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RACCONTO

1. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

RACCONTO

2. Ma Gesù è morto o vivo?   7

«Ma Gesù è morto o vivo?», chiese la piccola Lucia alla nonna. A dire il vero, era un po' che le frullava in testa questa domanda, il parroco era arrivato alla scuola materna e aveva spiegato a lungo che Gesù era stato crocifisso e sepolto.

La nonna capì molto bene la domanda della sua nipotina, andò ad aprire il vangelo, le lesse alcuni fatti: le donne erano andate al sepolcro il mattino dopo il sabato e avevano trovato il sepolcro vuoto! E proprio lì stava un angelo ad annunciare che Gesù era vivo! È risorto, è glorificato dal Padre che non l'ha lasciato nella tomba! E Lucia era piena di gioia.

Qualche giorno dopo, la nonna si recò con Lucia alla messa domenicale. C'era in mezzo all'altare un prete e tra i banchi poca gente, un po' triste e un po' annoiata. Anche le canzoni che una donna dal primo banco intonava erano basse, lente, cantate da pochi e senza convinzione. Allora Lucia, dopo essersi guardata ben bene in giro, disse alla nonna: «Ma loro lo sanno che Gesù è risorto?»

risortorisurrezioneresurrezionegioiapasqua

4.5/5 (14 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 25/03/2013

RACCONTO

3. Quando le croci sono troppe   6

Giovanni Francile

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un Crocifisso, se ne lamentò con il Signore così: "Ah! Signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai data tante e così pesanti che io non ho più la forza di portarle".

Il Signore però gli disse: "Vieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco. Ecco, questa è la più grossa e la più pesante; guarda che cosa c'è scritto sopra".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?" disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, golosità, di divertimenti... e di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".

"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!".

Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest'altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l‘ho data Io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... e di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".

"E' vero, è vero! anche questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto: gelosia, su quell'altra: avarizia, su
quest'altra..."

"Ho capito, ho capito, Signore, è troppo giusto quello che tu dici".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se l'era poste sulle spalle. Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle esclamò: "Oh! Com'è piccola questa! E pesa poco". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".

Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!" Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: "Vedi figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di Padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al Cielo, perché io l'ho detto: Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Ma ho detto anche: il mio giogo è soave e il mio peso è leggero".

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù. Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del Paradiso.

sofferenzapazienzafedefiduciacrocepeccato

4.6/5 (5 voti)

inviato da Lisa, inserito il 07/04/2012

RACCONTO

4. Hai dimenticato una cosa!

Vita di san Girolamo

Ben prima di diventare un sapiente e stimato esegeta, brillante consigliere di nobildonne dell'alta società romana, Girolamo aveva tentato un periodo di vita da eremita in una grotta del deserto di Giuda.

Con la presunzione tipica dell'età, il giovane Girolamo si era dedicato con ardore alle molteplici forme di ascesi allora in uso tra i monaci. Ma i risultati si facevano attendere: il tempo gli avrebbe fatto presto capire che la sua vera vocazione era altrove nella Chiesa e che il suo soggiorno tra i monaci della Palestina ne costituiva solo il preludio.

Tuttavia Girolamo doveva ancora imparare molte cose e intanto, da giovane novizio si trovava immerso nella disperazione: nonostante i suoi sforzi generosi, non riceveva alcuna risposta dal cielo.

Andava alla deriva, senza timone, in mezzo alle tempeste interiori, al punto che le vecchie tentazioni, già così familiari, non tardarono a rialzare la cresta. Girolamo era scoraggiato: cosa aveva fatto di male? Dov'era la causa di questo cortocircuito tra Dio e lui?

Come ristabilire il contatto con la grazia? Mentre Girolamo si arrovellava il cervello, notò all'improvviso un crocifisso che era comparso tra i rami secchi di un albero. Girolamo si gettò a terra e si percosse il petto con gesto solenne e vigoroso. E' in questa posizione umile e supplicante che lo raffigura la maggior parte dei pittori.

Subito Gesù rompe il silenzio e si rivolge a Girolamo dall'alto della croce: «Girolamo - gli dice - cos'hai da darmi? Cosa riceverò da te?». Girolamo non esita un attimo. Certo che aveva un sacco di cose da offrire a Gesù: «Naturalmente, Signore: i miei digiuni, la fame, la sete. Mangio solo al tramonto del sole!»

Di nuovo Gesù risponde: «Ottimo Girolamo, ti ringrazio. Lo so, hai fatto del tuo meglio. Ma hai ancora altro da darmi?» Girolamo ripensa a cosa potrebbe ancora offrire a Gesù. Ecco allora le veglie, la lunga recita dei salmi, lo studio assiduo giorno e notte della Bibbia, il celibato nel quale si impegnava con più o meno successo, la mancanza di comodità, la povertà, gli imprevisti che si sforzava di accogliere senza brontolare e infine il caldo di giorno e il freddo di notte. Ad ogni offerta, Gesù si complimenta e lo ringrazia.

Lo sapeva da tempo: Girolamo ci tiene così tanto a fare del suo meglio! Ma ad ogni offerta, Gesù, con un sorriso astuto sulle labbra, lo incalza ancora e gli chiede: «Girolamo, hai qualcos'altro da darmi?»

