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TESTO

1. Se non ti va bene... è proprio la tua!   1

Giuseppe Impastato S.I.

La croce non è un vestito o un paio di scarpe, che devono starti bene.
La croce non va mai a pennello dei tuoi gusti
e delle tue esigenze particolari.
La croce strappa, ammacca, graffia, scortica, schiaccia, tira giù...
Eppure non c'è dubbio...
per essere veramente tua, la croce non deve andarti bene
Anche a Cristo non andava bene la sua croce.
Non andava bene il tradimento di Giuda, il sonno degli apostoli,
la congiura dei nemici, la fuga degli amici, il rinnegamento di Pietro,
gli scherni dei soldati... il grido feroce della folla...

Quella croce che ti piomba addosso al momento meno opportuno:
una malattia che ti coglie mentre hai tante cose da sbrigare
e ti manda all'aria un mucchio di progetti...
... quel colpo vile che ti è venuto da un amico...
... quella calunnia che ti ha lasciato senza fiato...
... quella croce che tu non avresti mai scelto in mezzo a mille altre...
che ti sembra eccessiva, spropositata,
sproporzionata alle tue deboli forze
- "è troppo, non ce la faccio" - non appartiene ad altri: è la "tua".

Non illuderti. La croce su misura non esiste.
Cerca pure, rovista da tutte le parti,
esamina bene, valuta attentamente...
se trovi la croce che fa per te, buttala via...
quella, sicuramente non è la tua.

I segni che una croce è tua sono sconcertanti :
imprevisto, ripugnanza, disagio, impossibilità, inopportunità, senso di debolezza.
Se una croce ti si presenta come antipatica, sgradevole, insopportabile...
non esitare a caricartela sulle spalle... ti appartiene

All'inizio ti apparirà con i segni dell'estraneità .
In seguito scoprirai che è veramente "tua".
Ciò non vuol dire, beninteso, che i rapporti tra voi due diventino idilliaci,
che tutto vada liscio...
la croce scava solchi profondi sulle spalle e nel cuore.

Però si stabilirà ugualmente una certa familiarità. Una familiarità sofferta,
ma giustificata dal senso che si scopre a poco a poco, camminando.
E anche quando il significato non diventa chiaro, c'è pur sempre la fede
che ti invita a lasciarti condurre per mano da Qualcuno che sa.
Fede vuol dire semplicemente sapere che Lui sa...

Avanti, dunque, con la croce che non ti va bene.
Con la croce che non è su misura.
Ciò che conta non è che la croce sia su tua misura
L'essenziale è che tu sia a misura del Cristo.

crocesofferenza

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 27/06/2019

RACCONTO

2. Si raccoglie ciò che si semina!   1

Un giovane ingegnere decise di impiegare un piccolo capitale in agricoltura e comprò un piccolo campo in una pianura fertile. Dal momento che non era proprio esperto di coltivazioni, decise di chiedere informazioni a un vecchio contadino che abitava nei pressi.

«Hai visto, Battistin, il mio campicello?».
«Ma certo. Confina con i miei», rispose il vecchio.
«Vorrei chiederti una cosa, Battistin: credi che il mio campicello potrebbe darmi del buon orzo?».
«Orzo? No, signore mio, non credo che questo campo possa dare orzo. Da tanti anni vivo qui e non ho mai visto orzo in questo campo».
«E mais?», insistette il giovane. «Credi che il mio campicello possa darmi del mais?».
«Mais, figliolo? Non credo che possa dare mais. Per quanto ne so, potrebbe fornire radici, cicorie, erba cipollina e meline acerbe. Ma mais no, non credo proprio».

Benché sconcertato, il giovane ingegnere replicò: «E soia? Mi potrebbe dare soia il campicello?». «Soia, dice? Non voglio fare il menagramo, ma io non ho mai visto soia in questo campo. Al massimo, erba alta, un po' di rametti da bruciare, ombra per le mucche e qualche cespuglio di bacche, non di più».

Il giovane, stanco di ricevere sempre la stessa risposta, scrollò le spalle e disse: «Va bene, Battistin, ti ringrazio per tutto quello che mi hai detto, ma voglio fare una prova. Seminerò del buon orzo e vediamo che cosa succede!».
Il vecchio contadino alzò gli occhi e, con un sorriso malizioso, disse: «Ah, beh. Se lo semina... È tutta un'altra cosa, se lo semina!».

Oggi seminerò un sorriso, affinché la gioia cresca.
Oggi seminerò una parola di consolazione, per donare serenità.
Oggi seminerò un gesto di amore, perché l'amore domini.
Oggi seminerò una preghiera, affinché l'uomo sia più vicino a Dio.
Oggi seminerò parole e gesti di verità, per vincere la menzogna.
Oggi seminerò atti sereni, per collaborare con la pace.
Oggi seminerò un gesto pacifico, affinché i nervi saltino meno.
Oggi seminerò una buona lettura nel mio cuore, per la gioia del mio spirito.
Oggi seminerò giustizia nei miei gesti e nelle parole, affinché la verità trionfi.
Oggi seminerò un gesto di delicatezza, affinché la bontà si espanda.

seminareconseguenzeimpegnoresponsabilitàsemesperanzafiducia

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

3. Il cuore di Dio. Pasqua: questo giorno, ogni giorno

Alessandro D'Avenia, Avvenire, 5 aprile 2015, Pasqua

Riparare i viventi è il titolo di un bel romanzo scritto della bravissima Maylis de Kerengal che in questi giorni mi ha accompagnato.
Mi sembra il titolo perfetto per questa domenica.
La storia parla di un adolescente che, uscito con i suoi amici in una fredda notte in cerca dell'onda perfetta da cavalcare all'alba con i loro surf ruggenti, sulla strada del ritorno ha un incidente ed entra in coma irreversibile. I suoi genitori consentono l'espianto degli organi, anche se è il cuore il vero protagonista della storia. Il cuore che viene estratto dal petto del ragazzo va a riempire quello di una donna in attesa di un organo che la salvi grazie ad un trapianto. Ad un tratto la madre di Simon, il ragazzo morto, si chiede che accadrà al contenuto del cuore di suo figlio: «Che ne sarà dell'amore di Juliette una volta che il cuore di Simon ricomincerà a battere dentro un corpo sconosciuto, che ne sarà di tutto quel che riempiva quel cuore, dei suoi affetti lentamente stratificati dal primo giorno o trasmessi qua e là in uno slancio d'entusiasmo o in un accesso di collera, le sue amicizie e le sue avversioni, i suoi rancori, la sua veemenza, le sue passioni tristi e tenere? Che ne sarà delle scariche elettriche che gli sfondavano il cuore quando avanzava l'onda? Che ne sarà di quel cuore traboccante, pieno, troppo pieno?».

Che ne sarà del nostro cuore, con tutto quello che ha filtrato di amore e disamore in una vita? Ma non è forse questo il senso della grande promessa di Dio: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez. 36, 26-7)?
Anche noi eravamo a rischio di vita, anzi eravamo già morti, il nostro cuore aveva subito troppi infarti, non riusciva più ad amare senza rischiare il colpo di grazia. E proprio per un colpo di grazia riceviamo un cuore nuovo, che viene trapiantato gradualmente nella nostra vita nella misura in cui lo vogliamo.
L'uomo nuovo di cui parla Paolo nelle sue Lettere è un uomo dopo il trapianto. Rimane l'uomo vecchio, ma il trapianto irrora gradualmente ogni fibra trasformandola. In noi comincia ad abitare il battito di un Altro, che non muore.
La vita di Dio che non può essere distrutta entra e gradualmente trapianta (ci innesta nella sua vita come si fa in botanica), purifica, trasforma, nella misura di quanto vogliamo. C'è tanto del cuore di Dio nella nostra vita quanto noi vogliamo ne venga trapiantato ogni giorno.

Ad un certo punto della narrazione il medico che condurrà l'operazione di trapianto avverte la paziente perché si prepari: «Il cuore sarà qui fra trenta minuti, è splendido, è fatto per lei, vi intenderete alla perfezione. Claire sorride: ma aspetterà che sia qui prima di togliere il mio, vero?».
Il nostro rimarrà, proprio quello nostro, ma il centro di ogni pensiero, decisione, amore, caduta, tristezza, malinconia, il motore di ogni nostro amore e disamore, non verrà tolto, ma trasformato.

La natura umana è riparata perché il Perfetto Uomo ha attraversato tutto l'umano, ha conosciuto tutto ciò che passa per il cuore dell'uomo e lo ha sentito come fosse suo, anche il peccato, non come atto ma nelle sue conseguenze (dalla tentazione, al dolore, alla morte). E quel cuore che ha cessato di battere sulla croce, quel cuore che ha dato tutto, tanto che, quando il soldato lo trafisse con la lancia, sputò sangue e acqua, il siero che si riversa nella sacca del pericardio quando dopo un infarto la parte densa del sangue si separa da quella più leggera, proprio quel cuore diventa nostro.

Quel cuore in realtà non è vuoto, non è il cuore di un morto, inservibile per un trapianto. È il cuore di un vivo, è il cuore del Vivente, è il cuore della Vita; il cuore che ci consente di avere passione per la vita e di patire per la vita; il cuore che ci concede il trasporto erotico per il creato e le creature e la capacità di patire per il creato e le creature. Il cuore di Dio, spiritualmente trapiantato in noi grazie al Battesimo e riparato dagli altri Sacramenti, batte fortissimo nel petto dei cristiani, che per questo ogni giorno, se vogliono, risorgono.
E quando quel cuore verrà pesato (amor meus pondus meum, il mio amore è il mio peso, dice Agostino) alla fine della vita lo si troverà 'pieno' dell'amore di Dio stesso, perché era il Suo in noi.

Solo lui ripara i viventi e i morenti, perché il Suo cuore non ha conosciuto la corruzione della morte, conosce solo la vita e ciò che dà la vita.
Si dice che, dopo aver bruciato Giovanna D'Arco, i carnefici trovarono intatto il suo cuore in mezzo alla cenere. Quel cuore non poteva essere distrutto, perché la sua materia non apparteneva a questo mondo e il fuoco degli uomini non poteva consumarlo. Era il cuore di Giovanna o quello di Dio?

Se è amore che vogliamo per vivere, è un cuore nuovo che vogliamo. Oggi è il giorno del trapianto.

pasquacuore nuovoconversionerinascitaamoreamare

inviato da Marcello Rosa, inserito il 06/07/2018

TESTO

4. Affrettiamoci ad amare   1

Roberto Benigni, I Dieci Comandamenti, Rai 1, 15 dicembre 2014

Il problema fondamentale dell'umanità da 2000 anni è rimasto lo stesso... amarsi. Solo che ora è diventato più urgente, molto più urgente, e quando oggi sentiamo ancora ripetere che dobbiamo amarci l'un l'altro, sappiamo che ormai non ci rimane molto tempo. Ci dobbiamo affrettare, affrettiamoci ad amare, noi amiamo sempre troppo poco e troppo tardi, affrettiamoci ad amare, perché al tramonto della vita saremo giudicati sull'amore, perché non esiste amore sprecato e perché non esiste un'emozione più grande di sentire quando siamo innamorati che la nostra vita dipende totalmente da un'altra persona, che non bastiamo a noi stessi, e che tutte le cose, ma anche quelle inanimate come le montagne, i mari, le strade, il cielo, il vento, le stelle, le città, i fiumi, le pietre, i palazzi... tutte queste cose, che di per sé sono vuote, indifferenti, improvvisamente quando le guardiamo si caricano di significato umano e ci affascinano, ci commuovono, perché? Perché contengono un presentimento d'amore, anche le cose inanimate, perché il fasciame di tutta la creazione è amore e perché l'amore combacia con il significato di tutte le cose: la felicità. Si, la felicità... e a proposito di felicità, cercatela, tutti i giorni, continuamente e anzi, chiunque mi ascolti ora, si metta in cerca della felicità ora, in questo momento stesso perché è lì, ce l'avete, ce l'abbiamo perché l'hanno data a tutti noi, ce l'hanno data in dono quando eravamo piccoli, ce l'hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che l'abbiamo nascosto, come fanno i cani con l'osso, quando lo nascondono; e molti di noi l'hanno nascosto così bene che non si ricordano più dove l'hanno messo, ma ce l'avete, ce l'abbiamo. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all'aria: i cassetti, i comodini che avete dentro... vedrete che esce fuori, c'è la felicità. Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa ma è lì, dobbiamo pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei, fino all'ultimo giorno della nostra vita.

E non dobbiamo avere paura nemmeno della morte, guardate che è più rischioso nascere che morire eh! Non bisogna avere paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero. Saltate dentro l'esistenza ora, qui, perché se non trovate niente ora, non troverete niente mai più, è qui l'eternità, e allora dobbiamo dire "SI” alla vita, dobbiamo dire un SI talmente pieno alla vita che sia capace di arginare tutti i no, perché alla fine di queste due serate insieme, abbiamo capito che non sappiamo niente e che non ci si capisce niente, e si capisce solo che c'è un gran mistero che bisogna prenderlo come è e lasciarlo stare, e che la cosa che fa più impressione al mondo è la vita che va avanti e non si capisce come faccia; "Ma come fa? Come fa a resistere? Ma come fa a durare così?"... è un altro mistero, e nessuno lo ha mai capito, perché la vita e molto più di quello che possiamo capire noi, per questo devi resistere. Se la vita fosse solo quello che capiamo noi, sarebbe finita da tanto, tanto tempo, e noi lo sentiamo, lo sentiamo che da un momento all'altro ci potrebbe capitare qualcosa di infinito, e allora ad ognuno di noi non rimane che una cosa da fare: inchinarsi.



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5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran, inserito il 02/12/2017

RACCONTO

5. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

RACCONTO

6. I baffi del leone   2

Antica favola etiope

Un uomo, rimasto vedovo, con un figlio ancora bambino, sposò una giovane donna. Nel giorno del matrimonio, la donna, commossa dal dolore così evidente sul viso del bambino, fece una promessa a se stessa: «Aiuterò questo bambino a guarire dal suo dolore e sarò per lui una buona madre».
Da quel momento ogni suo pensiero ed energia furono spesi per questo obiettivo, ma invano.
Il bambino opponeva un netto rifiuto a tutte le sue attenzioni e cure. I cibi preparati amorevolmente non erano buoni come quelli della mamma naturale, i vestiti lavati e rammendati venivano sporcati e strappati di proposito, i baci ricevuti venivano prontamente ripuliti col dorso della mano, gli abbracci allontanati, e così via. Per quanto la donna cercasse di consolare il dolore del bambino e si sforzasse di conquistare il suo affetto non incontrava altro che rifiuto e rabbia.

Un giorno, al colmo del dispiacere e del senso d'impotenza, decise, tra le lacrime, di chiedere consiglio allo stregone del villaggio.
«Ti supplico! Aiutami! Prepara una magia così ch'io possa conquistare l'amore di questo bambino! Ti pagherò quanto vorrai! Aiutami Stregone!».
«Va bene, ti aiuterò e preparerò questa magia, ma è essenziale che tu mi porti due baffi del leone più feroce della foresta».
«Ma Stregone! E' impossibile! Non c'è nessuna speranza allora! Se mi avvicinerò a quel leone mi sbranerà! Non conquisterò mai l'amore di questo bambino».
«Mi dispiace donna, ma questa è la condizione necessaria per la magia».

La donna, in lacrime, si avviò verso la sua capanna ancora più scoraggiata. Dopo una notte insonne, resasi conto che in nessun modo avrebbe rinunciato al suo proposito di conquistare l'affetto del bambino, la giovane sposa decise di procurarsi i baffi del leone ad ogni costo.
La mattina seguente si mise in cammino verso la foresta con una ciotola di carne sul capo. Giunta al limitare del territorio del leone depose la ciotola a terra e fece quindi ritorno verso la sua capanna.
Il giorno successivo, poco dopo l'alba, si avviò nuovamente con una nuova ciotola piena di carne verso la foresta, ma questa volta depositando il tutto qualche passo più avanti, nel territorio del re della foresta.
Il terzo giorno ancora una ciotola di carne e ancora qualche passo più avanti.
Il quarto giorno lo stesso.
Così il quinto, il sesto, il decimo, il ventesimo, il trentesimo, il centesimo... giorno.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, avanzando con coraggio e costanza. Fino a vedere la tana e l'animale, e poi, dopo giorni, ad incontrare il leone che ormai attendeva la sua ciotola di carne e osservava placido la donna, concedendole di avvicinarsi.

Sino al giorno in cui la ciotola viene deposta davanti al leone, e la donna, col cuore in tumulto nel petto, capisce che è giunto il momento di agire.
Mentre l'animale, ormai perfettamente a suo agio con lei, divora il suo pasto, ecco che lei può strappare i due baffi preziosi senza che il leone neppure se ne accorga.
Allora sorridendo tra le lacrime, con i due baffi stretti al petto, corre a perdifiato verso la capanna dello stregone: «Stregone!!! Stregone!!! Ho i baffi!!! Puoi fare la tua magia!!!»

«Mi dispiace donna, non posso fare ciò che mi chiedi. Non bastano due baffi di leone per conquistare l'amore di un bambino. Non ho questo potere».
«Mi hai ingannata!!! Mi hai tradita! Mi hai fatto rischiare la vita per nulla! Perché? Perché l'hai fatto?». Urlava tra le lacrime la donna al culmine della disperazione. «Avevi promesso! Come farò adesso?».
Lo stregone, in silenzio, attende che la donna esaurisca le sue lacrime e la sua rabbia e poi risponde: «Io non posso compiere alcuna magia, donna. La magia è nelle tue mani. Guarda cos'hai fatto col leone. Ebbene, la magia è questa: fai col tuo bambino ciò che hai fatto col leone!».

Il Tempo. Ogni cosa necessita del suo tempo, ma c'è un tempo che pare infinito.
E' il tempo della trasformazione, del cambiamento, della guarigione, dell'attesa.
Quel tempo che vorremmo poter cancellare come d'incanto, o che almeno vorremmo accelerare. Soprattutto noi, noi che viviamo in questo momento storico e culturale dove il tutto dev'essere subito, dove ogni cosa si consuma in un attimo, dove l'attesa genera insofferenza e aggiunge spesso sofferenza alla sofferenza.
Non è possibile accelerare.
Ci sono ritmi e tempi che non possiamo modificare, che appartengono alla natura dell'uomo e all'universo.
Quando si dice: il tempo aggiusta tutto...
In realtà siamo noi e sono gli avvenimenti che necessitiamo di tempo per «aggiustarci». Noi per adeguarci, per abituarci, per trasformarci. Gli avvenimenti per evolvere, maturare, manifestarsi.
Non esistono interruttori.
Click! No, nessun click.
Solo la costanza, la tenacia e la paziente attesa mentre «si lavora per».

Illustrazione di Roberta Tezza

gentilezzapazienzaperseveranza

4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 21/08/2017

RACCONTO

7. La cesta di Moses

Gulli Morini

Moses è un ragazzo di 11 anni che vive a Cafarnao, piccolo paese della Galilea sulle rive del lago di Genezaret. È solo al mondo: ha perso i genitori in una delle tante guerre che periodicamente travolgono il suo paese. Non ha una casa sua e dorme dove gli capita, a volte in un fienile oppure in una stalla, ma più spesso sotto le stelle, specialmente nelle calde notti d'estate.
Moses, anche se povero, una cosa la possiede: una cesta; con quella gira per i mercati e si offre per trasportare le merci di chiunque ne abbia bisogno. Così guadagna quelle poche monete che gli permettono di vivere.
A Cafarnao tutti lo conoscono per nome, anche perché Moses è sempre molto buono e disponibile; tutti sanno che, all'occorrenza, possono contare sul suo aiuto.

Una mattina un vecchio signore lo chiama:
«Moses, Moses, dove ti sei cacciato?»
«Eccomi, sto arrivando.»
«Ho un lavoro per te. Eccoti due monete: con questa mi comprerai del pane, e con l'altra del pesce; mi raccomando che sia bello e fresco! Stasera aspetto un ospite importante: non farmi fare brutta figura! Se mi servirai bene potrai rimanere a mangiare con noi a cena.»
Il ragazzo è ben contento di aver trovato un lavoro, e la prospettiva di una vera cena gli mette le ali ai piedi. In quattro salti è sulla riva del lago dove alcuni pescatori stanno aggiustando le reti.
«Avete del buon pesce da vendermi?»
«Mi spiace, ragazzo, ma da due giorni il lago è avaro con noi.»
Moses è deluso: di solito c'è pesce in abbondanza, oggi gli toccherà andarne a cercare nel paese vicino. Pazienza, tanto sia il pane che i pesci servono per la sera, poi forse è meglio così, perché su quella strada c'è Aronne che fa il pane più buono di tutta la regione. Avrà per questo una ricompensa in più. Un'ora dopo, infatti, sei bellissimi pani profumati sono scambiati per una moneta e vanno a finire nella cesta di Moses.
Poco lontano incontra due pescatori.
«Avete del buon pesce?»
«Quel poco che avevamo è già stato venduto, prova a chiedere più avanti.»

Da quasi due ore il ragazzo cammina inutilmente sulla riva del lago alla ricerca di pesce: meglio riposarsi un poco all'ombra di un grande eucalipto. I pani profumati sono una tentazione irresistibile e così comincia a mangiarne uno.
Ma ansimanti arrivano quattro bambini che stanno giocando a rincorrersi. Si fermano davanti allo sconosciuto, gli occhi fissi sul pane e la fame dipinta sul volto. Non si può mangiare in pace quando ti sta osservando chi ha più fame di te, e allora Moses divide il pane in quattro e lo dà ai bimbi che corrono via felici. Così non è più un furto ma una buona azione, anche se la pancia rimane vuota.
Una voce dal lago lo distoglie da questi pensieri.
«Ragazzo, afferra la cima e aiutami a tirare in secco la barca.»
In un balzo Moses è in acqua per aiutare il pescatore. Sul fondo della barca solo tre pesci, grossi e bellissimi.
«Me li vendi per una moneta?»
«Prendili pure, sono tuoi.»
Felice di aver completato la sua laboriosa ricerca, Moses si incammina verso casa.

Un'ora dopo incontra sulla riva del lago una gran folla. Strano, due ore fa, all'andata, non c'era nessuno. Ma ancor più strano che tutta quella gente se ne stia ferma e silenziosa ad ascoltare un uomo che parla in piedi su una barca.
«È Gesù», gli sussurra all'orecchio qualcuno. Quel Gesù di cui tutti parlano, che è passato più volte in questi paraggi, ma che Moses non aveva mai fino ad ora incontrato.
Camminando silenziosamente sulla spiaggia arriva a sedersi proprio davanti alla barca. Ma quella è la barca di Simone, anche lui di Cafarnao, che ora se ne sta seduto ai piedi di Gesù. Il ragazzo ascolta quelle bellissime parole che hanno il potere di entrare nel profondo del cuore.

Passa il tempo senza che nessuno mostri di accorgersene, o per lo meno quasi nessuno, visto che proprio Simone è assai preoccupato. Infatti, appena può, consiglia al Maestro di congedare tutta quella gente perché possa andarsi a comperare qualcosa da mangiare nei paesi vicini.
Ma lui risponde: «Dategli voi da mangiare!»
Simone è confuso, si guarda intorno ed esclama: «Ma Signore noi non abbiamo nulla. L'unico cibo che vedo è nella cesta di quel ragazzo qui davanti, cinque pani e tre pesci.»
Gesù allora si fa portare la cesta, la benedice e con quel poco cibo che si moltiplica miracolosamente sfama una folla immensa.
Moses è visibilmente sbalordito. E' uno dei pochi che ha visto coi propri occhi da dove è uscito tutto quel pane e quel pesce. Anche lui ne ha mangiato e più tardi, quando Simone gli restituisce la cesta vuota ancora emozionato balbetta: «Grazie».
«Grazie a te Moses», gli risponde dolcemente l'apostolo.
Le parole si Simone scuotono il ragazzo: è tardi, anzi tardissimo. Bisogna tornare subito a Cafarnao, ma con cosa, se la cesta è rimasta vuota. La gente andandosene ha lasciato dei pezzi di pane: in breve la cesta si riempie di pezzetti, di briciole, tutta roba che va bene per i poveri, non per un ospite importante, ma è pur sempre meglio di niente.
I pensieri galoppano nella testa di Moses mentre torna quasi di corsa verso casa. Ha assistito ad un miracolo incredibile, ha udito parole che danno la pace al cuore, ma cosa dirà al signore che aspetta i pani e i pesci?

Cosi assorto arriva alla casa del suo committente, corre in cucina, vuota sul tavolo la cesta e scappa via per non dover dare spiegazioni. Corre fin sulla riva del lago e va a nascondersi in una barca che ha riconosciuto come quella di Simone. Anche questo è un fatto inaspettato: tutte le altre barche hanno preso il largo per gettare le reti sul far della sera, e questa, che solo qualche ora fa ospitava Gesù, è ferma sulla spiaggia.
Ma è proprio Gesù l'ospite atteso al quale erano destinati i pani e i pesci. Moses questo non lo sa; lo sa invece Simone che racconta al padrone di casa tutto quanto è successo quel giorno, e come da quella cesta sia uscito cibo per una folla immensa.

Il mattino seguente il ragazzo si sveglia, afferra la sua cesta e come il solito va in cerca di qualche lavoro.
«Moses, Moses, aspettami!»
E' la voce del vecchio signore di ieri che lo sta chiamando. Non è arrabbiato, ma addirittura affettuoso, e allora il ragazzo invece di scappare si volta.
«Moses, ti prego, ascoltami. Simone ieri sera mi ha raccontato tutto. Tu senza saperlo hai dato a Gesù tutto quello che io ti avevo mandato a comperare per lui. Sei stato molto più bravo di quanto ti avessi chiesto, ed ora ho un gran debito con te. Io sono vecchio e solo; anche tu sei solo, vuoi venire ad abitare da me? Ti vorrò bene come ad un figlio, e alla mia morte tutto ciò che possiedo sarà tuo.»

Moses ora abita da tempo col vecchio signore. Nel suo cuore ricorda sempre le parole di Gesù ascoltate quella mattina sul lago: «Date, date a tutti, e riceverete il centuplo sulla terra e la vita eterna in paradiso».
Agli amici racconta spesso come un giorno abbia donato tutto ciò che aveva dentro una cesta e per ricompensa abbia ottenuto un padre.

donocondivisionegenerositàmoltiplicazione dei pani e dei pesci

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 21/08/2017

ESPERIENZA

8. Fino all'ultimo respiro

Padre Modesto Paris, Panorama, num. 23/2017

Mancano poche ore al mio intervento di tracheostomia. Alcuni giorni fa ho dovuto prendere una decisione che non prevede ripensamenti. Non si può più tornare indietro. Mai avrei pensato di affrontare questa scelta a 59 anni. Ma i dottori mi hanno detto chiaro e tondo che sono arrivato alla fine del mio sentiero. Manca poco. E se non mi faccio aiutare con un foro nella trachea per far passare un tubo da collegare a una macchina esterna, il mio corpo non ce la farà più a respirare in maniera autonoma. L'alternativa era una sola: finire la mia permanenza terrena in modo dolce, addormentato. Da due anni mi hanno diagnosticato la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che, un pezzo alla volta, ha bloccato tutte le mie funzioni motorie e vitali. I medici sono stati chiari: mi hanno detto che solo il 15 per cento delle persone nelle mie condizioni decide di continuare a lottare. Il mio sì alla vita, nonostante le statistiche, è stato però immediato, senza esitazioni. E non solo perché sono un uomo di fede, un frate agostiniano scalzo, ordinato sacerdote 33 anni fa da Papa Giovanni Paolo II. L'ho fatto perché amo la vita in ogni sua sfaccettatura.

Ho puntato tutto il mio sacerdozio sull'esempio. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Per tutti i miei anni con il saio l'ho predicato in migliaia di Messe, in chiesa o in cima alle montagne. Agli adulti o ai giovani delle associazioni che ho fondato, ho sempre proposto un modello di vita basato su una fede viva aperta e gioiosa. Anche nelle difficoltà. Specialmente nelle difficoltà. Mentre sono sul letto su cui aspetto la chiamata per la sala operatoria, arriva una telefonata. È Guido. Il mio amico di sempre, compagno di tutte le mie avventure e "pazzie" nel volontariato. Lo conosco da quando ha cominciato a fare il chierichetto con me 40 anni fa. Io avevo 18 anni, lui 8. Ora è giornalista di Panorama. E nonostante abiti a 150 chilometri di distanza e abbia appena avuto un figlio, non ha mai smesso di credere ai miei sogni. Mi chiama e chiede se voglio raccontare a tutti i lettori perché ho detto sì. Perché non mi voglio arrendere. Se potessi ancora parlare ripeterei a gran voce queste parole di Papa Francesco: "Il dolore è dolore, ma vissuto con gioia e speranza ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo". Non potendo urlare lo scrivo sul tablet che mio fratello Andrea sorregge. Uso tre dita della mano destra. L'unica parte di me che ancora riesco a muovere. Oltre agli occhi.

Vado a ruota libera. Metto in fila i pensieri che come un lampo hanno attraversato la mia mente, gli istanti prima del mio sì. In camera mia i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. "L'aquilone prende il volo solo con il vento contrario". In questi mesi l'ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E proprio per questo ho continuato a volare. La mia decisione per il sì alla respirazione artificiale non è arrivata subito. È frutto di un cammino in salita che dura da mesi. A ogni ostacolo è seguita sempre una soluzione. E la vita è andata avanti. E io sono stato felice. Per prima cosa la malattia mi ha bloccato le corde vocali. Da quasi un anno non parlo più. Ma in mio aiuto è arrivato il comunicatore: un computer che parla al posto mio traducendo in messaggi audio i pensieri che digito sulla tastiera. Grazie a questo strumento tecnologico, per me la Messa non è mai finita. Ho potuto celebrare quasi tutte le domeniche. Anche in ospedale. Persino in diretta su Facebook. L'attenzione è addirittura aumentata. E ho visto tornare in chiesa tanti giovani che si erano smarriti. Poi ha smesso di funzionare la mia deglutizione e lo stomaco. Mi hanno messo un "rubinetto" nella pancia che permette di alimentarmi artificialmente. I canederli di mia madre e la pasta al pesto sono solo un ricordo.

