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RACCONTO
81. Un bicchiere di latte - Si raccoglie quello che si semina 2
Un giorno, un ragazzo povero che vendeva merci porta a porta per pagarsi gli studi all'università, si trovò in tasca soltanto una moneta da 10 centesimi, e aveva fame. Decise che avrebbe chiesto qualcosa da mangiare nella prossima casa, ma i suoi nervi lo tradirono quando gli aprì la porta una donna stupenda. Al posto di qualcosa da mangiare chiese un bicchiere d'acqua. Lei pensò che il giovane sembrava affamato, e dunque gli portò un bel bicchiere di latte. Lui lo bevve piano, e allora chiese: "Quanto devo?". "Non mi deve niente", rispose lei. "Mia madre ci ha insegnato che dobbiamo essere sempre caritatevoli con coloro che hanno bisogno di noi". E lui disse: "Allora la ringrazio di cuore!". Quando Howard Kelly andò via da quella casa, non soltanto si sentì più sollevato, ma anche la sua fede in Dio e negli uomini era diventata più forte. Era stato sul punto di arrendersi e di lasciare gli studi a causa della sua povertà.
Qualche anno dopo la donna si ammalò in modo grave. I medici del paese erano preoccupati. Alla fine la inviarono alla grande città. Chiamarono il Dott. Howard Kelly per un consulto. Quando lui sentì il nome del paese da dove proveniva la paziente, sentì negli occhi una luce particolare e una gradevole sensazione. Immediatamente il Dott. Kelly salì dalla hall dell'ospedale fino alla stanza di lei. Vestito con il suo grembiule da dottore entrò a vederla. Capricci del destino, era lei, la riconobbe subito. Ritornò alla stanza determinato a fare tutto il possibile per salvare la sua vita. Da quel giorno seguì quel caso con la maggiore attenzione, lei subì un'operazione a cuore aperto e si recuperò molto lentamente. Dopo una lunga lotta, lei vinse la battaglia! Era finalmente recuperata! Giacché la paziente era fuori pericolo, il Dott. Kelly chiese all'ufficio amministrativo dell'ospedale che gli inviassero la fattura con il totale delle spese, per approvarla. La ricontrollò e la firmò. Inoltre scrisse qualcosa sui margini della fattura e la inviò alla stanza della paziente.
La fattura arrivò alla stanza della paziente, ma lei aveva paura di aprirla, perché sapeva che avrebbe lavorato per il resto della sua vita per pagare il conto di un intervento così complicato. Finalmente la aprì, e qualcosa attirò la sua attenzione. Sui margini della fattura lesse queste parole: "Pagata completamente molti anni fa con un bicchiere di latte Firmato: Dott. Howard Kelly". I suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia e il suo cuore fu felice e benedisse il dottore per averle ridato la vita.
speranzacaritàamoreseminarebenegratuitàgratitudine
inviato da Marianna Mundo, inserito il 26/06/2010
RACCONTO
In un caldo giorno d'estate nel sud della Florida, un bambino decise di andare a nuotare nella laguna dietro casa sua. Uscì dalla porta posteriore correndo e si gettò in acqua nuotando felice. Sua madre lo guardava dalla casa attraverso la finestra e vide con orrore quello che stava succedendo. Corse subito verso suo figlio gridando più forte che poteva. Sentendola il bambino si allarmò e nuotò verso sua madre ma era ormai troppo tardi.
La mamma afferrò il bambino per le braccia, proprio quando il caimano gli afferrava le gambe. La donna tirava determinata, con tutta la forza del suo cuore. Il coccodrillo era più forte, ma la mamma era molto più determinata e il suo amore non l'abbandonava. Un uomo sentì le grida, si precipitò sul posto con una pistola e uccise il coccodrillo. Il bimbo si salvò e, anche se le sue gambe erano ferite gravemente, poté di nuovo camminare.
Quando uscì dal trauma, un giornalista domandò al bambino se voleva mostrargli le cicatrici sulle sue gambe. Il bimbo sollevò la coperta e gliele fece vedere.
Poi, con grande orgoglio si rimboccò le maniche e disse: "Ma quelle che deve vedere sono queste". Erano i segni delle unghie di sua madre che l'avevano stretto con forza. "Le ho perché la mamma non mi ha lasciato e mi ha salvato la vita".
Anche noi abbiamo cicatrici di un passato doloroso. Alcune sono causate dai nostri peccati, ma alcune sono le impronte di Dio quando ci ha sostenuto con forza per non farci cadere fra gli artigli del male. Ricorda che se qualche volta la tua anima ha sofferto.... è perché Dio ti ha afferrato troppo forte affinché non cadessi!
sofferenzaamore di Diosalvezzaabbandono in Dio
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 15/04/2010
TESTO
Tomàs Spidlík, Il professor Ulipispirus e altre storie
La montagna si eleva verso il sole. Ma la montagna pesa. E' fatta di sassi. In qualche recesso delle sue viscere nacquero un giorno due piccole sorgenti d'acqua limpida, che cercavano di uscire all'aperto. Ma la montagna non cedeva: le opprimeva, le soffocava.
Dopo un bel po' di tempo le sorgenti, facendosi largo a poco a poco, riuscirono a venire alla luce ai piedi della montagna. Com'erano stanche! Ma non c'era tempo per riposarsi.
Erano appena scaturite dalla terra quando sentirono delle grida provenienti dal muschio, dall'erba, dai fiorellini, dalle rose alpine: "Dateci da bere! Dateci da bere!"
"Fossi matta!", disse la prima sorgente. "Ho faticato tanto senza sosta laggiù, sottoterra, mentre voi, pigri, ve ne stavate al sole. Non vi darò proprio niente!"
"Non ci darai niente?", disse il muschio piccato. "E allora noi non ti lasceremo passare."
"Ti sbarreremo la strada con le nostre numerose radici", dichiarò l'erba.
"Ti copriremo così nessuno ti troverà", minacciarono i cespugli di rose alpine e di rovi.
