pastori e ai Re Magi verso la stalla quando si trova improvvisamente davanti a Gesù Bambino che giace nella mangiatoia. Tommaso si accorge di essere a mani vuote. Tutti hanno portato qualcosa: solo lui è senza doni!

Avvilito dice subito: "Prometto di darti la cosa più bella che ho. Ti regalo la mia nuova bicicletta, anzi il mio trenino elettrico".

Il bambino nel presepe scuote la testa e sorridendo dice: "Io non voglio il tuo trenino elettrico. Dammi il tuo tema in classe!".

"Il mio ultimo tema?" balbetta il ragazzino. "Ma ho preso un insufficiente!".

"Appunto, proprio per questo lo vorrei" dice Gesù. "Devi darmi sempre tutto quello che è insufficiente, imperfetto. Per questo sono venuto nel mondo. Ma vorrei un'altra cosa ancora da te: la tua tazza del latte".

A questo punto Tommaso si rattrista: "La mia tazza? Ma è rotta!".

"Proprio per questo la vorrei avere" dice Gesù Bambino. "Tu mi puoi portare tutto quello che si rompe nella tua vita. Perché io sono capace di risanarlo".

Il ragazzino sentì di nuovo la voce del Bambino Gesù: "Vorrei una terza cosa da te: vorrei la risposta che hai dato a tua mamma quando ti ha chiesto come mai si è rotta la tazza del latte".

Allora Tommaso inizia a piangere e confessa tra le lacrime: "Ma le ho detto una bugia, quella volta. Ho detto alla mamma che la tazza era caduta per caso, ma in realtà l'ho gettata a terra io, per rabbia".

"Per questo vorrei avere quella tua risposta" risponde sicuro Gesù Bambino. "Portami sempre tutto quello che nella tua vita è cattivo, bugiardo, dispettoso e malvagio. Sono venuto nel mondo per perdonarti, per prenderti la mano e insegnarti la via".

Gesù sorride di nuovo a Tommaso, mentre lui guarda, comprende e si meraviglia....

Quest'anno hai già pensato cosa "regalare" della tua vita al Signore Gesù?

natalemisericordia di Diorapporto con Dio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 14/01/2005

RACCONTO

46. I due lupi   1

Una sera un uomo anziano confidò al suo giovane nipote la storia di una battaglia che si combatteva all'interno del suo cuore: «Figlio mio, ciò che si combatte dentro di me è una battaglia fra due lupi. Il primo malvagio è pieno di invidia, collera, angoscia, rimorsi, avidità, arroganza, sensi di colpa, orgoglio, sentimenti d'inferiorità, menzogna, superiorità e egocentrismo. Il secondo buono è pieno di pace, amore, disponibilità, serenità, bontà, gentilezza, benevolenza, simpatia, generosità, compassione, verità e fede».
Il bambino un po' disorientato pensò per un minuto e chiese: «Chi è colui che vince?».
Il vecchio rispose semplicemente: «E' colui che nutro».

benemalecoscienzainterioritàlotta spirituale

4.0/5 (1 voto)

inviato da Don Floriano Donatini, inserito il 07/01/2005

RACCONTO

47. La bilancia   2

Racconto breve di Kociss Fava

Sognai che non ero più. Avendo concluso i miei giorni su questa terra, mi trovavo tra le soffici nubi del cielo. Appena gli occhi si furono abituati alla luce accecante e bianchissima, vidi una lunga fila di persone davanti a me. Me l'aspettavo: tutti in coda, anche in attesa del giudizio!

Man mano che avanzavo, cominciai a intravedere una figura barbuta. L'espressione era mite, eppure le rughe che solcavano l'ampia fronte, gli conferivano un aspetto autoritario. Appese alla candida tunica un mazzo di grosse chiavi dorate; in mano reggeva una bilancia. Allora era tutto vero!

Per ogni anima che gli si presentava davanti, vidi che annotava qualcosa su una pergamena. In breve fu quasi il mio turno. Deciso a non farmi cogliere impreparato, ripercorsi la mia vita, da cima a fondo ricordando tutte le colpe commesse, perfino le più insignificanti marachelle compiute da bambino. Toccò a me: timidamente mi avvicinai, mentre il giudice protendeva la bilancia nella mia direzione.

Stavo per cominciare il resoconto dei miei peccati, ma quale enorme sorpresa mi colse, quando lo sentii chiedere:
"Figliolo, quanto hai amato?".

giudiziovita eternaamoreparadiso

5.0/5 (1 voto)

inviato da Kociss Fava, inserito il 08/12/2004

RACCONTO

48. L'eco della vita   2

Padre e figlio stanno passeggiando nella foresta. A un certo punto, il bambino inciampa e cade.

Il forte dolore lo fa gridare: "Ahhhhh!".
Con sua massima sorpresa, ode una voce tornare dalla montagna: "Ahhhhh!".
Pieno di curiosità, grida: "Chi sei?" - ma l'unica risposta che riceve è: "Chi sei?".
Questo lo fa arrabbiare, così grida: "Sei solo un codardo!" - e la voce risponde: "Sei solo un codardo!".

Perplesso, guarda suo padre e gli chiede cosa stesse succedendo.
E il padre gli risponde: "Stà a vedere!", e poi urla: "Ti voglio bene!" - e la voce gli risponde: "Ti voglio bene!". Poi urla "Sei fantastico!" - e la voce risponde: "Sei fantastico!".
Il bambino era sorpreso, ma ancora non riusciva a capire cosa stesse succedendo.

Così suo padre gli spiegò: "La gente lo chiama eco, ma in verità si tratta della vita stessa. La vita ti ridà sempre ciò che tu le dai: è uno specchio delle tue proprie azioni. Vuoi amore? Dalle amore! Vuoi più gentilezza? Dalle più gentilezza. Vuoi comprensione e rispetto? Offrili tu stesso. Se desideri che la gente sia paziente e rispettosa nei tuoi confronti, sii tu per primo paziente e rispettoso. Ricorda, figlio mio: questa legge di natura si applica a ogni aspetto delle nostre vite".

Nel bene e nel male, si riceve sempre ciò che si dà: ciò che ci accade non sono buona o cattiva sorte, bensì lo specchio delle nostre azioni.

esempiovitaamorelegge della vitarisultatibontà

5.0/5 (1 voto)

inviato da Maria Teresa Zanfini, inserito il 29/07/2004

RACCONTO

49. La donna   2

Quando il Signore fece la donna era il suo sesto giorno di lavoro, facendo straordinari. Apparve un angelo e disse: «Perché usi tanto tempo nel fare questo?»

E il Signore rispose: «Hai visto il formulario delle specifiche che possiede? Deve essere completamente lavabile ma non di plastica, ha duecento parti mobili e tutte sostituibili, funziona a caffè e resti di pranzo, ha un grembo nel quale stanno due bambini allo stesso tempo, possiede un bacio che può curare qualsiasi cosa, da un ginocchio sbucciato ad un cuore rotto ed ha sei paia di mani».

L'angelo era sorpreso da tutti i requisiti che la donna possedeva. «Sei paia di mani! Non è possibile!»
«Il problema non sono le mani, sono i tre paia di occhi che le madri devono avere», rispose il Signore.
«Tutto questo nel modello standard?», chiese l'Angelo.

Il Signore assentì con il capo. «Sì, un paio d'occhi servono affinché possa vedere attraverso una porta chiusa chiedendo ai figli cosa stanno facendo, nonostante lo sappia. Un altro paio sono nella parte posteriore della testa per vedere cose che ha bisogno di conoscere nonostante nessuno pensi che sia necessario.Il terzo paio sono nella parte anteriore della testa. Questi servono quando vede i figli smarriti e guardandoli dice loro che li capisce e li ama comunque senza bisogno di dire una parola».

L'Angelo cercò di fermare il Signore: «Questo è un carico troppo grande per la donna!».
«Ascolta il resto delle specifiche!», protestò il Signore. «Si cura da sola quando è ammalata, può alimentare una famiglia con qualsiasi cosa e può far sì che un bambino di nove anni resti sotto la doccia».

L'Angelo si avvicinò e toccò la donna: «Però, l'hai fatta tanto morbida, Signore!».
«Lei è morbida e dolce» disse il Signore, «però allo stesso tempo l'ho fatta forte. Non hai alcuna idea di quanto possa essere resistente e di quanto possa sopportare».
«Potrà pensare?» chiese l'Angelo.
Il Signore rispose: «Non solo sarà capace di pensare ma anche di ragionare e di negoziare».

L'Angelo notò qualcosa, si stirò e toccò la guancia della donna.
«Oh! Sembra che questo modello abbia una perdita. Gliel'ho detto che stava cercando di metterci troppe cose!».
«Questa non è una perdita, obiettò il Signore, questa è una lacrima!».
«E a cosa servono le lacrime?» chiese l'Angelo.
Il Signore disse: «Le lacrime sono la forma nella quale esprime la sua allegria, il suo dolore, il disincanto, la solarità, il suo orgoglio».

L'Angelo era impressionato. «Sei un genio Signore! Hai davvero pensato a tutto, visto che le donne sono veramente meravigliose!».

E il Signore aggiunse: «Le donne hanno una forza che meraviglia gli uomini. Crescono i figli, sopportano le difficoltà, portano carichi pesanti, tacciono quando vorrebbero gridare. Cantano quando vorrebbero piangere. Piangono quando sono felici e ridono quando sono nervose. Litigano per ciò in cui credono. Si sollevano contro le ingiustizie. Non accettano un NO come risposta quando credono che esista una soluzione migliore. Se sono in ristrettezze comprano le scarpe nuove per i figli e non per se stesse. Accompagnano dal medico un amico spaventato. Amano incondizionatamente. Trionfano. Hanno il cuore rotto quando muore un amico. Soffrono quando perdono un membro della famiglia ma riescono ad essere forti quando non c'è più nulla da cui trarre energia. Sanno che un abbraccio ad un bacio possono aggiustare un cuore rotto. Le donne sono fatte di tutte le misure, le forme ed i colori. Amministrano, volano, camminano o ti mandano e-mail per dirti quanto ti amano. Le donne fanno più che trasmettere luce, portano allegria e speranza, compassione ed ideali. Le donne hanno infinite cose da dire e da dare. Sì, il cuore delle donne è meraviglioso».

donnamadrefiglifamiglia

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inviato da Giovanna Carosini, inserito il 29/07/2004

RACCONTO

50. Chi sono i santi?

Una maestra di una scuola materna aveva portato la sua classe a visitare una chiesa con le figure dei santi sulle vetrate luminose. A scuola il parroco damanda ai bambini: "Chi sono i santi?". Un bambino risponde: "Sono quelli che fanno passare la luce".