Ma riesco a farne a meno. Sono pure dimagrito e tornato un figurino. Di Sant'Agostino cito spesso una frase: "È meglio aver meno desideri che avere più cose". E mentre scrivo queste righe capisco quanto sia vera. Non so spiegarlo, ma mi sento fortunato. Vado avanti e dico sì anche al rubinetto. Prima l'una poi l'altra, si sono fermate le gambe. E poi il braccio sinistro. Da bravo trentino, come un montanaro su un sentiero, ho continuato a salire in vetta. Questa volta sono spinto da una carrozzina elettrica ultratecnologica che io chiamo Bcs come il mio primo trattore. Penso e ripenso all'ok che ho scritto sulla lavagnetta ai medici e il sì diventa sempre più mio: ho sempre osato nella vita. Mi sono sempre spinto oltre. Per questo per me il sì è venuto spontaneo. Lo dico e lo ripeto più volte a me stesso, chi mi conosce condivide. Chi mi vuole bene sorride orgoglioso di questo sì. Un infermiere mi ha sorpreso: ha detto che il dolore va sempre prevenuto con medicine ad hoc. Ma senza dolore e sacrificio, la vita è noia. Non mi sento un grande, ma un piccolo Modesto che ha sempre sognato oltre le stelle. Questa nuova macchina mi aiuterà a respirare e a mantenere il mio sorriso anche quando non potrò nemmeno fare ok con il pollice: con il cuore e con gli occhi sarà facile farmi capire da chi mi vuol bene. Sant'Agostino scrive: "Ama, e fa' quello che vuoi". Si ama con il cuore e con gli occhi. Quindi non cambierà nulla nemmeno questa volta. Tante sono le cime che ho scalato insieme ai ragazzi e agli adulti dei gruppi che in questi anni ho fondato.

Ci sono vette che vedi sempre mentre stai salendo, scorgi i sentieri, sai benissimo dove si trova la meta perché l'hai raggiunta tante volte. Altre vette non le vedi, le immagini, le sogni. Alcune hanno bisogno di gambe buone, altre di un cuore grande, altre di grinta, altre di tanta fede. Gli infermieri mi chiudono il computer. Ho scritto tutta la notte. Sono esausto. È ora di andare sotto i ferri. E tutto quello che ho digitato forse non potrò leggerlo sfogliando Panorama. Porto con me in sala operatoria il fazzoletto promessa simbolo di appartenenza ai gruppi e una piccola croce di legno. È venerdì, sono le 9 di mattino. Proprio il giorno e l'ora in cui Gesù è stato crocifisso. Ho paura, ma cerco di non farlo vedere. L'anestesia sta svanendo. Mi sono svegliato, respiro bene. Quelli che vedo sono i miei amici di sempre. Sono angeli, ma non hanno le ali. Sono ancora vivo. Chiedo il computer. Voglio finire di scrivere le ragioni del mio sì alla vita. Mi viene in mente un racconto che mi ha fatto un giorno la caposala, trentina di nascita, genovese d'adozione, come me. Mi parla di una ragazza che ha assistito 30 anni fa. Si chiama Paola: a 19 anni, presenta disturbi motori e neurologici. Non si cita la Sla perché non la si conosceva ancora. Soltanto nove anni dopo le comunicano di avere proprio quella malattia. Paola conosce Alessandro, mentre riesce ancora a camminare e gli rivela sin da subito di essere malata. Paola e Alessandro si sposano e poco tempo dopo decidono di avere un figlio. Nel frattempo la malattia di Paola va avanti e non le permette più di camminare. I medici non sono favorevoli alla gravidanza perché pensano che possa essere troppo rischiosa. E invece nasce Luca un bimbo bellissimo e sano. Paola, poco per volta, perde tutte le sue funzionalità motorie e respiratorie, si deve sottoporre a vari interventi come quelli che ho affrontato io. Alimentazione assistita e tracheotomia.

Oggi la sua è una bellissima famiglia. Luca ha 18 anni, Paola muove solo gli occhi e Alessandro sa usare con molta abilità tutte le macchine che tengono in vita la moglie. Tantissimi sono gli amici che a turno vanno ad aiutare la sua famiglia e a chi le chiede come possa vivere così lei risponde: "Io sono felice così". Anche io sono felice così. Perché finché vivo mi posso nutrire della vita degli altri. Della grande famiglia che in questi anni è cresciuta con me. Vivo per sapere come vanno le attività dei miei ragazzi, dei gruppi di adulti, dei miei fratelli (e confratelli agostiniani), di mia mamma. Sapere che un giovane che conosco si è sposato o ha avuto un figlio mi riempie di gioia. Vedere un video e le foto di un campo o un bivacco, oppure sapere che una festa del volontariato è riuscita nell'intento di aiutare un orfanotrofio, mi fa sorridere. Mi fa sentire bene. Mi fa sentire vivo. Quanto è vera la frase "la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare". L'ho ripetuta centinaia di volte per motivare i ragazzi ad arrivare in cima a una montagna. Ora è il mio bastone. La mia fede è rimasta la stessa. Quella fede del montanaro con gli scarponi. Quella del bambino cresciuto in segheria. Primo di sei fratelli ho iniziato a lavorare quando non avevo ancora compiuto 4 anni. Il mio compito era stare accanto alla " bindella a zapar stece", vicino alla sega a nastro per raccogliere le assicelle tagliate che servivano a costruire cassette per le mele. Il mio mondo era quello, lo stesso di mio padre. A 12 anni la chiamata.

Ho lasciato quel mondo per entrare in convento. E non l'ho abbandonato nemmeno quando morì, giovanissimo, mio padre. Lo avevo promesso a mia mamma che, in quell'occasione mi disse: "No nir fora parché se vene fora le come moris en auter". Voleva dire: "Non uscirai mica dal seminario, perché se lo fai è come se morisse un altro". Una frase che mi ha dato la carica per diventare sacerdote e che continua a spronarmi ancora oggi che sono bloccato a letto. È per mia mamma che ho detto sì. Ma non solo. Chiudo con un segreto, che non ho mai rivelato a nessuno. Nel 1985 sono stato ordinato sacerdote da Papa Giovanni Paolo II. Avevo 26 anni. C'è stato un momento, prima che mi ponesse le mani sulla testa, in cui abbiamo scambiato alcune parole. Davanti alla Pietà del Michelangelo, in San Pietro, a Roma, gli ho confidato il mio sogno: fare da guida ai ragazzi e agli adulti nella cordata della vita. Nella frase che ho detto c'era la parola "per sempre". E così è stato. E così sia.

Mercoledì 31 maggio 2017, poco giorni dopo aver scritto questa lettera, il sottile spago che teneva legato alla terra il fragile aquilone si è spezzato, cosi Modesto ha potuto proseguire il volo, verso il cielo.

slamalattiamalatiaccettazionecoraggiodoloresofferenzacrocevitavalore della vitasenso della vita

inviato da Qumran2, inserito il 08/06/2017

PREGHIERA

9. O Cristo - Venerdì Santo 2017

Papa Francesco, Via Crucis al Colosseo, Venerdì Santo, 14 aprile 2017

O Cristo lasciato solo e tradito perfino dai tuoi e venduto a basso prezzo.
O Cristo giudicato dai peccatori, consegnato dai Capi.

O Cristo straziato nelle carni, incoronato di spine e vestito di porpora. O Cristo schiaffeggiato e atrocemente inchiodato.

O Cristo trafitto dalla lancia che ha squarciato il tuo cuore.

O Cristo morto e seppellito, tu che sei il Dio della vita e dell'esistenza.

O Cristo, nostro unico Salvatore, torniamo a Te anche quest'anno con gli occhi abbassati di vergogna e con il cuore pieno di speranza:

Di vergogna per tutte le immagini di devastazioni, di distruzioni e di naufragio che sono diventate ordinarie nella nostra vita;

Vergogna per il sangue innocente che quotidianamente viene versato di donne, di bambini, di immigrati e di persone perseguitate per il colore della loro pelle oppure per la loro appartenenza etnica e sociale e per la loro fede in Te;

Vergogna per le troppe volte che, come Giuda e Pietro, ti abbiamo venduto e tradito e lasciato solo a morire per i nostri peccati, scappando da codardi dalle nostre responsabilità;

Vergogna per il nostro silenzio dinanzi alle ingiustizie; per le nostre mani pigre nel dare e avide nello strappare e nel conquistare; per la nostra voce squillante nel difendere i nostri interessi e timida nel parlare di quelle dell'altrui; per i nostri piedi veloci sulla via del male e paralizzati su quella del bene;

Vergogna per tutte le volte che noi Vescovi, Sacerdoti, consacrati e consacrate abbiamo scandalizzato e ferito il tuo corpo, la Chiesa; e abbiamo dimenticato il nostro primo amore, il nostro primo entusiasmo e la nostra totale disponibilità, lasciando arrugginire il nostro cuore e la nostra consacrazione.

Tanta vergogna Signore ma il nostro cuore è nostalgioso anche della speranza fiduciosa che tu non ci tratti secondo i nostri meriti ma unicamente secondo l'abbondanza della tua Misericordia; che i nostri tradimenti non fanno venir meno l'immensità del tuo amore; che il tuo cuore, materno e paterno, non ci dimentica per la durezza delle nostre viscere;

La speranza sicura che i nostri nomi sono incisi nel tuo cuore e che siamo collocati nella pupilla dei tuoi occhi;

La speranza che la tua Croce trasforma i nostri cuori induriti in cuore di carne capaci di sognare, di perdonare e di amare; trasforma questa notte tenebrosa della tua croce in alba folgorante della tua Risurrezione;
La speranza che la tua fedeltà non si basa sulla nostra;

La speranza che la schiera di uomini e donne fedeli alla tua Croce continua e continuerà a vivere fedele come il lievito che da sapore e come la luce che apre nuove orizzonti nel corpo della nostra umanità ferita;

La speranza che la tua Chiesa cercherà di essere la voce che grida nel deserto dell'umanità per preparare la strada del tuo ritorno trionfale, quando verrai a giudicare i vivi e i morti;

La speranza che il bene vincerà nonostante la sua apparente sconfitta!

O Signore Gesù, Figlio di Dio, vittima innocente del nostro riscatto, dinanzi al tuo vessillo regale, al tuo mistero di morte e di gloria, dinanzi al tuo patibolo, ci inginocchiamo, invergognati e speranzosi, e ti chiediamo di lavarci nel lavacro del sangue e dell'acqua che uscirono dal tuo Cuore squarciato; di perdonare i nostri peccati e le nostre colpe;

Ti chiediamo di ricordarti dei nostri fratelli stroncati dalla violenza, dall'indifferenza e dalla guerra;

Ti chiediamo di spezzare le catene che ci tengono prigionieri nel nostro egoismo, nella nostra cecità volontaria e nella vanità dei nostri calcoli mondani.

O Cristo, ti chiediamo di insegnarci a non vergognarci mai della tua Croce, a non strumentalizzarla ma di onorarla e di adorarla, perché con essa Tu ci hai manifestato la mostruosità dei nostri peccati, la grandezza del tuo amore, l'ingiustizia dei nostri giudizi e la potenza della tua misericordia. Amen

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inviato da Qumran2, inserito il 15/04/2017

TESTO

10. Esame di coscienza dello Sportivo   1

Ufficio Nazionale Cei Pastorale dello sport, tempo libero e turismo, Fare pastorale dello sport in Parrocchia, 2013

Passa il tempo, cambia il modo di concepire il bene e il male, ma le due tavole della Legge permangono validissime. I Dieci Comandamenti, rimeditati lungo il percorso del pellegrinaggio giubilare, nel silenzio del cuore, offrono indicazioni sempre attuali per tutti gli sportivi.

Non avrai altro Dio fuori di me
Lo sport ha i suoi dei, ogni sport ha il suo Dio. È sconvolgente quando nello sport emerge un Dio che fa dimenticare il vero ed unico Dio. Non è giusto fare dello sport per esaltare se stesso, mettendo da parte Dio.

Non nominare il nome di Dio invano
Purtroppo lo sport offre una spaventosa occasione per bestemmiare; sia sul campo, sia ai suoi bordi, vissuta come scarica del nervosismo procurato dall'evento sportivo.

Ricordati di santificare le feste
Spesso non si va a Messa nei giorni festivi con la scusa della partita. Si perde il valore del "Giorno del Signore". L'impegno sportivo diventa una facile scusante.

Onora il padre e la madre
Il giocatore, una volta raggiunti i buoni livelli sportivi, non sente più la necessità della "tutela". I cambiamenti di società ed i rapporti sportivi diminuiscono i legami familiari per dare più importanza all'interesse sportivo.

Non ammazzare
La violenza dello sport è vissuta come una necessità per dare sostegno alla propria capacità e danneggiare l'intervento dell'avversario. La violenza è vissuta dagli spettatori come partecipazione attiva all'evento sportivo a favore della propria squadra.

Non commettere atti impuri
Purtroppo anche nello sport prevale la mancanza di rispetto del proprio corpo. Lo spogliatoio mette a dura prova parecchi giovani.

Non rubare
Ci sono anche furti legati allo sport. Si ruba il risultato dell'evento sportivo, riuscendo a pesare sulle decisioni dell'arbitro. Quante partite truccate?!

Non dire falsa testimonianza
Lo sport è vissuto, il più delle volte, come recitazione o come simulazione. Spesso questo comportamento è insegnato dai responsabili delle attività sportive. Quante simulazioni di fallo!

Non desiderare la roba d'altri
Quanti desideri per l'acquisto di attrezzature personali a imitazione dei professionisti. Acquisti che mettono a dura prova il bilancio familiare e che, se insoddisfatti, rendono infelice il giovane.

Non desiderare la donna d'altri
Il desiderio è forte, la tentazione può diventare convincente, ma occorre vigilare per non lasciarsi prendere dalla concupiscienza. Se rispetti, sarai rispettato, se giochi al ribasso sarai un perdente e imbrogli i rapporti veri e sacri.

Cfr. G. P. Ormezzano, Lo sport che fa male, ed. Gruppo Abele, Torino.

esame di coscienzasportsportivicomandamenticorrettezza

inviato da Qumran2, inserito il 26/08/2016

PREGHIERA

11. Maria donna del cammino

Antonio Rungi

Vergine Santa, che hai percorso territori sconfinati, dalla Palestina all'Egitto, e seguendo le orme del Tuo Figlio non ti sei risparmiata nessun cammino, proteggi coloro che, per terra, cielo e mare sono in viaggio per qualsiasi motivo che li spinge a lasciare i loro luoghi d'origine e camminare senza mete e senza confini.

Tu che hai affrontato il primo viaggio della carità, da Nazareth a Ain-Karin, per andare incontro alla tua anziana cugina, insegnaci ad andare incontro, con generosità, alla vita nascente, agli anziani, agli ammalati e a tutti i sofferenti della Terra.

Tu che sei andata da Nazareth a Betlemme, per dare alla luce il Tuo Figlio Gesù, conforta le madri che soffrono per motivi attinenti la loro vita di nutrici e genitrici.

Tu che sei stata costretta a lasciare, per la violenza e il terrore di Erode, con Gesù e Giuseppe, la tua Nazareth, guarda con amore e proteggi coloro che sono immigrati storici o di questi giorni, che sono senza patria e senza un popolo, e che sono fuggiti via per motivi di fame, lavoro, guerre e violenze di ogni genere.

Tu che sei rientrata in Patria con la tua famiglia naturale, fa' che tutti coloro che desiderano ritornare alla loro casa, vicina o lontana, possono farlo senza alcuna difficoltà.

Tu che hai camminato insieme a Gesù, per celebrare la Pasqua nella Gerusalemme terrena, fa' che anche noi possiamo festeggiare la Pasqua eterna, senza perderci nel lungo o breve viaggio nel tempo e che, con il tuo santo aiuto, passiamo raggiungere per sempre Gesù.

Tu che hai seguito Cristo, nel suo peregrinare per portare la dolce parola del Vangelo alla gente del suo tempo, guidaci nel cammino della nuova evangelizzazione, ora e sempre.

Tu, Stella che conduci la Chiesa nel suo impegno apostolico e missionario in tutto il mondo, illumina gli annunciatori della parola del Signore ad essere veri testimoni di Gesù.

Tu che hai accompagnato il tuo Figlio Gesù lungo la via del Calvario, e ti sei incontrata con Lui, nel mezzo del cammino del suo patire, sii vicino alle tante sofferenze di questa umanità, che va in cerca della vera libertà.

Tu, infine, che hai partecipato alla Risurrezione del Tuo Figlio e sei stata la prima ed unica creatura ad essere elevata al cielo in anima e corpo, donaci la possibilità di sperimentare ogni giorno la gioia e la serenità di chi cammina con il cuore e la mente rivolti al Signore, che è Dio Amore e Padre di misericordia.

Tu Vergine e Donna del cammino, Tu Madre Immacolata e Purissima del Redentore, spingi i nostri cuori incontro al Signore della vita e della storia, perché nessuno dei tuoi figli vada perduto nel carcere eterno dell'inferno.
Amen.

mariamadonnacamminoimmigratimigranti

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inviato da Padre Antonio Rungi, inserito il 24/05/2016

TESTO

12. Ogni stagione della vita ha un suo paradiso   1

Enzo Bianchi, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015

Ogni cristiano che recita il "Credo", la professione di fede, dice: "Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen", e questo credere non è periferico, ma fondamentale nella fede cristiana. Il cristiano, dunque, crede che ci sia un dopo la morte, una vita piena per sempre, nella quale non vi saranno più pianto, né dolore, né malattia, né morte, ma la gioia eterna della comunione, attraverso Gesù Cristo, con Dio e con gli uomini e le donne da lui salvati. Anch'io, in quanto cristiano e monaco, aderisco a questa speranza, ma confesso che il mio immaginario è molto personale ed è mutato nelle diverse stagioni della mia vita. La domanda che mi viene posta: "Come immagini il paradiso?", mi spinge dunque a dare diverse risposte.

Innanzitutto, il paradiso è un'immagine che ci viene trasmessa quando siamo piccoli, e così è stato anche per me. Quando morì mia mamma avevo solo otto anni. Chiedevo dov'era andata, perché non riuscivo ancora a comprendere la morte, e mi veniva risposto: è in paradiso, in un bel giardino, e là passeggia tra gli asfodeli, fiori molto profumati. Così immaginavo dunque il paradiso e speravo di andarci presto, per ritrovare mia mamma e vedere questi fiori profumati che nessuno sapeva descrivermi, perché nel Monferrato nessuno li aveva mai visti.

Con la giovinezza e gli studi biblici, elaborai altre immagini, sovente in contrapposizione al possibile esito opposto: gli inferi, luogo di perdizione, lontano da Dio e da tutti gli altri. Il paradiso assumeva le immagini della Bibbia che leggevo e studiavo: un luogo pieno di luce, in cui non era mai notte; un luogo di pace, senza litigi, dispute, violenze, guerre; un banchetto con abbondanza di cibi squisiti e di vini raffinati; tanta musica e la possibilità di stare insieme, in una festa continua... Belle immagini, ma che svanivano velocemente, perché la ragionevole fede mi spingeva a comprendere che il paradiso non era un luogo, bensì una condizione di comunione con il Signore. Mi piaceva però l'immagine del pranzo con piatti sempre nuovi e dal gusto straordinario, dell'ascolto di musiche che rendevano l'eternità sopportabile...

Poi le immagini del paradiso sono cambiate ancora, tra dubbi, rinnovamenti della speranza, a volte anche stanchezza delle immagini stesse e desiderio di rinnovarle. Ora che sono vecchio, il paradiso o l'esito contrario dell'inferno sono sempre più prossimi: non nascondo una certa paura che mi abita al pensiero della morte, perché credo nel giudizio di Dio sulle mie responsabilità, sul mio operare che è stato buono o cattivo.

Spero soprattutto che nessuno vada all'inferno; ma se qualcuno ci va, allora - mi dico - rischio di andarci anch'io, che non mi sento tanto diverso dagli altri nell'acconsentire all'egoismo che mi abita.

E le immagini del paradiso, da vecchio? Sono svanite. Oggi non so dire, non so immaginare, non oso neppure pensare di dire qualcosa che lo descriva. Nella mia fede è solo una cosa: una grande comunione in Gesù Cristo, in cui regnerà l'amore. Sono convinto che chi ho amato qui sulla terra, lo ritroverò anche di là, e così continueranno il nostro amore e la nostra amicizia. Se pensassi di andare di là e di non trovare più i miei amici, preferirei allora non andarci!

Spero di ritrovare questa terra che tanto ho amato, certamente da Dio trasfigurata, ma ancora questa terra con le sue colline, le sue vigne, i suoi boschi... Sì, vorrei che continuassero le "storie d'amore" vissute qui; anzi, che riprendessero quelle che si sono interrotte e, senza gelosie né concorrenze, potessimo tutti insieme bere alle coppe del vino dell'amore.

Per farvi sorridere, cari lettori, vi confesso che ho un'altra paura: di finire sì in paradiso, ma vicino a persone che non mi piacevano, sebbene fratelli o sorelle nella fede e magari anche di rinomata santità. No, questo proprio no! Ma forse, se Dio mi salverà, sarò cambiato tanto da sopportare anche questo. Purché il Signore non mi faccia perdere gli amici, quelli che ho amato bene e quelli che ho amato male: li vorrei con me.

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inviato da Simone Pestelli, inserito il 07/02/2016

TESTO

13. Sulla strada per cercare, partire, arrivare e ancora ripartire   2

Giorgio Basadonna, Spiritualità della strada, Editrice Ancora Milano

Mettersi per strada per toccare con mano cosa significa cercare, cioè sapere e non ancora vedere, sentire la mancanza di qualcosa che preme e di cui si ha bisogno, avvertire un vuoto che non può restare ed esige di essere colmato. Il coraggio di uscire, di abbandonare ripari e difese troppo spesso limitanti, di rinunciare a quanto già si ha per ottenere ciò di cui si avverte il bisogno: questo è mettersi per strada.

C'è sempre qualche motivo per restare dove si è, per continuare come si è, per non partire. Ma è paura, perché vero invece è il nostro estremo bisogno di cambiare, di crescere, di conoscere, di rispondere agli interrogativi più urgenti che battono dentro di noi. Ci si mette per strada: un senso di sgomento e di ansia ci assale. Si avverte subito la propria piccolezza e tutto sembra così difficile. Ma poi, appena si comincia, appena la strada si snoda sotto i nostri passi, ci si accorge che, come le nebbie del mattino, la paura si dilegua e adagio adagio sorge il sole.

Caratteristica della strada è il suo continuare: ogni route comporta un susseguirsi di tappe. Arrivare e partire, piantare la tenda e disfarla il giorno dopo, fermarsi a dormire per riprendere la strada. Così si apprende il valore di un sacrificio, la nobiltà e l'importanza di spendersi per qualcosa, la liberazione che nasce da una decisione coraggiosa portata fino in fondo. Il piacere di arrivare, di porsi una meta e raggiungerla, il piacere di vedere crescere dentro di sé qualcosa che si è intravisto come necessario alla propria pienezza umana, è il piacere del vivere, il piacere dell'essere libero e del sentirsi realmente costruttori di se stessi.

Ma non si arriva se non per ripartire. Quando fa giorno si riparte. La tenda viene ripiegata, si cancella ogni traccia, e si va, portando nel cuore quella ricchezza di cose e di persone che si è vissuta. Poi, un'altra tappa, un altro incontro con altre persone e altre cose; ma le stelle saranno ancora quelle, ancora quelle le nuvole, l'acqua, il fuoco, ancora quella la gioia dell'arrivare. Non si sta fermi: siamo fatti per camminare, per crescere, per divenire. La verità del nostro essere liberi e intelligenti ci fa capire che là dove siamo ora non è che una tappa e che la strada è ancora lunga.

"C'è una lunga lunga traccia..." che si perde nel cielo, che scavalca il tempo e approda all'eterno: ma intanto si cammina. Se fin qui si è goduto nella ricerca, nell'incontro, nello stupore dei paesaggi e delle esperienze interiori, quanto ancora c'è da godere, continuando con un bagaglio che si fa sempre più ricco! Arrivare e partire. Il senso del nuovo che ogni giorno si apre ai nostri occhi e al nostro cuore. C'è sempre un "ancora", un "più", un "domani": "già" e "non ancora", per tutto quello che si è e per quello che domani saremo, per noi e per il mondo intero.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Padre Franco Naldi Ofm, inserito il 06/02/2016

TESTO

14. A coloro che non trovano pace

Tonino Bello

Carissimi,

l'idea di rivolgermi a voi mi è venuta stasera quando, recitando i vespri, ho trovato questa invocazione: «Metti, Signore, una salutare inquietudine in coloro che si sono allontanati da te, per colpa propria o per gli scandali altrui».

Per prima cosa mi son chiesto se, nel numero delle mie conoscenze, ci fosse qualcuno che poteva essere raggiunto da questa preghiera.

E mi sono ricordato dite, Giampiero, che, dopo essere passato per tutta la trafila dei gruppi giovanili della parrocchia, un giorno te ne sei andato e non ti sei fatto più vedere.

L'altra sera ti ho incontrato per caso. Pioveva. Eri fermo sul marciapiede e ti ho dato un passaggio. In macchina mi hai chiesto con sufficienza se durante la quaresima continuavo a predicare le «solite chiacchiere» ai giovani, riuniti in cattedrale. Ci son rimasto male, perché mi hai detto chiaro e tondo che tu ormai a quelle cose non ci credevi più da un pezzo, e che al politecnico stavi trovando risposte più utili di quelle che ti davano i preti.

Mi hai raccontato che a Torino hai conosciuto Gigi, ex seminarista e mio alunno di ginnasio, il quale ti parla spesso di me. Ho notato che avevi una punta d'ironia e sembrava che ti divertissi quando hai aggiunto che ora sta con una ragazza, bestemmia come un turco, e fuma lo spinello.

Quando all'improvviso ti ho chiesto se eri felice, mi hai risposto che ne avremmo parlato un'altra volta, perché dovevi scendere e poi era troppo tardi.

Addio, Giampiero! L'invocazione del breviario stasera la rivolgo al Signore per te. E per Gigi. E la rivolgo anche per te, Maria, che ti sei allontanata senza una plausibile ragione. Facevi parte del coro. Ora a messa non ci vai nemmeno a Pasqua. Tu dici che hai visto troppe cose storte anche in chiesa, e che non ti aspettavi certe pugnalate alle spalle proprio da coloro che credono in Dio. Non so che cosa ti sia successo di preciso. Ma l'altro giorno, quando sei venuta da me per implorare un ricovero urgente al Gemelli a favore del tuo bambino che sta male, e io ti ho esortata ad aver fiducia in Dio, e tu sei scoppiata a piangere dicendomi che in Dio non ci credi più... mi è parso di leggere in quelle lacrime, oltre alla paura di poter perdere il figlio, anche l'amarezza di aver perduto il Padre.

Non temere, Maria. Pregherò io per il tuo bambino, perché guarisca presto. Ma anche per te, perché il Signore ti metta nel cuore una salutare inquietudine.

Vedo che non afferri il senso di una preghiera del genere. Di inquietudini nei hai già tante e non è proprio il caso che mi metta anch'io ad aumentartene la dose. Tu sai bene, però, che in fondo io imploro la tua pace. Ecco, infatti, come il breviario prolunga l'invocazione su coloro che si sono allontanati da Dio: «Fa' che ritornino a te e rimangano sempre nel tuo amore».

E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po' per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.

Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell'inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt'altro che rara la coesistenza di Dio con l'insoddisfazione cronica dello spirito.

Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell'irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l'avrei anch'io da confidarvelo.

A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un'altra piega all'esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l'anima ce l'avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c'è bicchiere d'acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.

A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.
Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.

Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.

O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.

Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola: «O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

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inviato da Francesco De Luca, inserito il 16/06/2015

RACCONTO

15. La morte del pessimismo

Leggenda araba

C'era una volta un vecchio, così vecchio che non ricordava neppure di essere stato giovane. E forse non lo era mai stato. In tutto il tempo che era stato in vita, ancora non aveva imparato a vivere. E, non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.

Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Nulla esisteva al mondo che potesse addolorarlo e stupirlo. Trascorreva i suoi giorni inoperosi sulla soglia della sua capanna, guardando con occhi indifferenti il cielo, quello zaffiro immenso che Allah pulisce ogni giorno con la soffice bambagia delle nuvole. A volte qualcuno si fermava ad interrogarlo. Così carico d'anni qual era, la gente lo credeva molto saggio e cercava di trarre qualche consiglio dalla sua secolare esperienza.

«Che cosa dobbiamo fare per conquistare la gioia?» gli chiedevano i giovani. «La gioia è un'invenzione degli stolti», rispondeva lui.

Passavano uomini dall'animo nobile, apostoli bramosi di rendersi utili: «In che modo possiamo sacrificarci, per giovare ai nostri fratelli?» gli domandavano. «Chi si sacrifica per l'umanità è un pazzo», rispondeva il vecchio con un ghigno sinistro.

«Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?», domandavano i padri e le madri. «I figli sono serpi», rispondeva il vecchio. «Da essi non ci si può aspettare che morsi velenosi».

Anche gli artisti e i poeti, nella loro ingenuità, si recavano talvolta a consultare quell'uomo. «Insegnaci ad esprimere quell'anelito che abbiamo nel cuore!», gli dicevano. «Fareste meglio a tacere», sogghignava il vegliardo.

Le convinzioni malvagie di colui che non sapeva né vivere né morire, poco a poco si diffondevano nel mondo. L'Amore, la Bontà, la Poesia, investiti dal ventaccio del Pessimismo (poiché tale era il nome del Vecchio), si appannavano e inaridivano. L'esistenza umana veniva sommersa in una gora di stagnante malinconia.

Alla fine Allah si rese conto dello sfacelo che il Pessimismo operava nel mondo, e decise di porvi riparo. «Poveretto», pensò, «scommetto che nessuno gli ha mai dato un bacio». Chiamò un bambino e gli disse: «Va' a dare un bacio a quel povero vecchio».

Subito il bambino obbedì: mise le braccia intorno al collo del vecchio e gli scoccò un bacio sulla faccia rugosa. Il vegliardo fu molto stupito - lui che non si stupiva di niente. Difatti, nessuno mai gli aveva dato un bacio. E così il Pessimismo aperse gli occhi alla vita, e morì sorridendo al bambino che lo aveva baciato.

pessimismoottimismofiduciasorrisotenerezza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015

RACCONTO

16. Il parasole   1

Min-Hi era una graziosa e simpatica cinesina di dodici anni che viveva con la mamma e il papà in un villaggio al margine della foresta. Il compleanno di Min-Hi coincideva con la stagione calda, quando il sole scottava e la gente andava in cerca di ombra. Perciò, per il suo compleanno, ricevette in regalo un bel parasole.

«Posso andare a fare una passeggiata col mio nuovo parasole?», chiese alla mamma.
«Va bene, stai attenta però, e torna presto!».

Min-Hi stava camminando sul ciglio di una risaia, quando vide un enorme gorilla dondolarsi su un albero con le braccia penzoloni.

«Povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò Min-Hi. E, tremando tutta, si rincantucciò dietro il parasole. Ma non accadde niente... proprio niente! Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia del gorilla!

Non aveva fatto molta strada, quando intravide una grande ombra aggirarsi minacciosa fra i cespugli. Era un'enorme tigre che puntava silenziosamente verso di lei.

«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò sgomenta. E, tremando tutta, si accoccolò dietro il parasole. Ma non successe nulla... decisamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia di tigre.

Non era andata molto più lontano quando un'ombra nera sulla sua testa la fece guardare in alto. Su di lei stava calando un grosso uccello dalle enormi ali spiegate, con un becco adunco e gli unghioni affilati.

«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi sotto il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò terrorizzata. E tremando tutta si fece piccola sotto il parasole. Ma non successe nulla... assolutamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia dell'aquila.