La seconda sorgente fu condiscendente: "Bevi, sorella erba, però fatti da parte perché io possa proseguire il mio cammino!" Bevvero un poco anche i cespugli ma si tennero fuori dalla corrente e così il muschio e la rosa alpina.
La sorgente correva. Dava da bere a tutte le piante e tutte le cedevano il passo. La sua acqua era fresca e limpida come cristallo. Lei stessa non sapeva come. Le piante l'amavano e lasciavano che altre sorgenti si unissero a lei. Alla fine arrivò al mare. Quando giunse alla foce, l'azzurro padre Oceano la prese fra le braccia e la baciò sulla fronte. "E dov'è tua sorella sorgente?", le chiese.
"Ah, Padre! Purtroppo è diventata paludosa, marcia e puzzolente."
"Così è la vita, figliola mia", disse padre Oceano.
"Tua sorella non voleva dare agli altri ciò che ha ricevuto. Vedi? Anch'io oggi ti ricevo in restituzione del vapore che da me è salito verso la montagna. La vita è dare. Tenere per sè è la morte."
daredonaresenso della vitagratuitàvita
inviato da Maria Carmela Moretti, inserito il 22/12/2009
RACCONTO
Bruno Ferrero, 365 storie per l'anima
C'era una volta un re che aveva una figlia di grande bellezza e straordinaria intelligenza.
La principessa soffriva però di una misteriosa malattia. Man mano che cresceva, si indebolivano le sue braccia e le sue gambe, mentre vista e udito si affievolivano. Molti medici avevano invano tentato di curarla.
Un giorno arrivò a corte un vecchio, del quale si diceva che conoscesse il segreto della vita. Tutti i cortigiani si affrettarono a chiedergli di aiutare la principessa malata. Il vecchio diede alla fanciulla un cestino di vimini, con un coperchio chiuso, e disse: «Prendilo e abbine cura. Ti guarirà».
Piena di gioia e attesa, la principessa aprì il coperchio, ma quello che vide la sbalordì dolorosamente. Nel cestino giaceva infatti un bambino, devastato dalla malattia, ancor più miserabile e sofferente di lei.
La principessa lasciò crescere nel suo cuore la compassione. Nonostante i dolori prese in braccio il bambino e cominciò a curarlo. Passarono i mesi: la principessa non aveva occhi che per il bambino. Lo nutriva, lo accarezzava, gli sorrideva. Lo vegliava di notte, gli parlava teneramente. Anche se tutto questo le costava una fatica intensa e dolorosa.
Quasi sette anni dopo, accadde qualcosa di incredibile. Un mattino, il bambino cominciò a sorridere e a camminare. La principessa lo prese in braccio e cominciò a danzare, ridendo e cantando. Leggera e bellissima come non era più da gran tempo. Senza accorgersene era guarita anche lei.
Signore, quando ho fame mandami qualcuno che ha bisogno di cibo;
quando ho sete, mandami qualcuno che ha bisogno di acqua;
quando ho freddo, mandarmi qualcuno da riscaldare;
quando sono nella sofferenza, mandami qualcuno da consolare;
quando la mia croce diviene pesante, dammi la croce di un altro da condividere;
quando sono povero, portami qualcuno che è nel bisogno;
quando non ho tempo, dammi qualcuno da aiutare per un momento;
quando mi sento scoraggiato, mandami qualcuno da incoraggiare;
quando sento il bisogno di essere compreso, dammi qualcuno che ha bisogno della mia comprensione;
quando vorrei che qualcuno si prendesse cura di me, mandami qualcuno di cui prendermi cura;
quando penso a me stesso, rivolgi i miei pensieri ad altri.
compassionetenerezzamalattiadonaredonoapertura verso gli altrialtruismochiusura
inviato da Stefania Chiari, inserito il 21/12/2009
TESTO
Guarda coloro che nuotano in mare: il nuotatore provetto si getta in acqua senza aver paura, sapendo che le onde non possono travolgere un buon nuotatore. Al contrario, chi comincia da poco a nuotare, appena si sente andare a fondo e ha paura di annegare, si ritira senza indugio sulla riva. Poi, riprendendo un po' di coraggio, torna a tuffarsi nell'acqua.
preghieracontemplazionerapporto con Diospiritualità
inviato da Cristiano Ballan, inserito il 13/12/2009
TESTO
Io la Pace la penso così,
come una terra immensa,
senza frontiere,
senza confini:
una terra feconda
che produca frumento
per tutte le bocche,
una terra allietata
da chiari corsi d'acqua.
Io la pace la penso così,
come un abito azzurro;
azzurro come il manto della nostra Madre Maria,
azzurro come le speranze
di tutti i popoli oppressi,
azzurro come un cielo senza confini spaziali,
azzurro come lo sguardo della Natura
quando era immersa nel giardino dell'Eden,
Io la pace la penso così,
come un padre che ama, che guida, che corregge,
che raduna dalle varie lontananze
il suo gregge,
chiama per nome ogni figlio e ogni figlia,
perché la Chiesa è come una famiglia.
Io la Pace la penso così e voi?
inviato da Anna Marinelli, inserito il 08/12/2009
TESTO
Non è tanto l'eta, ma certi pensieri a farti vecchio.
Come quando ricordi disgrazie e torti subiti,
dimenticando gioie gustate e doni ricevuti.
Quando ti danno fastidio giochi e corse di bambini
il cinguettio di ragazzine e il bacio dei giovani.
Sei vecchio quando continui a dire
che bisogna tenere i piedi per terra,
e cancelli dalla tua vita la fantasia,
il rischio, la poesia la musica.
Quando non gusti piu i canti degli uccelli,
l'azzurro del cielo, il sapore del pane,
la freschezza dell'acqua, la bellezza dei fiori.
Sei vecchio quando pensi che sia finita per te
la stagione della speranza e dell'amore.
Sei vecchio quando pensi alla morte
come al calar della tomba,
invece che come al salire verso il cielo.
Se invece ami, speri e ridi, allora Dio
allieta la tua giovinezza anche se hai novant'anni.
inviato da Giovanna Pirronitto, inserito il 07/12/2009
TESTO
Canto brasiliano
La natura che io ho voluto non è questa qui,
che cade indifesa, perdendo la bellezza,
recando tristezza alla terra che ho creato.