Alla fine, dopo che Girolamo ha enumerato tutte le cose buone che ricorda e siccome Gesù gli pone per l'ennesima volta la stessa domanda, un po' scoraggiato e non sapendo più a che santo votarsi, finisce per balbettare: «Signore, ti ho dato già tutto, non mi resta davvero più niente!».

Allora un grande silenzio piomba nella grotta e fino alle estremità del deserto di Giuda; Gesù replica un'ultima volta: «Eppure Girolamo hai dimenticato una cosa: dammi anche i tuoi peccati affinché possa perdonarteli...».

conversionepenitenzapeccatopeccatoregraziaperdono

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 14/04/2011

RACCONTO

5. Il Cieco di Gerusalemme   1

Nardo Masetti

È disperato. Ha perduto la vista all'improvviso e a nulla sono valse le cure dei medici. Ora non ha più denaro; tutti lo hanno abbandonato. È ormai deciso: prima o poi la farà finita con una vita tanto misera. Un giorno sente parlare di un certo Gesù che guarisce tutti, che a Gerico ha persino ridato la vista a un cieco nato, che non chiede nessun compenso per le sue prestazioni: anzi, assieme alla salute del corpo, ridona la gioia di vivere. Si trascina giorno dopo giorno, Dio solo sa come, fino a Gerusalemme, poiché gli hanno detto che lui è là. Ora si aggira per le viuzze della città santa, mentre il sole è al tramonto. In Gerusalemme regna un silenzio profondo, troppo profondo, perché si azzardi a gridare quel nome nel quale ha riposto ogni sua speranza. Si accovaccia per terra e attende il mattino.

Si sveglia mentre attorno lui c'è già il brusio, che caratterizza l'inizio di giornata in una grande città. Raccoglie le idee, si alza in piedi e, porgendo le mani ai passanti, come se volesse chiedere l'elemosina, cerca di fermare qualcuno. Una donna ascolta la sua domanda e gli risponde: "Gesù non lo potrai più incontrare, il Sinedrio lo ha condannato; lo hanno crocifisso una decina di giorni fa. Il cieco si sente perduto. Poi gli balena un'idea improvvisa e supplica la donna: "Ti prego portami al Tempio o da uno dei componenti il Sinedrio". Ella lo accompagna e lo presenta a uno dei sacerdoti che incontrano nell'atrio della casa del Signore. Questi conferma al povero uomo la notizia che già sapeva: Gesù è stato condannato e ucciso. Il cieco implora: "Guariscimi tu dalla mia cecità, o fammi guarire da uno dei membri del Sinedrio, o da Ponzio Pilato!". Il sacerdote, sbalordito, a fatica riesce a fargli comprendere come lui non ha il potere di fare miracoli e come non possa pretenderlo dal Sinedrio e tanto meno dal Procuratore romano... Si fa un silenzio assoluto da parte della folla, che nel frattempo si era radunata, e tutti volgono uno sguardo interrogativo al sacerdote che, triste e vergognoso, guadagna frettolosamente l'interno del sontuoso edificio di culto. Il cieco continua ad interrogare la folla: Era tanto buono, ma perché l'hanno ucciso?!

Il cieco è seduto sul muricciolo che delimita la spianata del Tempio, con lo sguardo vuoto puntato alla pianura che non vede, ma che intuisce sotto di sé. È venuto il momento di portare a compimento il suo progetto: basta una salto oltre la balconata e tutto è fatto. All'improvviso sente un tocco sulla spalla; non vi fa caso. Poi sente insistente una voce che gli suggerisse di guardare la valle meravigliosa, il colle di ulivi, il sole che splende alto e illumina tutto di colori sgargianti. Un grido gli rimane strozzato in gola: sì, vede tutte quelle cose come un tempo. Vede tutto fuorché "Colui" che lo ha toccato: è scomparso. Entra nel Tempio e si mette a riflettere: allora è vero quello che molti vanno dicendo, cioè che Gesù è risorto e sta apparendo qua e là ai suoi discepoli; ed è apparso pure a lui. Una gioia sovrumana invade il suo essere; una sola nube l'offusca: non è riuscito a ringraziare il Signore. Ma subito si rasserena. Quell'"Uomo" lo avrebbe rivisto a suo tempo, e per ringraziarlo dell'immenso dono avrebbe avuto a disposizione tutta l'eternità.

speranzadisperazionefedelucerisortorisurrezioneGesù

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Nardo Masetti, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

6. Dove finirono l'oro, l'incenso e la mirra?   2

Bruno Ferrero, Storie di Natale

Anche se non lo davano a vedere, i più eccitati erano l'asino e il bue. Non riuscivano ad addormentarsi. Quella notte e quella giornata erano state meravigliosamente caotiche: la nascita del bambino, gli angeli, i pastori, la stella e poi l'arrivo dei tre re con i manti di stoffe ricamate e le pellicce e i loro strani quadrupedi con la gobba. E soprattutto il luccichio degli scrigni che racchiudevano i doni portati dai tre re. Li avevano ammirati tutti e ora stavano là, abbandonati sulla paglia, mentre la donna cullava dolcemente il bambino e l'uomo dalle mani grandi e forti attizzava il fuoco e porgeva un po' di fieno alle due bestie.