Quando Min - Hi tornò a casa, raccontò alla mamma le sue tremende avventure.

«Ma hai guardato cosa c'è sul tuo parasole?», le chiese la mamma.
Min - Hi lo aprì e fece un salto per lo spavento.

Sopra il parasole c'era dipinto un drago coloratissimo e terrificante, con enormi artigli e narici fiammeggianti.

«Hai visto?» le chiese la mamma, «Contro il tuo potentissimo drago non c'è gorilla, tigre o rapace che tenga».

E aggiunse: «Il tuo parasole, farai bene a portarlo sempre con te».

E da quel giorno, Min - Hi non se lo fece certo dire due volte.

debolezzaforzariparodifesa

3.5/5 (2 voti)

inserito il 20/09/2013

RACCONTO

17. La strada che non andava da nessuna parte   5

Gianni Rodari

All'uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po' a tutti e da tutti aveva ricevuto la stessa risposta:
"Quella strada lì? Non va in nessun posto. E' inutile camminarci".
"E fin dove arriva?". "Non arriva da nessuna parte".
"Ma allora perché l'hanno fatta?". "Non l'ha fatta nessuno, è sempre stata lì".
"Ma nessuno è mai andato a vedere?". "Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c'è niente da vedere...".
"Non potete saperlo se non ci siete mai stati".

Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino-Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto. Quando fu abbastanza grande, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce e ben presto cominciarono i boschi.

Cammina cammina la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane. Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora. Finalmente il bosco cominciò a diradarsi e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro. Attraverso le sbarre Martino vide un castello e a un balcone una bellissima signora che salutava con la mano.

Spinse il cancello, attraversò il parco e sulla porta trovò la bellissima signora. Era bella, vestita come una principessa e in più era allegra e rideva: "Allora non ci hai creduto".
"A che cosa?". "Alla storia della strada che non andava da nessuna parte".
"Era troppo stupida e secondo me ci sono più posti che strade". "Certo, basta aver voglia di muoversi. Ora vieni ti farò vedere il castello".

C'erano più di cento saloni zeppi di tesori. C'erano diamanti, pietre preziose, oro, argento e ad ogni momento la bella signora diceva: "Prendi, prendi quello che vuoi... Ti presterò un carretto per portare il peso". Martino non si fece pregare e ripartì col carretto pieno.

In paese, dove l'avevano già dato per morto, Martino fu accolto con grande sorpresa.

Scaricato il tesoro il carro ripartì. Martino fece tanti regali a tutti e dovette raccontare cento volte la sua storia. Ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere cavallo e carretto e si precipitava giù per la strada che non andava da nessuna parte.

Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l'altro, con la faccia lunga per il dispetto: la strada per loro finiva in mezzo al bosco in un mare di spine. Non c'era né cancello, né castello, né bella signora. Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova.

attesaricercasperanzaintraprendenzadisillusionecamminostrada

4.7/5 (7 voti)

inserito il 08/11/2012

TESTO

18. Ho imparato   8

Ho imparato che nessuno è perfetto... finché non ti innamori.
Ho imparato che la vita è dura... ma io di più!
Ho imparato che le opportunità non vanno mai perse... quelle che lasci andare tu, le prende qualcun altro.
Ho imparato che quando serbi rancore e amarezza... la felicità va da un'altra parte.
Ho imparato che bisognerebbe usare sempre parole buone... perché domani forse si dovranno rimangiare.
Ho imparato che un sorriso è un modo economico per migliorare il tuo aspetto.
Ho imparato che non posso scegliere come mi sento... ma posso sempre farci qualcosa.
Ho imparato che quando tuo figlio appena nato tiene il tuo dito nel suo piccolo pugno... ti ha agganciato per la vita.
Ho imparato che bisogna godersi il viaggio e non pensare solo alla meta.
Ho imparato che è meglio dare consigli solo in due circostanze: quando sono richiesti e quando è in gioco la vita.
Ho imparato che meno tempo spreco e più cose faccio.
Ho imparato a godermi le cose!
Ho imparato ad accettare le sconfitte, le delusioni.
Ho imparato che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. Per questo bisogna che tu la perdoni.
Ho imparato che ci vogliono anni per costruire la fiducia, e pochi secondi per distruggerla.
Ho imparato che non dobbiamo cambiare amici se comprendiamo che gli amici cambiano.
Ho imparato che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo sempre responsabili di noi stessi.
Ho imparato che la pazienza richiede molta pratica.
Ho imparato che ci sono persone che ci amano, ma semplicemente non sanno come dimostrarcelo.
Ho imparato che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno ad alzarti.
Ho imparato che solo perché qualcuno non ti ama come vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Ho imparato che non si deve mai dire ad un bambino che i sogni sono sciocchezze, sarebbe una tragedia se lo credesse.
Ho imparato che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno, nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Ho imparato che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si sia spezzato, il mondo non si ferma aspettando che lo ripari.
...E dopo tutto ciò, avrò imparato a vivere?

viveresaggezzavitasenso della vitagratuitàmisericordiacomprensioneforza interiore

2.9/5 (9 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 23/09/2012

TESTO

19. La segnaletica del Calvario   2

Tonino Bello, Scritti vari

Miei cari fratelli, sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agli incroci, ce ne sono ogni tanto delle altre, di piccole dimensioni, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a rallentare la corsa per imboccare l'unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne dico tre. Ma bisogna fare attenzione, perché si vedono appena.

La freccia dell'accoglienza. E' una deviazione difficile, che richiede abilità di manovra, ma che porta dritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono. Non come un rivale. Un pretenzioso che vuole scavalcarmi. Un possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere il fratello con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d'identità! Si, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che è iscritto all'anagrafe del mio quartiere o che abita di fronte a casa mia. Coraggio! Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.

La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E' sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. E' su questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo ed a misurare la nostra fedeltà al mistero della croce.

La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe qualcosa. Non il cristallo di una virtù che, al limite, con una confessione si può anche ricomporre. Ma il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.

Il Signore ci conceda la grazia di discernere, al momento giusto, sulla circonvallazione del Calvario, le frecce che segnalano il percorso della Via Crucis. Che è l'unico percorso di salvezza.

via crucisgolgotaaccoglienzariconciliazionecomunioneperdonocomunitàvolontariato

inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

PREGHIERA

20. Ho preso la parola, Signore

Michel Quoist, Preghiere, Marietti, Torino 1963, p. 72.74

Ho preso la parola, Signore, e sono stizzito,
Sono stizzito perché mi sono agitato, speso, con il gesto e con la voce.
Ce l'ho messa tutta nelle mie frasi, nelle mie parole,
E temo di non aver dato l'essenziale.
Perché l'essenziale non è in mio potere, Signore, e le parole sono troppo strette per contenerlo.

Ho preso la parola, Signore, e son inquieto,
Ho paura di parlare, perché è grave;
E' grave disturbare gli altri, farli uscire da loro, immobilizzarli sulla soglia di casa loro;
E' grave trattenerli lunghi minuti, a mani tese, cuore teso, alla ricerca di un lume o di un po' di coraggio per vivere e per agire.

Se io li rimandessi a mani vuote, Signore!

Eppure debbo parlare.
Mi hai donato la parola per alcuni anni, e debbo servirmene.
Son debitore della mia anima agli altri, e sulle mie labbra le parole attendono per trasportarla presso gli altri in lunghi convogli serrati.
Perché l'anima non saprebbe esprimersi se le fosse tolta la parola.
Non si sa nulla del bimbo racchiuso nella sua carne
E la famiglia tutta esulta quando, a sillabe, a parole, a frasi, la sua anima appare davanti alla nostra anima.
Ma la famiglia si raccoglie disperata al capezzale del morente, ascoltando religiosamente le ultime parole, che egli pronuncia.
Egli se ne va, chiudendosi nel silenzio, ed i parenti non conosceranno più la sua anima quando pietosamente ne avranno chiuso gli occhi e serrato le labbra.

La parola è una grazia, Signore, e non ho il diritto di tacere per orgoglio, viltà, negligenza o paura dello sforzo.
Gli altri hanno diritto alla mia parola, alla mia anima, perché ho un messaggio da trasmettere da parte Tua. E nessun altro che me, Signore, sarebbe in grado di dirlo loro.
Ho una frase da pronunciare, breve, forse, ma ripiena della mia vita.
Non mi posso sottrarre.
Ma le parole che lancio debbono essere parole vere.
Sarebbe abuso di fiducia captare l'attenzione altrui se sotto la scorza delle parole non dessi la verità dell'anima.
Le parole che spando debbono essere parole vive, ricche di quanto la mia anima unica ha colto del mistero del mondo e del mistero dell'uomo.
Le parole che dono debbono essere portatrici di Dio, perché le labbra, che mi hai donato, Signore, sono fatte per dire la mia anima, e la mia anima Ti conosce e ti tiene avvinto.

Perdonami, Signore, per aver parlato tanto male;
Perdonami per aver spesso parlato per non dir nulla;
Perdonami i giorni in cui ho prostituito le mie labbra
pronunciando parole vuote,
parole false,
parole vili,
parole in cui Tu non hai potuto infiltrarti.
Sorreggimi quando debbo prendere la parola in un'assemblea, intervenire in una discussione, conversare con un fratello.
Fa soprattutto, o Signore, che la mia parola sia un seme
E che quanti ricevono le mie parole possano sperare una bella messe.

parlareparolacomunicazionecomunicareannuncio

inviato da Maria Fassone, inserito il 20/02/2012

RACCONTO

21. Scacco alla morte   1

Nardo Masetti

Un uomo molto ricco sta facendo il calcolo di tutti i suoi beni: può veramente felicitarsi con se stesso. Ha tribolato tutta la vita, ha lavorato come un dannato, ma ora potrà vivere sontuosamente per tutto il resto dei suoi giorni. Ode improvvisamente un tocco delicato alla porta: si tratterà, come al solito, del suo cameriere che viene per augurargli la buona notte. Dice un abituale "Avanti!". Non è il servitore ma un personaggio che davvero non si sarebbe aspettato né così presto né in quel momento: la morte. Terrorizzato la supplica di attendere un giorno... un'ora, affinché possa mettere a posto le sue cose. Da tanto tempo non ha più pensato a Dio; come si fa a comparirgli davanti all'improvviso in uno stato simile?! La morte non risponde, ma continua ad avanzare verso di lui, gli tocca una spalla e compie inesorabilmente il suo ufficio. Dal campanile scoccano le ventuno.

In una soffitta di una vecchia casa un uomo sta armeggiando con alcuni attrezzi, che ripone in una borsa di logora stoffa. Quella sarà la sua notte. Ha stentato tutto una vita, ma questa volta, se il colpo riuscirà, potrà vivere da ricco e levarsi tutte le soddisfazioni. Con due colleghi ha studiato il piano alla perfezione; ancora poche ore e poi via, con passaporti falsi verso un altro mondo. Sente bussare leggermente alla porta: saranno i colleghi. No, è la morte. L'uomo, oltre che terrorizzato, si mostra anche stizzito e protesta: "Tante volte ti ho desiderata, stanco della mia vita grama e mai sei venuta; ora che sto per cominciare a godere, lasciami la possibilità di gustare un solo giorno della nuova vita... almeno un'ora... almeno qualche minuto per pensare a Dio". La morte non risponde, ma continua ad avanzare verso l'uomo, lo tocca sulla spalla e compie inesorabilmente il suo ufficio. Dalla torre civica scoccano le ventidue.

Nel suo studio il vecchio vescovo sta riordinando le sue cose prima del riposo. Sente bussare alla porta: è la morte. Si alza e le va rispettosamente incontro, come è solito fare con ogni persona che vada da lui in udienza. Le dice: "A dire il vero non ti aspettavo questa sera; comunque sì la benvenuta". La morte si meraviglia: questo uomo non ha paura, non supplica, non ha nulla da chiedere; con titubanza avanza verso di lui. Dalla torre della cattedrale scoccano le ventitré. La morte si ferma di scatto e, con un senso di smarrimento, controlla il suo orologio: sono veramente le ventitre. Confusa e incredula si scusa col vescovo: "Non mi è mai capitato di arrivare con un'ora di anticipo; tornerò fra un'ora, l'appuntamento è stabilito per la mezzanotte". Il vescovo la prega di fermarsi e, visto che ormai è lì, dichiara la sua disponibilità a partire in anticipo. La morte afferma che non può; ha ordini tassativi. Allora lui propone di trascorrere l'ora giocando una partita a scacchi, visto che non ha nulla da preparare per il viaggio eterno, avendo cercato di provvedervi, giorno dopo giorno, da moltissimo tempo. È una partita equilibrata, ma alla fine il vescovo, con una mossa pensata ed astuta, dà scacco matto la morte che, rassegnata sorride e allarga le braccia in segno di resa. Dalla torre della cattedrale scoccano le ventiquattro. I due personaggi si alzano e sotto braccio, come due buoni amici, escono dalla porta dello studio.

mortesenso della vitavigilanza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Nardo Masetti, inserito il 08/07/2011

ESPERIENZA

22. Legrottaglie: "Niente sesso da due anni, aspetto la donna giusta"   2

Elisa Bertoli, www.gingergeneration.it

Il difensore della Juve racconta il proprio percorso di rinascita: dalle critiche all'incontro con Dio

La dichiarazione, pubblicata dalla rivista Sport Week qualche settimana fa, è di quelle che fanno scalpore: Nicola Legrottaglie, trentunenne biondo difensore della Juventus, possibile convocazione per i prossimi Europei, afferma: "Non faccio sesso da due anni".

Difficile pensare che dica sul serio, considerato che Nicola è uno che di veline, meches, sfilate di moda, show girls e feste se ne intende, ma invece il perché di questa frase è presto spiegato: "Quando acquisisci dentro di te la verità della vita smetti di dipendere dalle cose superflue. Prima se non andavo con una donna ogni quattro o cinque giorni andavo nel panico, ora non posso più. Non perché non mi piacciono le donne, ma perché aspetto quella giusta per fare una famiglia, una che condivida i miei stessi valori. Il consiglio di Dio è di non avere rapporti prematrimoniali e io non mi vergogno a dire, sono due anni che non ne ho. Il bello è che non mi pesa per niente. Tanti mi prendono in giro, ma non mi interessa: il problema è di chi non riesce a stare senza sesso, finendo per diventarne schiavo".

Un difficile percorso

Nicola ammette di essere arrivato nel 2003 alla Juventus "con presunzione: credevo che il solo fatto di essere qui facesse di me un campione e non riuscivo a esprimermi. Ho perso in fretta tutta la mia credibilità, mi sono depresso scivolando prima al Bologna e poi al Siena". Anni pieni di critiche nei suoi confronti, reo di pensare più alla vita mondana che a impegnarsi in allenamento e in campo, culminati però nell'incontro con il calciatore paraguaiano del Piacenza Tomas Guzman, che lo ha aiutato a conoscere la Bibbia: "Solo dopo quella batosta ho capito che tutto quello che mi insegnavano da piccolo era vero". Nicola ha così capito che "i valori della vita sono altri" e ora "la serenità che mi ha dato questo percorso mi permette di avere più fiducia e sicurezza nei miei mezzi, di essere più spregiudicato anche in campo. Adesso la gente non mi ferma più per la strada per criticarmi: mi fa i complimenti per quello che faccio e soprattutto per quello che dico. E' qualcosa che va al di là del mio modo di giocare: dicono che ho coraggio. Ma per me non ci vuole coraggio a seguire Gesù e a fare certe rinunce". Insomma, dopo l'incontro con Dio, Nicola non solo è un altro uomo, ma anche un altro calciatore!

Legrottaglie e Kaka, due calciatori fuori dagli schemi

Ma tornando alla frase che più di tutte ha fatto scalpore, Nicola aggiunge: "Quando Kaka ha detto di essere arrivato vergine al matrimonio, molti hanno riso, ma io ho capito che era una cosa bellissima".

Nicola Legrottaglie e Kaka, due dei calciatori "fuori dagli schemi": giovani, carini, ricchi e immersi in un mondo, quello del calcio, che il più delle volte sembra quello dello spettacolo e che discorsi simili non sa nemmeno cosa significhino. Accanto a colleghi che giurano eterno amore a ragazze, meglio se del mondo della tv, che poi in realtà "mollano" dopo una settimana, loro proseguono dritti per la loro strada senza dubbi e ripensamenti: donarsi a una donna è talmente bello che è ancor più bello farlo per la prima volta con quella che hai deciso sarà per tutta la vita, un impegno da prendere con chi hai deciso di costruire il tuo futuro!

E voi, ragazze, che ne pensate? Sono così sconcertanti queste dichiarazioni di Legrottaglie o condividete i suoi nuovi valori?

matrimonioamoresessoaffettivitàrapporti prematrimoniali

5.0/5 (1 voto)

inviato da Elisa Bertoli, inserito il 06/07/2011

RACCONTO

23. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

TESTO

24. La preghiera

S. Giovanni Maria Vianney, Omelia per la V Domenica dopo Pasqua

Per mostrarvi il potere della preghiera e le grazie che essa vi attira dal cielo, vi dirò che è soltanto con la preghiera che tutti i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che la pioggia è per la terra. Concimate una terra quanto volete, se manca la pioggia, tutto ciò che farete non servirà a nulla. Così, fate opere buone quanto volete, se non pregate spesso e come si deve, non sarete mai salvati; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di fare ricorso a Dio; le fa temere la sua debolezza.

Il cristiano conta per tutto su Dio solo, e niente su se stesso. Sì, è per mezzo della preghiera che tutti i giusti hanno perseverato. Del resto, ci accorgiamo noi stessi che appena trascuriamo le nostre preghiere, perdiamo subito il gusto delle cose del cielo: pensiamo solo alla terra; e se riprendiamola preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero e il desiderio delle cose del cielo. Sì, se abbiamo la fortuna di essere nella grazia di Dio, o faremo ricorso alla preghiera, o saremo certi di non perseverare per molto tempo nella via del cielo.

In secondo luogo, diciamo che tutti i peccatori debbono, senza un miracolo straordinario che accade rarissimamente, la loro conversione soltanto alla preghiera. Vedete santa Monica, ciò che fa per chiedere la conversione di suo figlio: ora essa è al piede del suo crocifisso a pregare e piangere; ora si trova presso persone che sono sagge, per chiedere il soccorso delle loro preghiere. Guardate lo stesso sant'Agostino, quando volle seriamente convertirsi... Si, per quanto fossimo peccatori, se avessimo fatto ricorso alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che il buon Dio ci perdonerebbe.

Ah!, fratelli miei, non meravigliamoci del fatto che il demonio fa tutto ciò che può per farci tralasciare le nostre preghiere, e farcele dire male; è che capisce molto meglio di noi quanto la preghiera è temibile nell'inferno, e che è impossibile che il buon Dio possa rifiutarci ciò che gli chiediamo per mezzo della preghiera...

Non sono né le lunghe né le belle preghiere che il buon Dio guarda, ma quelle che si fanno dal profondo del cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Dio. Eccovene un bell'esempio. Viene riferito nella vita di san Bonaventura, grande dottore della Chiesa, che un religioso assai semplice gli dice: «Padre, io che sono poco istruito, lei pensa che posso pregare il buon Dio e amarlo?».

San Bonaventura gli dice: «Ah, amico, sono questi principalmente che il buon Dio ama di più e che gli sono più graditi». Questo buon religioso, tutto meravigliato da una notizia così buona, va a mettersi alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: «Venite, amici, ho una buona notizia da darvi; il dottore Bonaventura m'ha detto che noi altri, anche se ignoranti, possiamo amare il buon Dio quanto i dotti. Quale felicità per noi poter amare il buon Dio e piacergli, senza sapere niente!».

Da questo, vi dirò che non c'è niente di più facile che il pregare il buon Dio, e che non c'è nulla di più consolante.

Diciamo che la preghiera è una elevazione del nostro cuore verso Dio. Diciamo meglio, è il dolce colloquio di un bambino con il padre suo, di un suddito con il suo re, di un servo con il suo padrone, di un amico con il suo amico, nel cui cuore depone i suoi dispiaceri e le sue pene.

preghierarapporto con Dioconversionecrescita interiore

inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney, Roma, inserito il 10/03/2011

RACCONTO

25. Lo studente e l'anello   2

Un alunno presentò al suo professore un problema: "Sono qui, professore, perché sono tanto debole, e non ho la forza per fare niente. Dicono che non servo a nulla, che non faccio bene niente, che sono lento e multo stupido. Come posso migliorare? Che posso fare per valorizzarmi di più?".

Il professore senza guardarlo, disse: "Sono molto spiacente mio caro, ma ora non posso aiutarti, devo prima risolvere il mio problema. Forse dopo". E facendo una pausa parlò: "Se mi aiuterai, potrò risolvere il mio problema con più rapidità e dopo forse potrò aiutarti a risolvere il tuo".

"Va bene, professore", balbettò il giovane, ma si sentì un'altra volta sminuito.

Il professore prese un anello che portava al mignolo, lo dette al ragazzo e disse: "Monta a cavallo e vai fino al mercato. Devi vendere questo anello perché devo pagare un debito. È necessario che tu ottenga per l'anello il massimo possibile, ma non accettare meno di una moneta d'oro. Va e torna con la moneta il più velocemente possibile".

Il giovane prese l'anello e partì. Arrivò al mercato e cominciò a offrire l'anello ai commercianti. Essi lo guardavano con interesse, fino a quando il giovane diceva quanto pretendeva per l'anello.

Quando il giovane menzionava una moneta d'oro, alcuni ridevano, altri andavano via senza nemmeno guardarlo, e solo un vecchietto fu amabile al punto di spiegargli che una moneta d'oro era molto preziosa per comprare un anello.

Tentando di aiutare il giovane, arrivarono a offrire una moneta d'argento e una tazza di rame, ma il giovane ricusava le offerte seguendo le istruzioni di non accettare meno di una moneta d'oro.

Dopo aver offerto il gioiello a tutti coloro che passavano al mercato e abbattuto per l'insuccesso, montò a cavallo e ritornò. Il giovane avrebbe desiderato avere una moneta d'oro per comprare egli stesso l'anello, liberando così il suo professore dalla preoccupazione e poter poi ricevere il suo aiuto e i suoi consigli.

Entrò in casa e disse: "Professore, mi dispiace molto, ma è impossibile ottenere ciò che ha chiesto. Forse si potrebbero ottenere 2 o 3 monete d'argento, ma non credo che si possa ingannare nessuno sul valore dell'anello".

"È importante quello che mi dici, ragazzo", obiettò sorridendo. "Prima si deve sapere il valore dell'anello. Prendi il cavallo e vai dal gioielliere. Chi meglio di lui può sapere il valore esatto dell'anello? Digli che vuoi venderlo e domanda quanto ti può dare. Ma non importa quanto ti offre, non lo vendere. Torna qui con il mio anello".

Il giovane arrivò dal gioielliere e gli dette l'anello da esaminare. Il gioielliere lo esaminò con una lente d'ingrandimento, lo pesò e disse: "Dica al suo professore che, se vuole venderlo ora, non posso dargli più di 58 monete d'oro". "58 monete d'oro!", esclamò il giovane. "Sì", replicò il gioielliere, "io so che col tempo potrei offrire circa 70 monete, ma se la vendita è urgente...".

Il giovane corse emozionato a casa del professore per raccontare quelle che era successo. Il professore dopo aver udito quanto offerto dal gioielliere, disse: "Tu sei come questo anello, una gioia preziosa e unica. Può essere valutata solo da uno specialista. Pensavi che chiunque potesse scoprire il suo vero valore?". E così dicendo tornò a collocare il suo anello nel dito.

Tutti noi siamo come questa gioia. Preziosi e unici e andiamo per tutti i mercati della vita pretendendo che persone inesperte ci valorizzino. Ripensa al tuo valore!

valoreinterioritàsperanzaricchezza interiorericchezzaunicitàimportanza del singolo

5.0/5 (2 voti)

inviato da Liliana, inserito il 01/02/2011

PREGHIERA

26. L'albero degli amici   2

Jorge Luis Borges

Esistono persone nelle nostre vite
che ci rendono felici per il semplice caso
di aver incrociato il nostro cammino.
Alcuni percorrono il cammino al nostro fianco,
vedendo molte lune passare.
Ciascuna foglia di un albero
rappresenta uno dei nostri amici.
Il primo che nasce
è il nostro amico Papà e la nostra amica Mamma,
che ci mostrano che cosa è la vita.
Dopo vengono gli amici Fratelli,
con i quali dividiamo il nostro spazio
affinché possano fiorire come noi.
Conosciamo tutta la famiglia delle foglie
che rispettiamo e a cui auguriamo ogni bene.
Ma il destino ci presenta ad altri amici,
che non sapevamo avrebbero incrociato il nostro cammino.
Molti di loro li chiamiamo amici dell'anima, del cuore.
Sono sinceri, sono veri.
Sanno quando stiamo bene, sanno cosa ci fa felici.
E a volte uno di questi amici dell'anima
si infila nel nostro cuore e allora lo chiamiamo innamorato.
Egli dà luce ai nostri occhi, musica alle nostre labbra,
salti ai nostri piedi.
Ma ci sono anche quegli amici di passaggio,
talvolta di una vacanza o di un giorno o di un'ora.
Essi collocano un sorriso nel nostro viso
per tutto il tempo che stiamo con loro.
Non possiamo dimenticare gli amici distanti,
quelli che stanno nelle punte dei rami
e che quando il vento soffia
appaiono sempre tra una foglia e l'altra.
Il tempo passa, l'estate se ne va,
l'autunno si avvicina e perdiamo alcune nostre foglie,
alcune nascono l'estate dopo,
e altre permangono per molte stagioni.
Ma quello che ci lascia felici è che le foglie
che sono cadute continuano a vivere con noi,
alimentando le nostre radici con allegria,
incrociando il nostro cammino.
Ti auguro, foglia del mio albero,
pace, amore, fortuna e prosperità.
Oggi e sempre... semplicemente
perché ogni persona che passa nella nostra vita è unica.
Sempre lascia un poco di sé e prende un poco di noi.
Ci saranno quelli che prendono molto,
ma non ci sarà chi non lascia niente.
Questa è la maggior responsabilità della nostra vita
e la prova evidente
che due anime non si incontrano per caso.

amiciziaresponsabilità

4.5/5 (2 voti)

inviato da Giampaolo Marcucci, inserito il 11/08/2010

RACCONTO

27. L'asinello che portò Gesù   3

Mariolina Puddu

In un campo pascolavano un'asina con il suo puledro. Era stato svezzato da poco e talvolta, quando si metteva nei guai, cercava ancora il conforto della sua mamma.

Il suo nome era Lollo e aveva grandi orecchie appuntite e occhioni scuri, intelligenti e furbi. Come tutti i cuccioli era birbaccione, chiassoso, prepotente. Appena poteva si allontanava verso i confini del campo cercando di sconfinare e, quando il padrone andava a riprenderlo, puntava le zampe sul terreno e non c'era modo di smuoverlo. Bisognava trascinarlo e quanto erano acuti i suoi ragli di protesta! Il padrone ancora non si decideva a metterlo al lavoro: era talmente giovane e testone!

Una bella mattina di primavera giungono nel campo degli uomini, parlottano un po' col padrone e poi cominciano a guardare verso Lollo. Erano venuti infatti a fare una richiesta curiosa che riguardava proprio lui. Questi uomini erano servi di un tale, un certo Nazareno e, mandati da questo, volevano in prestito proprio Lollo. Serviva al loro Maestro per entrare in Gerusalemme.

Il padrone era perplesso: "Macché Lollo! Per il vostro Maestro ci vuole un cavallo. Io non ce l'ho, ma il mio vicino è un soldato e certamente sarà contento di prestarvi il suo bel cavallo bianco".

Ma quelli insistevano, si erano proprio fissati! Volevano un asino che fosse giovane che non avesse mai lavorato. "E' il Maestro che lo chiede - dicevano - ma non temere te lo restituiremo".

Il padrone alzava gli occhi al cielo: "Ma allora proprio non capite, quest'asino non è adatto! E' prepotente, testone e farà fare a me e al vostro Maestro una brutta figura. E' capace di fermarsi in mezzo alla strada e di non voler più camminare, se gli gira, incomincia a ragliare così forte e non la finisce più, e poi, morde!".

E i servi a lui: "Così come è, lo vuole il Maestro, e Lui non sbaglia! Se ha chiesto quest'asino avrà i suoi buoni motivi!". Il padrone allora, avvilito, prende un pezzo di corda, lo butta intorno al collo di Lollo e lo consegna ai servi. Lollo è troppo interessato alla faccenda per pensare a fare i capricci, e docile si lascia legare e condurre fuori del campo.

Fatta poca strada arrivano a un bivio, poco fuori Gerusalemme. Ci sono uomini, donne e anche bambini che attorniano un giovane uomo. I servi dirigono proprio verso di Lui: "Ecco, Maestro, questo è l'asino che avevi chiesto". Il Maestro si volta, si avvicina a Lollo, allunga una mano, lo accarezza sulla testa e lo guarda. Anche Lollo alza gli occhi verso questo bizzarro Maestro che ha voluto a tutti i costi averlo come cavalcatura, e i suoi occhi si immergono nello sguardo del Maestro: "Mai nessuno mi aveva guardato così" - dirà poi Lollo - "neanche la mia mamma". E' come se con un solo sguardo il Maestro mi dicesse: "Non temere, va bene così. Sì sei un po' un brigante, ma ce la puoi fare. Io mi fido di te e ti voglio bene! Coraggio! Cominciamo questo viaggio, sarai tu a portarmi a Gerusalemme".

Lollo sente come un fuoco dentro il suo cuore, è contento e un po' ha voglia di piangere, senza motivo... Mansueto si lascia mettere un mantello rosso sulla groppa, si lascia montare dal Maestro e, lentamente, incominciano il loro viaggio verso Gerusalemme. Via via che si avvicinano alla città la gente diventa più numerosa. Stendono per terra dei mantelli rossi, hanno in mano dei rami di palma e di ulivo, li agitano e gridano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell'alto dei cieli!".

Lollo si sente davvero un asinello importante... Tutti fanno festa alla persona che lui sta portando in groppa, bardato con quel bel manto rosso! Anche i bambini fanno festa e alcune bambine portano dei fiori.

Ad un tratto una voce si leva dalla folla e chiede: "Chi è quest'uomo?".
Qualcuno risponde: "E' Gesù, da Nazareth di Galilea!".
"Che cosa ha fatto?".
"Io sono vedova, Gesù ha risuscitato il mio unico figlio. Eccolo!".
"Io ero muto per colpa di un demonio e Gesù mi ha liberato".
"Io avevo questa mano come morta e lui mi ha detto: Stendila! E la mia mano è tornata come nuova! Ha fatto bene ogni cosa!".

Lollo ascolta tutto quello che la gente dice sull'uomo che sta accompagnando a Gerusalemme. "Ora capisco perché alcuni chiamano Gesù il Signore!". La folla è al colmo della gioia e della festa. Gesù è pronto per entrare nel tempio. Prima di allontanarsi, con la mano sfiora lentamente il muso dell'asinello. Gesù e Lollo si guardano per un lungo istante.