Stupenda definizione: i santi fanno passare la luce di Dio che continua ad illuminare la terra.

santità

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 28/07/2004

RACCONTO

51. Un papà per natale   1

Storie di Natale

«Mi raccomando, non stropicciateli subito!», Gabriella, la catechista, cominciò a distribuire i fogli e le buste ad ogni bambino. Fogli e buste avevano dei simpatici fregi dorati sull'angolo destro e un grazioso Bambin Gesù nella mangiatoia in quello sinistro. Fabio prese il suo foglio con un attimo di esitazione. Non aveva voglia di scrivere la lettera a Gesù Bambino, questa volta.
«Scrivete bene... e soprattutto, per una volta, siate sinceri! Quando avete finito piegate il foglio, infilatela nella busta e sigillate. Avete capito?», diceva Gabriella, che sparava le parole come una mitragliatrice. «Poi mettete le buste in questo cestino che porteremo insieme nel presepio grande della scuola. Avete capito?»
I bambini cominciarono a cinguettare.
«Io chiedo i pattini con le rotelle in linea», diceva Rosalba. «lo l'abbonamento all'antenna parabolica», annunciava Michael, che aveva il padre ingegnere.
«Io invece voglio la tuta della Juventus», proclamava Marco, lo sportivo del gruppo.
«E tu Fabio?», chiese Gabriella, arruffandogli affettuosamente i capelli.
«Adesso ci penso», rispose sottovoce il bambino.
Stringeva le labbra come se stesse per scoppiare a piangere. Si chinò sul foglio e con la sua grossa calligrafia infantile scrisse una frase. Una soltanto, breve, ma che gli veniva proprio dal cuore. Firmò: «Il tuo amico Fabio» e cominciò l'operazione di piegatura del foglio, con la solita diligenza, e la lingua che gli spuntava appena tra le labbra, a indicare tutto l'impegno che ci metteva.
Gabriella gli stava alle spalle e aveva potuto leggere la richiesta di Fabio. Tossì, perché le venivano le lacrime agli occhi. Lei intuiva la sofferenza che Fabio cercava di dissimulare, quel velo di malinconia che lo prendeva all'ora di andare a casa. Il papà di Fabio non c'era più. Se n'era andato. E il bambino ne soffriva tanto, come di una ferita che non si rimargina. La sua lettera a Gesù Bambino diceva così: «Caro Gesù Bambino, per Natale mandami un papà buono. Grazie. Il tuo amico Fabio».
«Credo sia la lettera più difficile che riceverai, caro Gesù», pensò Gabriella.
Le letterine furono raccolte, tra le proteste dei bambini che erano arrivati solo ad elencare una dozzina di richieste. Prima di collocarle nel presepio, con un gesto rapido, Gabriella mise la lettera di Fabio davanti a tutte le altre. «Comincia da questa, per favore», mormorò rivolta al Bambino di gesso, che se ne stava con le braccine spalancate sulla paglia finta della mangiatoia di plastica.

Venne il giorno di Natale. Fabio si svegliò presto, con l'eccitazione delle grandi giornate. Girandosi nel letto sentiva il fruscio della carta dei regali vicino ai piedi. Se ne stette un bel po' ad occhi chiusi, per godersi l'attesa della sorpresa. Era pur sempre Natale!
Aprì i pacchetti avvolti in carta colorata e dorata, lentamente. Riconobbe i regali dei nonni, quelli della mamma, la tuta da sci che di certo era un regalo dello zio Luigi. «Poi, ci sono anch'io!».
La voce, pacata e profonda, lo fece trasalire. C'era un uomo accanto al suo letto. Aveva i capelli scuri e ricciuti, una folta barba nera sul volto abbronzato, e un sorriso dolce come lo sguardo. Indossava una morbida felpa azzurra e pantaloni di fustagno. Fabio era soprattutto meravigliato dal fatto di non provare paura. Non era proprio un fifone, ma pauroso sì. E trovarsi uno sconosciuto improvvisamente accanto al letto, in condizioni normali, gli avrebbe provocato per lo meno una serie di urla terrificanti. Invece quell'uomo gli dava soltanto una serena sicurezza. Come se lo conoscesse da sempre.
In quel momento entrò la mamma: «Tanti auguri, tesoro!». Lo abbracciò. «Ti piacciono i regali?». Fabio ricambiò l'abbraccio. «Sì, grazie», mormorò.
«È presto ancora. Ti preparerò una buona colazione. Ma ora stai qui al caldo a pigrottare un po'». La mamma gli accarezzò i capelli e uscì.
«Ma... ma... non l'ha visto!», disse Fabio rivolto all'uomo misterioso.
«No. Io sono il tuo regalo, non il suo», sorrise l'uomo.

Cominciò così una giornata memorabile della vita di Fabio. Si alzò e si lavò a tempo di record. Nell'attesa, l'uomo aveva preso i quaderni di Fabio e li esaminava con interesse.
«Bravo!», disse alla fine. «Hai fatto dei bei progressi, ultimamente» .
Fabio annuì con fierezza. «Ho ancora qualche problema con le doppie...», aggiunse virtuosamente. «Ma ce la farai, ne sono certo», aggiunse l'uomo e gli mise una mano sulla spalla. Una sensazione bellissima per Fabio.
«Tu hai dei figli?», chiese, esitando ancora. «Ho un figlio, sì», rispose l'uomo. «Ma oggi, sei tu mio figlio». La mamma spuntò improvvisamente sulla porta. «Cosa fai? Parli da solo?».
«No... Dicevo una poesia ad alta voce». «Per favore, vai in cantina a prendere un barattolo di marmellata... Se vuoi la crostata a mezzogiorno!», continuò la mamma. Scendere in cantina per Fabio era una tortura. Tutte quelle ombre polverose lo riempivano di angoscia. Di solito faceva mille storie o fingeva di dimenticarsi.
Come se avesse capito tutto, l'uomo si alzò e disse: «Andiamo!», e lo prese per mano. Era una manona energica, tiepida, protettiva, che infondeva una tranquilla sicurezza.
Il cigolio della porta della cantina, che quando scendeva da solo gli ricordava lo stridio dei denti di un mostro nascosto nell'ombra, adesso gli sembrò comico. «Ci vorrebbe un po' d'olio sui cardini», disse.
La pacata presenza dell'uomo accanto a lui, trasformò la cantina, da antro polveroso disseminato di oscure insidie e misteriose presenze, in una stanza qualunque, zeppa di mobili vecchi, giochi rotti, qualche bottiglia e barattoli di pomodori pelati.
Prese un barattolo di marmellata e si girò per uscire. Ma l'uomo lo fermò.
«Perché non fai un giro con quella?», disse indicando una bicicletta nuova appoggiata al muro. Fabio arrossì. «Non ci so andare... Nessuno ha tempo per insegnarmi».
«Magnifico, infilati una giacca a vento e andiamo. Il viale è deserto».
Incredulo, il bambino portò la bicicletta sulla strada. L'uomo lo aiutò a salire in sella e gli disse di incominciare a pedalare. Fabio incominciò traballando, ma l'uomo reggeva saldamente la bicicletta e gli camminava accanto. Provarono e riprovarono. A tratti, l'uomo lasciava la presa e il bambino pedalava da solo, finché riuscì a trovare il punto di equilibrio e partì in una lunga felice pedalata. Aveva imparato.
«Grazie!», ansimò all'uomo che lo accolse fingendo di applaudire.
«Rientriamo, ora. Sei sudato e fa freddo». «Solo più un giro», supplicò il bambino. «D'accordo. Ma uno solo!».

Rientrò in casa gridando: «Ho imparato, mamma, ho imparato ad andare in bicicletta!».
«Da solo?», chiese la mamma.
«Beh... veramente...». L'uomo si portò l'indice sulle labbra e fece segno al bambino di tacere.
«Stai tranquillo un attimo che devo preparare il pranzo», continuò la mamma. «Fra un po' arrivano i nonni».
L'uomo aiutò il bambino a riporre la bicicletta e l'accompagnò nella sua cameretta. «Come farai per il pranzo?»
«Ti aspetterò qui. Ne approfitterò per rimettere in sesto il tuo armadio».
Infatti, quando tornò nella sua cameretta, Fabio vide che le ante dell'armadio chiudevano perfettamente e che i piani erano ben diritti. Sembrava un armadio nuovo.
«Ci sai fare», disse.
«È il mio mestiere», bisbigliò l'uomo, poi aggiunse: «Potresti insegnarmi questo gioco, intanto».
Giocarono una serie memorabile di partite a Scarabeo. Poi fecero una lunga passeggiata insieme (Fabio disse alla mamma che andava all'oratorio). A cena gli occhi del bambino brillavano di stanchezza e di felicità. La mamma lo fissava con qualche perplessità: non riusciva a capire perché il bambino continuasse a rivolgere lo sguardo verso il lato vuoto della tavola. Una volta lo sorprese addirittura a sorridere.
Fabio andò a letto prima del solito. Si infilò sotto le coperte e l'uomo gli sistemò la trapunta a scacchi bianchi e neri e si sedette sul letto accanto a lui.
«Diciamo le preghiere insieme, prima che arrivi la mamma?»
«Certo», disse l'uomo e sorrise.
Dopo le preghiere, l'uomo strinse la mano del bambino.
«Devi andartene, vero?», sussurrò Fabio.
«Eh sì!».