Tra le fessure sconnesse della baracca, altri due occhi fissavano eccitati i doni dei re. Erano occhi pieni di ingenua astuzia. Non avevano perso un solo attimo della giornata e ora osservavano con interesse il primo sbadiglio di stanchezza fiorito sulla bocca dell'uomo. Erano gli occhi di Disma, il più bravo dei ladruncoli di Betlemme, agile e svelto come un furetto.

Il bambino si addormentò per primo, poi la madre si assopì sul mucchio di paglia che l'uomo aveva preparato e rassettato. L'uomo aspettò che il fuoco si spegnesse, poi si abbandonò anche lui sulla paglia con un sospiro di stanchezza e si addormentò. L'asino e il bue lo imitarono. Un silenzio profondo avvolse la baracca.

Un fagotto tintinnante

Disma scivolò nell'ombra e si avvicinò alla porta. Era sbarrata da un robusto paletto. Non poteva scardinarla: avrebbe svegliato tutti. Esaminò le pareti, sfiorandole con la mano. Un' assicella si mosse. Disma intuì che poteva allargare la fessura quel tanto che bastava per permettergli di infilarsi dentro la vecchia stalla. Con consumata abilità, il ragazzo spostò l'asse cercando di non farlo cigolare e si infilò nel varco con le movenze sinuose di un gatto.

Si mosse leggero, cercando di abituare gli occhi all'oscurità. I tre scrigni erano sotto la culla improvvisata del bambino, illuminati dall'ultimo bagliore delle braci del fuoco.

Il bue sbuffò nel sonno e l'asino scalciò nella paglia. Sognavano anche loro. Disma trattenne il fiato, immobile. Nella stalla i respiri ripresero regolari.

Il ragazzo si mosse rapidamente. Afferrò i tre scrigni e li infilò nella bisaccia di tela che portava a tracolla. Diede un'occhiata al bambino e gli parve di vedere sul suo piccolo viso un sorriso, scosse le spalle e uscì dalla fessura che aveva aperto. Quando fu fuori della stalla, sorridendo rimise a posto l'assicella che aveva spostato per entrare, poi si allontanò di corsa. Faceva grandi balzi di gioia, tenendo con le due mani il fagotto tintinnante della refurtiva. Ripassava a memoria il contenuto e pensava eccitato alla bella somma che ne avrebbe ricavato. Il più grosso degli scrigni conteneva monili, bracciali e monete d'oro, il secondo era pieno di purissimo incenso e il terzo conteneva una fiala di preziosissima mirra. Un colpo di fortuna incredibile. Doveva solo essere prudente e nascondere tutto bene. Il mondo era pieno di ladri.

La sorpresa

Entrò in casa dal tetto, come faceva di solito. Non aveva né padre né madre e il vecchio parente che lo teneva in casa non si curava di lui.

Nella sua stanzetta, sotto il pavimento ricoperto di paglia, Disma aveva scavato una nicchia in cui nascondeva le sue cose preziose.

«Terrò nascosti per qualche mese l'oro, l'incenso e la mirra. Poi li venderò un poco alla volta, a Gerusalemme o anche a Damasco, dove non desterà sospetti...» pensava.

Accese una lampada ad olio finemente incisa che proveniva dall'atrio della casa del centurione romano, che la stava ancora cercando, ed esaminò il bottino. Aprì con cautela il primo scrigno e non riuscì a trattenere un'imprecazione stizzita: «Ma che diavolo è successo?». Spalancò con furia gli altri due astucci, guardò, annusò e poi imprecò ancora più rabbiosamente. Qualcuno gli aveva giocato uno scherzo terribile. Forse quell'uomo era molto più furbo di quanto desse a vedere. Invece dell'oro, lo scrigno conteneva un grosso martello, al posto dell'incenso c'erano tre grossi chiodi e la bottiglietta, invece della mirra raffinata, conteneva volgare aceto.

«Accidenti, accidenti! Che me ne faccio di questa robaccia? La rifilerò ai soldati romani per qualche moneta...».

Tre croci

Passarono gli anni. Disma era diventato il più ricco e sfrontato predone del deserto. I suoi uomini compivano razzie nelle più ricche città d'Oriente e l'esercito di Roma era stato costretto più volte a scendere a patti con lui. Ma un giorno, arrivò da Roma un governatore ambizioso di nome Ponzio Pilato che, per fare carriera e ingraziarsi i notabili di Gerusalemme, decise di catturare Disma. Ci riuscì con un tranello e Disma fu condannato alla pena più terribile ed infamante: la morte mediante crocifissione.

Erano in tre a salire sul Golgota, il luogo delle condanne, poco fuori Gerusalemme, dove erano state preparate tre croci. Disma conosceva il vecchio brigante legato con lui, ma non riusciva a spiegarsi il terzo condannato. Aveva il volto nobile e pieno di bontà, anche sotto i segni della tortura. Dicevano che era un profeta di Galilea di nome Gesù, che faceva miracoli, che era stato condannato perché si era proclamato Figlio di Dio e Messia.

Gli occhi gelidi e feroci di Disma si incontrarono con quelli del terzo condannato. Per il bandito tutto divenne stranamente diverso: la sua rabbia feroce svanì e si sentì stranamente in pace.