Gesù capisce ciò che l'asinello gli vuol dire:
"Grazie Signore di avermi cercato.
Tu hai avuto bisogno di me e hai avuto fiducia in me!
D'ora in poi, anche se non credo che riuscirò ad essere sempre bravo, voglio provare ad essere come tu mi vedi.
Forse scalcerò ancora e certamente raglierò ogni tanto ma non potrò mai dimenticare che hai avuto fiducia in me.
Grazie Gesù, anche io ti voglio bene".

domenica delle palmefiduciasguardo di Dio

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inviato da Mariolina Puddu, inserito il 25/03/2010

PREGHIERA

28. Da uomo vero, vorrei essere prete   1

Giuseppe Mancini

Da uomo vero, vorrei essere prete
per annunciare il Vangelo non tanto con le parole
ma con ogni pezzo della vita che mi è stata donata!
Vorrei essere prete per dare speranza a chi non più ce l'ha:
a quell'uomo e quella donna che hanno disgregato la propria famiglia;
a quel bambino senza casa e senza genitori;
a quella mamma che ha ucciso la propria creatura in grembo;
a quel giovane che non ha più nessun orizzonte di vita;
a quell'uomo senza lavoro che va alla ricerca di una busta di alimenti;
a quell'uomo che colpito dalla malattia fisica sopravvive;
a quell'uomo disperato che vede solo nella morte l'unica soluzione;
a quell'uomo che fa del denaro e del sesso l'unica ragione di vita;
a quel prete che ha dimenticato Cristo presente in tutte queste persone.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per risolvere i problemi e le sofferenze della gente e del mondo
ma per condividere i problemi e le sofferenze della gente e del mondo.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per realizzare i miei desideri e i miei sogni,
ma l'unico vero desiderio e sogno di Dio che non ha bisogno delle mie miserie:
essere una delle sue tante candele per dare la sua luce nel tempo stabilito;
poi una volta consumata buttata via perché ci sarà un'altra candela!
Da uomo vero, vorrei essere prete
per dire "sì" con libertà al suo grande amore!
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per avere una poltrona comoda,
ma per essere una poltrona per quell'uomo buttato a terra;
non per avere un bel computer dove scrivere delle belle parole per ore e ore,
ma per essere una sola parola per quell'uomo che ha bisogno d'ascolto in una di quelle ore;
non per avere una macchinetta che faccia un buon caffè per ogni giorno,
ma per preparare un buon pasto quotidiano a quell'uomo che ha fame;
non per avere una automobile con tutti i comfort,
ma per essere conforto per quell'uomo che ha consumato i suoi piedi vagando senza meta.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare al cellulare spesso o sempre, anche quando prego
ma per essere preghiera vivente che sa anche fare del silenzio preghiera.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per essere servito ma per servire.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Croce ma per abbracciare la Croce.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Fede, della Speranza e della Carità
ma per vivere la Fede, la Speranza e la Carità essendone uno specchio fedele.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Risurrezione nei giorni di festa
ma per vivere la Risurrezione nei giorni feriali, in ogni istante dall'altare alla strada.
Da uomo vero, vorrei essere prete non per me stesso
ma "per, con e in" Cristo e la sua Chiesa!
Da uomo vero, vorrei essere prete!

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Mancini, inserito il 22/12/2009

ESPERIENZA

29. Consigli per avvicinarsi all'ammalato

Questo non vuole essere un prontuario o delle istruzioni all'uso, ma dei semplici consigli che ognuno deve interiorizzare e portare nel cuore. Per capire gli ammalati bisogna mettersi al loro posto: cosa molto difficile. Se però non ti sforzerai di farlo, sarà inutile tentare di comunicare con loro. Dire che Dio ama gli ammalati è una cosa molto graziosa e anche vera. Non è l'amore di Dio che devi portare al malato ma il tuo e per questo non bastano solo le parole. Dio non è una persona che va o che viene, lui è fedele e resta. Sarà percepito più o meno dalle condizioni in cui si trova l'ammalato e non solo quelle fisiche. Sforzarti di aiutare l'ammalato su un piano umano e in modo umano: Dio si manifesterà a suo tempo, i tempi di Dio non sono i tempi dell'uomo. Riempiti di Dio e poi va' dagli ammalati come se esistessero solo loro, così senza che per te sia uno scopo primario, sarai strumento dell'amore di Dio.

Ama gli ammalati, ma non farlo solo in riferimento a Dio: amali per se stessi, in se stessi. Coloro che si occupano degli ammalati soltanto per amor di Dio e con una certa freddezza professionale nei loro comportamenti, fanno pensare che gli ammalati siano per loro solo dei modi per proseguire la propria santificazione. Il miglior aiuto che puoi dare ad un ammalato è di aiutarli a ritrovare se stessi. Il tuo deve essere un rapporto d'amore su una base reale, non menzognera o fittizia: sarebbe come costruire sulla sabbia. Anche se il malato ha perso molto, gli rimane sempre qualche cosa, su questo qualche cosa si tratta di costruire con la fede e l'esperienza sorretta dall'amore. Il dolore affina la sensibilità e, se loro vedranno in te, la semplicità, la delicatezza dell'amore di Dio, ti racconteranno la loro storia. Non fare domande, non limitarti a sentire, ascolta con il cuore: sarai sempre tu a ricevere qualcosa. Forse ti sentirai impotente a rimuovere il peso che portano, ma nel loro cuore l'avrai alleggerito sicuramente. Il malato. l'handicappato, non vogliono pietismo. Non chiederti: cosa posso dire, ma sorridi, sii sempre ottimista, allegro, non esiste un ponte più sicuro di una bocca sorridente e anche nei momenti di dolore più acuto e di disperazione più profonda ci sarà uno spiraglio per lasciar passare la speranza e un solco per seminare la gioia. Può essere che il dolore unisca a Dio più che la gioia: limitati a suggerirlo, non con le parole, immagini o sentimenti, ma con il tuo esempio. Qualche volta sarà necessario venire incontro alle loro necessità materiali, far loro qualche dono. E Cristo che ha bisogno di te, vuole che tu doni te stesso come lui si è donato a noi e si dona a noi tutti i giorni senza chiedere nulla in cambio: solo Amore.

amoremalattiamalatoassistenzagratuitàamore di Diosolidarietà

inviato da Forner Fortunato Babbo Lupo, inserito il 06/12/2009

ESPERIENZA

30. Osiamo dire: Padre nostro...

Alessandro Pronzato, L'uomo riconciliato. Pellegrinaggio nel quotidiano per celebrare la festa della vita, Ed. Gribaudi

Ricordo una Messa celebrata all'ergastolo di Porto Azzurro.
Sentivo avvicinarsi questo momento con un senso di paura.
"...Padre nostro!".

Mi sono fermato. Li ho guardati in faccia, a uno a uno. Oltre cinquecento uomini, a cui avevano ucciso la speranza, condannati a vita. Loro dicono, con un'espressione incisiva: "Ci hanno fermato l'orologio!".

Ho detto: "Scusatemi, ma io non riesco a continuare. Se non mi aiutate voi, io, da solo, a questo incrocio pericoloso della Messa, non ce la faccio ad andare avanti. Sarei costretto a dire una parola che, se prima non si realizza qualcosa di importante tra di noi, suonerebbe come una bestemmia: "Padre nostro...".

"Ho bisogno che mi accettiate come uno di voi, un fratello, niente altro. Soltanto se mi fate questo regalo, se ci scambiamo questa fraternità, se ammettiamo da ambo le parti questa parentela, se mi considerate come uno dei vostri, oseremo dire insieme "Padre nostro!". Altrimenti io non ho il coraggio di pronunciare quella frase. Dio non è soltanto 'mio' Padre. Lui vuol esserlo di tutti. E se non mi presento davanti a lui insieme a tutti voi, nessuno ecluso, mi sento un traditore, un illegittimo... E se voi non mi riconoscete come fratello, Dio se ne va. Non si fa trovare...".

Mai come in quel momento ho scoperto la forca sconvolgente dell'espressione: "Osiamo dire".
Sì, soltanto adesso che ci siamo riconosciuti, accettati come fratelli, possiamo dire, senza paura di bestemmiare: "Padre nostro" (anzi: "Papà", Abbà!).

Siamo mal ridotti, Papà, ma siamo insieme.
Laceri, sporchi, non troppo presentabili, ma ci riconosciamo fratelli.
Ci sentiamo colpevoli "insieme".
Abbamo tutti qualcosa da farci perdonare.
Nessuno di noi è giudice dell'altro.
Nessuno di noi condanna le colpe dell'altro.
Siamo uniti da una comune solidarietà di miseria.
Soltanto per questo "osiamo dire".
E tu, siamo sicuri, ci guardi con benevolenza. Perché noi ci guardiamo senza durezza.
Tu, abbiamo la certezza, ci accetti. Perché noi ci accettiamo vicendevolmente.
Tu non ti vergogni di noi, nonostante tutto. Perché noi non rifiutiamo nessuno.
Ecco, Signore, soltanto dopo che ci siamo caricati sulle spalle questo colossale peso di tutti i nostri fratelli, osiamo dire "Padre nostro!".
E, stavolta, è preghiera.

messapadre nostrocarceresolidarietàfratellanzafraternità

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giovannagioia, inserito il 06/12/2009

TESTO

31. La famiglia   1

Chiara Lubich

Natale è la festa della famiglia.

Ma dov'è nata la più straordinaria famiglia se non nella grotta di Betlemme? E' lì, con la nascita del Bambino, che essa ha avuto origine. E' lì che si è sprigionato per la prima volta nel cuore di Maria e di Giuseppe l'amore per un terzo membro: il Dio fatto bambino.

La famiglia: ecco una parola che contiene un immenso significato, ricco, profondo, sublime e semplice, soprattutto reale. La famiglia o c'è o non c'è.

Atmosfera di famiglia è atmosfera di comprensione, di distensione serena; atmosfera di sicurezza, di unità, di amore reciproco, di pace che prende i suoi membri in tutto il loro essere.

Vorrei che questo Natale incidesse a caratteri di fuoco nei nostri animi questa parola: famiglia.

Una famiglia i cui membri, partendo dalla visione soprannaturale, e cioè vedendo Gesù gli uni negli altri, arrivano fino alle espressioni più concrete e semplici, caratteristiche di una famiglia. Una famiglia i cui fratelli non hanno un cuore di pietra ma di carne, come Gesù, come Maria, come Giuseppe.

Vi sono fra essi coloro che soffrono per prove spirituali? Occorre comprenderli come e più di una madre. Illuminarli con la parola o con l'esempio. Non lasciar mancare, anzi accrescere attorno a loro il calore della famiglia.

Vi sono tra essi coloro che soffrono fisicamente? Siano i fratelli prediletti. Bisogna patire con loro. Cercare di comprendere fino in fondo i loro dolori.

Vi sono coloro che muoiono? Immaginate di essere al loro posto e fate quanto desiderereste fosse fatto a voi fino all'ultimo istante.

C'è qualcuno che gode per una conquista o per un qualsiasi motivo? Godete con lui, perché la sua consolazione non sia contristata e l'animo non si chiuda, ma la gioia sia di tutti.

C'è qualcuno che parte? Non lasciarlo andare senza avergli riempito il cuore di una sola eredità: il senso della famiglia, perché lo porti con sé.

E dove si va per portare l'Ideale di Cristo, nulla si potrà fare di meglio che cercare di creare con discrezione, con prudenza, ma con decisione, lo spirito di famiglia.

Esso è uno spirito umile, vuole il bene degli altri, non si gonfia....è la carità vera, completa.

Insomma, se io dovessi partire da voi, lascerei che Gesù in me vi ripetesse: "Amatevi a vicenda... affinché tutti siano uno".

famiglianataleGesùMariaGiuseppegenitorifiglicondivisionesanta famiglia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Franco Canzian, inserito il 24/11/2009

TESTO

32. Maria, donna di parte   1

Tonino Bello

No, non fu neutrale. Basta leggere il Magnificat per rendersi conto che Maria si è schierata. Ha preso posizione, cioè dalla parte dei poveri, naturalmente.

Degli umiliati e offesi di tutti i tempi. Dei discriminati dalla cattiveria umana e degli esclusi dalla forza del destino. Di tutti coloro, insomma, che non contano nulla davanti agli occhi della storia.

Non mi va di avallare certe interpretazioni che favoriscono una lettura puramente politica del Magnificat quasi fosse, nella lotta continua tra oppressi e oppressori, una specie di marsigliese ante litteram del fronte cristiano di liberazione.

Significherebbe ridurre di gran lunga gli orizzonti dei sentimenti di Maria, che ha cantato liberazioni più profonde e durature di quelle provocate dalle semplici rivolte sociali. I suoi accenti profetici, pur includendole, vanno oltre le rivendicazioni di una giustizia terrena, e scuotono l'assetto di ben più radicali iniquità.

Sta di fatto, però, che, sul piano storico, Maria ha fatto una precisa scelta di campo. Si è messa dalla parte dei vinti, ha deciso di giocare con la squadra che perde. Ha scelto di agitare come bandiera gli stracci dei miserabili e non di impugnare i lucidi gagliardetti dei dominatori.

Si è arruolata, per così dire, nell'esercito dei poveri. Ma senza roteare le armi contro i ricchi. Bensì, invitandoli alla diserzione. E intonando, di fronte ai bivacchi notturni del suo accampamento, perché le udissero dall'alto, canzoni cariche di nostalgia. Ha esaltato, così, la misericordia di Dio. E ci ha rivelato che è partigiano anche lui, visto che prende le difese degli umili e disperde i superbi nei pensieri del loro cuore; stende il suo braccio a favore dei deboli e fa rotolare i violenti dai loro piedistalli con le ossa in frantumi; ricolma di beni gli affamati e si diverte a rimandare i possidenti con un pugno di mosche in mano e con un palmo di naso in fronte.

Qualcuno forse troverà discriminatorio questo discorso, e si chiederà come possa conciliarsi la collocazione di Maria dalla parte dei poveri con l'universalità del suo amore e con la sua riconosciuta tenerezza per i peccatori, di cui i superbi, i prepotenti e i senza cuore sono la razza più inquietante.

La risposta non è semplice. Ma diventa chiara se si riflette che Maria non è come certe madri che, per amor di quieto vivere, danno ragione a tutti e, pur di non creare problemi, finiscono con l'assecondare i soprusi dei figli più discoli. No. Lei prende posizione. Senza ambiguità e senza mezze misure. La parte, però, su cui sceglie di attestarsi non è il fortilizio delle rivendicazioni di classe, e neppure la trincea degli interessi di un gruppo. Ma è il terreno, l'unico, dove lei spera che un giorno, ricomposti i conflitti, tutti i suoi figli, ex oppressi ed ex oppressori, ridiventati fratelli, possano trovare finalmente la loro liberazione.

MariaMadonnamagnificatpovertàpoverisconfittadebolidebolezza

inviato da Federica Mancinelli, inserito il 06/08/2009

TESTO

33. Il Dio in cui non credo   1

Arias Juan

Sì, io non crederò mai in:
Il Dio che «sorprenda» l'uomo in un peccato di debolezza.
Il Dio che condanni la materia.
Il Dio incapace di dare una risposta ai problemi gravi di un uomo sincero e onesto che dice piangendo: «non posso».
Il Dio che ami il dolore.
Il Dio che metta la luce rossa alle gioie umane. Il Dio che sterilizza la ragione dell'uomo.
Il Dio che benedica i nuovi Caini dell'umanità.
Il Dio mago e stregone.
Il Dio che si faccia temere.
Il Dio che non si lasci dare del tu.
Il Dio nonno di cui si possa abusare.
Il Dio che si faccia monopolio di una Chiesa, di una razza, di una cultura, di una casta.
Il Dio che non abbia bisogno dell'uomo.
Il Dio lotteria con cui si vinca solo a sorte.
Il Dio arbitro che giudichi sempre col regolamento alla mano.
Il Dio solitario.
Il Dio incapace di sorridere di fronte a molte monellerie degli uomini.
Il Dio che «giochi» a condannare.
Il Dio che «mandi» all'inferno.
Il Dio che non sappia aspettare.
Il Dio che esiga sempre dieci agli esami.
Il Dio capace di essere spiegato da una filosofia.
Il Dio che adorano quelli che sono capaci di condannare un uomo.
Il Dio incapace di amare quello che molti disprezzano.
Il Dio incapace di perdonare tante cose che gli uomini condannano.
Il Dio incapace di redimere la miseria.
Il Dio incapace di capire che i «bambini» debbono insudiciarsi e sono smemorati.
Il Dio che impedisca all'uomo di crescere, di conquistare, di trasformarsi, di superarsi fino a farsi «quasi un Dio».
Il Dio che esiga dall'uomo, perché creda, di rinunciare a essere uomo.
Il Dio che non accetti una sedia nelle nostre feste umane.
Il Dio che è capito soltanto dai maturi, i sapienti, i sistemati.
Il Dio che non è temuto dai ricchi alla cui porta sta la fame e la miseria.
Il Dio capace di essere accettato e compreso dagli egoisti.
Il Dio onorato da quelli che vanno a messa e continuano a rubare e a calunniare.
Il Dio asettico, elaborato in un gabinetto scientifico da tanti teologi e canonisti.
Il Dio che non sappia scoprire qualcosa della sua bontà, della sua essenza là dove vibra un amore per quanto sbagliato.
Il Dio a cui piaccia la beneficenza di chi non pratica la giustizia.
Il Dio per cui è il medesimo peccato compiacersi alla vista di due belle gambe, distrarsi nelle preghiere, calunniare il prossimo, frodare del salario gli operai o abusare del potere.
Il Dio che condanni la sessualità.
Il Dio del «me la pagherai».
Il Dio che si penta, qualche volta di aver regalato la libertà all'uomo.
Il Dio che preferisca l'ingiustizia al disordine.
Il Dio che si accontenti che l'uomo si metta in ginocchio anche se non lavora,
il Dio muto e insensibile nella storia di fronte ai problemi angosciosi della umanità che soffre.
Il Dio a cui interessino le anime e non gli uomini.
Il Dio morfina per il rinnovamento della terra e speranza soltanto per la vita futura.
Il Dio che crei discepoli che disertano i compiti del mondo e sono indifferenti alla storia dei loro fratelli.
Il Dio di quelli che credono di amare Dio, perché non amano nessuno.
Il Dio che è difeso da quanti non si macchiano mai le mani, non si affacciano mai alla finestra, non si gettano mai nell'acqua.
Il Dio a cui piacciano quelli che dicono sempre: «tutto va bene».
Il Dio di quelli che pretendono che il sacerdote cosparga di acqua benedetta i sepolcri imbiancati delle loro sporche manovre.
Il Dio che predicano i preti che credono che l'inferno è pieno e il cielo quasi vuoto.
Il Dio dei preti che pretendono che si possa criticare tutto e tutti all'infuori di loro.
Il Dio che giustifichi la guerra.
Il Dio che ponga la legge al di sopra della coscienza.
Il Dio che sostenga una chiesa statica, immobile, incapace di purificarsi, di perfezionarsi e di evolversi.
Il Dio dei preti che hanno risposte prefabbricate per tutto.
Il Dio che neghi all'uomo la libertà di peccare.
Il Dio che non continui a scomunicare i nuovi farisei della storia.
Il Dio che non sappia perdonare qualche peccato.
Il Dio che preferisca i ricchi.
Il Dio che «causi» il cancro, che «invii» la leucemia, che «renda sterile» la donna o che «si porti via» il padre di famiglia che lascia cinque creature nella miseria.
Il Dio che possa essere pregato solo in ginocchio, che si possa incontrare solo in chiesa.
Il Dio che accetti e dia per buono tutto ciò che i teologi dicono di lui.
Il Dio che non salvi quanti non lo hanno conosciuto ma lo hanno desiderato e cercato.
Il Dio che «mandi» all'inferno il bambino dopo il suo primo peccato.
Il Dio che non dia all'uomo la possibilità di potersi condannare.
Il Dio per cui l'uomo non sia la misura di tutto il creato.
Il Dio che non vada incontro a chi lo ha abbandonato.
Il Dio incapace di far nuove tutte le cose.
Il Dio che non abbia una parola diversa, personale, propria per ciascun individuo.
Il Dio che non abbia mai pianto per gli uomini.
Il Dio che non sia la luce.
Il Dio che preferisca la purezza all'amore.
Il Dio insensibile di fronte a una rosa.
Il Dio che non possa scoprirsi negli occhi di un bambino o di una bella donna o di una madre che piange.
Il Dio che non sia presente dove vibra l'amore umano.
Il Dio che si sposi con una politica.
Il Dio di quanti pregano perché gli altri lavorino.
Il Dio che non possa essere pregato sulle spiagge.
Il Dio che non si riveli qualche volta a colui che lo desidera onestamente.
Il Dio che distrugga la terra e le cose che l'uomo ama di più invece di trasformarle.
Il Dio che non abbia misteri, che non fosse più grande di noi.
Il Dio che per renderci felici ci offra una felicità separata dalla nostra natura umana.
Il Dio che annichilisca per sempre la nostra carne invece di risuscitarla.
Il Dio per cui gli uomini valgono non per ciò che sono ma per ciò che hanno o che rappresentano.
Il Dio che accetti come amico chi passa per la terra senza far felice nessuno.
Il Dio che non poserà la generosità del sole che bacia quanto tocca, i fiori e il concime.
Il Dio incapace di divinizzare l'uomo facendolo sedere alla sua tavola e dandogli la sua eredità.
Il Dio che non sappia offrire un paradiso in cui noi ci sentiamo fratelli e in cui la luce non venga solo dal sole e dalle stelle ma soprattutto dagli uomini che amano.
Il Dio che non sia l'amore e che non sappia trasformare in amore quanto tocca.
Il Dio che abbracciando l'uomo già qui sulla terra non sappia comunicargli il gusto, la gioia, il piacere, la dolce sensazione di tutti gli amori umani messi insieme.
Il Dio incapace di innamorare l'uomo.
Il Dio che non si sia fatto vero uomo con tutte le sue conseguenze.
Il Dio che non sia nato dal ventre di una donna.
Il Dio che non abbia regalato agli uomini la sua stessa madre.
Il Dio nel quale io non possa sperare contro ogni speranza.
Sì, il mio Dio è l'altro Dio.

Diocrederefede

4.0/5 (3 voti)

inviato da Busato Don Paolo, inserito il 19/07/2009

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34. Uno per uno fa sempre uno. Verso la Pasqua, casa della Trinità   1

Tonino Bello, Omelie e scritti quaresimali, vol.II, Ediz. Archivio Diocesano Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e Luce e vita, Molfetta, 1994, pagg.336-338

Carissimi fratelli,

l'espressione me l'ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt'altro che banale.

Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.

Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.

E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l'altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l'altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile...

Colsi l'occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: "Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c'è una Persona che si aggiunge all'altra e poi all'altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l'altra.

E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario' così dominante in ‘casa Trinità' che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l'uomo per gli altri".

Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.

Peccato: perché, tra l'altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l'uomo è icona della Trinità ("facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza") e che pertanto, per quel che riguarda l'amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l'accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.

Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.

Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.

* * *

Cari fratelli, lo so che la Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, e che non è lecito comprimerne la ricchezza alla semplice funzione di analogia. Ma se oggi c'è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali.

Altro che "relazioni". L'acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d'incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio. L'isola sperduta, più dell'arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l'altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente.

Coraggio.

Irrompe la Pasqua!

E' il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri. E' l'intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull'erba. E' l'incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa. E' il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E' la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo. E' la festa degli ex-delusi della vita, nel cui cuore all'improvviso dilaga la speranza.

Che sia anche la festa in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria.

Vostro

+ don Tonino, Vescovo

trinitàamore fraternorapporti interpersonalipadrefiglioSpirito santopasqua

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 18/07/2009

TESTO

35. Il cuore cherubico   2

Pavel Aleksandrovič Florenskij, Il cuore cherubico, Piemme 1999

In ciascuno di noi c'è qualcosa di simile ad un cherubino, qualcosa di somigliante all'angelo divino dai molti occhi, come una coscienza.

Ma questa somiglianza non è esteriore, né apparente. La somiglianza con il cherubino è interiore, misteriosa e nascosta nel profondo dell'anima.

E' una somiglianza spirituale. C'è un grande cuore cherubico nella nostra anima, un nucleo angelico dell'anima, ma esso è nascosto nel mistero ed è invisibile agli occhi della carne.

Dio ha messo nell'uomo il suo dono più grande: l'immagine di Dio. Ma questo dono, questa perla preziosa, si nasconde negli strati più profondi dell'anima: chiuso in una rozza conchiglia, fangosa, giace sepolto nel limo, negli strati più profondi dell'anima.

Tutti noi siamo come dei vasi di argilla colmi d'oro scintillante. Di fuori siamo anneriti e macchiati, dentro invece siamo risplendenti di una luce radiosa.

Il tesoro di ognuno di noi è sepolto nel campo della nostra anima. E se qualcuno trova il proprio tesoro, allora trattiene il respiro, abbandona tutti i suoi affari per poterlo portare alla luce. In questo sta la più grande felicità, il bene supremo dell'uomo. In questo consiste la sua gioia eterna.

Il regno dei cieli è la parte divina dell'anima umana. Trovarla in se stessi e negli altri, convincersi con i propri occhi della santità della creatura di Dio, della bontà e dell'amore delle persone, in questo sta l'eterna beatitudine e la vita eterna.

Chi l'ha gustata una volta è pronto a scambiare con essa tutti i beni personali. La perla che il mercante cercava non è lontana, l'uomo la porta con sé ovunque, solo che non lo sa.

E ognuno di noi va angosciato per il mondo, pur avendo un tesoro dentro di sé molto spesso crede che una simile perla sia in qualche posto lontano. Beato colui che vede il suo tesoro! Ma chi è in grado di vederlo? Chi vede la sua perla?

Le cose terrene le vede solo colui che ha un occhio corporeo puro; le cose celesti le vede solo colui che ha puro l'occhio celeste, il cuore. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio, lo vedranno nel proprio cuore e in quello altrui; lo vedranno non solo in futuro, ma anche in questa vita, lo vedranno adesso.
Basta solo che purifichino il loro cuore!

vitafelicitàcuoreimmagine di Diosomiglianza con Diotesororicerca di sensoricerca di Diointerioritàesteriorità

inviato da Suor Maria Roberta Tiberio O.S.B., inserito il 16/07/2009

TESTO

36. Sete di risurrezione   1

Mariangela Forabosco

E' arrivata la Primavera ed ogni anno, in natura, si ripete puntuale il miracolo della rinascita, e tutte le creature rinnovano in sé l'energia vitale per dimostrare e donare, ad un mondo distratto ed indifferente, la potenza creatrice e amorosa del Creatore.

Passeggiando in giardino, davanti al mistero di una piccolissima gemma che diventa un turgido bocciolo, quasi geloso di svelare la meraviglia dei suoi petali, mi afferra uno stupore crescente.

C'è un giardino, però, in cui non è necessario aspettare la primavera per vedere realizzati i miracoli della creazione ed è il " cuore dell'uomo".

Dio ha creato l'uomo e la donna per "sete d'amore", perché, essendo lui amore, non poteva fare a meno di amare e di essere amato. Ed ecco il miracolo: uomo e donna, creati a sua immagine, ricevono il suo amore e sono chiamati a diventarne messaggeri e testimoni, per diffonderlo a chi sta loro accanto e al mondo intero.

Le vite che si donano diventano, così, veicolo dell'Amore di Dio e vanno a saziare l'incontenibile e misteriosa sete d'amore delle creature, come un fiore sbocciato e donato sazia la sete di bellezza e di armonia.

L'uomo, però, non ha accolto il dono dell'Amore di Dio, che significa donarsi, perdonarsi, compatirsi, comprendersi, ed ha messo al primo posto l'amore per se stesso e per gli idoli creati dalle sue stesse mani, diventandone schiavo (Salmo 113 B, 4-8). Allora Dio, non potendo fare a meno di amare l'uomo e di essergli fedele, ha giocato l'ultima carta per salvarlo ed è sceso in terra nella Persona del Figlio, Gesù Cristo, facendosi "peccato" ( cfr. 2 Corinzi 5,21 ) lui stesso, Innocente, per liberare l'umanità dal peccato e dalla morte. Gesù, sulla terra, ha camminato con gli uomini ed ha parlato del Padre che è nei Cieli come del "nostro Padre" ( Matteo 6,9 ) che, dalla creazione, non vuole forzare i figli ad amarlo, avendoli resi liberi di accettare o rifiutare il suo amore. Il Padre, però, non smette mai di aspettare che i figli tornino per lasciarsi amare da lui, per poter dire loro parole d'amore e fare festa ( Luca 15, 11-24 )! Gli uomini, ancora una volta, non hanno saputo e voluto rispondere con l'amore alla richiesta d'amore del loro Creatore e così l'hanno ucciso: hanno crocifisso l'amore, pensando di poter togliere di mezzo l'imbarazzante "Rabbì " che parlava di cose troppo scomode per le coscienze: pace, perdono, conversione, riconciliazione, giustizia, dignità umana, strane beatitudini che fanno "vincere" i poveri, gli ultimi, gli affamati, i perseguitati..., amore addirittura per i nemici, misericordia, dono totale di se stessi agli altri fino a perdere la propria vita...
"Il mondo non lo riconobbe" (Giovanni 1,10).

Ognuno di noi c'era, quel venerdì che chiamiamo Santo, sul Calvario, ed ognuno di noi, con la parte del proprio cuore in cui vince l'avidità, la gelosia, l'invidia, la lussuria, il risentimento, la rabbia, ha battuto i chiodi nelle mani e nei piedi dell'Innocente. "Dio è morto", ha scritto qualcuno. Si, Dio è morto facendo suo il peccato e la morte dell'uomo, ma non poteva finire così, con il buio di quel venerdì e col silenzio di quel sabato. Se Dio fosse morto, tutta la creazione sarebbe morta, io sarei morta, la primavera sarebbe morta.

No! Dio ha trascinato in sé la morte e l'ha distrutta, trasformandola in vita, nella sua vita, che è immortale, incorruttibile (Corinzi 15, 20-27, 53-55). Essendo vero uomo, Gesù ha, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, innalzato a sé ogni uomo, ogni vita umana (Giovanni 3,14-17) donando ognuno di noi all'abbraccio misericordioso del Padre, che dalla creazione non aspetta altro che ritorniamo a lui, bisognosi del suo perdono e, a nostra volta, capaci di perdonare.

La sete d'amore di Dio lo ha portato a farsi lui stesso creatura, affinché nel cuore dell'uomo si continuasse a compiere il miracolo per cui era stato creato: l'amore vissuto, rinnovato, donato, gratuito, generoso, spassionato, umile, felice, sofferto, offerto, coraggioso, sorridente, radicale, ingenuo, totale.

La capacità di amarsi viene solo da Dio e se ci allontaniamo da lui, nostra unica fonte del vero amore, perdiamo la capacità di amare e accadono le cose che quotidianamente tutti vediamo e di cui ci lamentiamo. "La società va male", diciamo, "è tutta colpa della società...".