«Una giornata passa in fretta», ammise malinconicamente il bambino.
«Sei un bravo ragazzo e tutti ti vogliono bene. Devi voler bene alla mamma e anche al tuo papà. Dovunque sia, rimane il tuo papà».
«Io quando sarò grande e avrò dei bambini li amerò sempre e starò sempre con loro», promise Fabio. «Sì. È così che devi fare. E io, in qualche modo, ti sarò accanto e ti aiuterò».
«Non mi hai neanche detto come ti chiami». «Giuseppe».
L'uomo lo accarezzò. Le sue grosse mani da operaio sprigionavano un'infinita tenerezza.
«Sei stato il più bel regalo di Natale», bisbigliò Fabio prima di addormentarsi.

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inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004

RACCONTO

52. Perché suonano le campane

C'era una volta, in una grande città, una chiesa davvero splendida. Dall'ingresso principale si riusciva a malapena a scorgere l'altare di pietra che si trovava all'altro capo. Di fianco alla chiesa si levava un campanile, simile a una torre, così alto nel cielo che la punta si distingueva soltanto quando il tempo era molto limpido.
Lassù nella torre vi erano delle campane che si diceva fossero le più belle e le più sonore del mondo, ma nessun essere vivente le aveva mai sentite!
Erano le campane speciali di Natale: potevano far udire i loro rintocchi solo la notte di Natale e, per di più, soltanto quando fosse stato deposto sull'altare il più grande e il più bel dono al Bambino Gesù. Purtroppo, da molti anni non si era avuta un' offerta così splendida da meritare il suono delle grandi campane.
Tuttavia, ogni vigilia di Natale, la gente si affollava davanti all'altare portando doni, cercando di superarsi gli uni con gli altri, gareggiando nell'escogitare offerte sempre più straordinarie. Nonostante la chiesa fosse affollata e la funzione splendida, lassù nella torre di pietra si udiva soltanto fischiare il vento.

In un villaggio abbastanza lontano dalla città viveva un ragazzo di nome Pedro, insieme al suo fratellino. Essi avevano sentito parlare delle famose offerte della vigilia di Natale, e per tutto l'anno avevano fatto progetti per assistere alla grande e sfarzosa cerimonia, e per la Messa di mezzanotte.
Il mattino precedente il giorno di Natale, all'alba, mentre cadevano i primi fiocchi di neve, Pedro e il fratellino si misero in cammino. Al calar della notte, avevano già quasi raggiunto la porta della città quando, per terra davanti a loro, scorsero una povera donna che era caduta nella neve, troppo stanca e malata per cercare rifugio da qualche parte. Pedro si inginocchiò cercando di alzarla, ma non vi riuscì.
«Non ce la faccio, fratellino» disse Pedro. «È troppo pesante. Devi proseguire da solo».
«lo? Da solo?» esclamò il fratellino. «Ma allora tu non ci sarai alla funzione di Natale».
«Non posso fare altrimenti» disse Pedro. «Guarda questa povera donna. Il suo viso è simile a quello della Madonna nella finestra della cappella. Morirà di freddo se l'abbandoniamo. Sono andati tutti in chiesa, ma io starò qui e mi prenderò cura di lei fino alla fine della Messa. Allora tu potrai condurre qui qualcuno che l'aiuti. Ah, fratellino, prendi questa monetina d'argento e deponila sull'altare: è la mia offerta per il Bambino Gesù. Su, ora, corri!».
E mentre il bambino si avviava verso la chiesa, Pedro sbatté gli occhi per trattenere le lacrime di delusione che gli rigavano le guance. Poi passò un braccio dietro al capo della povera donna che si lamentava debolmente e cercò di sorriderle.
«Coraggio, signora», le disse, «tra poco arriverà qualcuno».

Nella grande chiesa, la funzione di quella vigilia di Natale fu più splendida che mai! L'organo suonò e i fedeli cantarono e, alla fine della funzione, poveri e ricchi avanzarono orgogliosamente verso l'altare per offrire i loro doni. A poco a poco, sull'altare, si accumularono oggetti splendidi d'oro, d'argento e d'avorio intarsiato; dolci elaborati nei modi più impensati; stoffe dipinte e broccati.
Ultimo, in un gran fruscio di seta e tintinnar di spade, il re del paese percorse la navata. Portava in mano la corona regale, tempestata di pietre preziose che mandavano barbagli di luce tutt'intorno.
Un fremito di eccitazione scosse la folla.
«Senza dubbio questa volta si sentiranno suonare le campane a festa!» mormoravano tutti.
Il re depose sull'altare la splendida corona. La chiesa piombò in un silenzio profondo. Tutti trattennero il respiro, con le orecchie tese per ascoltare il suono delle campane.
Ma soltanto il solito freddo vento sibilò sul campanile.
I fedeli scossero la testa increduli. Qualcuno cominciò a dubitare che quelle strane campane avessero mai potuto suonare. «Forse si sono bloccate per sempre!» sosteneva qualche altro.

La processione era terminata e il coro stava per iniziare l'inno di chiusura, quando all'improvviso l'organista smise di suonare paralizzato. Perché d'un tratto dalla cima della torre si era levato il dolce suono delle campane. Un suono ora alto ora basso, che fluttuava nell'aria riempiendola di festosa sonorità.
Era il suono più angelico e piacevole che mai si fosse udito.
La folla restò un attimo eccitata e silenziosa. Poi, tutti insieme, si alzarono volgendo gli occhi all'altare per vedere quale meraviglioso dono aveva finalmente risvegliato le campane dal loro lungo silenzio. Ma non videro altro che la figura di Fratellino che silenziosamente era scivolato lungo la navata per deporre sull'altare la monetina d'argento di Pedro.

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inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004

RACCONTO

53. Ho fatto colazione con Dio   3

Traduzione dallo spagnolo di un racconto di Te-La Gitana

Un bambino voleva conoscere Dio. Sapeva che era un lungo viaggio arrivare dove abita Dio, ed è per questo che un giorno mise dentro al suo cestino dei dolci, marmellata e bibite e cominciò la sua ricerca.

Dopo aver camminato per trecento metri circa, vide una donna anziana seduta su una panchina nel parco. Era sola e stava osservando alcune colombe. Il bambino gli si sedette vicino ed aprì il suo cestino. Stava per bere la sua bibita quando gli sembrò che la vecchietta avesse fame, ed allora le offrì uno dei suoi dolci.

La vecchietta riconoscente accettò e sorrise al bambino. Il suo sorriso era molto bello, tanto bello che il bambino gli offrì un altro dolce per vedere di nuovo questo suo sorriso.

Il bambino era incantato! Si fermò molto tempo mangiando e sorridendo, senza che nessuno dei due dicesse una sola parola. Al tramonto il bambino, stanco, si alzò per andarsene, però prima si volse indietro, corse verso la vecchietta e la abbracciò. Ella, dopo averlo abbracciato, gli dette il più bel sorriso della sua vita.

Quando il bambino arrivò a casa sua ed aprì la porta, la sua mamma fu sorpresa nel vedere la sua faccia piena di felicità, e gli chiese: "Figlio, cosa hai fatto che sei tanto felice?". Il bambino rispose: "Oggi ho fatto colazione con Dio!".

E prima che sua mamma gli dicesse qualche cosa aggiunse: "E sai cosa, ha il sorriso più bello che ho mai visto!".

Anche la vecchietta arrivò a casa raggiante di felicità. Suo figlio restò sorpreso per l'espressione di pace stampata sul suo volto e le domandò: "Mamma, cosa hai fatto oggi che ti ha reso tanto felice?". La vecchietta rispose: "Oggi ho fatto colazione con Dio, nel parco!". E prima che suo figlio rispondesse, aggiunse: "E sai? E' più giovane di quel che pensavo!".

rapporto con Diovedere Dioricerca di Dio

inviato da Cecilia Leone, inserito il 16/12/2003

RACCONTO

54. I palloncini neri   1

Anthony De Mello

Un bambino dalla pelle scura stava a guardare il venditore di palloncini alla fiera del villaggio. L'uomo era evidentemente un ottimo venditore, poiché lasciò andare un palloncino rosso, che sali alto nel cielo, attirando così una folla di aspiranti piccoli clienti. Slegò poi un palloncino blu, e subito dopo uno giallo e un altro bianco, che volarono sempre più in alto finché scomparvero. Il negretto continuava a fissare il palloncino nero e finalmente domandò: «Signore, se tu mandassi in aria quello nero, volerebbe in alto come gli altri?».
Il venditore rivolse al bimbo un sorriso affettuoso, poi strappò il filo che teneva legato il palloncino e, mentre saliva in alto, spiegò: «Non è il colore che conta. È quello che c'è dentro che lo fa salire».