Il boia cominciò il suo miserabile compito con il profeta galileo: impugnò un grosso martello e tre grossi chiodi, mentre un soldato inzuppava una spugna di aceto. Improvvisamente Disma capì: eccoli i doni dei re che lui aveva rubato tanti anni prima in una stalla di Betlemme, dove c'erano un uomo e una madre e un bambino. Quel bambino era il Messia! Quindi anche lui aveva contribuito a crocifiggere il Figlio di Dio... Con le lacrime agli occhi, Disma sentì che Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Con la solita insensibilità, i soldati si misero a litigare per dividersi le vesti dei condannati. Quando le tre croci furono innalzate con il loro carico di dolore, la gente cominciò a farsi beffe dei condannati. Si accanivano particolarmente contro Gesù. I capi del popolo lo schernivano: «Ha salvato tanti altri, ora salvi se stesso, se egli è veramente il Messia scelto da Dio». Anche i soldati lo schernivano: si avvicinavano a Gesù, gli davano da bere aceto e gli dicevano: «Se tu sei davvero il re dei Giudei salva te stesso!».

L'altro bandito crocifisso si era unito agli schernitori e insultava Gesù: «Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!». Disma lo rimproverò con asprezza: «Tu che stai subendo la stessa condanna non hai proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male».

Poi aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno».

Gli occhi del Messia torturato e morente guardarono Disma con bontà infinita, poi il feroce bandito udì le parole più belle e amorevoli di tutta la sua vita disperata: «Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso».

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4.0/5 (2 voti)

inviato da Patrizia Traverso, inserito il 24/11/2009

RACCONTO

7. Se Gesù bussasse alla porta di casa...   5

Mariangela Forabosco

C'era una volta un paese qualunque, in un posto qualunque, abitato da gente qualunque, che viveva una vita qualunque. Vi accadevano cose belle e cose brutte, come in tutti i paesi qualunque; era un paese dove la vita scorreva apparentemente tranquilla, presa dalle cose di tutti i giorni.
La gente di quel paese qualunque, però, non era poi tanto "qualunque"; infatti era l'erede nientemeno che di un Regno, annunciato tanti secoli prima da un grande Re, il cui nome era Gesù Cristo, sceso dal suo Regno celeste per insegnare agli uomini il modo per entrarci e diventare, così, suoi coeredi. Egli, nel suo soggiorno terrestre, con i suoi discorsi ed il suo comportamento, aveva stravolto le idee umane di Regno, riferite per lo più alla potenza, alla forza, al dominio, spesso al terrore e alla dominazione; aveva invece parlato di pace, amore, fratellanza, uguaglianza, tolleranza, carità. Per aver parlato di ciò, fu crocifisso dagli uomini e furono perseguitati pure i suoi apostoli e i suoi seguaci, chiamati Cristiani. L'annuncio del suo Regno, però, non si interruppe mai, continuò fino ai giorni nostri, giungendo anche in quel paese qualunque, in cui viveva un apostolo qualunque, responsabile della continuazione dell'annuncio e della vita evangelica dei cristiani.

Da tempo, il pastore di quella comunità si era accorto che qualcosa non andava per il suo verso. I Cristiani che frequentavano la chiesa non erano molti, i bambini addirittura pochissimi, le cose di questo mondo stavano prendendo il posto dell'aspettativa del Regno, anche se, a onor del vero, la gente era buona, faceva i fatti suoi, non faceva parlare di sé. Quel pastore, invece, voleva qualcosa di più: voleva realizzare il Regno già quaggiù, facendo sì che nel suo paese qualunque, con la sua gente qualunque, con un apostolo qualunque si compisse quanto il Re Gesù Cristo aveva chiesto agli uomini per avere la sua eredità eterna:"amatevi l'un l'altro come io ho amato voi!"
Un giorno, nel corso di una funzione religiosa, il pastore iniziò il suo sermone così: "Cari fratelli, care sorelle, questa notte ho avuto una visione...".
Un bisbiglio serpeggiò tra i fedeli. "Ha avuto una visione! Che sarà mai?".
"Una visione bellissima", continuò l'apostolo, "ho visto Gesù in tutto il suo splendore!".
"Ha visto Gesù....ma, sarà vero?". "Il nostro apostolo ha visto Gesù!!!". Il brusio tra i fedeli era ormai incontrollabile, mentre tutti tenevano gli occhi incollati al volto dell'Uomo di Dio, in attesa del seguito del suo discorso.
"E' vero, pare impossibile anche a me, umile apostolo, che Gesù si sia degnato di apparirmi, ma è proprio così: Gesù è venuto da me e mi ha lasciato un messaggio per noi tutti, me compreso".
"Un messaggio, anche per noi? E che sarà mai"? si chiedeva la gente, ormai in preda ad una grande curiosità, mista ad un po' di ansia.
"Gesù mi ha detto che la prossima settimana visiterà tutte le case del nostro paese, compresa la mia naturalmente, senza preavviso, e si nasconderà nelle spoglie delle persone, di qualunque persona, può essere la nonna, il figlio, il marito, la moglie, un forestiero, insomma, può essere proprio qualunque sta intorno a noi, capito? Adesso andatevene, raccontate quanto vi ho detto anche a chi non viene in chiesa e sappiate comportarvi di conseguenza. Ricordatevi che Gesù guarda soprattutto se mettete in pratica il suo insegnamento:"Ama gli altri come te stesso".