No, sono io, siamo noi che abbiamo perso il contatto con la fonte della vera vita, diventando schiavi dei vitelli d'oro che ci siamo costruiti.

L'uomo, però, ha fame d'amore, continua a cercare qualcuno o qualcosa da amare, perché è Dio stesso che ha posto nel nostro cuore il seme del suo amore.

Che fare? Perché non provare a diventare "distributori" consapevoli di amore? Perché abbiamo così tanta paura di amare? Perché temiamo di assecondare il nostro bisogno di Risurrezione? Perché non ci opponiamo alla tentazione di seguire la corrente, che ci invita a privilegiare i pensieri e le scelte di morte?

Noi cristiani siamo tali perché crediamo in Cristo, il Vivente, il Risorto, Colui grazie al quale siamo destinati, a nostra volta, ad essere eternamente viventi e risorti: perché, allora, non scegliere di vivere secondo la Sua Parola, che è Parola di vita eterna? (Giovanni 6, 67-69)

Se i genitori, ad esempio, avessero il coraggio di raccontare ai loro figli le meraviglie che ogni giorno compie in noi l'Amore di Dio, se vivessero la Risurrezione nelle scelte di vita quotidiane, se trasmettessero loro la Speranza che deriva dalla Risurrezione di Cristo, allora ogni giorno sarebbe Pasqua, ogni giorno l'amore vincerebbe e non saremmo sconvolti da tante notizie che parlano di delitti in famiglia, di ragazzi che filmano violenze sui coetanei più deboli, di famiglie distrutte da odi e rancori, di stragi del sabato sera...L'elenco non finirebbe mai, ma io propongo che ognuno di noi, nel suo piccolo, anziché soffermarsi sulle cose negative, faccia l'elenco di tutte le cose belle che ogni giorno ci vengono donate. Cerchiamo poi di arricchire l'elenco con le cose belle, dettate dall'amore, che nel nostro quotidiano possiamo fare. Facciamo crescere, nel giardino del nostro cuore, la parte divina che Dio ha preso da sé e ci ha donato.

Scegliamo consapevolmente di soddisfare la nostra "sete di Risurrezione", affinché il Signore, nostro Dio, possa dirci parole di bene e d'Amore per l'eternità.

risurrezioneamoreparolafamiglia

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 02/06/2009

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37. La vita

La vita è come un soffio di vento, che soffia, ti attraversa e va via lontano... E mentre ti attraversa, ti leva le gioie, i dolori, le sensazioni e le situazioni che hai dentro e le porta via con se... Non illuderti di poter cambiare la vita, perché sarà lei a cambiare te... Ti plasmerà a suo piacimento, sarai come argilla nelle mani di uno scultore...

La vita è qualcosa che ti brucia dentro, che brucia senza sosta e ti consuma... Tu puoi viverla bene o male, ma l'importante è che non lasci mai spegnere quella fiamma... perché se l'avrai alimentata bene, continuerà a bruciare anche dopo la tua morte, per i secoli dei secoli, o forse anche di più...

La vita è quella cosa che non sai cos'è, ma sai che c'è; c'è nell'aria, c'è stasera... E se saprai usarla, se saprai tramandare quella tua voglia di vivere, quelle tue opere, anche se chi ti è nemico ti ucciderà, ucciderà quel tuo corpo, tu morirai con il sorriso sulle labbra, perché saprai che la tua vita non è stata sprecata...infatti la tua voce calda e accogliente, i tuoi meravigliosi occhi che ispirano allegria a chiunque li guardi, continueranno a rivivere, negli occhi e nella voce di chi come te ha fatto della sua vita uno strumento...E se il nemico che sicuramente incontrerai riuscirà per un attimo ad offuscare i tuoi bei pensieri beh allora pensa ad una giornata al mare, ad un gelato al cioccolato, alla faccia di quella figlia che non hai avuto, alla felicità, alla vita stessa...e vola lontano, sui campi di grano e non chiederti il perché... Vai dove la vita ti porta... Dove quella brezza leggera, calma ma continua, ti spinge... Lasciati andare...

Seconda stella a destra questo è il cammino e poi dritto fino al mattino; poi la strada la trovi da te, porta all'isola, l'isola che non c'è... No. Fai tutto ma non questo. Non illuderti che possa esistere un mondo dove c'è solo il bello ed il buono... Perché sul più bello ricadrai sulla dura realtà e ti farai male, molto più male di quanto tu possa pensare... Perché la vita è la vita, non la puoi cambiare, la puoi vivere, quello sì, ma non cambiare...

E quando tutto sembra abbandonarti, pensa a quelle persone che avrebbero voluto vivere anche solo un istante in più, per dire "andrà tutto bene", "ti amo" oppure solamente "arrivederci"; ma non hanno potuto... Pensa al male che c'è nel mondo, può sembrare strano ma ti sentirai meglio.

Poi penserai a quanto pesano le lacrime. Sì. Perché le lacrime di un bambino capriccioso pesano meno del vento, ma quelle di un bimbo affamato, più di tutta la terra... E se pensi a questo ti viene una gran voglia di vivere la vita... E scoprirai che è proprio questo lo scopo... Vivi la vita!!

vita

inviato da Giuseppe Nesi, inserito il 02/06/2009

TESTO

38. Farmaco d'immortalità   2

Suor M. Gioia Agnetta

Farmaco d'immortalità: l'Eucaristia

Composizione JHS non è una formula chimica, ma sigla che marca il Pane Eucaristico, Pane di frumento, consacrato nella Messa, dallo Spirito Santo di Dio, nelle mani del sacerdote e divenuto Corpo e Sangue vivo di Cristo Gesù; destinato ad essere mangiato dai battezzati convocati in Assemblea alla Celebrazione e conservato per gli invitati assenti.

JHS tre lettere dell'alfabeto latino, iniziali di tre parole:
Jesus = Gesù;
Hominum = degli uomini;
Salvator = Salvatore.
Gesù Salvatore degli uomini.

Come si presenta: allo sguardo appare un dischetto bianco di pane e nel calice un po' di vino. In effetti è il corpo e il sangue del Signore Gesù, vivo e presente per noi. Apparenza umile, silenziosa. Solo chi possiede la parola del Signore può capire il silenzio dell'Eucaristia.

Indicazioni: Anemia spirituale, perdita del gusto delle cose di Dio, disorientamento nella guida della propria vita e della propria famiglia, indifferenza, idolatria. Facilità di giudizio di condanna su tutto e su tutti, irascibilità, indebolimento della decisionalità a partire dal Vangelo. Disidratazione, sterilità di opere, causate dal poco bere linfa della Vite di cui si è tralci. Farmaco indicato non appena le conoscenze e le informazioni del proprio credo appaiono dei fantasmi, come numerose piante di un bosco nel quale si esita ad addentrarsi; difficoltà di dialogo, senso di emarginazione, di orfanezza, percezione di isolamento. Nausea per il sacro.

Controindicazioni: Nessuna, per nessuno al mondo, nonostante una Bimillennaria sperimentazione del suo Principio Attivo; l'JHS è risultato l'unico farmaco omopato-compatibile

Posologia: Bambini: ½ ora / 45 minuti alla settimana sotto vigile osservazione e gustosa scorta dei genitori a Messa.

Adulti: la cura va da 1 ora alla settimana (Messa-Domenicale), a un'aggiunta di ½ ora al giorno. Il dosaggio si intensifica con 1 ora al giorno, quando l'attrazione di Gesù interessa le pulsazioni del cuore, si rende sintomatico l'invaghimento per Dio e si sta bene con lui. La frequenza battiti in consonanza a quelli del cuore di Cristo, i pensieri a quelli di lui, e così i sogni e progetti, sono test di dosaggio equo. N.B. Il farmaco agisce solamente se si combina alla volontà di volere guarire.

Effetti indesiderati - Reazioni negative possono apparire non in chi assume il farmaco ma in parenti e amici che possono definire l'assenza (del paziente, di mezz'ora o di un'ora) un danno per la famiglia. Derisioni e insulti, attribuzione di bigottismo e di debolezza. Altri effetti indesiderati da JHS: Assuefazione, indifferenza o nei casi più gravi, acquisizione del magico.

Precauzioni - Non agitarsi prima dell'uso, prima di decidersi a fare questo passo. La notizia che l'assunzione del farmaco fa cambiar vita e può attivare la guarigione della memoria, della volontà, della capacità di giudicare e di progettare, di fraternizzare,... farla circolare nell'ambiente con cautela, ma senza prorogarla. La fede si rafforza donandola. Nel caso di un convincimento debole, frequentare opportune catechesi parrocchiali o gruppi e movimenti ecclesiali. Esporsi al rischio di far parte della comunità di fede a tutti gli effetti. Le forze del male non prevarranno.

Scadenza - Mt 28,20 - Il prodotto, in sé corruttibile, veicola e deposita germi positivi di incorruttibilità e di risurrezione. Viene confezionato ogni giorno e adempie la promessa di Gesù: "Sarò con voi sempre, fino alla fine del mondo".

eucaristiacorpocomunione

inviato da Suor M.Gioia Agnetta, inserito il 02/06/2009

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39. Pasqua   1

Carlo Maria Martini

Mentre il Natale evoca istintivamente l'immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l'aveva perduta. Perciò se il Natale suscita un po' in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un'atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell'oscuro e del difficile.

Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli». Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello "star bene" come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori.

In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.

Più difficile è però per me l'esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c'è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l'inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.

È così che la risurrezione entra nell'esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.

resurrezionepasquarisurrezionedoloresofferenzasperanza

inviato da Qumran2, inserito il 14/04/2009

TESTO

40. La vita comune

Dietrich Bonhoeffer, La vita comune, Queriniana, Brescia 1973, p. 46-47

Infinite volte tutta una comunità cristiana si è spezzata, perché viveva di un ideale...

Dobbiamo essere profondamente delusi degli altri, dei cristiani in generale, se va bene, anche di noi stessi, quant'è vero che Dio vuole condurci a riconoscere la realtà di una vera comunione cristiana... Il Signore non è Signore di emozioni, ma della verità. Solo la comunità che è profondamente delusa per tutte le manifestazioni spiacevoli connesse con la vita comunitaria, incomincia ad essere ciò che deve essere di fronte a Dio, ad afferrare nella fede le promesse che le sono state fatte. Quanto prima arriva, per il singolo e per tutta la comunità, l'ora di questa delusione, tanto meglio per tutti. Una comunità che non fosse in grado di sopportare una tale delusione e non le sopravvivesse, che cioè restasse attaccata al suo ideale, quando questo deve essere frantumato, in quello stesso istante perderebbe tutte le promesse di comunione cristiana stabile e, prima o dopo, si scioglierebbe...

Chi ama il suo ideale di comunità cristiana più della comunità cristiana stessa, distruggerà ogni comunione cristiana, per quanto sincere, serie, devote siano le sue intenzioni personali.

Dio odia le fantasticherie, perché rendono superbi e pretenziosi. Chi nella sua fantasia si crea un'immagine di comunità, pretende da Dio, dal prossimo e da se stesso la sua realizzazione.

Egli entra a far parte della comunità di cristiani con pretese proprie, erige una propria legge e giudica secondo questa i fratelli e Dio stesso.

Egli assume, nella cerchia dei fratelli, un atteggiamento duro, diviene quasi un rimprovero vivente per tutti gli altri.

Agisce come se fosse lui a creare la comunità cristiana, come se il suo ideale dovesse creare l'unione tra gli uomini.

Considera fallimento tutto ciò che non corrisponde più alla sua volontà. Lì dove il suo ideale fallisce, gli pare che debba venire meno la comunità. E così egli rivolge le sue accuse prima contro i suoi fratelli, poi contro Dio, ed infine accusa disperatamente se stesso.

comunitàvita comunedelusionefallimentorapporto con gli altriamiciziaidealirealtàconcretezzachiesaparrocchia

inviato da Qumran2, inserito il 25/01/2009

TESTO

41. Software per il cuore   1

Come installare il software Amore per rendere poi operativi anche tutti gli altri programmi.

Assistenza tecnica: Sì... come posso aiutarti?

Cliente: Ho deciso di installare Amore. Potete guidarmi nella procedura di caricamento?

Assistenza tecnica: Sì, posso aiutarti. Sei pronto a procedere?

Cliente: Beh, non sono molto esperto, ma credo di essere pronto. Qual è la prima cosa da fare?

Assistenza tecnica: Il primo passo è aprire il Cuore. Hai localizzato dove si trova Cuore?

Cliente: Sì, ma ci sono diversi altri programmi attualmente operativi. Va bene installare Amore con altri programmi aperti?

Assistenza tecnica: Quali sono i programmi aperti?

Cliente: Vediamo. Attualmente sono attivi sofferenze passate, scarsa autostima, risentimenti e rancori.

Assistenza tecnica: Non c'è problema. Amore cancellerà gradualmente sofferenze passate dal tuo sistema operativo attuale. Potrebbe rimanere nella memoria permanente ma non disturberà più gli altri programmi. Alla fine Amore renderà obsoleto scarsa autostima. Però devi chiudere completamente risentimenti e rancori: questi programmi impediscono la corretta installazione di Amore. Puoi chiuderli?

Cliente: Non so come fare a chiuderli. Può spiegarmi come si fa?

Assistenza tecnica: Con piacere. Vai al menu di partenza e clicca su perdono. Ripeti l'operazione finché risentimenti e rancori sono stati completamente cancellati.

Cliente: Bene, ho fatto! Amore ha cominciato a installarsi da solo. È normale?

Assistenza tecnica: Sì, ma ricorda che attualmente ha solo il programma di base. Devi cominciare a collegarti con altri Cuori per scaricare le estensioni.

Cliente: Oh oh. Vedo già un messaggio di errore. Dice, "Errore: il programma non è operativo su supporti esterni." Cosa devo fare?

Assistenza tecnica: Non ti preoccupare. Significa che il software Amore è programmato per operare su cuori interiori, ma non è ancora stato inizializzato sul tuo cuore. In termini non tecnici, vuol dire semplicemente che tu devi Amare te stesso prima di poter amare altri.

Cliente: Che cosa devo fare adesso?

Assistenza tecnica: Vai al menu accettazione di sé, poi apri i seguenti file: perdonarsi, rendersi conto del proprio valore, riconoscere i propri limiti.

Cliente: Bene, fatto.

Assistenza tecnica: Ok. Ora copia questi file nella cartella "Mio Cuore". Il sistema eliminerà automaticamente i file contrari e comincerà a riparare la programmazione difettosa. Devi anche cancellare autocritica soffocante da tutte le cartelle e svuotare il cestino per assicurarti che il file sia eliminato completamente e non torni mai più.

Cliente: Bene. Ehi! Il mio cuore si sta riempiendo di file nuovi. È comparso sorriso sul mio monitor, e pace e soddisfazione si stanno copiando in tutto il mio cuore. È normale?

Assistenza tecnica: Succede. Qualche volta ci vuole del tempo, ma alla fine tutto arriva al momento giusto. Bene, Amore è installato e operativo. Ancora una cosa prima di interrompere la comunicazione: Amore è un software gratuito. Se fai circolare Amore e le sue estensioni a tutti quelli che incontri, verrà condiviso con molti altri e riceverai in cambio dei sottoprogrammi utili.

Cliente: Grazie, Dio.

amoreinterioritàaccettazione di séaccettazioneperdonopaceserenità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Miriam Bolfissimo, inserito il 07/09/2008

TESTO

42. Il prete e i mille "se"

Il prete e la sua gente: una storia piena di "se...se....se.."

Se sta da solo in Chiesa, "si chiude nel suo intimismo".
Se esce, "va sempre in giro, e non si trova mai".
Se va a benedire le case (o meglio, le famiglie), "non è mai in Chiesa".
Se non va, "non fa nulla per conoscere i suoi parrocchiani".
Se qualche volta accetta di andare al bar "è uomo di mondo".
Se non accetta, "vive isolato".
Se si ferma in strada a parlare con la gente, è "pettegolo".
Se non si ferma "è scostante".
Se parla con le vecchiette, "perde il tempo".
Se dialoga con le giovani è "un donnaiolo".
Se sta insieme e gioca con i ragazzi "forse è di tendenze equivoche".
Se non li frequenta, "trascura di compiere il suo principale dovere".
Se accoglie in casa certe persone, "è imprudente".
Se non le accoglie, "non si comporta da cristiano sensibile".
Se in chiesa afferma verità scottanti, "fa politica".
Se tace è "menefreghista".
Se predica un minuto in più diventa "interminabile".
Se parla o predica poco "non ha autorità" o "è impreparato".
Se si occupa dei malati "dimentica i sani".
Se accetta inviti a pranzo o a cena "è un mangione e un beone".
Se rifiuta, "non sa vivere in società".
Se organizza incontri e riunioni "sta sempre a scocciare".
Se tace e ascolta, "si lascia sopraffare da quelli che comandano".
Se cerca di fare qualche aggiornamento, "butta via tutto quello che c'è da conservare".
Se ritiene valide alcune tradizioni, "non capisce i tempi attuali".
Se è d'accordo con il vescovo, "si lascia strumentalizzare e non ha personalità".
Se non condivide tutto quello che il vescovo propone, "è fuori della Chiesa".
Se chiede la collaborazione dei fedeli, "è lui che non vuol far niente".
Se agisce da solo, "non lascia spazio agli altri".
Se si occupa degli immigrati (o extracomunitari) "è imprudente".
Se non si interessa, "è un grande egoista che non vuole rogne".
Se organizza gite, pellegrinaggi, "pensa solo a far soldi".
Se non organizza, "è indolente e non ha iniziative".
Se fa il bollettino parrocchiale, "spreca tempo e soldi".
Se non lo fa', "non informa i fedeli sulle attività della parrocchia".
Se si ferma a casa, "non è mai reperibile in ufficio".
Se inizia la santa Messa in orario, "il suo orologio è sempre avanti".
Se comincia un attimo dopo, "fa quello che vuole e non rispetta gli altri".
Se a tutti ricorda e sottolinea il dovere della partecipazione e della solidarietà, "è sempre arrabbiato e nervoso; e, in ogni occasione, bussa a quattrini".
Se indossa la veste talare "è un sorpassato".
Se veste da borghese, "nasconde la sua identità".

Se... se... se...

Signore, dimmi tu: ma come dovrebbe essere il prete?
Risposta del Capo (alias Gesù Cristo):
"Un innamorato di Dio".
E non dovrebbe dimenticare che: "il discepolo non è da più del maestro
né un apostolo è più grande di chi l'ha mandato...".
Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi;
se hanno osservato la mia Parola, osserveranno anche la vostra" (Gv 15).
"Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28).

pretepresbiterosacerdoteparroco

inviato da Maria Caffagnini, inserito il 07/09/2008

TESTO

43. Maria donna in cammino   1

Tonino Bello, Nigrizia, novembre 1990, p. 53

Se i personaggi del vangelo avessero avuto una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica dei più infaticabili camminatori l'avrebbe vinta Maria. Gesù a parte, naturalmente. Ma si sa, egli si era identificato a tal punto con la strada, che un giorno ai discepoli invitati a mettersi alla sua sequela confidò addirittura: «Io sono la via». La via. Non un viandante!

Siccome allora Gesù è fuori concorso, a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche è lei: Maria. La troviamo sempre in cammino, da un punto all'altro della Palestina, con uno sconfinamento anche all'estero. Viaggio di andata e ritorno da Nazaret verso i monti di Giuda, per trovare la cugina. Viaggio fino a Betlem. Di qui a Gerusalemme, per la presentazione al tempio.

Espatrio clandestino in Egitto. Ritorno guardingo in Giudea e poi di nuovo a Nazaret. Finalmente, sui sentieri del Calvario, ai piedi della Croce, dove la meraviglia espressa da Giovanni con la parola stabat, più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.

Icona del camminare, la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo. Seduta, ma non ferma. Non sa rimanersene quieta. Non corre col corpo, ma precorre con l'anima. E se non va lei verso l'ora di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le lancette, finché la gioia pasquale non irrompe sulla mensa degli uomini.

Sempre in cammino. E per giunta in salita. Da quando si mise in viaggio verso la montagna, fino al giorno del Golgota, anzi fino al crepuscolo dell'Ascensione, quando salì anche lei con gli apostoli «al piano superiore» in attesa dello Spirito, i suoi passi sono sempre scanditi dall'affanno delle alture.

Avrà fatto anche discese, e Giovanni ne ricorda una quando dice che Gesù, dopo le nozze di Cana, discese a Cafarnao insieme con sua madre. Ma l'insistenza con cui il Vangelo accompagna con il verbo "salire" i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale.

Santa Maria, donna della strada, come vorremmo somigliarti nelle nostre corse trafelate, ma non abbiamo traguardi. Siamo pellegrini come te, ma senza santuari verso cui andare. Camminiamo sull'asfalto, e il bitume cancella le nostre orme. Forzati del camminare, ci manca nella bisaccia di viandanti la cartina stradale che dia senso alle nostre itinerante.

E con tutti i raccordi anulari che abbiamo a disposizione, la nostra vita non si raccorda con nessun svincolo costruttivo, le ruote girano a vuoto sugli anelli dell'assurdo, e ci ritroviamo inesorabilmente a contemplare gli stessi panorami.

Santa Maria, donna della strada, fa' che i nostri sentieri siano, come lo furono i tuoi, strumenti di comunicazione con la gente e non nastri isolanti entro cui assicuriamo la nostra aristocratica solitudine. Liberaci dall'ansia della metropoli e donaci l'impazienza di Dio. L'impazienza di Dio ci fa allungare il passo per raggiungere i compagni di strada. L'ansia della metropoli, invece, ci rende specialisti del sorpasso. Ci fa guadagnare tempo, ma ci fa perdere il fratello che cammina accanto a noi.

Santa Maria, donna della strada, segno di sicura speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio, facci capire come, più che sulle mappe della geografia, dobbiamo cercare sulle tavole della storia le carovaniere dei nostri pellegrinaggi.

È su questi itinerari che crescerà la nostra fede. Prendici per mano e facci scorgere la presenza sacramentale di Dio sotto il filo dei giorni, negli accadimenti del tempo, nel volgere delle stagioni umane, nei tramonti delle onnipotenze terrene, nei crepuscoli mattinali di popoli nuovi, nelle attese di solidarietà che si colgono nell'aria.

Verso questi santuari dirigi i nostri passi. Per scorgere sulle sabbie dell'effimero le orme dell'eterno. Restituisci sapori di ricerca interiore alla nostra inquietudine di turisti senza meta.

Se ci vedi allo sbando, sul ciglio della strada, fermati, Samaritana dolcissima, per versare sulle nostre ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza. E poi rimettici in carreggiata. Dalle nebbie di questa valle di lacrime, in cui si consumano le nostre afflizioni, facci volgere gli occhi verso i monti da dove verrà l'aiuto. E allora sulle nostre strade fiorirà l'esultanza del magnificat.

Come avvenne in quella lontana primavera, sulle alture della Giudea, quando ci salisti tu.

stradacamminomariamadonnapellegrinaggio

5.0/5 (1 voto)

inserito il 11/01/2008

TESTO

44. Maria, donna accogliente

Tonino Bello, Nigrizia, giugno 1991, p. 58

La frase si trova in un testo del Concilio Vaticano II, ed è splendida per dottrina e concisione. Dice che, all'annuncio dell'Angelo, Maria «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio».

Nel cuore e nel corpo
Fu, cioè, discepola e madre del Verbo. Discepola, perché si mise in ascolto della Parola e la conservò per sempre nel cuore. Madre, perché offrì il suo grembo alla Parola e la custodì per nove mesi nello scrigno del corpo.
Forse per capire fino in fondo la bellezza di questa verità, il vocabolario non basta. Bisogna ricorrere alle espressioni visive. E allora non c'è di meglio che rifarsi ad una celebre icona orientale, che raffigura Maria con il divin Figlio Gesù inscritto sul petto. È indicata come "la Madonna del segno", ma potrebbe essere chiamata "la Madonna dell'accoglienza", perché, con gli avambracci levati in alto, in atteggiamento di offertorio o di resa, essa appare il simbolo della più gratuita ospitalità.

Accolse nel cuore
Fece largo, cioè, nei suoi pensieri ai pensieri di Dio. ma non si sentì, per questo, ridotta al silenzio. Offrì volentieri il terreno vergine della sua intimità alla germinazione del Verbo, ma non si considerò espropriata di nulla. Gli cedette con gioia il suolo più inviolabile della sua vita, ma senza dover ridurre gli spazi della sua libertà. Diede alloggio al Signore nella sua casa, ma non ne sentì, la presenza come violazione di domicilio. Gli aprì le porte delle stanze più segrete, ma senza subirne lo sfratto.

Accolse nel corpo
Sentì, cioè, il peso fisico di un altro essere che prendeva dimora nel suo grembo di madre. Adattò, quindi, i suoi ritmi a quelli dell'ospite. Modificò le sue abitudini in funzione di un compito che non le alleggeriva certo la vita. Consacrò i suoi giorni alla gestazione di una creatura che non le avrebbe risparmiato preoccupazioni e fastidi. E poiché il frutto benedetto del seno suo era il Verbo di Dio che s'incarnava per la salvezza dell'umanità, capì di aver contratto con tutti i figli di Eva un debito di accoglienza che avrebbe pagato con cambiali di lacrime.

Quell'ospitalità fondamentale la dice lunga sullo stile di Maria e delle sue mille altre accoglienze di cui il vangelo non parla, ma che non ci è difficile intuire. Nessuno fu mai respinto da lei. Tutti trovarono riparo sotto la sua ombra. Dalle vicine di casa, alle antiche compagne di Nazaret. Dai parenti di Giuseppe, agli amici di gioventù di suo figlio. Dai poveri della contrada, ai pellegrini di passaggio. Da Pietro, in lacrime dopo il tradimento, a Giuda che, forse, quella notte non riuscì a trovarla in casa.

Santa Maria, donna accogliente, aiutaci ad accogliere la Parola nell'intimo del cuore. A capire, cioè, come hai saputo fare tu, le irruzioni di Dio nella nostra vita. Egli non bussa alla porta per intimarci lo sfratto, ma per riempire di luce la nostra solitudine. Non entra in casa per metterci le manette, ma per restituirci il gusto della vera libertà.

Lo sappiamo: è la paura del nuovo a renderci spesso inospitali nei confronti del Signore che viene. I cambiamenti ci danno fastidio. E siccome lui scombina sempre i nostri pensieri, mette in discussione i nostri programmi e manda in crisi le nostre certezze, ci nascondiamo come Adamo nell'Eden, ogni volta che sentiamo i suoi passi. Facci comprendere che Dio, se ci guasta i progetti, non ci rovina la festa; se disturba i nostri sonni, non ci toglie la pace. E una volta che l'avremo accolto nel cuore, anche il nostro corpo brillerà della sua luce.

Santa Maria, donna accogliente, rendici capaci di gesti ospitali verso i fratelli. Sperimentiamo tempi difficili, in cui il pericolo di essere defraudati dalla cattiveria della gente ci fa vivere dietro porte blindate e sistemi di sicurezza. Non ci fidiamo più l'uno dell'altro. Vediamo agguati dappertutto. Il sospetto è diventato organico nei rapporti con il prossimo. Il terrore di essere ingannati ha preso il sopravvento sugli istinti di solidarietà che pure ci portiamo dentro. E il cuore se ne va a pezzi, dietro i cancelli dei nostri recinti.

Disperdi, ti preghiamo, le nostre diffidenze. Facci uscire dalla trincea degli egoismi corporativi. Sfascia le cinture delle leghe. Allenta le nostre ermetiche chiusure nei confronti di chi è diverso da noi. Abbatti le nostre frontiere. Quelle culturali, prima di quelle geografiche. Queste ultime cedono ormai sotto l'urto dei popoli "altri", ma le prime restano tenacemente impermeabili. Visto allora che siamo costretti ad accogliere stranieri nel corpo della nostra terra, aiutaci ad accoglierli anche nel cuore della nostra civiltà.

Santa Maria, donna accogliente, ostensorio del corpo di Gesù deposto dalla croce, accoglici sulle tue ginocchio, quando avremo reso lo spirito anche noi. Dona alla nostra morte la quiete fiduciosa di chi poggia il capo sulla spalla della madre e si addormenta sereno. Tienici per un poco sul tuo grembo, così come ci hai tenuti nel cuore per tutta la vita. Compi su di noi i rituali delle ultime purificazioni. E portaci, finalmente, sulle tue braccia davanti all'Eterno.

Perché solo se saremo presentati da te, sacramento della tenerezza, potremo trovare pietà.

mariamadonnaaccoglienzastranieriospitalitàmigrazione

inviato da Giovanni Graziano Tassello, inserito il 11/01/2008

RACCONTO

45. Il bambino che tolse i chiodi a Gesù   1

Questa storia è vera per la prima parte, mentre la seconda ne è un possibile proseguimento, suggerito dalla fede e dal cuore di chi scrive, liberamente interpretabile da chi legge, purché resti emblematica nel suo contenuto che vuol essere comunque educativo.

C'era una volta un bambino (oggi non è più quel bambino perché è regolarmente cresciuto) di nome Lorenzo, piccolo mulatto, birichino, occhi pieni di curiosità, denti bianchissimi nella bocca sorridente, voglia continua di correre e giocare, fantasioso, spericolato, sempre protetto dal vigile Angelo Custode.

E non c'era solo quel bambino, c'era anche un castello, dove il bimbo andava a giocare e dove l'aspettavano tante zie che se lo contendevano per appagare tutti i suoi desideri e raccontarsi poi le sue prodezze.

Nel castello c'era una piccola chiesa, perché le zie che lo custodivano erano delle suore secolari che sapevano coniugare la consacrazione al Signore l'amore materno ad ogni piccola creatura.

Ed ecco che un giorno, nel mezzo del gioco, mentre il bimbo corre calciando il pallone, nel corridoio accanto alla piccola chiesa la voce della zia "Annamalia", la madrina di battesimo, chiama: "Lorenzo, vieni a conoscere Gesù".

Così Lorenzo scende per la prima volta i gradini della chiesetta ed entra nel vano sacro, dove gli viene mostrato Gesù nel grande crocifisso appeso alla parete sopra l'altare.

Il bimbo alza gli occhi e vede i piedi forati dal chiodo, sovrapposti e sanguinanti. Ecco quello è Gesù e lui gli manda bacetti con la mano, rammaricandosi di non poterlo raggiungere, impotente a togliergli quei chiodi che forano i piedi e le mani fino a farli sanguinare.

Cominciò così il suo amore per Gesù, un misto di ammirazione e compassione che si rinnovava ad ogni nuova visita.

Per Lorenzo era un grosso sacrificio lasciare il gioco per andare a rivedere Gesù, ma ne valeva la pena... specialmente dopo che aveva assaggiato il "Pane di Gesù", che zia Annamaria aveva preso da un armadietto della sacrestia, e dopo aver saputo che la casa di Gesù era nel tabernacolo di marmo, proprio sotto la grande croce da cui Gesù non poteva discendere. In braccio alla madrina lui però poteva baciare la porticina di quella "casa" e stabilire con Gesù una grande amicizia, più importante di quella che aveva con i suoi compagni della Scuola Materna.