Clicca qui per un'illustrazione della storia.

diversitàesterioritàinterioritàrazzismo

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inviato da Maria Teresa Zanfini, inserito il 12/08/2003

RACCONTO

55. Quanto costa quel gelato?

Qualche tempo fa quando un gelato costava molto meno di oggi, un bambino di dieci anni entrò in un bar e si sedette al tavolino.
Una cameriera gli portò un bicchiere d'acqua.
"Quanto costa un Sundae?" chiese il bambino.
"Cinquanta centesimi" rispose la cameriera. Il bambino prese delle monete dalla tasca e cominciò a contarle.
"Bene, quanto costa un gelato semplice?" In quel momento c'erano altre persone che aspettavano e la ragazza cominciava un po' a perdere la pazienza.
"35 centesimi!" gli rispose la ragazza in maniera brusca.
Il bambino contò le monete ancora una volta e disse: "Allora mi porti un gelato semplice!".
La cameriera gli portò il gelato e il conto. Il bambino finì il suo gelato, pagò il conto alla cassa e uscì.
Quando la cameriera tornò al tavolo per pulirlo cominciò a piangere perché lì, ad un angolo del piatto, c'erano 15 centesimi di mancia per lei.

gratuitàgenerosità

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inviato da Luciano Cantini, inserito il 30/04/2003

RACCONTO

56. Il significato della vita   5

Bruno Ferrero, Solo il vento lo sa

Un professore concluse la sua lezione con le parole di rito: "Ci sono domande?".
Uno studente gli chiese: "Professore, qual è il significato della vita?".
Qualcuno, tra i presenti che si apprestavano a uscire, rise. Il professore guardò a lungo lo studente, chiedendo con lo sguardo se era una domanda seria. Comprese che lo era. "Le risponderò" gli disse. Estrasse il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, ne tirò fuori uno specchietto rotondo, non più grande di una moneta. Poi disse: "Ero bambino durante la guerra. Un giorno, sulla strada, vidi uno specchio andato in frantumi. Ne conservai il frammento più grande. Eccolo. Cominciai a giocarci e mi lasciai incantare dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai: buche profonde, crepacci, ripostigli. Conservai il piccolo specchio. Diventando uomo finii per capire che non era soltanto il gioco di un bambino, ma la metafora di quello che avrei potuto fare nella vita. Anch'io sono il frammento di uno specchio che non conosco nella sua interezza. Con quello che ho, però, posso mandare la luce, la verità, la comprensione, la conoscenza, la bontà, la tenerezza nei bui recessi del cuore degli uomini e cambiare qualcosa in qualcuno. Forse altre persone vedranno e faranno altrettanto. In questo per me sta il significato della vita".

senso della vitatestimonianzamissioneimpegnoresponsabilitàesempio

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inviato da Claudio Galeazzi, inserito il 01/04/2003

RACCONTO

57. L'incidente   3

Bruno Ferrero, A volte basta un raggio di sole

Una giovane donna tornava a casa dal lavoro in automobile. Guidava con molta attenzione perché l'auto che stava usando era nuova fiammante, ritirata il giorno prima dal concessionario e comprata con i risparmi soprattutto del marito che aveva fatto parecchie rinunce per poter acquistare quel modello.

Ad un incrocio particolarmente affollato, la donna ebbe un attimo di indecisione e con il parafango andò ad urtare il paraurti di un'altra macchina.

La giovane donna scoppiò in lacrime. Come avrebbe potuto spiegare il danno al marito? Il conducente dell'altra auto fu comprensivo, ma spiegò che dovevano scambiarsi il numero della patente e i dati del libretto.

La donna cercò i documenti in una grande busta di plastica marrone. Cadde fuori un pezzo di carta.

In una decisa calligrafia maschile vi erano queste parole: "In caso di incidente..., ricorda, tesoro, io amo te, non la macchina!"

Lo dovremmo ricordare tutti, sempre. Le persone contano, non le cose. Quanto facciamo per le cose, le macchine, le case, l'organizzazione, l'efficienza materiale! Se dedicassimo lo stesso tempo e la stessa attenzione alle persone, il mondo sarebbe diverso. Dovremmo ritrovare il tempo per ascoltare, guardarsi negli occhi, piangere insieme, incaraggiarsi, ridere, passeggiare...

Ed è solo questo che porteremo con noi davanti a Dio. Noi e la nostra capacità d'amare. Non le cose, neanche i vestiti, neanche questo corpo...

Un papà e il suo bambino camminavano sotto i portici di una via cittadina su cui si affacciavano negozi e grandi magazzini. Il papà portava una borsa di plastica piena di pacchetti e sbuffò, rivolto al bambino. "Ti ho preso la tuta rossa, ti ho preso il robot trasformabile ti ho preso la bustina dei calciatori... Che cosa devo ancora prenderti?".
"Prendimi la mano" rispose il bambino.

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inviato da Patrizia Traverso, inserito il 01/04/2003

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58. L'armaDio del pane   1

C'era una volta... al catechismo

Com'era sua abitudine, Dio stava passeggiando sulla terra. E come sempre, erano pochi quelli che lo riconoscevano. Quel giorno passò davanti a una capanna dove un bambino stava piangendo. Si fermò e bussò alle porta. Uscì una donna con la faccia sofferente e disse:
- Cosa desidera, signore?
- Vengo ad aiutarti - rispose Dio.
- Aiutarmi? È molto difficile. Nessuno lo ha fatto, finora. Solo Dio potrebbe aiutarmi. Il mio bambino piange perché ha fame. Mi resta soltanto un pezzo di pane nell'armadio. Quando lo avremo mangiato, sarà tutto finito per noi.

Sentendo questo, Dio cominciò a sentirsi male. Il suo volto diventò sofferente come quello della donna. E alcune lacrime, come quelle del bambino, rigarono le sue guance.
- Nessuno ha voluto aiutarti, donna? - domandò Dio.
- Nessuno, Signore. Tutti mi hanno voltato le spalle - rispose.

La donna restò impressionata dalla reazione di quello sconosciuto. A guardarlo, sembrava povero come lei. Lo vide così mal messo, con una faccia così pallida, che pensò che stesse per svenire. Allora andò all'armadio, dove conservava il suo ultimo pezzo di pane, ne tagliò un pezzo e glielo offrì.
Davanti a quel gesto, Dio si commosse profondamente, e guardandola negli occhi le disse:
- No, no, grazie. Tu ne hai più bisogno di me. Conservalo e dallo a tuo figlio. Domani ti arriverà il mio aiuto. Non smettere di fare agli altri quello che oggi hai fatto con me.

Detto questo, se ne andò. La donna non capì nulla, ma fu molto colpita da quello sguardo. Quella sera, lei e suo figlio mangiarono l'ultimo pezzo di pane che era rimasto.

Il mattino dopo, la donna ebbe una grande sorpresa. L'armadio era pieno di pane. Ma la sorpresa fu ancora più grande quando si accorse che, per quanti pani prendesse, non finivano mai. In quella casa non mancò mai più il pane.

Allora comprese chi era colui che aveva bussato alla sua porta. E da quel giorno non cessò più di fare agli altri quello che aveva fatto con lui: condividere il pane con i bisognosi.

condivisionesolidarietàaltruismopovertà

inviato da Patrizia Traverso, inserito il 19/02/2003

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59. Il gigante egoista   1

Oscar Wilde

Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
- Quanto siamo felici qui! - si dicevano.

Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni. Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino.
- Che fate voi qui? - esclamò con voce berbera, e i bambini scapparono.
- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante - lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro.
Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso: GLI INTRUSI SARANNO PUNITI.
Era un gigante molto egoista.

I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
- Com'eravamo felici! - dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini. Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimenticarono di fiorire. Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
- La primavera ha dimenticato questo giardino - esclamarono - perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
- E' un posto delizioso - disse - dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino. Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
- Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire - disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco: - Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante. Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.

Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo. La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
- Credo che finalmente la primavera sia venuta - disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi, felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline. Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena.

Solo in un angolo regnava ancora l'inverno. Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato. Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
- Arrampicati piccolo - disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino. A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
- Come sono stato egoista! - disse. - Ora so perché la primavera non voleva venire. Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini.
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto. Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. - Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.

A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
- Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: - Il bambino che io ho messo sull'albero?.
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
- Non lo sappiamo - risposero i bambini - se n'è andato.
- Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire - disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste. Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più. Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
- Quanto mi piacerebbe vederlo - diceva sovente.

Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare; sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.
- Ho molti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli.

Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.

Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente. Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato.
Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino. Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
- Chi ha osato ferirti? - perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
- Chi ha osato ferirti? - esclamò il gigante - dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
- No - rispose il bambino - queste sono soltanto le ferite dell'amore.
- Chi sei? - chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino. Il bambino gli sorrise e disse:
- Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.

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inviato da Anna Lianza, inserito il 29/01/2003

RACCONTO

60. Uno e sette

Gianni Rodari, Favole al telefono

Ho conosciuto un bambino che era sette bambini.

Abitava a Roma, si chiamava Paolo e suo padre era un tranviere.
Però abitava anche a Parigi, si chiamava Jean e suo padre lavorava in una fabbrica di automobili.
Però abitava anche a Berlino, e lassù si chiamava Kurt, e suo padre era un professore di violoncello.
Però abitava anche a Mosca, si chiamava Juri, come Gagarin, e suo padre faceva il muratore e studiava matematica.
Però abitava anche a Nuova Vork, si chiamava Jimmy e suo padre aveva un distributore di benzina.
Quanti ne ho detti? Cinque. Ne mancano due: uno si chiamava Ciù, viveva a Shanghai e suo padre era un pescatore; l'ultimo si chiamava Pablo, viveva a Buenos Aires e suo padre faceva l'imbianchino.

Paolo, lean, Kurt, luri, Jimmy, Ciù e Pablo erano sette, ma erano sempre lo stesso bambino che aveva otto anni, sapeva già leggere e scrivere e andava in bicicletta senza appoggiare le mani sul manubrio.

Paolo era bruno, Jean biondo, e Kurt castano, ma erano lo stesso bambino. Juri aveva la pelle bianca, Ciù la pelle gialla, ma erano lo stesso bambino. Pablo andava al cinema in spagnolo e Jimmy in inglese, ma erano lo stesso bambino, e ridevano nella stessa lingua. Ora sono cresciuti tutti e sette, e non potranno più farsi la guerra, perché tutti e sette sono un solo uomo.

bambinipace

inviato da Federico Bernardi, inserito il 03/12/2002

RACCONTO

61. Il bambino e il santo

Gopal Mukerji

Un giorno, un santo si fermò da noi. Mia madre lo scorse nel cortile, mentre faceva divertire i bambini. "Oh", - mi disse - "è proprio un santo; puoi andargli incontro, bambino mio".

Il santo posò la mano sulla mia spalla e mi chiese: "Bimbo mio, che cosa vuoi fare?".
"Non lo so. Che cosa vuoi che faccia?".
"No, dimmi tu cosa vuoi fare".
"A me piace giocare".
"Allora vuoi giocare con il Signore?".

lo non seppi cosa rispondere. Egli continuò: "Vedi, se tu potessi giocare con il Signore, sarebbe la cosa più grande del mondo. Tutti lo prendono talmente sul serio che lo rendono mortalmente noioso... Gioca con Dio, bambino mio: è il più meraviglioso compagno di gioco".

rapporto con Diogioiagioco

inviato da Barbara, inserito il 02/12/2002

RACCONTO

62. A mani vuote

Silvano Fausti

Ai tempi di Erode, la notte in cui nacque Gesù, gli angeli portarono la buona notizia ai pastori. C'era un pastore poverissimo, tanto povero che non aveva nulla. Quando i suoi amici decisero di andare alla grotta portando qualche dono, invitarono anche lui. Ma lui diceva: "Io non posso venire, sono a mani vuote, che posso fare?".