Potete immaginare il chiacchiericcio e l'emozione della gente all'uscita dalla chiesa. La voce dell'arrivo di Gesù si sparse in un battibaleno in tutto il paese, ne varcò i confini e arrivò in città, e subito reporter dei più famosi giornali e delle stazioni televisive invasero il paese qualunque, insediandosi nei pochi hotel disponibili ed assediandolo con camper, antenne e quant'altro.
Venne il lunedì, e ogni persona del paese passò la giornata a guardarsi intorno, a fissare gli altri con occhi terribilmente fissi, quasi per scorgere, sotto le loro sembianze, la parvenza della presenza di Gesù. Fu una giornata di nervosismo, di scatti repentini, di risposte poco gentili, insomma, fu una giornata poco... "caritatevole". Durante la notte, però, le persone, in un dormiveglia ansioso, ebbero modo di riflettere sul loro comportamento e capirono che non avevano messo per niente in pratica l'insegnamento di Gesù. "Se per caso era in una delle persone che ho incontrato oggi, mamma mia, che figura ho fatto!!!! Domani starò più attento".
Intanto, i giornalisti, la sera del lunedì fecero sapere a mezzo mondo che la venuta di Gesù tra la gente del paese qualunque aveva fatto schizzare i nervi a tutti e le cose erano peggiorate rispetto a prima, ne sapeva qualcosa uno di loro, che era addirittura stato malmenato per aver calpestato le aiuole di un bel giardino, mentre tentava di riprendere una lite famigliare dietro una finestra.

Venne il martedì e il detto "la notte porta consiglio" fu quanto mai veritiero.
La signora Maria, uscita per fare la spesa di buon mattino, incrociò la signora Bice. Come sempre, le venne istintivo di tirare dritto voltando la faccia dall'altra parte (aveva sparlato di lei con la sua amica più cara, quella strega!), ma le balenò il pensiero: "E se è Gesù? Non posso non salutarlo!", e per la prima volta, dopo dieci mesi, le disse, se pur tra i denti: "Buona giornata, Bice!".
La Bice, che era ben peperina, stava per non rispondere al saluto, ma pensò: "E se è Gesù?". Mai avrebbe rinunciato a salutare Gesù, per cui disse sorridendo: "Cara Maria, buona giornata anche a te!!!". E sentirono tutte e due un gran peso che se ne andava e una gran gioia che le rallegrava.
L'infermiera Tina, raggiunto il suo reparto, ne trovò di tutti i colori: si innervosì, rispose alla caposala, stava per adirarsi con un malato difficile quando un pensiero le balenò improvviso: "E se Gesù si fosse nascosto in qualcuna di queste persone? Ma guarda, non ci avevo pensato!". Immediatamente cambiò il proprio atteggiamento, diventò gentile ed affabile con tutti e, di conseguenza, tutti diventarono gentili con lei.
"Mamma, guarda che disegno ho fatto!". "Piantala, che devo vedere la puntata di Demiful...!", rispose secca la donna. Pian piano, però, affiorò nella sua mente un dubbio: "E se Gesù si è nascosto in mio figlio"?. Immediatamente, spense la televisione, rinunciando per la prima volta alla sua telenovela preferita, e chiamò il figlio.
Di giorno in giorno, nel paese qualunque, tra quella gente qualunque, si diffuse in modo dirompente la consapevolezza che il Cristo Re poteva nascondersi nelle spoglie di qualunque persona, chiunque poteva essere Gesù e, di conseguenza, il comportamento di ognuno cambiò: le parole gentili sostituirono gli improperi, ogni persona fu guardata con occhi nuovi, con amore, con più rispetto, i mariti ebbero più riguardo per le mogli, le mogli si sforzarono di capire più profondamente i mariti, i genitori dedicarono più tempo ai figli, gli anziani furono apprezzati per la loro esperienza, i malati furono accuditi con amore e gentilezza, i forestieri furono accolti con disponibilità.
I giornalisti, come sempre pronti a cogliere le minime manifestazioni che facessero notizia, constatarono un crescendo di atteggiamenti positivi: l'armonia si poteva toccare con mano, gli sforzi per migliorare i rapporti con gli altri erano palpabili, insomma, sembrava un paese nuovo, Regno di pace, d'amore, il Regno in terra del Re Gesù Cristo. La notizia positiva si diffuse in mezzo mondo e ogni paese cercò di copiare la ricetta dell'Amore, con la consapevolezza, finalmente, che Gesù è in ogni uomo ed applicando quanto Egli ci disse: "Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avrete fatto a me".

Ed è così che il pastore qualunque della gente qualunque del paese qualunque riuscì a realizzare sulla terra il Regno di Dio, obbedendo alla richiesta che recitiamo sempre nel Padre Nostro: "Venga il tuo regno!".
E nascendo la PACE in ogni cuore, nacque la pace in tutta la terra!

regno di DiopaceamorefratellanzaGesùCristo Recarità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 13/09/2009

RACCONTO

8. Evaristo il pettirosso   2

Miriam Soter

Evaristo era un passerotto come tanti altri. Viveva in un bel nido tra le tegole del Tempio di Gerusalemme e ogni mattina si appollaiava fra le travi di cedro del Portico di Salomone per ascoltare Gesù. In quei giorni la città era piena di gente, perché si avvicinava la Pasqua: c'era gran folla anche tra gli uccellini ed Evaristo ogni mattina, al sorgere del sole, volava in picchiata a prendersi il posto in prima fila per poter sentire bene gli insegnamenti del Redentore.