La terra che io ho voluto non è questa qui,
fatta a pezzi dai ricconi, dalle mani criminose degli uomini che io ho fatto.
L'uomo che io ho fatto non è questo qui,
che vive oppresso, che cammina disorientato,
che cade ucciso nel mondo che io ho fatto.
Forse ho sbagliato? Ditemelo voi.
Forse ho messo molta acqua nel mare?
Forse è il calore del mio sole che brucia?
Se per caso è così, perdono! Ho sbagliato.
Adesso vi dico qual è il mondo che io ho voluto:
le stelle non litigano, il sole non si allontana,
il mare non invade la terra che io ho fatto.
Adesso vi dico qual è l'uomo che io ho voluto:
un uomo libero, fraterno e aperto,
che fa della vita un canto felice.
Forse ho sbagliato ad essere troppo buono?
Forse l'amore, la giustizia e la pace
non hanno più alcun valore in questo mondo mio?
Se è così, perdono! Ho sbagliato.
ecologianaturainquinamentocreazionecreato
inviato da Stefano Foschi, inserito il 07/12/2009
PREGHIERA
89. Non vi sono che due amori 2
Non vi sono che due amori, o Signore,
l'amore di me, l'amore di te e degli altri,
ed ogni qualvolta mi amo, è un po' meno di amore per te e per gli altri,
una perdita d'amore,
perché l'amore è fatto per uscire da me e volare verso gli altri.
Ogni qualvolta ripiega su me, intisichisce; marcisce e muore.
L'amore di me, o Signore, è un veleno che sorbisco ogni giorno,
l'amore di me mi offre una sigaretta e non ne dà al mio vicino,
l'amore di me sceglie la parte migliore e tiene il posto migliore,
l'amore di me accarezza i miei sensi e ruba il pane sulla mensa degli altri,
l'amore di me parla di me e mi rende sordo all'altrui parola,
l'amore di me sceglie ed impone la scelta all'amico,
l'amore di me mi traveste e mi trucca, vuol farmi brillare eclissando gli altri;
l'amore di me mi compatisce e trascura la sofferenza altrui,
l'amore di me diffonde le mie idee e disprezza quelle altrui,
l'amore di me mi trova virtuoso, mi chiama persona per bene,
l'amore di me mi incita a guadagnar denaro, a spenderlo per il mio piacere, ad ammucchiarlo per il mio avvenire,
l'amore di me mi suggerisce di dare ai poveri per addormentare la mia coscienza e vivere in pace.
L'amore di me m'infila le pantofole e mi adagia in poltrona,
l'amore di me è soddisfatto di me e mi addormenta dolcemente.
La cosa più grave, o Signore, si è che l'amore di me è un amore rubato.
Era destinato agli altri, ne avevano bisogno per vivere, per perfezionarsi, ed io l'ho distolto.
Così l'amore di me crea la sofferenza umana,
così l'amore degli uomini per loro stessi crea la miseria umana,
tutte le miserie umane,
tutte le sofferenze umane,
la sofferenza del ragazzo che la madre batte senza motivo e quella dell'uomo che il padrone riprende davanti agli operai;
la sofferenza della ragazza brutta abbandonata nel ballo e quella della sposa che il marito non abbraccia più;
la sofferenza del bambino che si lascia a casa perché ingombra e quella del nonno deriso dai bambini perché troppo vecchio;
la sofferenza dell'uomo ansioso che non s'è potuto confidare e quella dell'adolescente inquieto di cui s'è messo in ridicolo il tormento;
la sofferenza del disperato che si butta in acqua e quella del bandito che si sta per fucilare;
la sofferenza del disoccupato che vorrebbe lavorare e quella del lavoratore che rovina la sua salute per una paga irrisoria;
la sofferenza del padre che raduna la famiglia in una sola stanza accanto ad un villino vuoto e quella della mamma i cui bambini hanno fame mentre si buttano via i resti di un banchetto;
la sofferenza di chi muore solo, mentre i famigliari nella stanza vicina attendono il momento fatale prendendo il caffè.
Tutte le sofferenze,
tutte le ingiustizie, le amarezze, le umiliazioni, le pene, gli odi, le disperazioni,
tutte le sofferenze sono una fame non saziata,
una fame di amore.
Così gli uomini hanno edificato, lentamente a forza di egoismi, un mondo snaturato che schiaccia gli uomini;
così gli uomini trascorrono sulla terra il loro tempo a rimpinzarsi del loro amore avvizzito,
mentre attorno ad essi gli altri muoiono di fame tendendo loro le braccia.
Hanno rovinato l'amore,
ho rovinato il tuo amore, o Signore.
Questa sera ti chiedo di aiutarmi ad amare.
Concedimi, o Signore, di spargere l'amore vero nel mondo.
Fa' che per mezzo mio e dei tuoi figli penetri un po' in tutti gli ambienti, in tutte le società, in tutti i sistemi economici e politici, in tutte le leggi, i contratti, i regolamenti;
fa' che penetri gli uffici, le officine, i quartieri, le case, i cine, i balli;
fa' che penetri il cuore degli uomini e che mai io dimentichi che la lotta per un mondo migliore è una lotta di amore, al servizio dell'amore.
Aiutami ad amare, o Signore,
a non sprecare le mie potenze di amore,
ad amarmi sempre meno per sempre più amare gli altri,
affinché attorno a me nessuno soffra o muoia
per aver io rubato l'amore che ad essi occorreva per vivere.
Figliuolo, mai giungerai a mettere amore a sufficienza nel cuore dell'uomo e nel mondo,
perché l'uomo ed il mondo hanno fame di un amore infinito,
e Dio solo può amare di amore senza limiti.
Ma se vuoi, figliuolo, ti do la mia vita.
Prendila in te.
Io ti do il mio cuore, lo dono ai miei figli:
ama col mio cuore, figliuolo,
e tutti insieme sazierete il mondo, e lo salverete.
amoreuomosofferenzaingiustiziapovertàegoismochiusuraaltruismoamore di sé
inviato da Giovanna Martinetti, inserito il 07/12/2009
RACCONTO
In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: - La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica! - rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera - rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: «Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me».