Ma il cuoricino di Lorenzo soffriva per quei grossi chiodi che non sapeva come fare a togliere perché Gesù potesse guarire e scendere dalla croce. Una volta che zia Roberta si ferì un piede e mostrò al bambino la ferita, egli si slanciò a baciarlo per farlo guarire come avrebbe voluto fare con Gesù.

Passò il tempo e venne il grande momento: una scala era rimasta abbandonata in chiesa con qualche attrezzo, come quelli che usava papà Mario per i lavori di casa. Lorenzo non aspettava altro! Ormai era abbastanza alto e forte per sollevare la scala, avvicinarla al grande crocifisso, prendere gli attrezzi e salire fino in alto. Ora finalmente poteva "lavorare" per togliere quei chiodi ai piedi e alle mani di Gesù.

Lavora, smuovi, tira... e uno! Poi due, ma il terzo che fatica! Non si arrese: tirò finché anche quello fu divelto, ma intanto la scala oscillò e si piegò all'indietro. Un grido: "Gesù!". Una risposta: "Lorenzo!".

E mentre il bimbo stava perdendo l'equilibrio, stava cadendo indietro, le mani libere di Gesù lo afferrarono e lo portarono in posizione sicura. Lorenzo, ignaro del pericolo corso, esultava di gioia: Gesù finalmente aveva parlato!

Le zie intanto cercavano il bambino e lo trovarono sulla scala sorridente. "Lorenzo che hai fatto?".
"Non ha più i chiodi! E Gesù mi ha risposto!".

Zia Ilva sale subito sulla scala e va a prendere il bambino, lo riconduce a terra illeso, fra la grande gioia di tutte le zie dal cuore materno che per lui hanno trepidato e stentano a capire che cosa è successo.

In realtà nessuno mai capì bene la cosa, solo Lorenzo sapeva che Gesù non aveva più i chiodi perché lui glieli aveva tolti e poi era felice perché Gesù gli aveva parlato come ad un vero amico.

Quando Lorenzo crebbe e diventò un uomo, non si sa cosa fece nella vita: forse divenne papà ed ebbe dei figli; forse partì missionario ed andò a fare del bene ad altri bambini. Comunque siano andate le cose, Lorenzo ebbe sempre tanto amore per Gesù ed insegnò ai bambini ad amarlo tanto. Così il mondo divenne più buono.

Gesùcrocifissocrocerapporto con Diosemplicità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Una Catechista, inserito il 25/03/2007

TESTO

46. ContemplaTTivi   1

Tonino Bello, Cirenei della gioia

Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.

Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire, avrà la firma d'autore del Signore. Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.

Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.

Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.

Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare...». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d'amore.

Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».

Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare, chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di AIDS... diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgeranno che non c'è sostanza, che non c'è l'acqua viva, la gente se ne va.

Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.

Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Chiristi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.

La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in modo o nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte» (Gv. 13,30).

Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell'intimismo, ovattato dove le percussioni dei mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l'ordine del giorno che il mondo ci impone.

Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo..

amorecaritàattivitàcontemplazioneservizioeucaristia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Luigi Pisoni, inserito il 17/11/2006

RACCONTO

47. I tre alberi   1

Sulla vetta di una montagna, coperta di pascoli e pinete profumate di resina, spuntarono un giorno tre piccoli alberi. Nei primi tempi erano così teneri e verdi che si confondevano con l'erba e i fiori che prosperavano intorno a loro.
Ma, primavera dopo primavera, il loro piccolo tronco si irrobustì. Le sfide autunnali e invernali per fronteggiare i venti e le bufere li riempivano di gioia baldanzosa.
Dall'alto della loro casa verde guardavano il mondo e sognavano.
Come tutti coloro che stanno crescendo, sognavano quello che avrebbero voluto diventare da grandi.

Il primo albero guardava le stelle che brillavano come diamanti trapuntati sul vestito di velluto nero della notte.
"Io sopra ogni cosa vorrei essere bello. Vorrei custodire un tesoro" disse. "Vorrei essere coperto d'oro e contenere pietre preziose. Diventerò il più bello scrigno per tesori del mondo".
Il secondo alberello guardava il torrente che scendeva serpeggiando dalla montagna, aprendosi il cammino verso il mare. L'acqua correva e correva, gorgogliando e scherzando con i sassi, un momento era lì e poco dopo già era scomparsa all'orizzonte. E niente riusciva a fermarla. "Io voglio essere forte. Sarò un grande veliero" disse. "Voglio navigare sugli oceani sconfinati e trasportare capitani e re potenti. Io sarò il galeone più forte del mondo".
Il terzo alberello contemplava la valle che si stendeva ai piedi della montagna e guardava la città che si indovinava nella foschia azzurrina.
Laggiù formicolavano uomini e donne. "Io non voglio lasciare questa montagna" disse. "Voglio crescere tanto che quando la gente si fermerà per guardarmi, dovrà alzare gli occhi al cielo e pensare a Dio. Io diventerò il più grande albero del mondo!".

Gli anni passarono. Caddero le piogge, brillò il sole, e i piccoli alberelli divennero tre alberi alti e imponenti.
Un giorno, tre boscaioli salirono sulla montagna, con le loro scuri a tracolla.
Uno dei boscaioli squadrò ben bene il primo albero e disse: "E' un bell'albero. E' perfetto".
Dopo pochi minuti, stroncato da precisi colpi d'ascia, il primo albero piombò al suolo.
"Ora sto per trasformarmi in un magnifico forziere" pensò l'albero. "Mi affideranno in custodia un tesoro favoloso".
Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "Questo albero è vigoroso e solido. E' proprio quello che ci vuole". Sollevò la scure, che lampeggiò al sole, e abbatté l'albero.
"D'ora in poi, navigherò sui mari infiniti e i vasti oceani" pensò il secondo albero. "Sarò una nave importante, degna dei re".
Il terzo albero si sentì mancare il cuore, quando il boscaiolo lo fissò.
"Per me va bene qualunque albero" pensò il boscaiolo. L'ascia balenò nell'aria e, poco dopo, anche il terzo albero giaceva sul terreno.
I loro bei rami, che fino a poco prima avevano scherzato con il vento e protetto uccelli e scoiattoli, furono stroncati uno a uno.
I tre tronchi furono fatti rotolare lungo il fianco della montagna, fino alla pianura.

Il primo albero esultò quando il boscaiolo lo portò da un falegname. Ma il falegname aveva ben altri pensieri che mettersi a fabbricare forzieri. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per animali. L'albero che era stato un tempo bellissimo non fu ricoperto di lamine d'oro né riempito di tesori. Era coperto di rosicchiature e riempito di fieno per nutrire gli animali affamati della fattoria.
Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò al cantiere navale, ma quel giorno nessuno pensava a costruire un veliero. Con grandi colpi di martello e di sega, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pescatori.
Troppo piccola, troppo fragile per navigare su un oceano o anche solo su un fiume, la barca fu portata in un laghetto. Tutti i giorni, trasportava carichi di pesce, che la impregnavano di odore sgradevole.
Il terzo albero divenne tristissimo quando il boscaiolo lo squadrò per farne rozze travi che accatastò nel cortile della sua casa.
"Perché mi succede questo?" si domandava l'albero, ricordando il tempo in cui lottava con il vento sulla cima della montagna.
"Tutto quello che volevo era svettare sul monte per invitare la gente a pensare a Dio".
Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi quasi dimenticarono i loro sogni.

Ma una notte, la luce dorata di una stella accarezzò con i suoi raggi il primo albero, proprio nel momento in cui una giovane donna con infinita tenerezza sistemava nella mangiatoia il suo bambino appena nato.
"Avrei preferito costruirgli una culla" mormorò suo marito. La giovane mamma gli sorrise, mentre la luce della stella scintillava sulle assi lucide e consunte che un tempo erano state il primo albero.
"Questa mangiatoia è magnifica" rispose la mamma.
In quel momento, il primo albero capì di contenere il tesoro più prezioso del mondo.
Altri giorni e altre notti passarono. Una notte, un viaggiatore stanco e i suoi amici si imbarcarono sul vecchio battello da pesca, che un tempo era stato il secondo albero.
Mentre il secondo albero, diventato barca, scivolava tranquillamente sull'acqua del lago, il viaggiatore si addormentò.
All'improvviso, dopo lo schianto di un tuono, in una ridda di fulmini e violente ondate, scoppiò la tempesta.
Il piccolo albero tremò. Sapeva di non avere la forza di trasportare in salvo tante persone con quel vento e con la violenza di quelle onde. Le sue fiancate scricchiolavano penosamente per lo sforzo.
Preoccupati, gli amici svegliarono il misterioso viaggiatore. L'uomo si alzò, spalancò le braccia, sgridò il vento e disse all'acqua del lago: "Fa' silenzio! Calmati!". La tempesta si quietò immediatamente e si fece una grande calma.
In quel momento, il secondo albero capì che stava trasportando, come desiderava, un re, anzi, il re dei cieli, della Terra e degli infiniti oceani.
Poco tempo dopo, un Venerdì mattino, il terzo albero fu molto sorpreso quando le sue rozze travi furono tolte di malagrazia dalla catasta di legname dimenticato.
Furono trasportate nel mezzo di una folla vociante e irosa, sbattute sulle spalle torturate di un uomo, che poi su di esse fu inchiodato. Il povero albero si sentì orribile e crudele. E piangeva, reggendo quel povero corpo tormentato... lui che voleva che la gente grazie a lui vedesse Dio!

Ma la Domenica mattina, quando il sole si levò alto nel cielo e tutta la Terra vibrò di una gioia immensa, il terzo albero seppe che non aveva trasportato un uomo qualunque, ma aveva trasportato Dio!
In quel mattino seppe e capì che l'amore di Dio aveva trasformato tutto.
Aveva fatto del primo albero il meraviglioso scrigno del più tenero e incredibile dei tesori. Aveva reso il secondo albero forte portatore del Creatore del cielo e della Terra.
E ogni volta che una persona avesse guardato il terzo albero avrebbe visto Dio! Ogni persona, anche noi, non solo i pochi della Valle...
E questo era più che essere solo il più bello, il più forte o il più grande albero del mondo...

Clicca qui per una versione simile.

Il racconto ci è stato inviato nel 2005 indicando come autore Paulo Coelho, nel tempo però abbiamo avuto segnalazioni che lo attribuiscono a Stefano Valeri:
http://www.club.it/autori/sostenitori/stefano.valeri/prefazione2.html
ed Elena Pasquali ne ha fatto una riscrizione definendolo un racconto popolare:
http://www.paolinestore.it/shop/la-leggenda-dei-tre-alberi.html

desideriprogetto di Diocroce

inviato da Fabio, inserito il 03/05/2006

TESTO

48. Cosa la Chiesa può sopportare e cosa non può sopportare   1

Primo Mazzolari, Risposta ad un aviatore, 1941, ora in La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966

Chi capisce come dev'essere presente la Chiesa in questa svolta della storia capisce anche ciò che la sua carità può sopportare e ciò che non può sopportare proprio in nome della stessa carità. Ripeto: in nome della carità, poiché la rivoluzione cristiana, l'unica che può essere giustificata anche davanti alla storia, più che da diritti conculcati o offesi nasce da doveri suggeriti e imposti al nostro cuore dalla carità che ci lega al nostro prossimo. Chi più ama è potenzialmente l'unico e vero rivoluzionario.

La Chiesa sopporta:
- il male che le fanno i suoi nemici, che, per quanto si allontanino e la rinneghino, portano sempre l'incancellabile volto di figli, e di figli tanto più cari quanto più cresce il loro perdimento;
- di essere spogliata di ogni bene materiale e di ogni privilegio concessole più o meno disinteressatamente dagli uomini;
- di vedere le sue basiliche e le sue chiese distrutte, chiusi i suoi conventi e le sue scuole, poiché è già "l'ora che né in Gerusalemme né su questo monte i veri adoratori adorano il Padre in spirito e in verità";
- le persecuzioni aperte e subdole, le calunnie e le blandizie, i vituperi e i panegirici menzogneri;
- gli erranti e in un certo senso perfino l'errore quando esso non può venire colpito senza offesa mortale all'anima dell'errante;
- di essere misconosciuta nella sua carità, colmata di obbrobrio per colpe non sue;
- il disonore che le viene dalla vita indegna dei suoi figlioli stessi, i loro rinnegamenti e i loro tradimenti;
- d'essere baciata da un Giuda, rinnegata da un Pietro.

La Chiesa non può sopportare:
- che vengano negate o diminuite o falsate le verità che essa ha il dovere di custodire e che costituiscono il patrimonio dell'umanità redenta;
- che sia cancellato dalla storia e dal cuore il senso della giustizia che è il patrimonio di tutti, ma in modo particolare dei poveri;
- la libertà e la dignità della persona e della coscienza, che sono il nostro divino respiro. Mentre sopporta senza aprir bocca di essere spogliata e tiranneggiata in qualsiasi modo, non può sopportare che vengano spogliati, conculcati, manomessi i diritti dei poveri e dei deboli, individui, città, nazioni e popoli, cristiani e non cristiani. E nella sua difesa materna e invitta è tanto più grande quanto più la sua tutela si estende alla plebs infedele, egualmente santa. Alcuni gesti di munifica protezione di Pio XII, in favore di ebrei perseguitati, hanno commosso e sollevato l'ammirazione del mondo;
- il potente che abusa della propria forza per opprimere i deboli;
- il sapiente che abusa della propria intelligenza per circuire e trarre in inganno l'ignorante;
- il ricco che abusa delle proprie ricchezze per angariare e affamare il popolo.

Vi sono quindi dei limiti nella sopportazione della Chiesa, e questi limiti vengono non dai raffreddamenti ma dai colmi della sua carità. Ciò che è abominevole per il Signore lo è pure per la sua Chiesa; la quale, senza parteggiare, non può trattare alla stessa stregua la vittima e il carnefice, l'oppressore e l'oppresso.

Chi fermerebbe la mano del malvagio, chi solleverebbe il cuore abbandonato dell'oppresso se un'egual voce raccogliesse il grido dell'uno e il gemito dell'altro?

Sarebbe un delitto il pensare, per il fatto che la Chiesa predica la pazienza ed esalta l'infinito valore del dolore, specialmente del dolore innocente, ch'essa accettasse le tristezze dei prepotenti come un mezzo provvidenziale per moltiplicare i meriti sovrannaturali dei buoni. Purtroppo il nostro linguaggio ascetico, sprovveduto di ampiezza e d'audacia mistica, può indurre un profano in apprezzamenti non solo sproporzionati ma contrari al buon senso.

La sofferenza ben sopportata mi redime e redime, ma non fa diventar buona l'ingiustizia di chi ha pesato su di me. E una bontà conseguente, che non ha nulla da spartire con la causa ingiusta che ha generato la mia sofferenza. Soffrendo bene l'ingiustizia, creo una corrente di bontà: ma non per questo gli uomini sono dispensati dal fermare con tutte le forze la sorgente di male che continua a generare l'errore.

Perché c'è uno che espia in modo edificante, io non sono scusato di lasciar fare e di lasciar passare. Il soffrire non è un bene in sé e se il Signore ci aiuta a cavare il bene dal male non vuole che noi chiamiamo bene il male, il quale va tolto di mezzo nei limiti della nostra responsabilità e della nostra carità. Il perdono stesso delle offese va all'uomo, non all'azione di lui, la quale rimane giudicata anche dopo il perdono, anzi giudicata veramente e irrevocabilmente solo dopo il perdono.

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inviato da Carlo Maria Cananzi, inserito il 03/05/2006

TESTO

49. Il dono supremo

Paolo VI, dall'omelia per il Giovedì Santo, 11 aprile 1974

Dove siamo? perché siamo qui riuniti? che cosa stiamo facendo? La celebrazione di questo rito esige da noi un momento d'intensa concentrazione.

È pur vero: essa non è in sostanza che una Santa Messa, quale noi celebriamo ogni giorno e moltiplichiamo in tanti luoghi diversi. Ma oggi questo rito vuole assumere il suo pieno e originario significato. Esso vuole ricordare, anzi rinnovare le sue ragioni costitutive, e acquista per noi, in ogni suo aspetto, un rilievo particolare; noi vogliamo onorare la sua misteriosa e complessa realtà; la sua origine, ch'è l'ultima Cena del Signore; la sua natura, ch'è il sacrificio eucaristico; i suoi rapporti con la Pasqua giudaica, memoriale della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù e poi segno della promessa messianica circa i futuri destini di quel popolo; il suo aspetto innovatore, ch'è l'inaugurazione d'un nuovo Testamento, d'una nuova alleanza, cioè d'un nuovo piano religioso, eminentemente più elevato e più perfetto, fra Dio e l'umanità, mediante il sacrificio d'una vittima unica e nuova, Gesù Cristo stesso.

Noi siamo collocati all'incrocio delle grandi linee traiettorie dei destini storici, profetici e spirituali dell'umanità: qui si conclude l'Antico Testamento; qui si inaugura il Nuovo; qui l'incontro con Cristo, da evangelico e particolare, si fa sacramentale e universalmente accessibile, qui la intenzione fondamentale della sua presenza nel mondo, con la celebrazione dei due misteri essenziali della sua vita nel tempo e sulla terra, l'Incarnazione e la Redenzione, si svela in gesti ed in parole indimenticabili: «Sapendo Gesù, dice infatti il Vangelo, che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Giovanni 13, 1), cioè fino all'estremo limite, fino al dono supremo di Sé.

Questo è il tema sul quale ora dobbiamo fissare la nostra attenzione. Non ne saremo veramente capaci, come non sono capaci i nostri occhi di sostenere lo sguardo diretto della luce del sole. Ma non dovranno questi nostri occhi umani e fedeli stancarsi di contemplare ciò che il misterioso fulgore dell'ultima Cena fa risplendere davanti a noi: i gesti dell'amore che si offre e si dà, e che assumono l'aspetto e la dimensione d'un amore assoluto, divino; l'amore che si esprime nel sacrificio.

Per la versione completa, clicca qui.

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inviato da Luca, inserito il 01/05/2006

RACCONTO

50. Ambra: tra globalizzazione e universalismo

M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare

In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".

Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".

Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.

Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.

Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.

Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.

Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.

Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.

Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».

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inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 05/01/2006

TESTO

51. Ama la tua parrocchia   2

Paolo VI, omelia inaugurazione parrocchia N.S. di Lourdes, Roma 23-2-1964

Collabora, prega e soffri per la tua parrocchia, perché devi considerarla come una madre a cui la Provvidenza ti ha affidato: chiedi a Dio che sia casa di famiglia fraterna e accogliente, casa aperta a tutti e al servizio di tutti. Da' il tuo contributo di azione perché questo si realizzi in pienezza. Collabora, prega, soffri perché la tua parrocchia sia vera comunità di fede: rispetta i preti della tua parrocchia anche se avessero mille difetti: sono i delegati di Cristo per te. Guardali con l'occhio della fede, non accentuare i loro difetti, non giudicare con troppa facilità le loro miserie perché Dio perdoni a te le tue miserie. Prenditi carico dei loro bisogni, prega ogni giorno per loro.

Collabora, prega, soffri perché la tua parrocchia sia una vera comunità eucaristica, che l'Eucaristia sia "radice viva del suo edificarsi", non una radice secca, senza vita. Partecipa all'Eucaristia, possibilmente nella tua parrocchia, con tutte le tue forze. Godi e sottolinea con tutti tutte le cose belle della tua parrocchia. Non macchiarti mai la lingua accanendoti contro l'inerzia della tua parrocchia: invece rimboccati le maniche per fare tutto quello che ti viene richiesto. Ricordati: i pettegolezzi, le ambizioni, la voglia di primeggiare, le rivalità sono parassiti della vita parrocchiale: detestali, combattili, non tollerarli mai!

La legge fondamentale del servizio è l'umiltà: non imporre le tue idee, non avere ambizioni, servi nell'umiltà. E accetta anche di essere messo da parte, se il bene di tutti, ad un certo momento, lo richiede. Solo, non incrociare le braccia, buttati invece nel lavoro più antipatico e più schivato da tutti, e non ti salti in mente di fondare un partito di opposizione!

Se il tuo parroco è possessivo e non lascia fare, non farne un dramma: la parrocchia non va a fondo per questo. Ci sono sempre settori dove qualunque parroco ti lascia piena libertà di azione: la preghiera, i poveri, i malati, le persone sole ed emarginate. Basterebbe fossero vivi questi settori e la parrocchia diventerebbe viva. La preghiera, poi, nessuno te la condiziona e te la può togliere.

Ricordati bene che, con l'umiltà e la carità, si può dire qualunque verità in parrocchia. Spesso è l'arroganza e la presunzione che ferma ogni passo ed alza i muri. La mancanza di pazienza, qualche volta, crea il rigetto delle migliori iniziative.

Quando le cose non vanno, prova a puntare il dito contro te stesso, invece che contro il parroco o contro i tuoi preti o contro le situazioni. Hai le tue responsabilità, hai i tuoi precisi doveri: se hai il coraggio di un'autocritica, severa e schietta, forse avrai una luce maggiore sui limiti degli altri.

Se la tua parrocchia fa pietà la colpa è anche tua: basta un pugno di gente volenterosa a fare una rivoluzione, basta un gruppo di gente decisa a tutto a dare un volto nuovo ad una parrocchia. E prega incessantemente per la santità dei tuoi preti: sono i preti santi la ricchezza più straordinaria delle nostre parrocchie, sono i preti santi la salvezza dei nostri giovani.

Alcuni nostri utenti hanno messo in dubbio che la frase sia attibuibile al Papa Paolo VI, infatti sul sito vaticano viene riportata l'omelia indicata ma senza questa parte: e a quel tempo l'intervento a braccio non sembra pensabile.

parrocchiaimpegnolaicipretiserviziocollaborazionecorresponsabilitàpastorale

inviato da Anna Barbi, inserito il 06/06/2005

RACCONTO

52. E Dio creò la mamma   4

Bruno Ferrero, 40 Storie nel deserto

Il buon Dio aveva deciso di creare... la mamma. Ci si arrabattava intorno già da sei giorni, quand'ecco comparire un angelo che gli fa: "Questa qui te ne fa perdere di tempo, eh?". E Lui: "Sì, ma hai letto i requisiti dell'ordinazione? Dev'essere completamente lavabile, ma non di plastica... avere 180 parti mobili tutte sostituibili... funzionare a caffè e avanzi del giorno prima... avere un bacio capace di guarire tutto, da una sbucciatura ad una delusione d'amore... e sei paia di mani". L'angelo scosse la testa e ribatté incredulo: "Sei paia?!". "Il difficile non sono le mani - disse il buon Dio - ma le tre paia di occhi che una mamma deve avere". "Così tanti?". Dio annuì. "Un paio per vedere attraverso le porte chiuse quando domanda "che state combinando lì dentro, bambini?", anche se lo sa già; un altro paio dietro la testa, per vedere quello che non dovrebbe vedere, ma che deve sapere; un altro paio ancora per dire tacitamente al figlio che si è messo in un guaio "capisco e ti voglio bene lo stesso".

"Signore - fece l'angelo sfiorandogli gentilmente un braccio - va' a dormire. Domani è un altro...". "Non posso - ripose il Signore - ho quasi finito ormai. Ne ho già una che guarisce da sola se è malata, che può lavorare 18 ore di seguito, preparare un pranzo per sei con mezzo chilo di carne tritata e che riesce a tenere sotto la doccia un bambino di nove anni". L'angelo girò lentamente intorno al modello di madre, esaminandolo con curiosità: "E' troppo tenera", disse poi con un sospiro. "Ma resistente - ribatté il Signore con foga - tu non hai idea di quello che può sopportare una mamma!". "Sa pensare?". "Non solo, ma sa anche fare un ottimo uso della ragione e venire a compromessi", ribatté il Creatore. A quel punto l'angelo si chinò sul modello della madre e le passò un dito su una guancia: "Qui c'è una perdita", dichiarò. "Non è una perdita - lo corresse il Signore - è una lacrima". "E a che serve?". "Esprime gioia, tristezza, delusione, dolore, solitudine, orgoglio". "Ma sei un genio!", esclamò l'angelo. Con sottile malinconia Dio aggiunse: "A dire il vero, non sono stato io a mettercela quella cosa lì...".

mammamadrematernità

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inviato da Silvia Ongaro, inserito il 21/04/2005

ESPERIENZA

53. Il Sacerdote

Chi è che ci prepara l'Eucaristia e ci dona Gesù?
E' il Sacerdote.
Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebberero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli.

E chi è il Sacerdote?
E' l'"Uomo di Dio". Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima ("Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio": Eb 5,4), lo separa da tutti gli altri ("segregato per il Vangelo": Rm 1,1), lo segna con un carattere sacro che durerà in eternamente ("Sacerdote in eterno": Eb 5,6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote "scelto fra gli uomini è costituito a prò degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1-2).

Vergine, povero, crocifisso
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell'anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l'intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. E' per questa conformità a Gesù che egli è "Ministro di Cristo fra genti" (Rm 15, 16), guida e maestro delle anime (Mt 28, 20).
Lo Spirito Santo configura l'anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che "il Sacerdote all'altare opera nella stessa Persona di Gesù" (S. Cipriano), ed "è il padrone di tutto Dio" (S. Giovanni Crisostomo).

Rispetto e venerazione
Sappiamo che S. Francesco d'Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi "Signori", poiché in essi vedeva solamente "il Figlio di Dio"; in particolare venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote.
Il S. Curato d'Ars diceva: "Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?".
Sappiamo, del resto, che l'atto di venerazione di baciare le mani del Sacerdote è stato premiato da Dio con veri miracoli. Nella vita di S.Ambrogio, si legge che un giorno, appena celebrata la S. Messa, il Santo fu avvicinato da una donna paralitica che volle baciargli le mani. La poveretta riponeva grande fede in quelle mani che avevano consacrato l'Eucaristia: e fu guarita all'istante. Lo stesso, a Benevento, una donna paralitica da quindici anni, chiese al Papa Leone IX di poter bere l'acqua da lui adoperata durante la S. Messa per l'abluzione delle dita. Il Santo Papa accontentò l'inferma in questa richiesta umile come quella della Cananea che chiese a Gesù "le briciole che cadono dalla mensa dei padroni" (Mt 15, 27). E fu subito guarita anche lei.
"Se io incontrassi - diceva il S. Curato d'Ars - un Sacerdote e un Angelo, saluterei prima il Sacerdote, poi l'Angelo... Se non ci fosse il Sacerdote, a nulla gioverebbe la Passione e la Morte di Gesù... A che servirebbe uno scrigno ricolmo d'oro, quando non vi fosse chi lo apre? Il Sacerdote ha le chiavi dei tesori celesti..."
Ma questa sublimità di grandezza comporta responsabilità enormi che pesano sulla povera umanità del Sacerdote; umanità in tutto identica a quella di ogni altro uomo. "Il Sacerdote - diceva S. Bernardo - per natura è come tutti gli altri uomini, per dignità è superiore a qualsiasi altro uomo della terra, per condotta deve essere emulo degli Angeli".
Per questo Padre Pio diceva: "Il Sacerdote o è un santo o è un demonio". O santifica, o rovina. San Giovanni Bosco diceva che "un prete o in paradiso o in inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero o col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio".
Veneriamo il Sacerdote e siamogli grati perché ci dona Gesù; ma soprattutto preghiemo per la sua altissima missione, che è la missione stessa di Gesù: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Missione divina che fa girar la testa e impazzire di amore, a rifletterci fino in fondo. Il Sacerdote è assimilato al Figlio di Dio, e il Santo Curato d'Ars diceva che "solo in cielo misurerà tutta la sua grandezza. Se già sulla terra lo intendesse, morrebbe non di spavento, ma di amore... Dopo Dio, il Sacerdote è tutto".

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inviato da Anna Lollo, inserito il 07/01/2005

TESTO

54. La fiera del giorno dei morti   2

Tonino Lasconi, Popotus, 30/10/2004

La visita al cimitero, pensieri, preghiere e fiori per i nostri cari che non ci sono più: un incontro che non si esaurisce il 2 novembre.

Amo i cimiteri. Ci vado spesso. Non solo in quelli dove riposano i miei cari ma anche in quelli che incontro viaggiando. Sono un luogo dove mi piace riflettere, meditare, pregare. Questo perché amo la vita. Il pensiero dei defunti mi ricorda, senza ombra di dubbio, che la vita è un passaggio, spesso, purtroppo, breve. Per questo va vissuta senza sprecarne un solo istante con la noia, con la banalità, con la volgarità, con ciò che può rattristarla, impoverirla, metterla in pericolo.

Quando sono lì, penso: «Se ci ricordassimo sempre che non vivremo cinquemila anni, saremmo più saggi. Adopereremmo meglio le nostre capacità, i nostri sentimenti, il nostro tempo, i nostri soldi, i nostri giorni». Metto dei fiori nelle tombe dei miei cari e in quelle abbandonate dai parenti. I fiori - lo so - non servono ai defunti, ma a me. A noi. Sono un segno bellissimo che dice: «Da questa morte rinasce una vita nuova, più bella e profumata di prima». E prego. La preghiera serve ai defunti e a noi. Ci ricorda che, tra noi e loro, gli affetti, la compagnia, l'amicizia continuano, perché davanti a Dio siamo tutti contemporanei, ci abbraccia tutti con un unico sguardo.

E noi camminiamo tutti insieme verso di lui, aiutandoci l'un l'altro. Volete che una madre non cammini ancora accanto ai suoi figli rimasti quaggiù? Che un amico non ti rimanga accanto? Nemmeno a pensarci! Quando esco dal cimitero, mi sento ricaricato, stimolato a vivere con più grinta e intensità. Non però negli ultimi giorni di ottobre e nei primi di novembre. In questi giorni non vado più al cimitero, perché l'ultima volta che l'ho fatto ho creduto di trovarmi in una fiera: chiacchiericcio, confusione, risate, paragoni sciocchi tra le tombe e i fiori più belli, curiosità stupide, telefonini che squillano dappertutto, commento sul costo dei fiori... Uno spettacolo triste! Sapete cosa farei? Chiuderei i cimiteri dal 25 ottobre all'8 di novembre. Perché quelli che ci vanno per amore dei defunti e di se stessi ci andrebbero comunque durante l'anno, ogni volta che possono. Quelli «della fiera» se ne starebbero a casa loro. Meglio così! Tanto, andare in un cimitero per non pensare, per non pregare, per non meditare non serve né ai defunti né tanto meno ai vivi.

mortedefunticomunione dei santiparadisoeternitàvita eterna

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 06/11/2004

TESTO

55. Accetta   2

Siamo convinti che la nostra vita sarà migliore quando saremo sposati, quando avremo un primo figlio o un secondo. Poi ci sentiamo frustrati perché i nostri figli sono troppo piccoli per questo o per quello e pensiamo che le cose andranno meglio quando saranno cresciuti.
In seguito siamo esasperati per il loro comportamento da adolescenti.
Siamo convinti che saremo più felici quando avranno superato quest'età.
Pensiamo di sentirci meglio quando il nostro partner avrà risolto i suoi problemi, quando cambieremo l'auto, quando faremo delle vacanze meravigliose, quando non saremo più costretti a lavorare.