Un venerdì, però, gli uccellini aspettarono tutta la mattinata invano. Un po' alla volta gli altri se ne tornarono ai loro nidi. Evaristo era preoccupato: «Com'è strano! Di solito è sempre così puntuale! Sarà successo qualcosa?». Poco dopo mezzogiorno decise di andare a cercarlo. Quando giunse nei pressi del Golgota ebbe una terribile sorpresa: Gesù era stato crocifisso. La folla che fino al giorno prima lo acclamava come Messia, ora lo scherniva e insultava. Il suo Corpo era tutto piagato e sul suo capo era stata posta una corona di spine.

Evaristo si accorse subito che una di quelle spine gli causava un particolare dolore e decise di togliergliela. Al volo raggiunse il suo Signore, prese la spina con il becco e con tutte le sue forze cercò di staccarla. Dopo vari tentativi ci riuscì, ma appena si fu allontanato un po' si accorse di essersi ferito: una piccola spina gli era penetrata nel cuore e gli faceva tanto male. «E' dolorosa, ma non è niente rispetto a quello che soffre Gesù!».

Il tempo passava e quella spina diventava ogni momento più insopportabile. Il fervore iniziale era finito e la generosità veniva soffocata dal dolore. Evaristo si avvicinò alla Madre di Gesù per lamentarsi ed essere liberato da quella spina: «O Signora! Guardatemi come soffro! Nessuno soffre come me e non ce la faccio più!».

L'immacolata lo guardò con mestizia e, senza dir niente, con la mano gli mostrò il suo bel Cuore Immacolato: non una sola spina, ma l'intera corona lo attanagliava, facendolo sanguinare copiosamente.

Evaristo rimase profondamente confuso: lui si era lamentato così tanto per una piccola spina, mentre la Regina stava offrendo, in silenzio e con amore, al Padre il suo immenso dolore. «Oh! Scusatemi! Non voglio più essere liberato dalla mia spina, ma la voglio offrire insieme a Voi!».

Non appena ebbe detto queste parole la spina incominciò a dissolversi, lasciando sul petto una bella impronta rossa come il Sangue del Redentore e della Corredentrice. Da allora Evaristo e i suoi discendenti mostrano, con commozione e gratitudine, il loro petto rosso che ricorda a tutti quelli che lo vedono i dolori immensi di Gesù e del Cuore Immacolato di Maria.

venerdì santocrocedolorepassionesofferenzapasquacalvario

4.3/5 (4 voti)

inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008

RACCONTO

9. Quando le croci sono troppe

Giovanni Francile

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un crocifisso, se ne lamentò con il signore così:

"Ah, signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... Ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai date tante e così pesanti che io non ho più forza per portarle...".

Il Signore però gli disse: "ieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco... Ecco, questa è la croce più grossa e la più pesante; guarda cosa c' è scritto sopra...".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?", disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, di golosità, di divertimenti... E di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".

"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest' altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l'ho data io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... E di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".

"E' vero, è vero! Anche questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto gelosia, su quell'altra: avarizia, su quest'altra...".

"Ho capito, ho capito Signore, è troppo giusto quello che tu dici...".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se le era poste sulle spalle.

Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle, esclamò:

"Oh! Come è piccola questa! E pesa poco!". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".

Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!". Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: "Vedi, figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al cielo, perché io l'ho detto: 'Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua...', ma ho detto anche: 'il mio giogo è soave e il mio peso è leggerò".

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù.

Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del paradiso.

crocedifficoltàviziegoismoconversionecroci

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cosimo Di Lella, inserito il 15/11/2007

RACCONTO

10. Il bambino che tolse i chiodi a Gesù   1

Questa storia è vera per la prima parte, mentre la seconda ne è un possibile proseguimento, suggerito dalla fede e dal cuore di chi scrive, liberamente interpretabile da chi legge, purché resti emblematica nel suo contenuto che vuol essere comunque educativo.

C'era una volta un bambino (oggi non è più quel bambino perché è regolarmente cresciuto) di nome Lorenzo, piccolo mulatto, birichino, occhi pieni di curiosità, denti bianchissimi nella bocca sorridente, voglia continua di correre e giocare, fantasioso, spericolato, sempre protetto dal vigile Angelo Custode.

E non c'era solo quel bambino, c'era anche un castello, dove il bimbo andava a giocare e dove l'aspettavano tante zie che se lo contendevano per appagare tutti i suoi desideri e raccontarsi poi le sue prodezze.

Nel castello c'era una piccola chiesa, perché le zie che lo custodivano erano delle suore secolari che sapevano coniugare la consacrazione al Signore l'amore materno ad ogni piccola creatura.

Ed ecco che un giorno, nel mezzo del gioco, mentre il bimbo corre calciando il pallone, nel corridoio accanto alla piccola chiesa la voce della zia "Annamalia", la madrina di battesimo, chiama: "Lorenzo, vieni a conoscere Gesù".

Così Lorenzo scende per la prima volta i gradini della chiesetta ed entra nel vano sacro, dove gli viene mostrato Gesù nel grande crocifisso appeso alla parete sopra l'altare.