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
natalesolidarietàgratuitàriconoscere Dio
inviato da Qumran2, inserito il 24/11/2009
TESTO
91. I poveri hanno bisogno di noi 1
I piccoli, i senza voce, quelli che non contano nulla agli occhi del mondo ma tanto agli occhi di Dio da essere i suoi prediletti, hanno bisogno di noi. Noi dobbiamo essere con loro e per loro, e non importa nulla se la nostra azione è come una goccia d'acqua nell'oceano. Gesù Cristo non ha mai parlato di risultati. Lui ha parlato solo di di amarci, di lavarci i piedi gli uni gli altri, di perdonarci sempre. I poveri ci attendono e i modi del servizio sono infiniti, lasciati all'immaginazione di ciascuno di noi. Non aspettiamo di essere istruiti nel tempo del servizio, inventiamo e vivremo nuovi cieli e nuova terra ogni giorno della nostra vita.
Annalena Tonelli è una missionaria italiana nata a Forlì nel 1943; visse dal 1969 al 2003 in Africa, a servizio dei Somali. Scelse la piena e assoluta condivisione di una delle realtà più povere della terra.
servizioamorepoveripovertàimpegno
inviato da Paola Berrettini, inserito il 19/11/2009
RACCONTO
92. La ranocchia che non sapeva di essere cotta 2
Immaginate una pentola piena d'acqua fredda in cui nuota tranquillamente una piccola ranocchia. Un piccolo fuoco è acceso sotto la pentola e l'acqua si riscalda molto lentamente. L'acqua piano piano diventa tiepida e la ranocchia, trovando ciò piuttosto gradevole, continua a nuotare. La temperatura dell'acqua continua a salire. Ora l'acqua è calda, più di quanto la ranocchia possa apprezzare, si sente un po' affaticata, ma ciò nonostante non si spaventa.
Ora l'acqua è veramente calda e la ranocchia comincia a trovare ciò sgradevole, ma è molto indebolita, allora sopporta e non fa nulla. La temperatura continua a salire, fino a quando la ranocchia finisce semplicemente per cuocere e morire.
Se la stessa ranocchia fosse stata buttata direttamente nell'acqua a 50 gradi, con un colpo di zampe sarebbe immediatamente saltata fuori dalla pentola.
Ciò dimostra che, quando un cambiamento avviene in un modo sufficientemente lento, sfugge alla coscienza e non suscita nella maggior parte dei casi alcuna reazione, alcuna opposizione, alcuna rivolta.
Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da qualche decennio possiamo vedere che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci stiamo abituando. Una quantità di cose che avrebbero fatto inorridire 20, 30 o 40 anni fa, sono state poco a poco banalizzate e oggi disturbano appena o lasciano addirittura completamente indifferente la maggior parte delle persone.
Nel nome del progresso, della scienza e del profitto si effettuano continui attacchi alle libertà individuali, alla dignità, all'integrità della natura, alla bellezza e alla gioia di vivere, lentamente ma inesorabilmente, con la costante complicità delle vittime, inconsapevoli o ormai incapaci di difendersi. Le nere previsioni per il nostro futuro, invece di suscitare reazioni e misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente la gente ad accettare delle condizioni di vita decadenti, anzi drammatiche. Il martellamento continuo di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non sono più in grado di distinguere le cose...
Quando ho parlato di queste cose per la prima volta, era per un domani. Ora è per oggi! Coscienza o cottura, bisogna scegliere! Allora se non siete, come la ranocchia, già mezzi cotti, date un salutare colpo di zampe, prima che sia troppo tardi.
coscienzaconsapevolezzacambiamentoconversionevigilanza
inviato da Peppo, inserito il 02/11/2009
TESTO
Sì, io non crederò mai in:
Il Dio che «sorprenda» l'uomo in un peccato di debolezza.
Il Dio che condanni la materia.
Il Dio incapace di dare una risposta ai problemi gravi di un uomo sincero e onesto che dice piangendo: «non posso».
Il Dio che ami il dolore.
Il Dio che metta la luce rossa alle gioie umane. Il Dio che sterilizza la ragione dell'uomo.
Il Dio che benedica i nuovi Caini dell'umanità.
Il Dio mago e stregone.
Il Dio che si faccia temere.
Il Dio che non si lasci dare del tu.
Il Dio nonno di cui si possa abusare.
Il Dio che si faccia monopolio di una Chiesa, di una razza, di una cultura, di una casta.
Il Dio che non abbia bisogno dell'uomo.
Il Dio lotteria con cui si vinca solo a sorte.
Il Dio arbitro che giudichi sempre col regolamento alla mano.
Il Dio solitario.
Il Dio incapace di sorridere di fronte a molte monellerie degli uomini.
Il Dio che «giochi» a condannare.
Il Dio che «mandi» all'inferno.
Il Dio che non sappia aspettare.
Il Dio che esiga sempre dieci agli esami.
Il Dio capace di essere spiegato da una filosofia.
Il Dio che adorano quelli che sono capaci di condannare un uomo.
Il Dio incapace di amare quello che molti disprezzano.
Il Dio incapace di perdonare tante cose che gli uomini condannano.
Il Dio incapace di redimere la miseria.
Il Dio incapace di capire che i «bambini» debbono insudiciarsi e sono smemorati.
Il Dio che impedisca all'uomo di crescere, di conquistare, di trasformarsi, di superarsi fino a farsi «quasi un Dio».
Il Dio che esiga dall'uomo, perché creda, di rinunciare a essere uomo.
Il Dio che non accetti una sedia nelle nostre feste umane.
Il Dio che è capito soltanto dai maturi, i sapienti, i sistemati.
Il Dio che non è temuto dai ricchi alla cui porta sta la fame e la miseria.
Il Dio capace di essere accettato e compreso dagli egoisti.
Il Dio onorato da quelli che vanno a messa e continuano a rubare e a calunniare.
Il Dio asettico, elaborato in un gabinetto scientifico da tanti teologi e canonisti.