Ma gli altri tanto dissero e fecero, che lo convinsero. Così arrivarono dov'era il bambino, con sua Madre e Giuseppe.

Maria aveva tra le braccia il bambino e sorrideva, vedendo la generosità di chi offriva cacio, lana o qualche frutto.

Scorse il pastore che non aveva nulla e gli fece cenno di venire. Lui si fece avanti imbarazzato.

Maria, per avere libere le mani e ricevere i doni dei pastori, depose dolcemente il bambino tra le braccia del pastore che era a mani vuote...

Natalesemplicitàpiccolezzaumiltà

inviato da Mariangela Molari, inserito il 01/12/2002

RACCONTO

63. Piangere come bambini   1

Paulo Coelho, I racconti del maktub

Dice il maestro: "Se devi piangere, piangi come un bambino. Una volta sei stato un bambino, e una delle prime cose che hai imparato nella vita fu piangere, perché il pianto fa parte della vita. Non dimenticare di essere libero, e che mostrare le tue emozioni non è vergognoso. Urla, singhiozza forte, fai il chiasso che vuoi. Perché così è come piangono bambini, e loro conoscono il modo più veloce per confortare i loro cuori. Hai mai notato come i bambini smettono di piangere? Smettono perché qualcosa li distrae. Qualcosa li chiama alla prossima avventura. I bambini smettono di piangere velocemente. E così sarà per te. Ma solo se riesci a piangere come fanno i bambini".

diventare come bambini

inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002

RACCONTO

64. Il quarto Re Magio

Henry van Dyke, The Story of the Other Wise Man

I Magi, mentre scrutavano la volta celeste, scoprirono una nuova stella che brillò per una notte e poi sparì. Dopo qualche tempo, il cielo fu solcato da una scintilla blu che roteando emetteva splendore di porpora, finché divenne una sfera scarlatta con raggi lucenti e un vivissimo punto centrale bianco. Era il segnale della nascita del Re atteso da secoli. Lo videro i magi di Borsippa. Lo vide anche Artibano, che abitava a Ecbatana, distante dieci giorni di cammino.

Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire per Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Re e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s'inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada.

Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l'infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo aprì gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è lì che deve nascere il Messia, che tu vai cercando».

Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell'undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso 10 giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «T'abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto».

Arabano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto.

Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l'oro, l'incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un'altra via.

Il villaggio pareva deserto: gli uomini erano nei campi e i ragazzi al pascolo delle greggi. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall'Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l'avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto.

Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell'Egitto. Egli sperava di raggiungere la Sacra Famiglia nelle oasi del deserto, sotto le palme o i sicomori, ma invano. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menfi; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all'ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla.

Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poterli trovare. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi».

A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l'ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua.

La città santa brulicava di gente, venuta dalle terre più lontane alla festa del Tempio. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un'agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c'è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei».

Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù, nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?».

Così il buon vecchio seguì la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana, riconosciutolo dal costume per suo connazionale, gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà».

Il vecchio, non possedendo che un'unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto.

Improvvisamente si udì un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case si spalancano e crollano; nuvole di polvere riempiono l'aria; soldati e popolo fuggono terrorizzati.

Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime.

La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non così o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!».

Artibano cessò di parlare. Ma un'altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l'hai fatto a me». Un grande respiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi. Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.

caritàamoreservizioparadisogiudizio universale

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Angelo, inserito il 24/11/2002

RACCONTO

65. Il monaco giocoliere   1

Paulo Coelho, I racconti del maktub

La Madonna, con il Bambino Gesù fra le braccia, aveva deciso di scendere in Terra per visitare un monastero.

Orgogliosi, tutti i monaci si misero in una lunga fila, presentandosi ciascuno davanti alla Vergine per renderle omaggio.

Uno declamò alcune poesie, un altro le mostrò le miniature che aveva preparato per la Bibbia e un terzo recitò i nomi di tutti i santi. E così via, un monaco dopo l'altro, tutti resero omaggio alla Madonna e al Bambino.

All'ultimo posto della fila ne rimase uno, il monaco più umile del convento, che non aveva mai studiato i sacri testi dell'epoca. I suoi genitori erano persone semplici, che lavoravano in un vecchio circo dei dintorni, e gli avevano insegnato soltanto a far volteggiare le palline in aria.

Quando giunse il suo turno, gli altri monaci volevano concludere l'omaggio perché il povero acrobata non aveva nulla di importante da dire e avrebbe potuto sminuire l'immagine del convento. Ma anche lui, nel profondo del proprio cuore, sentiva un bisogno immenso di offrire qualcosa a Gesù e alla Vergine.

Pieno di vergogna, sentendosi oggetto degli sguardi di riprovazione dei confratelli, tirò fuori dalla tasca alcune arance e cominciò a farle volteggiare: perché era l'unica cosa che egli sapesse fare.

Fu solo in quell'istante che Gesù Bambino sorride e cominciò a battere le mani in braccio alla Madonna.

E fu verso quel monaco che la Vergine tese le braccia, lasciandogli tenere per un po' il bambinello.

umiltàsemplicitàdonare gioia

3.0/5 (1 voto)

inviato da Immacolata Chetta, inserito il 24/11/2002

RACCONTO

66. Festa grande per un pacco consegnato   1

Marina Parodi

C'era un uomo che di mestiere faceva il corriere espresso (sapete? quello che consegna nelle case i pacchi...). Come tutte le mattine, caricò il suo camion e si preparò al lungo giro di consegne. Quel giorno aveva 100 pezzi da consegnare.

Iniziò con una cassa di bottiglie di vino, che andava consegnata proprio all'ultimo piano di un lussuoso palazzo del centro. Con il fiatone suonò alla porta. Aprì un distinto signore: "Buongiorno, sì è per me, prego la metta qui, no un po' più in là, ecco perfetto, arrivederci!".

Poi fu la volta di una anziana signora, a cui trepidante consegnò un pacchetto con un preziosissimo anello. La donna annoiata e indifferente commentò solo: "Ah, lo metta lì con tutti gli altri, poi lo aprirò...".

A una giovane coppia doveva consegnare la lavatrice nuova. Mentre era in cucina e li aiutava a dismballare, i due iniziarono a litigare "Vedi, avevo ragione io: dovevamo prendere l'altro modello". "Invece no, abbiamo fatto bene a seguire il consiglio di mia madre". "Ma cosa dici, non vedi che sta malissimo vicino al frigo". "Piantala, si sa che tu hai un pessimo gusto!". "Perché secondo te era di buon gusto il regalo che tu mi hai fatto a Natale"... Il trasportatore se ne andò un po' imbarazzato.

Un pacco era destinato a un parroco. Era una statua molto bella, ma molto pesante. Il trasportatore era molto in difficoltà, e nell'entrare in sacrestia si ferì una mano contro un'acquasantiera. Ma il parroco lo accolse solo con un "Oh, finalmente me l'ha portata! Per favore faccia presto, si sbrighi. Sono impegnatissimo, tra 2 min e 40 sec. devo dire messa, tra 45 min c'è la lezione di catechismo, poi c'è la riunione con il gruppo della 3 età, poi il comitato di programmazione economica, poi i giovanissimi e la catechesi per famiglie. Capisce, no?, c'è tanto da fare: faccia presto!". Con la mano ancora dolorante il trasportatore uscì e andò a bagnarla alla fontana del sagrato.

Con il passare delle ore e il crescere della fatica, i pacchi pian piano diminuivano. Alla fine ne rimase solo uno. Quando arrivò all'indirizzo segnato sul pacco, aprì la porta un ragazzo: "No mi dispiace, il suo indirizzo è sbagliato, la signora Beatrice Bianchi (quello era il nome della destinataria) non abita più qui, si è trasferita almeno da un mese...". "E sa dove è andata ad abitare?". "No, io no, ma provi a chiedere al fruttivendolo all'angolo. Lui conosce tutti".

Il camionista si presentò al fruttivendolo e spiegò il suo problema: "Devo consegnare un pacco alla signora Beatrice Bianchi, ma ho l'indirizzo sbagliato. Lei sa dirmi dove posso trovarla?". "Ah, sì, si è trasferita, in un altro quartiere, me lo aveva detto, però l'indirizzo proprio non me lo ricordo... Provi a chiedere a Piero, lo trova là all'osteria, lui sicuramente lo sa".

Il camionista entrò nel fumoso bar e dietro un bicchiere di vino e un mazzo di carte, trovò Piero, un vecchietto con la barba bianca e due occhi azzurri come il cielo. "Ma sì la Beatrice! La conosciamo tutti qui, faceva la cameriera, è un peccato che si sia trasferita... Ecco, le scrivo il nuovo indirizzo".

Finalmente, dopo la lunga ricerca, il nostro amico si trovò di fronte alla porta dell'appartamento della signora Beatrice Bianchi. Il palazzo era in una delle zone più povere e degradate della città, lo squallore del luogo metteva proprio tristezza. Come aveva fatto con gli altri 99 pacchi, suonò e annunciò: "Signora, devo consegnarle un pacco". Aprì una giovane ragazza, mentre da una stanza interna si sentiva il pianto di un ragazzino. "Un pacco per me?". "Sì, signora; non è stato facile, ma sono contento di averla trovata...". "E cosa sarà mai? Non aspettavo pacchi... Oh... mi scusi, la sto lasciando sulla porta; prego, si accomodi, si sieda, posso offrirle un caffè? intanto guardiamo cosa c'è nel pacco...". Piacevolmente sorpreso, il corriere accettò volentieri l'invito. Il bambino intanto aveva smesso di piangere e si era avvicinato a osservare curioso quell'ospite sconosciuto.