Il bimbo alza gli occhi e vede i piedi forati dal chiodo, sovrapposti e sanguinanti. Ecco quello è Gesù e lui gli manda bacetti con la mano, rammaricandosi di non poterlo raggiungere, impotente a togliergli quei chiodi che forano i piedi e le mani fino a farli sanguinare.

Cominciò così il suo amore per Gesù, un misto di ammirazione e compassione che si rinnovava ad ogni nuova visita.

Per Lorenzo era un grosso sacrificio lasciare il gioco per andare a rivedere Gesù, ma ne valeva la pena... specialmente dopo che aveva assaggiato il "Pane di Gesù", che zia Annamaria aveva preso da un armadietto della sacrestia, e dopo aver saputo che la casa di Gesù era nel tabernacolo di marmo, proprio sotto la grande croce da cui Gesù non poteva discendere. In braccio alla madrina lui però poteva baciare la porticina di quella "casa" e stabilire con Gesù una grande amicizia, più importante di quella che aveva con i suoi compagni della Scuola Materna.

Ma il cuoricino di Lorenzo soffriva per quei grossi chiodi che non sapeva come fare a togliere perché Gesù potesse guarire e scendere dalla croce. Una volta che zia Roberta si ferì un piede e mostrò al bambino la ferita, egli si slanciò a baciarlo per farlo guarire come avrebbe voluto fare con Gesù.

Passò il tempo e venne il grande momento: una scala era rimasta abbandonata in chiesa con qualche attrezzo, come quelli che usava papà Mario per i lavori di casa. Lorenzo non aspettava altro! Ormai era abbastanza alto e forte per sollevare la scala, avvicinarla al grande crocifisso, prendere gli attrezzi e salire fino in alto. Ora finalmente poteva "lavorare" per togliere quei chiodi ai piedi e alle mani di Gesù.

Lavora, smuovi, tira... e uno! Poi due, ma il terzo che fatica! Non si arrese: tirò finché anche quello fu divelto, ma intanto la scala oscillò e si piegò all'indietro. Un grido: "Gesù!". Una risposta: "Lorenzo!".

E mentre il bimbo stava perdendo l'equilibrio, stava cadendo indietro, le mani libere di Gesù lo afferrarono e lo portarono in posizione sicura. Lorenzo, ignaro del pericolo corso, esultava di gioia: Gesù finalmente aveva parlato!

Le zie intanto cercavano il bambino e lo trovarono sulla scala sorridente. "Lorenzo che hai fatto?".
"Non ha più i chiodi! E Gesù mi ha risposto!".

Zia Ilva sale subito sulla scala e va a prendere il bambino, lo riconduce a terra illeso, fra la grande gioia di tutte le zie dal cuore materno che per lui hanno trepidato e stentano a capire che cosa è successo.

In realtà nessuno mai capì bene la cosa, solo Lorenzo sapeva che Gesù non aveva più i chiodi perché lui glieli aveva tolti e poi era felice perché Gesù gli aveva parlato come ad un vero amico.

Quando Lorenzo crebbe e diventò un uomo, non si sa cosa fece nella vita: forse divenne papà ed ebbe dei figli; forse partì missionario ed andò a fare del bene ad altri bambini. Comunque siano andate le cose, Lorenzo ebbe sempre tanto amore per Gesù ed insegnò ai bambini ad amarlo tanto. Così il mondo divenne più buono.

Gesùcrocifissocrocerapporto con Diosemplicità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Una Catechista, inserito il 25/03/2007

RACCONTO

11. I due lumini   2

G. Francesco

C'era in un piccolo paese di montagna un chiesa molto famosa per i suoi meravigliosi quadri, dipinti da artisti di ogni secolo. Questa chiesa era così famosa che andava a visitarla anche gente proveniente da paesi lontani.
Oltre a questi meravigliosi capolavori, in un angolo quasi dimenticato, vi era anche un crocifisso di legno; a differenza dei quadri, ben visibili a tutti i visitatori perché illuminati da potentissimi fari che evidenziavano contorni e colori delle immagini, il piccolo crocifisso, posto nel buio, passava quasi sempre inosservato. Così era molto triste e sconfortato, perché si rendeva conto che nessuno poteva vederlo e quindi non poteva fare quello che doveva fare.
Un giorno, uno spiraglio di luce riuscì ad illuminare una zona di quell'angolino. Il crocifisso, incuriosito da questo fascio di luce, cercò di vedere cosa c'era lì attorno e con grande sorpresa, notò proprio accanto a lui, due lumini.

Con un po' di coraggio tentò di attirare la loro attenzione:
"Salve, io sono il Crocifisso di legno ed avrei un gran bisogno del vostro aiuto".
Uno dei due lumini, con aria da superiore e un po' infastidito, rispose:
"Il mio aiuto? E perché dovrei aiutarti? Non ho proprio voglia di fare niente! E poi non saprei proprio cosa poter fare per te".
Il crocifisso, turbato dalla risposta, ribatté al primo lumino: "Come non sai come potermi aiutare?! Non sai che tu hai la capacità di generare luce?!".
Riprese il primo lumino: "Luce? E come potrei produrla? A me nessuno ha mai detto per che cosa sono stato creato; mi hanno lasciato qui e qui sono rimasto, senza farmi tante domande".
Replicò il crocifisso: "Allora te lo dico io. Tu, con la tua cera e con il tuo stoppino, hai la possibilità di dar vita ad una luce piccola, ma sufficiente ad illuminarmi. Purtroppo però, questa luce non è eterna: la fiamma da cui proviene scioglie, con il suo calore, la cera e la consuma".
E il primo lumino, spaventato: "Cosa vuoi dire? Che perderò la mia forma rotonda e alta? Che mi vedrò morire a poco a poco?".
Rispose il crocifisso: "Sì. E voglio dirti che ad un certo punto non ci sarai più".
"Neanche a pensarci!" disse il lumino, "io non farò niente di quello che tu mi hai detto. Preferisco stare qui, in questo angolo buio, piuttosto che rovinarmi e perdere ciò che ho".
Il crocifisso, ascoltate le parole del lumino, perse la speranza.