Il Dio che non sappia scoprire qualcosa della sua bontà, della sua essenza là dove vibra un amore per quanto sbagliato.
Il Dio a cui piaccia la beneficenza di chi non pratica la giustizia.
Il Dio per cui è il medesimo peccato compiacersi alla vista di due belle gambe, distrarsi nelle preghiere, calunniare il prossimo, frodare del salario gli operai o abusare del potere.
Il Dio che condanni la sessualità.
Il Dio del «me la pagherai».
Il Dio che si penta, qualche volta di aver regalato la libertà all'uomo.
Il Dio che preferisca l'ingiustizia al disordine.
Il Dio che si accontenti che l'uomo si metta in ginocchio anche se non lavora,
il Dio muto e insensibile nella storia di fronte ai problemi angosciosi della umanità che soffre.
Il Dio a cui interessino le anime e non gli uomini.
Il Dio morfina per il rinnovamento della terra e speranza soltanto per la vita futura.
Il Dio che crei discepoli che disertano i compiti del mondo e sono indifferenti alla storia dei loro fratelli.
Il Dio di quelli che credono di amare Dio, perché non amano nessuno.
Il Dio che è difeso da quanti non si macchiano mai le mani, non si affacciano mai alla finestra, non si gettano mai nell'acqua.
Il Dio a cui piacciano quelli che dicono sempre: «tutto va bene».
Il Dio di quelli che pretendono che il sacerdote cosparga di acqua benedetta i sepolcri imbiancati delle loro sporche manovre.
Il Dio che predicano i preti che credono che l'inferno è pieno e il cielo quasi vuoto.
Il Dio dei preti che pretendono che si possa criticare tutto e tutti all'infuori di loro.
Il Dio che giustifichi la guerra.
Il Dio che ponga la legge al di sopra della coscienza.
Il Dio che sostenga una chiesa statica, immobile, incapace di purificarsi, di perfezionarsi e di evolversi.
Il Dio dei preti che hanno risposte prefabbricate per tutto.
Il Dio che neghi all'uomo la libertà di peccare.
Il Dio che non continui a scomunicare i nuovi farisei della storia.
Il Dio che non sappia perdonare qualche peccato.
Il Dio che preferisca i ricchi.
Il Dio che «causi» il cancro, che «invii» la leucemia, che «renda sterile» la donna o che «si porti via» il padre di famiglia che lascia cinque creature nella miseria.
Il Dio che possa essere pregato solo in ginocchio, che si possa incontrare solo in chiesa.
Il Dio che accetti e dia per buono tutto ciò che i teologi dicono di lui.
Il Dio che non salvi quanti non lo hanno conosciuto ma lo hanno desiderato e cercato.
Il Dio che «mandi» all'inferno il bambino dopo il suo primo peccato.
Il Dio che non dia all'uomo la possibilità di potersi condannare.
Il Dio per cui l'uomo non sia la misura di tutto il creato.
Il Dio che non vada incontro a chi lo ha abbandonato.
Il Dio incapace di far nuove tutte le cose.
Il Dio che non abbia una parola diversa, personale, propria per ciascun individuo.
Il Dio che non abbia mai pianto per gli uomini.
Il Dio che non sia la luce.
Il Dio che preferisca la purezza all'amore.
Il Dio insensibile di fronte a una rosa.
Il Dio che non possa scoprirsi negli occhi di un bambino o di una bella donna o di una madre che piange.
Il Dio che non sia presente dove vibra l'amore umano.
Il Dio che si sposi con una politica.
Il Dio di quanti pregano perché gli altri lavorino.
Il Dio che non possa essere pregato sulle spiagge.
Il Dio che non si riveli qualche volta a colui che lo desidera onestamente.
Il Dio che distrugga la terra e le cose che l'uomo ama di più invece di trasformarle.
Il Dio che non abbia misteri, che non fosse più grande di noi.
Il Dio che per renderci felici ci offra una felicità separata dalla nostra natura umana.
Il Dio che annichilisca per sempre la nostra carne invece di risuscitarla.
Il Dio per cui gli uomini valgono non per ciò che sono ma per ciò che hanno o che rappresentano.
Il Dio che accetti come amico chi passa per la terra senza far felice nessuno.
Il Dio che non poserà la generosità del sole che bacia quanto tocca, i fiori e il concime.
Il Dio incapace di divinizzare l'uomo facendolo sedere alla sua tavola e dandogli la sua eredità.
Il Dio che non sappia offrire un paradiso in cui noi ci sentiamo fratelli e in cui la luce non venga solo dal sole e dalle stelle ma soprattutto dagli uomini che amano.
Il Dio che non sia l'amore e che non sappia trasformare in amore quanto tocca.
Il Dio che abbracciando l'uomo già qui sulla terra non sappia comunicargli il gusto, la gioia, il piacere, la dolce sensazione di tutti gli amori umani messi insieme.
Il Dio incapace di innamorare l'uomo.
Il Dio che non si sia fatto vero uomo con tutte le sue conseguenze.
Il Dio che non sia nato dal ventre di una donna.
Il Dio che non abbia regalato agli uomini la sua stessa madre.
Il Dio nel quale io non possa sperare contro ogni speranza.
Sì, il mio Dio è l'altro Dio.
inviato da Busato Don Paolo, inserito il 19/07/2009
RACCONTO
Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua
Un giorno di molto tempo fa, in Inghilterra, una donnetta infagottata in un vestito lacero percorreva le stradine di un villaggio, bussando alle porte delle case e chiedendo l'elemosina. Molti le rivolgevano parole offensive, altri incitavano il cane a farla scappare. Qualcuno le versò in grembo tozzi di pane ammuffito e patate marce. Solo due vecchietti fecero entrare in casa la povera donna.
«Siediti un po' e scaldati», disse il vecchietto, mentre la moglie preparava una scodella di latte caldo e una grossa fetta di pane. Mentre la donna mangiava, i due vecchietti le regalarono qualche parola e un po' di conforto.