Ma se non cominciamo una vita piena e felice ora, quando lo faremo?
Dovremo sempre affrontare delle difficoltà di qualsiasi genere.
Tanto vale accettare questa realtà e decidere d'essere felici, qualunque cosa accada.

Alfied Souza diceva: "Per tanto tempo ho avuto la sensazione che la mia vita sarebbe presto cominciata, la vera vita! Ma c'erano sempre ostacoli da superare strada facendo, qualcosa d'irrisolto, un affare che richiedeva ancora tempo, dei debiti che non erano stati ancora regolati. In seguito la vita sarebbe cominciata. Finalmente ho capito che questi ostacoli: erano la vita."

Questo modo di percepire le cose ci aiuta a capire che non c'è un mezzo per essere felici ma la felicità è il mezzo.
Di conseguenza gustate ogni istante della vostra vita e gustatelo ancora di più quando potete dividerlo con una persona cara, una persona molto cara per passare insieme dei momenti preziosi della vita.
Ricordatevi che il tempo non aspetta nessuno.

Allora smettete di aspettare di finire la scuola, di tornare da scuola, di perdere 5 kg, di avere dei figli, di vederli andare via di casa.
Smettete di aspettare di cominciare a lavorare, di andare in pensione, di sposarvi.
Smettete di aspettare il venerdì sera, la domenica mattina, di avere una nuova macchina o una casa nuova.
Smettete di aspettare la primavera, l'estate, l'autunno o l'inverno.
Smettete di aspettare di lasciare questa vita, e decidete che non c'è momento migliore per essere felici che il momento presente. Quello donato da Dio.

La felicità e le gioie della vita non sono delle mete, ma un viaggio.

Un pensiero per oggi:
Lavorate, come se non aveste bisogno di soldi.
Amate, come se non doveste soffrire mai.
Ballate, come se nessuno vi guardasse.

Ora rifletti bene e cerca di rispondere a queste domande:
Nomina le 5 persone più ricche del mondo.
Nomina le 5 ultime vincitrici del concorso Miss Universo.
Nomina 10 vincitori del premio Nobel.
Nomina i 5 ultimi vincitori del premio Oscar come migliore attore od attrice.
Come va? Male? Non preoccuparti.
Nessuno di noi ricorda i migliori di ieri.
E gli applausi se ne vanno! E i trofei si impolverano!
I vincitori sì dimenticano!

Adesso rispondi a queste altre:
Nomina 3 professori che ti hanno aiutato nella tua formazione.
Nomina 3 amici che ti hanno aiutato in tempi difficili.
Pensa ad alcune persone che ti hanno fatto sentire speciale.
Nomina 5 persone con cui passi volentieri il tuo tempo.

Come va? Meglio? Le persone che segnano la differenza nella tua vita non sono quelle con le migliori credenziali, con molti soldi, o i migliori premi... sono quelle che si preoccupano per te, che si prendono cura di te, quelle che ad ogni modo stanno con te.

Rifletti un momento. La vita è molto corta!
Tu, in che lista sei? Non lo sai?... Permettimi di darti un aiuto...
Non sei tra i famosi,... però sei tra quelli perché il Signore ha voluto che tu fossi mio fratello o mia sorella.

vitaviveresenso della vitaaccettazioneaccettazione di sépositivitàottimismo

5.0/5 (2 voti)

inviato da Claudio Fiorini, inserito il 28/07/2004

RACCONTO

56. Racconto di Natale

Dino Buzzati

Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.

Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.

"Che quantità di Dio!" esclamò sorridendo costui guardandosi intorno, "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale".

"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."

"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"

"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.

Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.

Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.

Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.

"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"

"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."

"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."

E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.

Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

"Ma che cosa fa', reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"

Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."

" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."

"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."

"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."

"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.

Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).

Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"

Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?

Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.

"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."

Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.

"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"

natalecondivisionedonoamore

inviato da Manuel Toniato, inserito il 27/07/2004

TESTO

57. Scendi dalle stelle

Màrai Sàndor, Mennybõl az angyal, 1956, New York, tradotta da Agnes Preszler © 2003

Angelo, scendi dalle stelle, va' a Budapest,
va' veloce, tra rovine bruciate e fredde,
dove tra i carri armati russi tacciono le campane.
Dove non brilla Natale,
non ci sono addobbi sugli alberi,
non c'è altro che freddo, gelo e fame.
Di' a loro che lo sappiano,
parla ad alta voce nella notte,
angelo, porta loro il mistero di Natale.

Sbatti veloce le ali, vola veloce
perché ti aspettano tanto.
Non parlare a loro del mondo,
dove ora a lume di candela
in stanze calde si apparecchia.
Il prete in chiesa usa un linguaggio solenne,
fruscia la carta da regalo,
buoni intenzioni, parole sagge.
Sugli alberi candele romane.
Angelo, parlaci tu di Natale.

Racconta, perché è un miracolo,
che nella notte placida l'albero di natale
di un popolo povero si è acceso
e sono molti a fare il segno della croce.
Il popolo dei continenti lo guarda,
uno lo capisce, l'altro non l'afferra.
Scuotono il capo, è troppo per molti.
Pregano o si inorridiscono:
perché sull'albero non ci sono dolci,
ma l'Ungheria, il Cristo dei popoli.

E le passano tanti davanti;
il soldato che l'ha trafitta;
il fariseo che l'ha venduta;
chi l'ha negata tre volte;
chi, dopo che intinse con lei nel piatto,
l'ha offerta per trenta monete d'argento,
e mentre la insultava e la picchiava,
le beveva sangue e mangiava il corpo.
Ora stanno là tutti a guardare,
ma nessun di loro osa parlarle.

Perché lei non parla più, non accusa,
guarda solo giù dalla croce, come Cristo.
E' strano questo albero di Natale,
chi l'ha portato, l'angelo o il diavolo?
Quelli che tirano a sorte la sua veste,
non sanno quello che fanno,
solo fiutano, sospettano
il mistero di questa notte,
perché questo è un strano Natale,
sull'albero c'è il popolo ungherese.

E il mondo parla di miracolo,
preti predicano coraggio,
l'uomo di stato lo commenta,
lo benedice anche il santo papa.
E gente di ogni tipo e rango,
chiede: a che cosa è servito?
Perché non aspettava in silenzio la fine,
e si estinse come la Sorte volle?
Perché si squarciò il cielo?
Perché un popolo ha detto: Ora basta!

Sono in molti a non capire
che cosa è questa inondazione,
perché si è mosso l'ordine del mondo?
Un popolo ha urlato. Poi fu il silenzio.
Ma ora tanti stanno a chiedere:
di carne ed ossa chi ha fatto legge?
E lo chiedono molti, sempre di più,
perché non lo afferrano proprio
loro che l'hanno avuto in eredità,
ma allora vale tanto la Libertà?

Angelo, porta loro la notizia,
che dal sangue sorge sempre nuova vita.
Si sono già incontrati diverse volte:
il Bambino, l'asino, il pastore.
Nel presepe, nel sogno
quando la Vita ha partorito,
a salvaguardare il miracolo
sono loro con il respiro.
Perché è accesa la Stella, spunta l'aurora
angelo del cielo, porta la notizia.

natale

inviato da Agnes Preszler, inserito il 20/12/2003

TESTO

58. Una giornata del silenzio contro rumori e parole gridate

Vittorino Andreoli, Avvenire, 2 aprile 2002

Il silenzio nel tempo presente è morto, e nessuno sembra disperarsene, avvertirne la perdita. Il silenzio anzi spaventa e lo si cancella al solo pensiero che possa avvolgerci.

Si sente invece il fascino del rumore, di quella presenza continua che forma lo scenario, vero habitat dell'uomo del terzo millennio. La scelta allora non è tra rumore e silenzio, ma tra i mille rumori possibili. Svariate persone ricercano combinazioni multiple: i rumori impuri o la ridda di questi al cui confronto un terremoto apocalittico appare quasi un suono d'arpa.

Nelle discoteche non si ascolta musica, ma il baccano ed inutile è mettere in guardia dai decibel o dal rischio di lesione all'orecchio: il rumore piace. È uno stimolante come una pozione magica. Le spiagge dell'Adriatico gremite d'estate come un formicaio, non rappresentano una condizione del destino, ma una scelta piacevole: uno vicino all'altro, ciascuno dentro i rumori dell'altro: uno scambio di rumori che uniscono gli ombrelloni e fa sentire un'unica famiglia di urlanti.

La montagna era luogo di silenzio con gli spazi infiniti, con la roccia che si continua con il cielo e con l'eterno, ora è un folle concentrarsi di macchine e di corpi lungo le strade, vicino alle auto parcheggiate con le radio accese, le bocche che urlano. A pochi passi di distanza dalla strada non c'è nessuno e quel silenzio sembra sprecato. Si cerca il rumore. L'identità di questa civiltà è il rumore. La civiltà del rumore. Il televisore in casa è sempre acceso. Ci sono persone che non lo spengono nemmeno la notte. Hanno bisogno di quel sottofondo rassicurante e il video ha sostituito persino il sogno, che ormai è fuori di noi e parla degli altri.

Non è più specchio dei nostri segreti interiori, del mistero che bolle in noi. È stato svelato, sostituito meglio, da un rumore.

Gli studenti leggono Aristotele con il rock, per la matematica è preferibile la musica metal. La sinfonica è troppo dolce, occorrerebbe riscriverla sostituendo ai violini i fiati, i tromboni in particolare, e i timpani.

Nelle case ci sono tanti rumori, poche parole e - comunque - silenzio mai. E l'accenno vale per il silenzio fisico, dato dalla mancanza di suoni o rumori che si può rilevare con l'orecchio umano, ma obiettivamente pure con un fonografo. Eppure c'è anche un silenzio interiore, che coincide con il senso di svuotamento del mondo esterno che penetra dentro di noi, e che ci consente di cogliere meglio cosa c'è in noi.

Il silenzio della meditazione: è morto anch'esso. Basta vedere la funzione di un telefono portatile. Uno strumento della sopravvivenza, un oggetto della follia. In treno uno è obbligato a stare fermo, potrebbe pensare, percepirsi, ma non ce la fa e allora chiama qualcuno, non importa chi e perché, importa rompere il silenzio e fare un po' di rumore di cui tutti sono alla fine felici.

Insomma c'è un silenzio fuori di noi, quello del deserto, quando il vento è immobile, o di un canyon sperduto. E c'è un silenzio dentro di noi, che si lega alla pace interiore. L'uno è certamente condizionato dall'altro, ma non in maniera proporzionale: c'è chi sa astrarsi dal mondo, fuggirlo.

Dell'Africa ricordo il silenzio e il buio che non esistono più nella civiltà tecnologica. Anche il buio è parte dell'archeologia: ora c'è sempre una lampadina che illumina. E le stelle hanno perso il proprio fascino. I suoni che rompono il silenzio in Africa sembrano voci del mistero. E anche un coyote parla degli dei che così abitano dentro la testa dell'uomo. Ricordo certe notti nei villaggi d'Africa quando un uomo nella notte si riduceva a due occhi appesi al nulla.

Si è riempiti di rumore fino a non sentire che quel rumore e perdere se stessi, il proprio silenzio. Il mondo dentro di me può esser sopraffatto da quello attorno a me, e il mio silenzio espropriato e ciascun uomo è anche silenzio, forse è soprattutto silenzio.

Io me li ricordo gli esercizi spirituali d'un tempo e li ricordo come silenzio esteriore per sentire qualche voce bambina e qualche balbettio dentro di me. Ma ricordo, più tardi, anche il bisogno di silenzio per pensare, per seguire un percorso di idee, per entrare nel profondo di una meditazione concentrata. Ricordo le passeggiate in montagna, ricordo i monasteri che regalavano silenzio.

Ma c'è - attenzione - una grande differenza tra silenzio e mutismo. Chi è muto non parla all'altro, chi è silenzioso parla a se stesso. Senza silenzio l'uomo è un folle che gira per la strada senza sapere dove va e perché mai si muove. Ha perduto ogni direzione e segue le tracce dei rumori senza sapere da dove provengono, un rumore non ha nulla dentro, è solo rumore, segnale di qualche cosa, ma non di che cosa.

L'uomo del tempo presente è perso dentro i rumori che cerca di tradurre in parole che non hanno più senso. La parola nelle civiltà antiche e nelle culture animiste è forza vitale: dà la forza. È mistero. La parola nella magia agisce: "male dicere" provoca disgrazia, "bene dicere" dà coraggio e felicità. La parola non va mai sprecata. E l'uomo saggio parla poco e vive di silenzio.

Nel cristianesimo la Parola irrompe nella storia e diventa liturgia, quindi crea un contesto sacro. Mentre il mondo lancia raffiche di parole, senza senso, che feriscono o uccidono come obici d'artiglieria pesante.

Si crede che le parole abbiano significato, mentre sono flatus vocis senza una combinazione, che non è quella della sintassi, ma del senso dell'uomo, della esistenza.

La parola come senso, non come rumore. Una parola oggi non ha più storia, non si lega ad un prima, e non è l'incipit per un poi. Si usa la parola che nel momento appare più rumorosa, e può essere antitetica a quella appena usata: si può sempre dire di essere stati fraintesi, così la parola non ha senso o ha tutti i sensi possibili. La parola è rumore. La parola gridata è più efficace. L'oratore è colui che dice tante parole fino a comporre un suono senza senso, ammaliare senza trasmettere nulla.

Il senso dell'uomo e del mondo è nel silenzio che non è vuoto, ma la condizione per un lungo viaggio dentro il proprio esistere e la propria angoscia di esistere, avendo un senso e una coerenza. Il silenzio genera anche la parola che è però pensiero, è intuizione non spot, è colloquio con sé o con il mistero, non un quiz né un quizzone.

Ci sono le malattie del parlare. Da un lato il maniacale che parla continuamente e non sa che cosa dice. Parla a una velocità che è propria dell'articolazione della gola, ma non della mente. Parla a prescindere dalla testa, senza pensare. Dall'altra parte, il depresso, non fa parola perché teme che ogni espressione sia un errore.

Ma c'è anche il silenzio della normalità, di colui che sa quanto sia difficile pronunciare frasi sensate, e quanto sia facile offendere con parole che si penserebbero invece neutre, e allora medita e prende tempo prima di pronunciarsi.

"Non ha la parola pronta": è considerato un difetto mentre può essere il segno della prudenza che è una grandissima virtù.

"È di poche parole": e si crede che abbia bisogno di uno psicologo o di uno psichiatra, mentre si muove dentro i sensi del proprio io, dentro la propria "anima".

L'importante è parlare. Il politico deve parlare e magari non dire niente: fa l'ostruzionismo della parola. Il presentatore deve parlare sempre, per dire semplicemente buona sera e nessuno finisce per coglierlo. Ormai ad abbaiare è l'uomo.

I condomini sono permeabili ai rumori, a quelli del water ma anche alle parole. Le strade sono un massacro di auto e di parole. Le orecchie sono piene di auricolari che portano i rumori del mondo intero, non bastano più quelli della propria dimora o paese: la globalizzazione del rumore e la follia delle parole. Un manicomio assordante.

Arrivo a proporre una giornata del silenzio. Ma forse la specie si estinguerebbe. In una occasione in cui una grande città è stata senza corrente elettrica per due giorni, e quindi hanno perso la parola i televisori e le radio, la gente è impazzita, è entrata in una crisi di astinenza da parole e rumore che aveva espressioni e sintomi peggiori di quella da eroina.

Questa settimana ho preso in mano un settimanale femminile: di 623 pagine. Parole e parole. I giornali ordinano parole senza pensare al senso. Ore di televisione, parole su mille canali. Una follia vociante, parlante. Moriremmo di parole.

Una infinità di parole, senza un pensiero, senza nemmeno l'ombra di un'idea. Il comando è rumore come quei potenti che credono di essere forti se lanciano bombe o missili che distruggono. O come quei gaudenti che si riempiono il ventre di piacere e scoprono di essere vivi solo dalle flatulenze: flatus vocis. Anche le preghiere sono troppo rumorose e troppo vocianti: penso a san Francesco che, alla Porziuncola, dice: Signore non so dire nulla se non ba ba ba. Il mio silenzio - a questo punto lo ammetto - è ancora più confuso perché non ho ancora trovato il mio interlocutore nel cielo. Forse è tempo di cercarlo nel silenzio e forse nel silenzio si sentono parole di "vita eterna". Il dolore parla solo nel silenzio il resto è telenovela. La fatica non ha parole. Ho bisogno di silenzio per sentire quel vuoto che si può riempire di quiete.

Così terminano, almeno per un po', anche le mie parole su "Avvenire". Ho iniziato dicendo che scrivevo per cercare, ora ho voglia di silenzio, devo cercare ancora ma senza fare rumore. Voglio dare ai miei lettori un po' di silenzio che auguro sia silenzio di pace.

silenziointerioritàrumoredeserto

inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003

TESTO

59. Il fascino sinistro della guerra

L'Azione, Settimanale della Diocesi di Vittorio Veneto

Re, imperatori e principi hanno sempre preferito mostrarsi in pubblico in divisa militare con relative medaglie. La divisa militare ha sempre esercitato una grande attrattiva su chi ha in mano il potere. È sempre stata presentata come simbolo di coraggio, eroismo e grandezza. Un'ininterrotta tradizione ha esaltato la guerra come il luogo privilegiato dell'eroismo. La nostra psicologia, in primo luogo la psicologia maschile, è stata plasmata da una martellante retorica di esaltazione della guerra. Dobbiamo riconoscere: la guerra ci affascina. Ci fa paura, ma anche ci attrae.

Rimaniamo incollati sulle pagine di un libro o davanti ad uno schermo che narri imprese belliche o comunque azioni nelle quali si usino armi, ci sia violenza, sangue. Fin da bambini, il gioco preferito dai maschi è stata la guerra.

In realtà la guerra è l'azione più disumana che possa esistere, nonostante abbia accompagnato tutta la storia dell'umanità. Bisogna togliere lo splendore di gloria che la circonda. È vero, in guerra ci giochiamo la vita, che è tutto quello che abbiamo, ma la mettiamo in gioco contro un'altra vita uguale alla nostra. Allora il coraggio perde la sua aureola di virtù e diventa l'atto più brutto che una persona possa compiere. La virtù della fortezza è una delle virtù fondamentali (cardinali), ma è virtù solamente se è per la vita, per superare gli ostacoli che impediscono la vita, quando invece è usata per togliere la vita, non può più essere chiamata virtù.

Ma, si dice, la guerra non è solo violenza, può essere fatta per grandi ideali, come la difesa del suolo patrio, la conquista della libertà, la salvezza del proprio popolo, la salvaguardia dei diritti e via declamando.

Il guaio è che tutte le guerre sono sempre state dichiarate in nome di grandi ideali. Non c'è guerra che non sia stata dichiarata giusta, e doppiamente giusta: da una parte e dall'altra dei due schieramenti che si stanno sgozzando. Chi va ad uccidere o a morire in guerra, va convinto o è incitato a convincersi, che sta facendo la cosa più giusta e nobile del mondo. Anche i soldati di Hitler erano sicuri di battersi per una grande
causa.

Questa costante giustificazione di ogni guerra rende dubbio il fatto che ci siano guerre degne e nobili; è invece il segno che lo scatenamento di una guerra è sempre accompagnato da un'opera di mistificazione, di inganno più o meno consapevole. Perciò la cosa più sicura è opporsi ad essa con tutti i mezzi. E poi, qualunque sia la causa per cui ci si batte, la guerra resta sempre morte inflitta ad altre persone, sofferenza indicibile, sangue versato come quello che pulsa nelle mie vene.

E se guardiamo alle guerre moderne, quelle combattute con armi tecnologicamente perfette e di potere distruttivo immane, allora anche le più alte ragioni scompaiono del tutto. Questa guerra non è più l'uccisione del nemico che mi sta davanti e che tenta in tutti i modi di eliminarmi. Non c'è più l'alternativa: uccido per primo altrimenti lui uccide me. Le guerre combattute con queste armi comportano prevalentemente l'uccisione di civili, gente innocua, indifesa, in preda al terrore, mentre chi compie queste azioni corre di solito minimi pericoli. I bombardamenti a tappeto delle grandi città, compiuti nell'ambito della Seconda Guerra mondiale che più giusta di così non si poteva pensare, dove tutto veniva distrutto, sistematicamente, senza distinzione; peggio ancora, lo sganciamento della bomba atomica sopra città, che in un batter d'occhio, senza lasciar scampo, spazza via tutto, queste azioni mai sono giustificabili.

Anche la guerra incombente sull'Iraq sarà di questo tipo. Ci vengono mostrate armi bellissime, gioielli di tecnologia, perfette nel loro funzionamento, perfino intelligenti: non lasciamoci incantare, sono semplicemente strumenti di morte; servono per straziare corpi, provocare urla di dolore in persone come noi. Se scoppia la guerra, ci mostreranno le meraviglie di queste macchine in azione, parleranno di obiettivi raggiunti, missione compiute con successo. Non lasciamoci ammaliare dallo spettacolo esaltante. È tutt'altra cosa: è morte, dolore, sofferenza.

Quanto sarebbe salutare se ciascuno di noi facesse questo esercizio di purificazione psicologica strappando via i paludamenti gloriosi con cui siamo stati abituati a rivestire la guerra per guardarla nella sua orrenda realtà. Il mostro così privato dei suoi galloni, delle sue medaglie luccicanti, delle sue armature splendenti, dei suoi stendardi, si mostrerebbe in tutta la sua ripugnante bruttezza e ci riuscirebbe così più facile tenerlo lontano da noi.

guerrapaceviolenzaforzaconflittimorteeroismofortezzacoraggio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 07/03/2003

TESTO

60. Un altro natale è possibile   2

Alex Zanotelli

Un altro Natale è possibile: ci può essere ancora un Buon Natale!

Con il Natale la vita vince nonostante tutto. Ogni bimbo che nasce è il segno che Dio non si è ancora stancato dell'umanità (Tagore).

Viola, la perla bianca di Chiara nata nel cuore della ricca Brianza ha davanti a sé ottanta anni di vita (se tutto va bene) e una dote iniziale di 25.000 euro.

Njeri, la perla nera di Rachele, nata nella baracca di Korogocho ha davanti a sé quaranta anni di vita (se tutto fila liscio) e una dote inziale di soli 250 euro.

Due mondi, due bimbe, divise da un invisibile muro di vetro. La prima, Viola, fa parte del 20% dell'umanità che si "pappa" l'83% delle risorse mondiali. La seconda, Njeri, fa parte dell'oltre un miliardo di "esuberi umani" che devono accontentarsi dell' 1,4% delle risorse, costretti a vivere con meno di 1 dollaro al giorno: sono gli innocenti di cui si rinnova la strage oggi: e Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché essi non ci sono più.

Milioni di bimbi muoiono di fame, malattie, aids: un bimbo muore di fame ogni due secondi, 11 milioni ne muoiono all'anno per malattie meno gravi di un raffreddore, centinaia di milioni non inizieranno neanche la prima elementare.

Due mondi, due Natali. Il nostro è il Natale dell'opulenza, delle luci, dei regali del consumismo degli affari. E' un business senza fine, è uno shopping anche di domenica. Questo sfavillio di luci natalizie sembra un meraviglioso "acquario" in cui guizzano costosissimi pesciolini esotici. A scrutarlo centinaia di milioni di bimbi dal volto scuro che guardano affascinati l'acquoso ed esotico luccichio. Fino a quando la parete di vetro proteggerà il banchetto degli esotici pesciolini?

Per assicurarci che la parete di vetro sia davvero infrangibile e ci protegga eternamente da quei visi sognanti di bimbi affascinati noi investiamo somme astronomiche in armi: Usa ed Europa nel 2003 programmano di spendere 750 miliardi di dollari.

Un altro Natale non solo è possibile ma è urgente e necessario! Boicottiamo il Natale dei pesciolini esotici: il Natale dei consumi, dei regali, degli affari, un Natale "pagano" che ha ben poco da spartire con quel Bimbo che nasce in una mangiatoia alla periferia dell'impero, fuori dell'acquario anche lui indistinguibile volto nero in mezzo agli altri volti scuri.

Diciamo no al consumismo vieppiù indotto e incentivato e diciamo sì alla festa natalizia della famiglia allargata a nonni, cugini, zii, nipoti ma anche alla famiglia dell'immigrato che lavora per noi o che ci è più vicino.

Diciamo no al decadente e ripetitivo tango di regali, e diciamo sì ad un consumo critico, al regalo fatto in casa con amore e con le proprie mani, o a quello equo e solidale di lavoro fatto "in dignità".

Diciamo no alla stupida pervasività televisiva e diciamo sì alle relazioni umane in famiglia, ritornando a raccontarci gioie e dolori e a riprendere confidenza con l'immaginario, la fiaba prendendo a cuore anche la bellezza del celebrare insieme il fascino del Natale.

Diciamo no alla violenza e alla guerra e diciamolo con fierezza, e diciamo sì alla pace e alla nonviolenza con evidenza mettendo bandiere arcobaleno ai nostri balconi e camminando con uno "straccetto bianco di pace". Solo così il Natale ritornerà ad essere la festa della vita che farà rifiorire la speranza di un altro mondo possibile.

Coraggio, dunque, ci può ancora essere un Buon Natale!

Natalesolidarietàgiustiziaingiustiziasfruttamentomondialitàricchezzapovertàpaceguerraarmi

inviato da Viola, inserito il 29/01/2003

TESTO

61. Vuoi onorare il corpo di Cristo?   2

San Giovanni Crisostomo

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".

Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.

Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.

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inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002

TESTO

62. Decalogo di Assisi   2

Giovanni Paolo II, Lettera a tutti i Capi di Stato e di Governo del mondo e Decalogo di Assisi per la Pace (24 gennaio 2002)

1. Noi ci impegniamo a proclamare la nostra ferma convinzione che violenza e terrorismo s'oppongono al vero spirito religioso, condannando ogni ricorso alla guerra e alla violenza in nome di Dio o della religione; noi ci impegniamo a fare tutto il possibile per sradicare le cause del terrorismo.

2. Noi ci impegniamo ad educare le persone al rispetto e alla stima reciproca, affinché si possa giungere ad una coesistenza pacifica e solidale tra membri d'etnie, culture e religioni diverse.

3. Noi ci impegniamo a promuovere la cultura del dialogo, in modo da sviluppare la comprensione e la fiducia reciproche tra gli individui e tra i popoli, perché queste sono le condizioni di una pace autentica.

4. Noi ci impegniamo a difendere il diritto di ogni persona umana ad una esistenza degna, conforme alla sua identità culturale e a costituire liberamente una famiglia che le sia propria.

5. Noi ci impegniamo a dialogare con sincerità e pazienza, non considerando come un muro invalicabile ciò che ci separa ma, al contrario, riconoscendo che il confronto con la diversità degli altri può divenire occasione di una più grande comprensione reciproca.

6. Noi ci impegniamo a perdonarci reciprocamente gli errori e i pregiudizi passati e presenti e sostenerci nello sforzo comune per vincere l'egoismo e l'abuso, l'odio e la violenza, e per imparare dal passato che la pace senza giustizia non è una pace autentica.

7. Noi ci impegniamo ad essere dalla parte di coloro che soffrono la miseria e l'abbandono facendoci voce dei senza voce e lavorando concretamente per superare tali situazioni, convinti che nessuno può essere felice da solo.

8. Noi ci impegniamo a far nostro il grido di chi non si rassegna alla violenza e al male e desideriamo contribuire con tutte le nostre forze a dare all'umanità del nostro tempo una reale speranza di giustizia e di pace.

9. Noi ci impegniamo ad incoraggiare ogni iniziativa per l'amicizia tra i popoli, convinti che se manca una solida intesa tra i popoli, il progresso tecnologico espone il mondo a dei rischi crescenti di distruzione e di morte.

10. Noi ci impegniamo a chiedere ai responsabili delle nazioni di fare tutti gli sforzi possibili perché, a livello nazionale e internazionale, sia costruito e consolidato un mondo di solidarietà e di pace fondata sulla giustizia.

pacetolleranzadialogomulticulturalitàgiustiziaingiustiziacomunione tra i popoli

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Lorenzo Corradini, inserito il 11/12/2002

TESTO

63. Che dite che io sia? (Mt 16,15)

Madre Teresa di Calcutta

Chi è Gesù per me?
Gesù è il Verbo fatto uomo.
Gesù è il pane della vita.
Gesù è la vittima offerta
per i nostri peccati sulla croce.
Gesù è il sacrificio offerto per i miei
e per i peccati del mondo.
Gesù è la parola che va proclamata.
Gesù è la verità, che deve essere narrata.
Gesù è la vita, che deve essere percorsa.
Gesù è la luce, che deve essere fatta splendere.
Gesù è la vita, che deve essere vissuta.
Gesù è l'amore, che deve essere amato.

Gesù è la gioia, che deve essere condivisa.
Gesù è il sacrificio, che deve essere offerto.
Gesù è la pace, che deve essere data.
Gesù è il pane della vita, che deve essere mangiato.
Gesù è l'affamato, che deve essere nutrito.
Gesù è l'assetato, che deve essere dissetato.
Gesù è l'ignudo, che deve essere rivestito.
Gesù è il senza tetto, che deve essere ospitato.
Gesù è il malato, che deve essere sanato.
Gesù è l'uomo solo, che deve essere consolato.
Gesù è il non voluto, che deve essere voluto. Gesù è il lebbroso, che deve essere lavato nelle sue ferite.
Gesù è il mendicante, che deve essere gratificato di un sorriso.
Gesù è l'ubriaco, che bisogna ascoltare .
Gesù è il malato di mente che bisogna proteggere.
Gesù è il piccolo che bisogna abbracciare.
Gesù è il cieco, che bisogna guidare.
Gesù è il muto, cui bisogna parlare.
Gesù è lo zoppo, con cui bisogna camminare.
Gesù è il drogato, che bisogna aiutare.
Gesù è la prostituta, da sottrarre al pericolo e da sostenere.
Gesù è il prigioniero, che bisogna visitare.
Gesù è il vecchio, che deve essere servito.

Per me
Gesù è il mio Dio
Gesù è il mio sposo
Gesù è la mia vita
Gesù è il mio solo amore
Gesù è il mio tutto di tutto.
La mia pienezza.

Gesù,
ecco chi amo con tutto il cuore,
con tutto il mio essere.
Gli ho dato tutto,
persino i miei peccati.
E lui m'ha sposata a se stesso.
In tenerezza e amore.
Ora e per la vita.
Sono al sposa del mio sposo crocifisso.
Amen.

Gesù Cristocaritàamoresolidarietàtestimonianza

inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 07/12/2002

TESTO

64. San Paolo, non un pazzo qualsiasi

Scout d'Europa, Foggia 2

Vi sono solo due notizie di dominio pubblico su san Paolo.
Uno: è caduto da cavallo.

Due: le sue lettere (tre volte su quattro la seconda lettura domenicale) sono incomprensibili. Beh, almeno difficili.