Ad un tratto però, si sentì chiamare: "Scusa. Ehi crocifisso, mi senti? Posso parlarti un secondo?".
Il crocifisso volse lo sguardo; capì che quella vocina proveniva dal secondo lumino e rispose: "Sì che puoi parlarmi!".
Allora il secondo lumino domandò: "Ma è vero che io ho il dono di creare luce? E che così facendo potrei aiutarti?".
Rispose il crocifisso: "Sì, è proprio vero. Ma è anche vero che per aiutarmi dovrai sacrificare te stesso".
Il secondo lumino stette un po' in silenzio; poi, con sicurezza, sentenziò: "Ok, ti aiuterò. Lo faccio perché è ciò che voglio fare. Ora che sono a conoscenza del mio dono, voglio farlo fruttificare, anche se dovrò andare incontro alla mia fine. Tu non preoccuparti perché aiutando te, farò qualcosa anche per me stesso: mi potrò realizzare".
Il crocifisso, commosso, ringraziò di tutto cuore il lumino. Si sentiva molto felice perché adesso, illuminato dal suo piccolo amico, poteva fare ciò per cui era stato creato.

Da quel giorno, nella chiesetta, non sono più solo i quadri ad attirare l'attenzione dei fedeli visitatori: c'è un oggettino che esprime umiltà e semplicità; è illuminato da una luce tiepida e tenue che misteriosamente richiama chiunque lo noti, a fermarsi un attimo. Non è un quadro artisticamente meraviglioso, ma ha qualcosa di particolare: mostra l'immagine del Figlio di Dio, Gesù, colui che ha posto i doni del Padre al nostro servizio, dando loro così, un valore ancora più grande. E come se non bastasse, ha infine sacrificato se stesso, facendosi crocifiggere, per noi, perché quello era il destino che Qualcuno aveva disegnato.
Nella chiesetta risuona ancora oggi la storia di un lumino, che oramai vecchio e coperto di polvere, è rimasto abbandonato e solo nel suo buio angolino; e di un lumino che ormai non c'è più, ma che ha fatto la sua storia, lasciando traccia di sé nel cuore di un crocifisso che, grazie al suo amico lumino, narra, ancora oggi, l'umiltà e la bontà di chi ha scelto di vivere e morire per noi.

vitatalentisacrificioGesù Cristocrocesofferenza

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giaccaglia Francesco, inserito il 29/08/2002

RACCONTO

12. Al suo posto   2

Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù

Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina. In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevuto il significativo titolo di «Cristo delle grazie». Arrivava gen­te da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.

Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiede­re anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all'immagine, pregò: «Signore, voglio soffrire con te. Lasciami prendere il tuo posto. Voglio stare io sulla croce».

Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.

Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse: «Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione: qualunque cosa succeda, qualun­que cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio».
«Te lo prometto, Signore».
Avvenne lo scambio.

Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c'era Se­bastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell'eremita. I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva. Finché un giorno...

Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenti­cò sul gradino la sua borsa piena di monete d'oro. Sebastiano vide, ma conservò il silenzio. Non parlò neppure un'ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne an­dò. Né aprì bocca quando davanti a lui si inginoc­chiò un giovane che chiedeva la sua protezione pri­ma di intraprendere un lungo viaggio per mare. Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l'uomo ricco che, credendo che fosse stato il giova­ne a derubarlo della borsa di monete d'oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.
Si udì allora un grido: «Fermi!».

Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare. Sebastiano spiegò come erano andate le cose. Il ricco corse allora a cercare il povero. Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio. Quando nel santuario non ri­mase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò.

«Scendi dalla croce. Non sei degno di occupare il mio posto. Non hai saputo stare zitto».

«Ma, Signore» protestò, confuso, Sebastiano. «Dovevo permettere quell'ingiustizia?».

«Tu non sai» rispose il Signore, «che al ricco conv­eniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un'ingiustizia. Il povero, al contra­rio, aveva un gran bisogno di quel denaro. Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l'imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare».

Lo scrittore Piero Chiara, poco religioso, era molto ­amico dello scultore Francesco Messina, che era invece profondamente credente.

Quando Chiara era prossimo alla morte, Messina si recò al suo capezzale e, prendendogli la mano, gli chiese: «Dimmi, Piero, come stai a fede?».

Chiara lo fissò con gli occhi dolenti e rispose: «lo mi fido di te».

Sono le parole più belle che possiamo dire ad un amico: «lo mi fido di te».

È la preghiera più bella che possiamo rivolgere a Dio: «lo mi fido di Te».

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inviato da Luca Mazzocco, inserito il 14/06/2002