Il giorno dopo, in quel villaggio, si verificò un evento straordinario. Un messo reale portò in tutte le case un cartoncino che invitava tutte le famiglie al castello del re. L'invito provocò un gran trambusto nel villaggio, e nel pomeriggio tutte le famiglie, agghindate con gli abiti della festa, arrivarono al castello. Furono introdotti in una imponente sala da pranzo e ad ognuno fu assegnato un posto.
Quando tutti furono seduti, i camerieri cominciarono a servire le portate. Immediatamente si alzarono dei borbottii di disappunto e di collera. I solerti camerieri infatti rovesciavano nei piatti bucce di patata, pietre, tozzi di pane ammuffito. Solo nei piatti dei due vecchietti, seduti in un angolino, venivano deposti con garbo cibi raffinati e pietanze squisite. Improvvisamente entrò nella sala la donnetta dai vestiti stracciati. Tutti ammutolirono. «Oggi - disse la donna - avete trovato esattamente ciò che mi avete offerto ieri».
Si tolse gli abiti malandati. Sotto indossava un vestito dorato. Era la Regina.
Un riccone arrivò in Paradiso. Per prima cosa fece un giro per il mercato e con sorpresa vide che le merci erano vendute a prezzi molto bassi. Immediatamente mise mano al portafoglio e cominciò a ordinare le cose più belle che vedeva.
Al momento di pagare porse all'angelo, che faceva da commesso, una manciata di banconote di grosso taglio. L'angelo sorrise e disse: "Mi dispiace, ma questo denaro non ha alcun valore".
"Come?", si stupì il riccone.
"Qui vale soltanto il denaro che sulla terra è stato donato", rispose l'angelo.
Oggi, non dimenticare il tuo capitale per il Paradiso.
darecondivisionedonoamoregratuitàserviziocaritàdonareelemosinavita eternaparadiso
inviato da Davide Bonadeo, inserito il 18/07/2009
TESTO
95. Uno per uno fa sempre uno. Verso la Pasqua, casa della Trinità 1
Tonino Bello, Omelie e scritti quaresimali, vol.II, Ediz. Archivio Diocesano Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e Luce e vita, Molfetta, 1994, pagg.336-338
Carissimi fratelli,
l'espressione me l'ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt'altro che banale.
Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.
Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.
E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l'altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l'altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile...
Colsi l'occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: "Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c'è una Persona che si aggiunge all'altra e poi all'altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l'altra.
E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario' così dominante in ‘casa Trinità' che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l'uomo per gli altri".
Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.
Peccato: perché, tra l'altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l'uomo è icona della Trinità ("facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza") e che pertanto, per quel che riguarda l'amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l'accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.
Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.
Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.
* * *
Cari fratelli, lo so che la Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, e che non è lecito comprimerne la ricchezza alla semplice funzione di analogia. Ma se oggi c'è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali.
Altro che "relazioni". L'acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d'incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio. L'isola sperduta, più dell'arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l'altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente.
Coraggio.
Irrompe la Pasqua!
E' il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri. E' l'intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull'erba. E' l'incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa. E' il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E' la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo. E' la festa degli ex-delusi della vita, nel cui cuore all'improvviso dilaga la speranza.
Che sia anche la festa in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria.
Vostro
+ don Tonino, Vescovo
trinitàamore fraternorapporti interpersonalipadrefiglioSpirito santopasqua
inviato da Qumran2, inserito il 18/07/2009
RACCONTO
Bruno Ferrero, Storie belle e buone
Quando mise fuori la testa dall'uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell'Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l'orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito. Tutti i pinguini presenti applaudirono.
"È un ottimo segno!" disse lo zio Fortebecco.
"È impaziente di affrontare la vita".
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.
Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.
Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non potè sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all'enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei "pinguini irsuti", chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l'incontrastato boss.
"Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?", gli chiedeva la mamma, un po' in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
"Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!"
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
"E' tutta colpa tua!".
"No, tua!".
"E' colpa di Filippo!".
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:
"Non ne posso più!".
I colori della vita
Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
"Che barba! Un posto tutto bianco, grigio e nero. Dove nessuno si fa i fatti suoi... Deve pur esserci un paese colorato. Pieno di gente colorata. Potrei diventare anch'io pieno di colori... Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!"
E, impulsivo com'era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall'Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.
Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale. I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
"Adesso sono libero e faccio come mi pare", si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d'ali alle sue spalle lo mise in guardia. Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po', facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia. Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò. Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
"Aah!", fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche. Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:
"Bene! Comincio ad essere colorato".
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
"Ehi, amico!!", Una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
"Ti ho visto sistemare il cormorano", disse il gabbiano. "Sei un duro, tu".
"Certo", rispose Filippo.
"Ti invito a pranzo", insinuò furbescamente il gabbiano.
"Che cosa vuoi dire?".
"Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici? In due non oseranno farci niente".
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi. I due briganti mulinavano ali e becchi.
Alla fine, Filippo si guardò il petto: era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d'uovo.
"Altri colori!", si disse. "Questa è vita".
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutti.
Il grande salto
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un'otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente "Il pinguino colorato". Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c'erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un' epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?
Il pensiero dell'Isola Azzurra prese a torturarlo.
Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po' di nostalgia dell'allegra comunità dei pinguini.
"Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo", si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell'Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
"Un mostro! Un mostro!".
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore. Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
"Ma perché? Idioti, sono io, non mi riconoscete?", brontolava Filippo.
"Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato". La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
"Ma in che stato sei...".
"Bentornato, Filippo", gli disse anche il papà. Ma non lo toccò.
Le comari tutt'intorno borbottavano: "Che disgrazia! Poveri genitori...".
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell'Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
"Papà", chiese.
"Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile".
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
"C'è un mezzo solo: devi tuffarti dalla Grande Cascata. Laggiù l'acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere. Ma è tremendamente rischioso. Ci vorrà il tuo coraggio. Te la senti di farlo?".
"Si, papà".
La voce si sparse in un attimo.
Nel giro di pochi minuti c'erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un "Oh!" sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo. Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice. Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell'acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso: "Urrà!", che coprì perfino il tuonare dell'acqua.