Dopo aver versato il caffè all'ospite, Beatrice aprì il grosso pacco. Non poté trattenere un grido di gioia, quando ne vide il contenuto. Il pacco era pieno di cibi buonissimi, tra cui una grossa torta di compleanno. Insieme ai cibi una lettera. Quando la lesse, a Beatrice vennero gli occhi lucidi. Poi spiegò: "5 anni fa litigai violentemente con mia madre, e da allora non ci siamo più frequentate. Ora mi scrive che non vuole più discutere del passato, ma si è ricordata che oggi è il compleanno di Roberto, mio figlio e ci manda un po' di dolci per festeggiare. E pensare che proprio 10 minuti fa io stavo spiegando a Roberto che non avremmo potuto fare la festa con i suoi amici perché dopo aver pagato le bollette mi sono avanzati pochissimi soldi... È lei che ha permesso tutto questo! Io... io voglio ringraziarla. Si fermi e festeggi con noi!".

E così il trasportatore si trovò coinvolto in una festa piena di musica, allegria e risate, insieme con Beatrice, Roberto, i suoi amici e altre persone del vicinato. E alla fine della giornata, potete star certi, fu proprio lui il più contento per quel pacco con l'indirizzo sbagliato!

La storia può essere un punto di partenza per parlare di Dio che cerca tutti gli uomini, anche la pecorella smarrita... per suggerimenti sull'attività e per scaricare altre storielle simili, clicca qui.

rapporto con Diomisericordiapecorella smarrita

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 20/11/2002

RACCONTO

67. Pierino davanti al presepe

Pierino sogna... sta andando insieme ai pastori e ai Re Magi verso la stalla quando si trova improvvisamente davanti a Gesù Bambino che giace nella mangiatoia. Pierino si accorge di essere a mani vuote. Tutti hanno portato qualcosa: solo lui è senza doni.

Avvilito dice subito: "Prometto di darti la cosa più bella che ho. Ti regalo la mia nuova bicicletta, anzi il mio trenino elettrico".

Il bambino nel presepe scuote la testa e sorridendo dice: "Io non voglio il tuo trenino elettrico. Dammi il tuo tema in classe!".

"Il mio ultimo tema?" balbetta il ragazzino. "Ma ho preso un insufficiente!".

"Appunto, proprio per questo lo vorrei" dice Gesù. "Devi darmi sempre tutto quello che è insufficiente, imperfetto. Per questo sono venuto nel mondo. Ma vorrei un'altra cosa ancora da te: la tua tazza del latte".

A questo punto Pierino si rattrista: "La mia tazza? Ma è rotta!".

"Proprio per questo la vorrei avere" dice Gesù Bambino. "Tu mi puoi portare tutto quello che si rompe nella tua vita. Io sono capace di risanarlo".

Il ragazzino sentì di nuovo la voce del Bambino Gesù: "Vorrei una terza cosa da te: vorrei la risposta che hai dato a tua mamma quando ti ha chiesto come mai si è rotta la tazza del latte".

Allora Pierino inizia a piangere e confessa tra le lacrime: "Ma le ho detto una bugia, quella volta. Ho detto alla mamma che la tazza era caduta per caso, ma in realtà l'ho gettata a terra io, per rabbia".

"Per questo vorrei avere quella tua risposta" risponde sicuro Gesù Bambino. "Portami sempre tutto quello che nella tua vita è cattivo, bugiardo, dispettoso e malvagio. Sono venuto nel mondo per perdonarti, per prenderti la mano e insegnarti la via".

Gesù sorride di nuovo a Pierino, mentre lui guarda, comprende e... si meraviglia....

presepeNataleincarnazionemisericordia di Dioumiltàpiccolezzaperdono di Dio

inviato da Anna Lianza, inserito il 11/11/2002

RACCONTO

68. Gli auguri   1

Bruno Ferrero, Il segreto dei pesci rossi

Il piccolo Carlo era un bambino timido e tranquillo. Un giorno arrivò a casa e disse a sua madre che avrebbe voluto preparare una cartolina di San Valentino per tutti i suoi compagni di classe.
La madre istintivamente esclamò: «Ma no! Non è il caso!».

Ogni giorno osservava i bambini quando tornavano a casa a piedi da scuola. Il suo Carlo arrancava sempre per ultimo. Gli altri ridevano e formavano un'allegra e rumoro­sa combriccola. Ma Carlo non faceva mai parte del gruppo. La madre decise di aiuta­re il figlio e acquistò cartoncini e pennarel­li. Per tre settimane, sera dopo sera, Carlo illustrò meticolosamente trentacinque car­toline di San Valentino.

Giunse il giorno di San Valentino e Carlo era fuori di sé per l'emozione. Le accatastò con cura, le mise nello zainetto e corse fuo­ri. La madre decise di cucinargli il suo dol­ce preferito e farglielo trovare con una taz­za di cioccolata calda per quando sarebbe tornato a casa da scuola. Sapeva che sareb­be rimasto deluso e forse in questo modo gli avrebbe alleviato il dolore. Avrebbe dato una cartolina a tutti, ma lui non ne avrebbe ricevuta nemmeno una.

Quel pomeriggio preparò la torta e la cioccolata. Quando udì il solito vociare dei bambini, guardò fuori della finestra. Stavano arrivando, ridendo e chiacchierando come al solito. E come sempre l'ultimo era Carlo. Da solo.

Entrò in casa quasi di corsa e buttò lo zai­netto su una sedia. Non aveva niente in ma­no e la madre si aspettava che scoppiasse in lacrime. «La mamma ti ha preparato la torta e la cioccolata», disse, con un nodo in gola. Ma lui quasi non sentì le sue parole. Passò oltre, il volto acceso, dicendo forte: «Nean­che uno. Neanche uno!».
La madre lo guardò incerta.

E il bambino aggiunse: «Non ne ho dimenticato neanche uno, neanche uno».

«Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato: che io non perda nessuno di quel­li che mi ha dato» (Giovanni 6,39).
Neanche uno.

altruismodonaredono di sé

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 15/06/2002

RACCONTO

69. Gratuitamente date   3

Una sera, mentre la mamma preparava la cena, il figlio undicenne si presentò in cucina con un foglietto in mano. Con aria stranamente ufficiale il bambino pose il pezzo di carta alla mamma, che si asciugò le mani con il grembiule e lesse quanto vi era scritto:

"Per aver strappato le erbacce dal vialetto: 1 Euro
Per aver riordinato la mia cameretta: 1,50 Euro
Per essere andato a comprare il latte: 0,50 Euro
Per aver badato alla sorellina (tre pomeriggi): 3 Euro
Per ever preso due volte "ottimo" a scuola: 2 Euro
Per aver portato fuori l'immondizia tutte le sere: 1 Euro
Totale: 9 Euro".

La mamma fissò il figlio negli occhi teneramente. La sua mente si affollò di ricordi. Prese una biro e, sul retro del foglietto, scrisse:

"Per averti portato in grembo 9 mesi: 0 Euro
Per tutte le notti passate a vegliarti quando eri ammalato: 0 Euro
Per tutte le volte che ti ho cullato quando eri triste: 0 Euro
Per tutte le volte che ho asciugato le tue lacrime: 0 Euro
Per tutto quello che ti ho insegnato giorno dopo giorno: 0 Euro
Per tutte le colazioni, i pranzi, le merende, le cene, e i panini che ti ho preparato: 0 Euro
Per la vita che ti do ogni giorno: 0 Euro".

Quando ebbe terminato, sorridendo la mamma diede il foglietto al figlio. Quando il bambino ebbe finito di leggere ciò che la mamma aveva scritto, due lacrimoni fecero capolino nei suoi occhi. Girò il foglio e sul suo conto scrisse: "Pagato". Poi saltò al collo della madre e la sommerse di baci.

Quando nei rapporti personali e famigliari si cominciano a fare i conti, è tutto finito. L'amore o è gratuito o non è amore.

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4.0/5 (3 voti)

inviato da Emanuela Salvucci, inserito il 14/06/2002

RACCONTO

70. L'angelo custode   1

C'era una volta, e c'è ancora adesso, un angelo custode.

Era un angelo come tanti altri, ma era molto triste perché era custode e protettore di un bambino così discolo che non si era mai visto. Si chiamava Pino, ma ogni volta che lo chiamavano lui rispondeva: "Chi? Io?", e così tutti iniziarono a chiamarlo Pinocchio.

Pinocchio era svogliato, disubbidiente, qualche volta cattivo e tutte le volte il suo angioletto si disperava e non sapeva più come fare per trattenerlo.

Finché un giorno ebbe un'idea grandiosa. Chiese un colloquio con Dio e quando si trovò alla sua presenza espose la sua proposta. Chiese il permesso di scendere sulla terra e di parlare con Pinocchio sicuro in questo modo di riuscire a convincerlo a cambiare vita. Dio ci pensò un po' su' ed infine accordò all'angioletto il permesso di fare quest'ultimo tentativo, ma con la promessa di non toccare la terra con i piedi, altrimenti non avrebbe più potuto risalire in cielo. L'angioletto allora chiese timidamente come avrebbe fatto a non poggiare i piedi per terra, ma Dio non fece altro che sorridere facendo gli auguri di buona fortuna.

L'angioletto cominciò a girovagare per il cielo volando da una nuvola all'altra pensando a come poter scendere sulla terra mantenendo i piedi separati da essa.

Ad un tratto fu attirato dal vociare di alcuni angeli che stavano giocando su di una nuvola attrezzata con un'altalena. Immediatamente capì che aveva trovato lo strumento adatto per la sua missione.Aiutato dagli altri angioletti riuscì a costruire una altalena con le corde lunghe dal cielo alla terra. L'angioletto si accomodò sul sedile e si raccomandò con gli amici di farlo scendere lentamente e poi di trattenere le corde fino al suo segnale di risalita. Per l'occasione aveva vestito il suo abito migliore, quello delle grandi occasioni, un frac tinta nuvola completo di bastone e cappello.

Cominciò la discesa finché non si trovò sospeso a mezz'aria in attesa di Pinocchio.