L'esperienza nascosta nel racconto:
Il pinguino Filippo è annoiato dalla vita di tutti i giorni che è soltanto "bianca, grigia e nera". Sono molti i ragazzi di oggi che considerano noioso ciò che è normale.
La cultura in cui sono immersi è sempre alla ricerca di eccitanti per i sensi, per la mente, per lo spirito.
Questa ricerca travolge limiti e regole. Filippo cerca i colori, li trova diventando ingiusto, ladro, cattivo.
Soltanto quando è davvero diventato colorato si accorge del prezzo da pagare: l'insoddisfazione personale e soprattutto l'allontanamento dalla sua famiglia e dalla comunità. È il prezzo del male, del peccato: essere tagliati fuori, perdere l'identità.
Ma nella comunità dell'Isola Azzurra c'è il modo di cancellare tutto, di ricominciare. E' quello che succede nella Chiesa: Dio ci dà la possibilità di cancellare tutti i colori sbagliati.
Bisogna solo avere il coraggio di buttarsi nella Grande Cascata dell'Amore infinito di Dio che è il Sacramento della Riconciliazione.
Per il dialogo:
L'educatore deve aiutare i ragazzi a percepire il significato simbolico della storia del pinguino Filippo e a riflettere contemporaneamente sulla realtà che anche loro stanno vivendo. Lo può fare con alcune domande:
- Perché il pinguino Filippo decide di partire dalla sua isola?
- Vi è mai venuta la voglia di "mollare tutto"? Quando? Perché?
- Secondo voi, che cosa sono i colori che Filippo cerca?
- Di che tipo sono i colori che Filippo trova? Vi ricordano qualcosa?
- Ci sono certe cose che i ragazzi di oggi desiderano ma che, secondo voi, sono un male? Ne sapete ricordare qualcuna?
- Perché Filippo non viene riconosciuto e accettato nella sua comunità?
- Nella nostra comunità parrocchiale c'è qualche modo particolare per riconoscere di aver sbagliato e per riaccettare quelli che riconoscono di aver commesso il male?
Per l'attività:
I ragazzi possono fare l'esame di coscienza con un cartellone sul quale si trovano i "colori sbagliati": (il rosso dell'ira, il giallo dell'invidia, il viola delle parolacce, il rosa della pigrizia, ecc...)
Anche la Bibbia racconta...
L'evangelista Giovanni (13, 21-30), racconta il tradimento di Giuda e lo conclude con queste parole: "Egli subito uscì. Ed era notte". Il peccato è uscire dalla luce della comunità degli amici di Gesù ed entrare nella notte.
riconciliazioneperdonoconfessionediversitàpeccato
inviato da Qumran2, inserito il 17/07/2009
ESPERIENZA
Cardinale F.X. Nguyen Van Thuan
Quando sono stato arrestato, ho dovuto andarmene subito, a mani vuote. L'indomani, mi è stato permesso di scrivere ai miei per chiedere le cose più necessarie: vestiti, dentifricio... Ho scritto: "Per favore, mandatemi un po' di vino, come medicina contro il mal di stomaco". I fedeli subito hanno capito. Mi hanno mandato una piccola bottiglia di vino per la Messa, con l'etichetta "medicina contro il mal di stomaco", e delle ostie nascoste in una fiaccola contro l'umidità. [...] Non potrò mai esprimere la mia grande gioia: ogni giorno, con tre gocce di vino e una goccia d'acqua nel palmo della mano, ho celebrato la Messa. Era questo il mio altare ed era questa la mia cattedrale! [...] Ogni volta avevo l'opportunità di stendere le mani e di inchiodarmi sulla croce con Gesù, di bere con lui il calice più amaro. [...] Erano le più belle Messe della mia vita.
F.X. Nguyen van Thuan, vietnamita, quando era Arcivescovo, trascorse tredici anni del suo episcopato in prigione, di cui nove in isolamento. Questo è quello che disse a proposito della celebrazione eucaristica.
inviato da Qumran2, inserito il 16/07/2009
TESTO
98. Confessio Fidei - Narratio amoris 1
Bruno Forte, Confessare la fede narrando l'Amore
Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento trinitario di Pasqua:
Credo in te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell'Amore,
tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l'Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per te,
imprimendo in noi la nostalgia del tuo Amore,
e contagiandoci la tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.
Credo in te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell'Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l'amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell'Amore,
l'Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazareth, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell'amore,
e fanno di noi, nella sequela di te,
coloro che hanno creduto all'Amore,
e vivono nell'attesa della Tua venuta.
Credo in te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l'unità e la pace
dell'Amato e dell'Amante,
nel dialogo eterno dell'Amore.
Tu sei l'estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l'amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l'unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da te suscitata nell'amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
tu che unisci il tempo e l'eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
tu che apri il cuore di Dio
all'accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell'Amore, che non conosce tramonto.
In te ci è data l'acqua della vita,
in te il pane del cielo,
in te il perdono dei peccati
in te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.
Credo in te, unico Dio d'Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell'Amore.
In te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in te
e di abitare in me.
Amen!
credoDioamore di DiofedePadreFiglioSpirito Santo
inviato da Qumran2, inserito il 15/07/2009
TESTO
99. Digiuno, elemosina e preghiera 1
san Giovanni Maria Vianney, Omelia per la VII Domenica dopo Pentecoste
Leggiamo nella Sacra Scrittura che il Signore diceva al suo popolo, parlandogli della necessità di fare delle opere buone per piacergli e per far parte del numero dei santi: «Le cose che vi chiedo non sono al di sopra delle vostre forze; per farle, non è necessario innalzarvi fino alle nubi, né attraversare i mari. Tutto ciò che vi comando è, per così dire, a portata di mano, nel vostro cuore e attorno a voi». Posso ripetere la stessa cosa: è vero, non avremo mai la fortuna di andare in cielo se non facciamo opere buone; ma non ci spaventiamo: ciò che Gesù Cristo ci chiede, non sono cose straordinarie, né al di sopra delle nostre capacità; non chiede a noi di stare tutto il giorno in chiesa, neanche di fare grandi penitenze, cioè fino a rovinare la nostra salute, e neppure di dare tutto il nostro avere ai poveri (benché sia verissimo che siamo obbligati a dare ai poveri quanto possiamo, e che lo dobbiamo fare per piacere a Dio che ce lo comanda e per riscattare i nostri peccati). È pur vero che dobbiamo praticare la mortificazione in molte cose, domare le nostre inclinazioni...