E Pinocchio non si fece attendere; incuriosito dal personaggio così strano subito si avvicinò domandando chi fosse e come mai avesse la faccia così triste.

L'angioletto iniziò la sua storia da quando era stato assegnato come suo custode elencando tutti i dispiaceri che aveva passato per colpa sua, e ad ogni nuova avventura aggiungeva un granellino di sabbia sulla piccola bilancia che teneva in mano, la quale pendeva inesorabilmente in un solo senso.

Pinocchio lo ascoltò con attenzione; ma lui era furbo; non era mica un bambino che credeva agli angioletti, e così con una alzata di spalle fece per andarsene. L'angioletto disperato vedendo sfuggire il suo protetto cominciò a chiamarlo dicendo che non poteva scendere dall'altalena in quanto non sarebbe più potuto risalire.

Pinocchio si fermò; tornò indietro, guardò l'angioletto in lacrime e gli disse che gli avrebbe creduto se gli avesse fatto vedere il cielo sopra le nuvole. L'angioletto ci pensò un poco su', poi decise che una vita salvata valeva pure una sgridata del "Capo".

Fece salire Pinocchio sull'altalena e diede ordine ai suoi amici di tirare su. L'altalena non si mosse. L'angioletto gridò più forte; niente; come prima.

Pinocchio stava per prendersi la sua rivincita quando l'angelo cominciò ad arrampicarsi su una delle corde. Svelto come un gatto anche lui lo seguì dall'altra corda ed insieme salirono fino alle nuvole. Quando arrivarono su, videro che gli amici erano tutti addormentati e quindi non avevano udito il comando di risalita.

Ma se loro avevano lasciato le corde dell'altalena, come mai non era caduta sulla terra?

I due si accorsero allora che le corde proseguivano in alto, su un'altra nuvola. Ripresero a salire, arrampicandosi finché non spuntarono dall'altra parte.

Si trovarono di fronte al "Capo" che aveva le corde dell'altalena legate ad un dito e li guardava sorridendo. Pinocchio che era davanti si voltò indietro in direzione dell'angioletto per chiedere spiegazioni e con immenso stupore si accorse che il viso dell'angelo era diventato uguale al suo, come una goccia d'acqua.

A quel punto capì tutto, capì che era tutto vero quello che aveva ascoltato dalla bocca dell'angelo, capì che era di fronte a Dio e capì che di fronte a Dio tutti gli angeli custodi sono visti con lo stesso volto degli uomini di cui sono custodi sulla terra.

Ridiscese trasformato, e cominciò a mettere in pratica quello che tutti gli avevano insegnato e lui non aveva mai seguito.

Un giorno ripassò nel luogo in cui aveva incontrato l'angelo e ci trovò ancora l'altalena. Si sedette e cominciò a dondolarsi, felice di sentirsi cullato dalla mano di Dio. Guardò in alto e vide sopra la nuvola il "suo" angioletto sorridente con in mano la stessa bilancia del primo incontro; questi cominciò a versare la sabbia del piatto su Pinocchio trasformandola in una pioggia di polvere dorata che ricoprì il suo cuore e lo riempì di felicità.

Oggi Pinocchio non ha più bisogno di andare a dondolarsi sull'altalena per sentirsi vicino al Padre che è nei cieli, ma ancora oggi i suoi bambini prima di addormentarsi alla sera vogliono ascoltare la stupenda avventura del loro papà e del "suo" angioletto.

angelo custodecoscienza

inviato da Luca Peyron, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

71. Father forgets   1

W. Livingstone Larned

Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormen­do con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte. Mi sono introdotto nella tua camera da solo: pochi minuti fa, quando mi sono se­duto a leggere in biblioteca, un'ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.

E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.

A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto: hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo. Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai comin­ciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: «Ciao, papino!» e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: «Su diritto con la schiena!». E tutto è ricominciato da capo nel tardo pome­riggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze buca­te. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura. Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell'offesa subita? Quando ho alzato gli occhi dal giornale impaziente per l'interruzione sei rimasto esitante sulla porta. "Che vuoi?", ti ho aggredito brusco. Tu non mi hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l'affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale. Be', figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un'angoscia terri­bile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando a tro­vare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? Nient'altro per stanotte, figliolo. Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergo­gna.

E' una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani sarò per te un vero papà. Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripeter­mi, come una formula di rito: «E' ancora un bambi­no, un ragazzino!». Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei an­cora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa della spalla. Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.

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inviato da Luca Mazzocco, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

72. L'albero generoso   1

Shel Silverstein

C'era una volta un albero che amava un bambi­no. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni. Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arram­picava sul suo tronco e dondolava attaccato ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti e poi, insieme, giocava­no a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all'ombra dell'albero, mentre le fronde gli cantava­no la ninna-nanna. Il bambino amava l'albero con tutto il suo picco­lo cuore. E l'albero era felice. Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l'albero rimane­va spesso solo. Un giorno il bambino venne a vedere l'albero e l'albero gli disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi su­gli alberi e per giocare», disse il bambino. «Io vo­glio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace», rispose l'albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va' a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice». Allora il bambino si arrampicò sull'albero, rac­colse tutti i frutti e li portò via. E l'albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritor­nare... E l'albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l'albero tremò di gioia e disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampi­carmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa. Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa», disse l'albero. «La mia ca­sa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e cotruirti una casa. Allora sarai felice». Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per co­struirsi una casa. E l'albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando tornò, l'albero era così felice che riusciva a mala­pena a parlare. «Avvicinati, bambino mio», mormorò, «vieni a giocare».

­Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare» disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l'albero. ­«Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una bar­ca per fuggire. E l'albero fu felice..., ma non del tutto.
Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l'albero «ma non resta più niente da donarti... Non ho più frutti».
«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.
«Non ho più rami». continuò l'albero «non puoi più dondolarti».
«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami», disse il bambino.
«Non ho più il tronco», disse l'albero. «Non puoi più arrampicarti».
«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.
«Sono desolato», sospirò l'albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa... ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto...».
«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».
«Ebbene», disse l'albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuo­le per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».
Così fece il bambino.
E l'albero fu felice.

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inviato da Luca Mazzocco, inserito il 08/06/2002

RACCONTO

73. Il sogno dei tre cedri del Libano   1

Racconta una vecchia leggenda che nelle belle foreste dei Libano nacquero tre cedri. Come tutti sappiamo, i cedri impiegano molto tempo a crescere e questi alberi trascorsero interi secoli riflettendo sulla vita la morte, la natura e gli uomini.

Assistettero all'arrivo di una spedizione da Israele inviata da Salomone e, più tardi, videro la terra ricoprirsi di sangue durante la guerra con gli Assiri. Conobbero Gezabele e il profeta Elia, mortali nemici. Assistettero all'invenzione dell'alfabeto e s'incantarono, a guardare le carovane che passavano, piene di stoffe colorate.
Un bel giorno, si misero a conversare sul futuro.

"Dopo tutto quello che ho visto - disse il primo albero - vorrei essere trasformato nel trono dei Re più potente della terra".

"A me piacerebbe far parte di qualcosa che trasformasse per sempre il Male in Bene", spiegò il secondo.

"Per parte mia, vorrei che gli uomini, tutte le volte che mi guardano, pensassero a Dio", fu la risposta del terzo.

Ma dopo un po' di tempo apparvero dei boscaioli e i cedri furono abbattuti e caricati su una nave per essere trasportati lontano. Ciascuno di quegli alberi aveva un suo desiderio ma la realtà non chiede mai che cosa fare dei sogni.

Il primo albero servì per costruire un ricovero per gli animali e il legno avanzato fu usato per contenere il fieno. Il secondo albero diventò un tavolo molto semplice che fu venduto ad un commerciante di mobili. E poiché il legno del terzo albero non trovò acquirenti, fu tagliato e depositato nel magazzino di una grande città.

Infelici, gli alberi si lamentavano: "Il nostro legno era buono ma nessuno ha trovato il modo di usarlo per costruire qualcosa di bello!".

Passò il tempo e, in una notte piena di stelle, una coppia di sposi che non riusciva a trovare un rifugio dovette passare la notte nella stalla costruita con il primo albero. La moglie gemeva in preda ai dolori del parto e finì per dare alla luce lì stesso suo figlio, che adagiò tra il fieno, nella mangiatoia di legno. In quel momento il primo albero capì che il suo sogno era stato esaudito: il bambino che era nato lì era il più grande di tutti i re mai apparsi sulla Terra.

Anni più tardi, in uno casa modesta, alcuni uomini si sedettero attorno al tavolo costruito con il legno del secondo albero. Uno di loro, prima che tutti incominciassero a mangiare, disse alcune parole sul pane e sul vino che aveva davanti a sé. E il secondo albero comprese che, in quel momento, non sosteneva solo un calice e un pezzo di pane ma l'alleanza tra l'Uomo e Dio.

Il giorno seguente prelevarono dal magazzino due pezzi dei terzo cedro e li unirono a forma di croce. Lasciarono la croce buttata in un angolo e alcune ore dopo portarono un uomo barbaramente ferito e lo inchiodarono al suo legno. Preso dall'orrore, il cedro pianse la barbara eredità che la vita gli aveva lasciato. Prima che fossero trascorsi tre giorni, tuttavia, il terzo albero capì il suo destino: l'uomo che era stato inchiodato al suo legno era ora la Luce che illuminava ogni cosa. La croce che era stata costruita con il suo legno non era più il simbolo di una tortura ma si era trasformata in un simbolo di vittoria.

Come sempre avviene nel sogni, i tre cedri dei Libano avevano visto compiersi il destino in cui speravano anche se in modo diverso da come avevano immaginato.