Ma, mi direte voi, ce ne sono più d'uno che non possono digiunare, altri che non possono dare l'elemosina, altri che sono talmente occupati che spesso riescono a stento a fare la loro preghiera al mattino e alla sera; come dunque potranno salvarsi, dal momento che bisogna pregare di continuo e bisogna necessariamente fare opere buone per conquistare il cielo?
Visto che tutte le vostre opere buone si riducono alla preghiera, al digiuno e all'elemosina, potremo fare facilmente tutto questo, come vedrete.
Sì, anche se avessimo una cattiva salute o fossimo addirittura infermi, c'è un digiuno che possiamo facilmente fare. Fossimo pure del tutto poveri, possiamo ancora fare l'elemosina e, per quanto grandi fossero le nostre occupazioni, possiamo pregare il buon Dio senza essere disturbati nei nostri affari, pregare alla sera e al mattino, e persino tutto il giorno. Ed ecco come.
Noi pratichiamo un digiuno che è assai gradito a Dio, ogni volta che ci priviamo di qualche cosa che ci piacerebbe fare, perché il digiuno non consiste tutto nella privazione del bere e del mangiare, ma nella privazione di ciò che riesce gradito al nostro gusto; gli uni possono mortificarsi nel modo di aggiustarsi, gli altri nelle visite che vogliono fare agli amici che hanno piacere di vedere, gli altri, nelle parole e nei discorsi che amano tenere; questi fa un grande digiuno ed è molto gradito a Dio allorché combatte il suo amor proprio, il suo orgoglio, la sua ripugnanza a fare ciò che non ama fare, o stando con persone che contrariano il suo carattere, i suoi modi di agire...
Vi trovate in una occasione nella quale potreste soddisfare la vostra golosità? Invece di farlo, prendete, senza farlo notare, ciò che vi piace di meno... Sì, se volessimo applicarci bene, non soltanto troveremmo di che praticare ogni giorno il digiuno, ma ancora ad ogni momento della giornata.
Ma, ditemi, c'è ancora un digiuno che sia più gradito a Dio del fare e del soffrire con pazienza certe cose che spesso vi sono molto sgradevoli? Senza parlare delle malattie, delle infermità e di tante altre afflizioni che sono inseparabili dalla nostra miserabile vita, quante volte non abbiamo l'occasione di mortificarci, accettando ciò che ci incomoda e ci ripugna? Ora è un lavoro che ci annoia, ora una persona antipatica, altre volte è un'umiliazione che ci costa di sopportare. Ebbene, se accettiamo tutto questo per il buon Dio, e unicamente per piacergli, questi sono i digiuni più graditi a Dio...
Diciamo che c'è una specie d'elemosina che tutti possono fare.
Vedete bene che l'elemosina non consiste soltanto nel nutrire chi ha fame, e nel dare vestiti a chi non ne ha; ma sono tutti i favori che si rendono al prossimo, sia per il corpo, sia per l'anima, quando lo facciamo in spirito di carità. Quando abbiamo poco, ebbene, diamo poco; e quando non abbiamo, diamo in prestito, se lo possiamo. Colui che non può provvedere alle necessità degli ammalati, ebbene, può visitarli, dir loro qualche parola di consolazione, pregare per loro, affinché facciano buon uso della loro malattia. Sì, tutto è grande e prezioso agli occhi di Dio, quando agiamo per un motivo di religione e di carità, perché Gesù Cristo ci dice che un bicchiere d'acqua non rimane senza ricompensa. Vedete dunque che, benché siamo assai poveri, possiamo facilmente fare l'elemosina.
Dico che, per grandi che siano le nostre occupazioni, c'è una specie di preghiera che possiamo fare di continuo, anche senza distoglierci dalle nostre occupazioni, ed ecco come si fa. Consiste, in tutto quello che facciamo, nel non fare altro che la volontà di Dio. Ditemi, vi pare molto difficile lo sforzarsi di fare soltanto la volontà di Dio in tutte le nostre azioni, per quanto piccole esse siano?
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inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney - Roma, inserito il 26/06/2009
PREGHIERA
Meravigliosa sei
Acqua di Dio!
Da te ha avuto origine la Vita:
quando lo Spirito di Dio,
agli albori della creazione,
aleggiava su di te
come un gabbiano,
o acqua del caos primitivo,
su suo ordine generasti ogni cosa.
Senza di te, o Acqua di Dio, ogni essere muore:
muore l'uomo che non può dissetarsi,
muoiono animali e piante...
La terra tutta inaridisce, deserto di roccia e polvere,
se tu non la irrighi e non la bagni con la tua pioggia!
Misteriosa sei
Acqua di Dio
che dai la vita sulla terra e nel profondo del mare...
ma anche dai morte...
con l'impeto dei tuoi flutti e con le piogge irruenti...
come nel diluvio...
quando copristi la terra
e uomini e animali furono sommersi.
Meravigliosa sei
Acqua di Dio!
Con il calore e la luce del Sole
generi la vita sulla terra:
la vita degli uomini,
la vita degli animali e delle piante
e sei in ogni essere vivente...
Benedetta sei
Acqua di Dio
che con lo Spirito Santo
luce e calore
del nuovo Sole
che è Cristo risorto
generi la vita nuova
dei "figli di Dio".
Tu Acqua
santificata da Dio
sei la vita della Chiesa
sei la forza che distrugge il peccato...
sei il mar Rosso che dona libertà...
sei sorgente d'acqua viva
che disseta il popolo di Dio
che cammina con fatica
per il deserto del mondo
sino alla Terra promessa...
Benedetta sei tu, Acqua di Dio!
acquavitabattesimoSpirito Santocreazione
inviato da Cristina Catapano, inserito il 17/06/2009