Clicca qui per una versione simile.

desideriprogetto di Diocroce

inviato da Giuliana Babini, inserito il 29/05/2002

RACCONTO

74. L'Angelo dei bambini

Racconta una antica leggenda che un bambino che stava per nascere disse a Dio:
- Mi dicono che mi stai per mandare sulla terra però come vivrò così piccino e indifeso come sono?
- Tra molti angeli ne ho scelto uno per te, che ti sta aspettando e avrà cura di te.
- Però dimmi: qui nel cielo non faccio altro che cantare e sorridere; questo basta per essere felice.
- Il tuo angelo ti canterà, ti sorriderà tutti i giorni e tu sentirai il suo amore e sarai felice.
- Ma che farò quando vorrò parlare con te?
- Il tuo angelo ti unirà le manine e ti insegnerà il cammino perché tu possa avvicinarti a me, benché io ti sarò sempre a fianco.

In quell'istante, una grande pace regnava nel cielo però già si udivano voci della terra e il bambino premuroso ripeteva soavemente:
- Dio mio se già me ne devo andare, dimmi il suo nome... come si chiama il mio angelo?
- Il suo nome non importa, tu la chiamerai "mamma".

maternitàmammafamiglia

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 10/05/2002

RACCONTO

75. Un uomo libero   1

Rabindranath Tagore

Ero giovane e mi sentivo forte. Quella mattina di primavera uscii di casa e gridai: "Io sono a disposizione di chi mi vuole. Chi mi prende?".

Mi lanciai sulla strada selciata. Sul suo cocchio, con la spada in mano e seguito da mille guerrieri, passava il Re. "Ti prendo io al mio servizio", disse fermando il corteo. "E in compenso ti metterò a parte della mia potenza". Ma io della sua potenza non sapevo che farmene. E lo lasciai andare.
"Io sono a disposizione di tutti. Chi mi vuole?".

Nel pomeriggio assolato, un vecchio pensieroso mi fermò, e disse: "Ti assumo io, per i miei affari. E ti compenserò a suon di rupie sonanti". E cominciò a snocciolarmi le sue monete d'oro. Ma io dei suoi quattrini non sapevo che farmene. E mi voltai dall'altra parte.

La sera arrivai nei pressi di un casolare. Si affacciò una graziosa fanciulla e mi disse: "Ti prendo io e ti compenserò col mio sorriso". Io rimasi perplesso. Quanto dura un sorriso? Frattanto quello si spense e la fanciulla dileguò nell'ombra. Passai la notte disteso sull'erba, e la mattina ero madido di rugiada.
"Io sono a disposizione... Chi mi vuole?".

Il sole scintillava già sulla sabbia, quando scorsi un bambino che, seduto sulla spiaggia, giocava con tre conchiglie. Al vedermi alzò la testa e sorrise, come se mi riconoscesse. "Ti prendo io", disse, "e in cambio non ti darò niente". Accettai il contratto e cominciai a giocare con lui. Alla gente che passava e chiedeva di me, rispondevo: "Non posso, sono impegnato".
E da quel giorno mi sentii un uomo libero.

libertàgratuitàricchezzapovertà

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

76. Lo specchio e la finestra   1

Un giovane ebreo andò da un Rabbino, suo maestro di vita, a esporgli una sua perplessità: "Quando vado nella casa dei ricchi non mi sento a mio agio, ho l'impressione di non essere accolto e non riesco a comunicare. Quando, invece, entro nella casa dei poveri, non ho alcun problema, mi comporto e parlo così come faccio con gli amici di vecchia data. Che differenza c'è tra ricchi e poveri?".

Il rabbino lo invitò ad andare alla finestra e a descrivere ciò che vedeva. "Ci sono una donna e un bambino, su di un carro, che si dirigono contenti verso la zona del mercato".

Al che il rabbino soggiunse: "Ora va' davanti allo specchio e dimmi cosa vedi".
Il giovane rispose che scorgeva solo la sua immagine.

Il saggio maestro di vita così concluse: "Figlio mio, la finestra e lo specchio sono fatti entrambi di una lastra di vetro. Ma, mentre la finestra ti permette di vedere la vita che c'è attorno, lo specchio ti permette di vedere solo te stesso. Basta un foglio d'argento per non farti contemplare la realtà e renderti triste nel mostrarti solo la tua immagine".

ricchezzapovertàinteriorità

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inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

77. Il paese dei cani

Gianni Rodari, Favole al telefono

C'era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.

Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.

Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c'era sempre qualcuno per la strada.

Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c'era sempre qualcuno spaventato.

Figurarsi se capitava un forestiero. Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.

A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po' sordi, e tra loro parlavano pochissimo. Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.

Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare. E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani. Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di "bau bau" che faceva venire la pelle d'oca. E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.

Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.

Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi. I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro. Domandò una informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando. Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
"Ho capito, - concluse Giovannino - E' un'epidemia".

Si fece ricevere dal sindaco e gli disse: "Io un rimedio sicuro ce l'avrei. Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate. Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili. Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo".
Il sindaco gli rispose: "Bau! Bau!".

"Ho capito, - disse Giovannino, - il peggior malato è quello che crede di essere sano".
E se ne andò per i fatti suoi.

Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.

comunitàlitigareconvivereconflittopacecomunione

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

78. Perché avete paura?   2

Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù?

Era una famigliola felice e viveva in una casetta di periferia. Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.

Mentre le fiamme divampavano. genitori e figli corsero fuori. In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni. Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore.

Che fare? Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare. Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile... E i vigili del fuoco tardavano.

Ma ecco che lassù, in alto, s'aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò, urlando disperatamente: "Papà! Papà!".
Il padre accorse e gridò: "Salta giù!".

Sotto di sè il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma senti la voce e rispose: "Papà, non ti vedo...".
"Ti vedo io, e basta. Salta giù!", urlò, l'uomo.

Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.

Non vedi Dio. Ma Lui vede te. Buttati!

abbandonofedefiducia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 07/05/2002

RACCONTO

79. Il lupo che divenne uomo

Piero Gribaudi, Fiabe della Notte Santa

C'era una volta, in un bosco, un lupo molto feroce. Si nutriva di polli e di conigli e attaccava le greggi e gli armenti del villaggio. Anche i bambini non uscivano più a giocare. Il lupo era diventato il terrore di tutti. Si presero provvedimenti: gli animali dovevano vivere dentro recinti e trappole di ogni tipo vennero appostate nei dintorni. Il lupo cominciò a sentirsi braccato e vagava per il bosco, sempre più affamato.

Una sera, inaspettatamente, una stupenda luce illuminò il cielo e durò per tutta la notte. Ad un certo momento diversi gruppi di pastori cominciarono ad arrivare da ogni dove. Andavano tutti verso la medesima direzione. Che cosa stava succedendo?

Il lupo decise di seguirli, tenendosi a debita distanza. Li vide entrare in una grotta. Non si capiva che cosa vi trovassero. Quando uscirono, sembravano trasfigurati e anche una giovane donna comparve in mezzo a loro. Era un'occasione propizia. Il lupo furtivamente si intrufolò nella grotta.

Su una minuscola stuoia, un bambino molto piccolo stava disteso e giocava con un filo d'erba tra le dita. Il lupo si illuminò. Ecco il cibo sognato da tanto tempo. La mamma era ancora fuori con gli ospiti e non si sarebbe accorta. Avvicinò il muso al bambino. Sarebbe stata questione di un attimo. Ma successe qualcosa d'inaspettato. Il bambino non si spaventò, non pianse. Lo guardò, anzi, negli occhi, gli sorrise e allungando la manina accarezzò quel muso sporco di polvere. E gli disse: "Ti voglio bene".

Nessuno glielo aveva mai detto. La sua pelliccia di lupo si sfilacciò come una vecchia camicia. Dentro comparve un giovane uomo.

Chinato verso il bambino, trasformato, continuava a gridargli "Grazie! Grazie! Grazie!". Poi corse via. Che cos'altro poteva fare questo ex-lupo se non correre in ogni angolo della terra e raccontare a tutti ciò che quel bambino aveva fatto di lui?

nataleconversionebisogno di amorebontàaccoglienza

inviato da Stefania Raspo, inserito il 06/05/2002

RACCONTO

80. L'occhio del falegname   4

Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua

C'era una volta, tanto tempo fa, in un piccolo villaggio, la bottega di un falegname. Un giorno, durante l'assenza del padrone, tutti i suoi arnesi da lavoro tennero un gran consiglio.

La seduta fu lunga e animata, talvolta anche veemente. Si trattava di escludere dalla onorata comunità degli utensili un certo numero di membri.

Uno prese la parola: "Dobbiamo espellere nostra sorella Sega, perché morde e fa scricchiolare i denti. Ha il carattere più mordace della terra".

Un altro intervenne: "Non possiamo tenere fra noi sorella Pialla: ha un carattere tagliente e pignolo, da spelacchiare tutto quello che tocca".

"Fratel Martello - protestò un altro - ha un caratteraccio pesante e violento. Lo definirei un picchiatore. E' urtante il suo modo di ribattere continuamente e dà sui nervi a tutti. Escludiamolo!".

"E i Chiodi? SI può vivere con gente così pungente? Che se ne vadano. E anche Lima e Raspa. A vivere con loro è un attrito continuo. E cacciamo anche Cartavetro, la cui unica ragion d'essere sembra quella di graffiare il prossimo!".

Così discutevano, sempre più animosamente, gli attrezzi del falegname. Parlavano tutti insieme. Il martello voleva espellere la lima e la pialla, questi volevano a loro volta l'espulsione di chiodi e martello, e così via. Alla fine della seduta tutti avevano espulso tutti.

La riunione fu bruscamente interrotta dall'arrivo del falegname. Tutti gli utensili tacquero quando lo videro avvicinarsi al bancone di lavoro. L'uomo prese un asse e lo segò con la Sega mordace. Lo piallò con la Pialla che spela tutto quello che tocca. Sorella Ascia che ferisce crudelmente, sorella Raspa che dalla lingua scabra, sorella Cartavetro che raschia e graffia, entrarono in azione subito dopo.

Il falegname prese poi i fratelli Chiodi dal carattere pungente e il Martello che picchia e batte.

Si servì di tutti i suoi attrezzi di brutto carattere per fabbricare una culla. Una bellissima culla per accogliere un bambino che stava per nascere. Per accogliere la Vita.

Dio ci guarda con l'occhio del falegname.

occhi di Dio su di noiamore di Diocorrezione fraternaconvivere

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 05/05/2002