Fino a poco tempo fa anch'io la pensavo così: Paolo di Tarso? Pessimo cavallerizzo e criptico scrittore. Ora ho qualche notizia in più su costui. Per esempio so che era pazzo.

Non una comune follia, ma una follia lucida, rigorosamente logica e metodica. Era un ebreo. Colto. Ricco. Rispettato. Discendeva dall'elite d'Israele, aveva cultura e autorità: tutte le carte in regola per fare carriera. In effetti, la stava facendo. Stava sterminando una setta giudaica per conto della gerarchia di Gerusalemme, e questo era un ottimo trampolino di lancio. Poi Paolo di Tarso impazzisce. Molla tutto e si mette con quelli che stava catturando. Matto. Completamente andato.

Eppure Paolo ci credeva a quello che faceva. Ci credeva più di tutti gli altri ebrei. Forse ci credeva troppo. Insomma, non è molto simpatico quando inizi a incatenare tutti quelli che la pensano un po' diversamente da te. Il fatto che Paolo sia passato proprio alla fazione opposta ci dice una cosa importante: e cioè che Paolo non era un fossile. Certo, aveva delle idee, e ci teneva parecchio. Ma si lasciava interrogare dai fatti. E, a costo di venire apostrofato "traditore" e "voltabandiera" sapeva cambiare. Anche se questo andava contro il sistema. Era un tipo dinamico, e quando qualcuno gli ha aperto gli occhi sulla realtà non ha avuto paura di dire: "Ok, ragazzi, si cambia registro. Ho fatto qualche errore, ma non rinnego il mio passato. Io sono io, ma adesso che so ho il dovere di agire di conseguenza". Detto fatto.

Paolo ha o non ha avuto una visione sulla strada di Damasco? E' caduto da cavallo? Ha davvero sentito la voce di Gesù che gli parlava? O è solo un genere letterario, una metafora per dire che Paolo ha fatto il salto di qualità?
A dire il vero, non è molto importante.
L'importante sono i fatti.

Quali sono i fatti? Il primo fatto è la pazzia di Paolo: abbia visto o meno il Signore, è fuori discussione che con lui aveva un rapporto intimissimo. I loro pensieri coincidevano, e poiché Dio la pensa un po' diversamente dall'uomo, Paolo parve un pazzo agli occhi di moltissimi.

Paolo si faceva dei grandi viaggi. Materialmente, intendo dire. Per portare quell'annuncio sconvolgente che gli aveva scardinato la vita girò tutto il mondo conosciuto allora. Dall'Oriente all'Occidente, mai stanco, sempre avanti, sempre, attraverso tutte le difficoltà. Viaggiare non era una cosa di piacere, allora. Significava muoversi per lo più a piedi, a cavallo, con carovane, navi. Itinerari lunghi, difficili, sotto un cielo straniero, ma sempre con un motore spirituale a farlo andare avanti. "Non sono ancora giunto abbastanza lontano. C'è ancora gente afflitta ed oppressa che attende una parola di liberazione". San Paolo non va in vacanza, non si prende periodi di riposi, perché se lo facesse... ah! Guai a lui! Sa qual è il compito della sua vita.

Predica in tutti i modi possibili. Non si accontenta di andare di persona nelle città, come gli altri apostoli, ma scrive. Scrive lettere per le comunità che ha cresciuto, aiutato. Sono lettere bellissime, piene di fuoco, di passione, di fervore. Paolo si tiene sempre informato di come stanno i suoi, li sorregge, li conforta. Chiarisce i loro dubbi, li guida con dolcezza. Ma se c'è qualcosa che non funziona, va giù dritto. Ha le idee chiare. Dice sempre quello che pensa, senza guardare in faccia nessuno. Non si lascia zittire dalle minacce. Oh, perché di minacce ne ha avute: dava fastidio a troppa gente in alto. Ma la sua testardaggine non si piegava alle bastonate, ed il suo ardore non si spegneva nemmeno nelle carceri. Non scendeva a compromessi neppure a costo della propria vita.
Paolo è pazzo.
E' pazzo perché è un innovatore.

E' pazzo perché sfida tutte le mentalità del tempo. Paolo ha una mentalità aperta, ha viaggiato, conosce gli uomini. In un mondo di discriminazioni razziali e tra i sessi annuncia che non c'è differenza tra uomo e donna, tra schiavo e padrone, tra ebrei e pagani, che tutti sono uguali, tutti figli di Dio, tutti amati. Paolo fa saltare tutte le caste ed i sistemi di catalogazione degli uomini. Porta un messaggio di tolleranza, anzi di più: un messaggio di amore per tutti gli uomini. "Se non ho l'Amore non sono nulla". Avanti, sempre. Farsi tutto a tutti. Tendere la mano. Proporre e non imporre.

San Paolo è pazzo. Vive di ideali grandi, che sembrano quasi utopie. Sono utopie? Chissà. Ma sempre meglio che razzolare nella mediocrità. Le persone con la vista corta non arrivano lontano. Sopravvivono, ma non Vivono veramente.
Paolo è pazzo.

Ma sono questi pazzi che costruiscono il mondo nuovo.

San Paoloconversionecoerenzamissioneevangelizzazioneapostoli

inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/11/2002

RACCONTO

65. La volpe e l'amicizia

Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe

In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui! " disse la voce, "sotto al melo...".

"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino...".
"Sono la volpe" disse la volpe.

"Vieni a giocare con me!", le propose il piccolo principe, "sono così triste...".

"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! Scusa" fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire 'addomesticare'?".

"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?".
"Cerco gli uomini" disse il piccolo principe.

"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso! Allevano anche le galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?".

"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare"'".

"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...".
"Creare dei legami?".

"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te e neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro.

Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe (...).

"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana come una musica. E poi, guarda! Vedi laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...".

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse.

"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".

"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!".
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.

"In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...".
Il piccolo principe ritornò l'indomani.

"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti".
"Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe.

"Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe.

"E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza...".

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "piangerò".

"La colpa è tua", disse il piccolo principe. "Io non ti volevo fare del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...".
"E' vero" disse la volpe.
"Ma piangerai", disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"

"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei sola è più importante di tutte voi, perché è lei che io ho annaffiato, perché è lei che ho riparato col paravento, perché su di lei ho ucciso i bruchi, perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere, perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse.

"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: si vede bene solo col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".

amiciziaamorelegami

5.0/5 (1 voto)

inviato da Marianna, inserito il 25/11/2002

TESTO

66. Quel catino di acqua sporca   1

don Giuseppe Salvioni

Accanto al fonte della vita nuova, la Pasqua ci consegna anche un catino d'acqua sporca. ne ha fatto uso il maestro e nessuno ancora lo ha tolto dalla a tavola curandosi di svuotarlo. I discepoli intimoriti, tornando al cenacolo, si sono abbracciati attorno a questa icona del servizio lasciandola lì nel bel mezzo delle loro incerte discussioni.

Anche noi potremmo immaginare quel recipiente sul nostro altare tra le tovaglie ben stirate, i fiori freschi e il cero pasquale: è la memoria dell'ultimo gesto stravagante del nostro giovane Rabbi.

Quando mi domando come sia possibile far innamorare un giovane a Gesù Cristo mi viene in mente la reliquia del catino...

Quel catino è la freschezza di un uomo che quando è a tavola non ce lo si può trattenere seduto a lungo. L'ultima cena non si è risolta nell'ultima abbuffata: quell'Eucarestia ha nutrito i cuori ma non ha appesantito i corpi perché Gesù si è alzato per lavare i piedi come un servo. Il catino con l'acqua sporca ci invita chiaramente a metterci scomodi prendendoci cura degli altri senza indugiare alla "tavola delle lunghe discussioni", senza intrattenerci in quei festeggiamenti dello "stiamo bene tra noi" che odorano di tradimento.

Solo chi è scattante e sa alzarsi da tavola impara a lasciare il posto ad altri, ai più giovani perché è convinto che di pane ce n'è per tutti.

Quel catino è la scioltezza e l'equilibrio di mani allenate ad accarezzare. Ad uno ad uno tutti i piedi dei discepoli hanno provato il ristoro di quel tratto di cui solo l'artista che li ha plasmati è capace. Un corpo agile e disinvolto quello del maestro abituato a nutrire di intelligenza le sue parole ma anche di armoniosa sapienza i suoi movimenti.

Questo equilibrio ci vuole nel chinarsi e rialzarsi senza rovesciare a terra il contenuto di quella bacinella. Il catino con l'acqua sporca ci racconta di poche parole e di tanti piccoli gesti precisi e geniali... insomma un bene fatto bene senza le lentezze e gli appesantimenti delle abitudini. Solo chi è allenato alla scioltezza e alla fermezza dell'amore incondizionato impara ad accarezzare senza trattenere, a ristorare senza possedere... in una danza gioiosa fatta di genuflessioni e umili abbracci.

Quel catino è il coraggio di smascherare la propria bellezza. Sotto la crosta polverosa della sporcizia Gesù ha ridato vigore e candore ai piedi dei suoi messaggeri. Il Cristo ha confermato ad uno ad uno i suoi lavandone i piedi. Il catino con l'acqua sporca ci risveglia alla straordinaria potenza del perdono che non fa conto dell'inadeguatezza ma riporta il cuore allo splendore originario.

Solo chi guarda in faccia all'acqua sporca smette di giudicare e ritrova quel coraggio che non confonde. Solo chi vede il maestro piegato sui propri piedi non ha più dubbi.

La paura di sbagliare non è l'ultima parola, perché ciò che da bellezza è il perdono e l'accoglienza.

Spesso i ragazzi che crescono accanto a noi mettono a fuoco domande, slanci, dubbi, provocazioni... forse ci invitano ad essere una comunità di discepoli che va per il mondo col catino in mano.

serviziocaritàamoremaestrogiovedì santolavanda dei piedi

inviato da Mariangela Molari, inserito il 25/11/2002

RACCONTO

67. Ciò che il mare racconta di Dio

Dio è un mistero. Noi possiamo solo cercare di farcene un'immagine. Giovanni di Ruysbroek, quando pensava a Dio, pensava al mare.

Giovanni vive in Olanda, un paese piatto, piatto. Uomini pacifici coltivano i campi. Giovanni, però, vuole vivere solo per Dio e perciò abbandona la compagnia degli uomini e cerca la solitudine.

Per essere soli bisogna abitare vicino al mare, perché nessuno vuole vivere accanto alle dighe. Lì soffia sempre un forte vento e a volte onde alte scavalcano le barriere delle dighe. Proprio lì Giovanni si è ritirato per abitare in una semplicissima capanna.

La gente si meraviglia. A volte qualcuno viene a visitarlo e gli chiede: "Giovanni, ma che cosa fai da queste parti?". "Io cerco Dio e qui gli sono molto vicino, qui mi riesce facile pensare a lui" risponde.

"Noi pensiamo a Dio quando siamo in chiesa, lì abbiamo delle immagini di lui".
"Anch'io ho un'immagine di lui" dice Giovanni.
"Dov'è? Faccela vedere!".

Giovanni li conduce sulla diga. Il mare è calmo e si stende senza confine.

"Guardate, questa è la mia immagine di Dio: così è il Padre, infinitamente grande come questo mare!".

La gente rimane per molto tempo in silenzio. "Certo, lo vediamo - dice uno -, ma noi abbiamo anche immagini di Gesù; un artista le ha dipinte da poco sulla parete della nostra chiesa". "Se vi fermate fino a stasera, vi farò vedere la mia immagine di Gesù".

Dopo queste parole Giovanni si ritira nella sua capanna. I bambini giocano sulla spiaggia, gli adulti chiacchierano tra di loro. Però i loro sguardi si rivolgono continuamente verso il mare, verso il grande oceano.

La sera tutti vogliono entrare nella capanna di Giovanni. "Dov'è l'immagine di Gesù?".

Giovanni li porta di nuovo con sé allo stesso posto. Il mare è cambiato, è diventato irrequieto. È l'ora dell'alta marea e le onde salgono sempre di più. Una dopo l'altra, battono contro la diga, si accavallano, si infrangono e ritornano formando una bianca schiuma. Le dighe non sono chiuse completamente e l'acqua può entrare dappertutto e inondare la terra. Presto all'intorno tutto è coperto d'acqua.

Giovanni dice: "Adesso il mare non è più lontano. L'immenso oceano ha mandato le sue onde e l'acqua è entrata dappertutto. Anche Dio è così. Il Padre manda il Figlio. Questi bussa dappertutto e va alla ricerca di tutti".

Questa è un'immagine che la gente capisce. Sì, è proprio così; Gesù ha trovato la strada per venire incontro a ciascuno. Un grande silenzio si diffonde tra la folla.

Solo uno vuole porre un'ultima domanda: "Giovanni, possiedi anche un'immagine dello Spirito Santo?".

Giovanni sorride, perché proprio in quel momento l'acqua ha cominciato a muoversi di nuovo. I flutti che inondano la spiaggia cominciano a ritirarsi pian piano.

"Guardate che cosa succede adesso! Il mare torna indietro. E guardate, esso porta con sé foglie, legna, erba. Tutto viene afferrato dal mare e portato via, riportato nell'immenso mare. E questa è l'opera dello Spirito Santo. Ci afferra, ci porta con sé, ci riporta al Padre".

Tutto ritorna a Dio. Anche le persone che sono morte sono con lui.

Trinitàrapporto con DioDio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002

RACCONTO

68. La meravigliosa storia dell'elefante   1

Un tempo antico in un paese dell'Arabia regnava il califfo Omar, ricco e benvoluto perché era saggio. Era di larghe vedute e non si arrestava all'apparenza delle cose. Prima di esprimere dei giudizi si sforzava sempre di comprendere le relazioni e i legami che ci sono tra i fatti anche se a prima vista potevano apparire isolati e diversi. Egli era perciò rattristato per la grettezza di spirito dei suoi ministri che non vedevano più in là del loro naso.

"Va in giro per il mio regno" disse un giorno il califfo ad un servo fidato "e trova, se ti riesce, tutti gli uomini sfortunati dalla nascita che non hanno mai potuto vedere e che non hanno mai sentito parlare degli elefanti".

Il servo fedele eseguì l'ordine e dopo qualche tempo ritornò con alcuni ciechi fin dalla nascita. Essi erano cresciuti sperduti in piccoli villaggi tra le montagne perciò degli elefanti non avevano mai sentito parlare e non ne supponevano nemmeno l'esistenza. Il califfo fece un gran ricevimento con tutti i suoi ministri e alla fine del banchetto fece entrare un grosso elefante da una porta di bronzo e i ciechi da un'altra porta più piccola.

"Mi sapreste dire che cosa è un elefante?" chiese il califfo ai ciechi.
"No, mai sentita questa parola", risposero i ciechi.

"Ebbene, davanti a voi c'è un elefante: toccatelo, cercate di comprendere di che cosa si tratta. Colui che darà la risposta esatta riceverà in premio 100 monete d'oro".

I ciechi si affollarono intorno all'animale e cominciarono a toccarlo con attenzione soffermandosi sulle sensazioni che ricevevano. Un cieco stava lisciando da cima a fondo una zampa, la pelle dura e rugosa gli sembrava pietra e la forma era di un lungo e grosso cilindro. "L'elefante è una colonna!" esclamò soddisfatto.

"No, è una tromba!" disse il cieco che aveva toccato solo la proboscide.

"Niente affatto, è una corda!" esclamò il cieco che aveva toccato la coda.

"Ma no, è un grosso ventaglio" ribattè chi aveva toccato l'orecchio.

"Vi sbagliate tutti: è un grosso pallone gonfiato!" urlò il cieco che aveva toccato la pancia.

Tra loro c'era il più grande scompiglio e disaccordo perché ciascuno, pur toccando soltanto una parte credeva di conoscere l'intero elefante.

Il califfo, soddisfatto, si rivolse ai suoi ministri: "Chi non si sforza di avere della realtà una visione più ampia possibile, ma si accontenta degli aspetti separati e parziali senza metterli in relazione tra loro, si comporta come questi ciechi. Egli potrà conoscere a fondo tutte le righe della zampa dell'elefante, ma non vedrà mai l'animale intero, anzi, non saprà mai che esiste un siffatto animale".

apparenzalarghezza di vedutenon giudicaregiudizio

4.7/5 (3 voti)

inviato da Furetto, inserito il 23/11/2002

RACCONTO

69. Una banconota da 50 euro   1

Giorgio, con la faccia triste e abbattuta, si ritrova con la sua amica Linda in un bar per prendere un caffè. Depresso, scarica su di lei tutte le sue preoccupazioni... e il lavoro... e i soldi... e i rapporti con la ragazza... e la vocazione!...

Tutto sembra andar male nella sua vita. Linda introduce la mano nella borsa, prende un banconota da 50 euro e gli dice: "Vuoi questo biglietto?". Giorgio, all'inizio un po' confuso, gli rispondi: "Certo Linda... sono 50 euro, chi non li vorrebbe?".

Allora Linda prende il biglietto in una mano e lo stringe forte fino a farlo diventare una piccola pallina. Mostrando, poi, la pallina accartocciata a Giorgio, gli chiede di nuovo: "E adesso, lo vuoi ancora?". "Linda, che vuoi dire, continuano ad essere 50 euro. Certo che lo prendo, se me lo dai".

Linda spiegò il biglietto, lo gettò a terra e lo stropicciò ulteriormente con il piede, lo sporcò, lo segnò e riprendendolo chiese ancora: "Continui a volerlo?".

"Ascolta Linda, dove vuoi arrivare? Un biglietto da 50 euro resta tale e finché non lo rompi, conserva il suo valore".

"Caro Giorgio, devi sapere che anche se a volte qualcosa non riesce come vuoi, anche se la vita ti piega o ti accartoccia, continui a essere tanto importante come lo sei sempre stato. Ciò che devi chiederti è quanto vali in realtà e non quanto puoi essere abbattuto in un particolare momento."

Giorgio guardò Linda senza dire una parola. Linda mise il biglietto spiegazzato vicino a Giorgio, sul tavolo, e con un sorriso disse: "Prendilo, così da ricordare questo momento... però mi devi un biglietto nuovo da 50 euro che forse dovrò usarlo con il prossimo amico che ne abbia bisogno". Gli diede un bacio e si allontanò.
Giorgio guardò il biglietto, sorrise, lo guardò ancora, chiamò il cameriere per pagare il conto.

Quante volte dubitiamo del nostro valore? Certo non basta il solo proposito... Si richiede azione ed esistono molte strade da seguire.

Rispondi a queste domande:
1 - Nomina le 5 persone più ricche del mondo.
2 - Nomina le 5 ultime vincitrici del concorso Miss Universo.
3 - Nomina 10 vincitori del premio Nobel.
4 - Nomina i 5 ultimi vincitori del premio Oscar come miglior attore o attrice.
Come va? Male? Non preoccuparti. Nessuno di noi ricorda i migliori di ieri. E gli applausi se ne vanno! E i trofei s'impolverano! E i vincitori si dimenticano!

Adesso rispondi a queste:
1 - Nomina 3 professori che ti hanno aiutato nella tua formazione.
2 - Nomina 3 amici che ti hanno aiutato in tempi difficili.
3 - Pensa ad alcune persone che ti hanno fatto sentire speciale.
4 - Nomina 5 persone con cui passi il tuo tempo.
Come va? Meglio? Le persone che segnano la differenza nella tua vita non sono quelle con le migliori credenziali, con molti soldi o i migliori premi... Sono quelle che si preoccupano per te, che si prendono cura di te, quelle che ad ogni modo stanno con te.



vitafuturosperanzaottimismofiducia in se stessiesterioritàinterioritàvalorescopertaaccettazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 29/08/2002

RACCONTO

70. Lo spaventapasseri   3

Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua, Elledici

Una volta un cardellino fu ferito a un'ala da un cacciatore. Per qualche tempo riuscì a sopravvivere con quello che trovava per terra. Poi, terribile e gelido, arrivò l'inverno.

Un freddo mattino, cercando qualcosa da mettere nel becco, il cardellino si posò su uno spaventapasseri. Era uno spaventapasseri molto distinto, grande amico di gazze, cornacchie e volatili vari.

Aveva il corpo di paglia infagottato in un vecchio abito da cerimonia; la testa era una grossa zucca arancione; i denti erano fatti con granelli di mais; per naso aveva una carota e due noci per occhi.

"Che ti capita, cardellino?", chiese lo spaventapasseri, gentile come sempre.

"Va male. - sospirò il cardellino - Il freddo mi sta uccidendo e non ho un rifugio. Per non parlare del cibo. Penso che non rivedrò la primavera".

"Non aver paura. Rifugiati qui sotto la giacca. La mia paglia è asciutta e calda".

Così il cardellino trovò una casa nel cuore di paglia dello spaventapasseri. Restava il problema del cibo. Era sempre più difficile per il cardellino trovare bacche o semi. Un giorno in cui tutto rabbrividiva sotto il velo gelido della brina, lo spaventapasseri disse dolcemente al cardellino.

"Cardellino, mangia i miei denti: sono ottimi granelli di mais".
"Ma tu resterai senza bocca".
"Sembrerò molto più saggio".

Lo spaventapasseri rimase senza bocca, ma era contento che il suo piccolo amico vivesse. E gli sorrideva con gli occhi di noce.
Dopo qualche giorno fu la volta del naso di carota.

"Mangialo. E' ricco di vitamine", diceva lo spaventapasseri al cardellino.

Toccò poi alle noci che servivano da occhi. "Mi basteranno i tuoi racconti", diceva lui.

Infine lo spaventapasseri offrì al cardellino anche la zucca che gli faceva da testa.

Quando arrivò la primavera, lo spaventapasseri non c'era più. Ma il cardellino era vivo e spiccò il volo nel cielo azzurro.

"Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo" (Matteo 26,26).

amoredonaresacrificioaltruismoeucaristiadono di sé

inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002

ESPERIENZA

71. La messa si fa missione

padre Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione

Ad un giovane medico indiano, induista e profondamente religioso, venne offerta una borsa di studio per l'università di Roma: avrebbe potuto specializzarsi in chirurgia. Nella sua città non c'era nessun chirurgo. Egli ne fu felicissimo, evidentemente per la specializzazione, ma anche per un motivo religioso: avrebbe incontrato persone di altre religioni e avrebbe potuto pregare con loro. E' una nota culturale ed eclettica comune agli Indù. Per loro tutte le religioni sono ugualmente valide e tutte, per vie diverse, portano allo stesso fine. Nessuna religione può pretendere di essere l'unica vera e di conseguenza non ha senso convertirsi da una all'altra. La pensava così anche Gandhi, che ammirava Cristo e fece proprio il discorso della montagna, ma non pensò mai di divenire cristiano e condannò l'opera dei missionari cattolici. Si legge in un libro indù: "Il cristiano non deve diventare un indù, né un buddista. Un indù, o un buddista, non deve diventare un cristiano. Ognuno deve assimilare lo spirito altrui e conservare nel tempo stesso la propria individualità" (Vivekananda).

Durante il viaggio il nostro medico entrò nelle moschee e pregò con i musulmani. Incontrò gli ebrei e volle pregare con loro nelle sinagoghe. A Roma, si riprometteva di pregare anche con i cristiani. Non conosceva nulla del cristianesimo. Aveva intuito solo che i cristiani a volte si radunano in edifici particolarmente belli, per pregare insieme.

Fu così che una domenica si unì alla folla che entrava in S. Andrea della Valle. Era per la Messa, ma lui non la conosceva: era unicamente animato da una grande attenzione per poter pregare con i cristiani. Ad un certo momento vide tutti frugare nelle tasche e offrire del denaro, mentre una processione si mosse dal fondo della chiesa: venivano portati dei pani e dei vasi, che il sacerdote accolse ed elevò sull'altare con somma dignità. Pensò: "Si vede che i cristiani, quando pregano, donano qualche cosa".

Non aveva portato nulla con sé. Si sentì indotto a supplire con una preghiera: "Signore, lavorerò per i poveri".

Ora diventato chirurgo, è nella sua città natale, Madras, ed è il primario dell'ospedale. E' famoso per questo: non si concede tempo libero, e dopo il normale turno quotidiano si attarda ancora nel suo studio per ricevere i poveri, e li riceve gratuitamente!

Lo Spirito Santo aveva trovato la via aperta per comunicarsi a lui e ispirargli il dono di sé.

Questo medico insegna la partecipazione: a Messa non si va "come estranei o muti spettatori" (Sacrosanctum Concilium 47). Ma soprattutto insegna che la Messa si proietta sulla vita. Il medico induista non fu più quello di prima: quella Messa lo fece missionario dell'amore.

La Messa ci fa "sacrificio a Dio gradito", cioè persone nuove, toccate da Lui. La Messa ci ha chiamati, ci ha trasformati e ci invia. Messa e vita; Messa e missione, dunque!

L'esperienza dell'Eucarestia non si chiude alle spalle con le porte della chiesa dopo la celebrazione, ma "va'" in tutto il mondo. Ci è stato detto: "La Messa è finita". Il suo genuino significato è: "La Messa non è finita". "Si scioglie l'assemblea perché ognuno torni alle sue occupazioni lodando e benedicendo Dio".

La carica eucaristica è tale che riscopre il suo vero nome: missione.

E' la missione della pace, come suggerisce l'augurio liturgico: "andate in pace!".

EucaristiamissionetestimonianzasacrificioMessaoffertorio

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inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

72. L'albero generoso   1

Shel Silverstein

C'era una volta un albero che amava un bambi­no. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni. Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arram­picava sul suo tronco e dondolava attaccato ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti e poi, insieme, giocava­no a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all'ombra dell'albero, mentre le fronde gli cantava­no la ninna-nanna. Il bambino amava l'albero con tutto il suo picco­lo cuore. E l'albero era felice. Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l'albero rimane­va spesso solo. Un giorno il bambino venne a vedere l'albero e l'albero gli disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi su­gli alberi e per giocare», disse il bambino. «Io vo­glio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace», rispose l'albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va' a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice». Allora il bambino si arrampicò sull'albero, rac­colse tutti i frutti e li portò via. E l'albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritor­nare... E l'albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l'albero tremò di gioia e disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampi­carmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa. Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa», disse l'albero. «La mia ca­sa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e cotruirti una casa. Allora sarai felice». Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per co­struirsi una casa. E l'albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando tornò, l'albero era così felice che riusciva a mala­pena a parlare. «Avvicinati, bambino mio», mormorò, «vieni a giocare».

­Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare» disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l'albero. ­«Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una bar­ca per fuggire. E l'albero fu felice..., ma non del tutto.
Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l'albero «ma non resta più niente da donarti... Non ho più frutti».
«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.
«Non ho più rami». continuò l'albero «non puoi più dondolarti».
«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami», disse il bambino.
«Non ho più il tronco», disse l'albero. «Non puoi più arrampicarti».
«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.
«Sono desolato», sospirò l'albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa... ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto...».
«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».
«Ebbene», disse l'albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuo­le per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».
Così fece il bambino.
E l'albero fu felice.

gratuitàgratitudinesacrificio

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inviato da Luca Mazzocco, inserito il 08/06/2002

TESTO

73. Le cose che ho imparato nella vita   1

Paulo Coelho

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. E per questo, bisognerà che tu la perdoni.

Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.

Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.

Che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.

Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.

Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.

Che la pazienza richiede molta pratica.

Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.

Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.

Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.

Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.

Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.

Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.

Forse Dio vuole che incontriamo un po' di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così quando finalmente la incontriamo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.

Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

La miglior specie d'amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire un parola, e quando vai via senti come se è stata la miglior conversazione mai avuta.

E' vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.

Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un'ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole un vita per dimenticarlo.

Non cercare le apparenze, possono ingannare.

Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante un giornataccia.

Trova quello che fa sorridere il tuo cuore. Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!

Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.

Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.

Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.

Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.

La felicità è ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l'importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.

L'amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un thé.

Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.

Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride e ognuno intorno a te pianga.

vitaprogettosperanzaottimismo

inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002

TESTO

74. Grande silenzio

Antica Omelia sul Sabato Santo

Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato e ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi.

Certo egli va a cercare il primo padre, come la pecorella smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva che si trovano in prigione.

Il Signore entrò da loro portando le armi vittoriose della croce. Appena Adamo, il progenitore, lo vide, percuotendosi il petto per la meraviglia, gridò a tutti e disse: «Sia con tutti il mio Signore». E Cristo rispondendo disse ad Adamo: «E con il tuo spirito». E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: «Svegliati, tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà.

Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine, ora parlo e nella mia potenza ordino a coloro che erano in carcere: Uscite! A coloro che erano nelle tenebre: Siate illuminati! A coloro che erano morti: Risorgete! A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effigie, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura.

Per te io, tuo Dio, mi sono fatto tuo figlio. Per te io, il Signore, ho rivestito la tua natura di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono venuto sulla terra e al di sotto della terra. Per te uomo ho condiviso la debolezza umana, ma poi son diventato libero tra i morti. Per te, che sei uscito dal giardino del paradiso terrestre, sono stato tradito in un giardino e dato in mano ai Giudei, e in un giardino sono stato messo in croce. Guarda sulla mia faccia gli sputi che io ricevetti per te, per poterti restituire a quel primo soffio vitale. Guarda sulle mie guance gli schiaffi, sopportati per rifare a mia immagine la tua bellezza perduta.

Guarda sul mio dorso la flagellazione subita per liberare le tue spalle dal peso dei tuoi peccati.

Guarda le mie mani inchiodate al legno per te, che un tempo avevi malamente allungato la tua mano all'albero. Morii sulla croce e la lancia penetrò nel mio costato, per te che ti addormentasti nel paradiso e facesti uscire Eva dal tuo fianco. Il mio sonno ti libererà dal sonno dell'inferno. La mia lancia trattenne la lancia che si era rivolta contro di te.

Sorgi, allontaniamoci di qui. Il nemico ti fece uscire dalla terra del paradiso. Io invece non ti rimetto più in quel giardino, ma ti colloco sul trono celeste. Ti fu proibito di toccare la pianta simbolica della vita, ma io, che sono la vita, ti comunico quello che sono. Ho posto dei cherubini che come servi ti custodissero. Ora faccio sì che i cherubini ti adorino quasi come Dio, anche se non sei Dio.

Il trono celeste è pronto, pronti e agli ordini sono i portatori, la sala è allestita, la mensa apparecchiata, l'eterna dimora è addobbata, i forzieri aperti. In altre parole, è preparato per te dai secoli eterni il regno dei cieli.»

redenzionesalvezzapasquasabato santo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

75. Il monaco e la brocca

dagli Apoftegmi dei Padri del deserto

C'era un monaco che viveva da parecchi anni in un monastero: giovane esuberante e facoltoso, aveva lasciato ogni cosa per diventare santo.

Prima aveva le mani come l'avorio, ora incallite come le squame dei coccodrilli; prima il suo volto era liscio e rasato, la sua capigliatura lucida di unguenti, la sua toga adorna di fermagli d'argento: ora, tosato come una pecora, portava sotto la tonaca un duro cilicio. Aveva sì domato la carne, ma una passione ancora resisteva tenace: la tendenza ad adirarsi.

Se un fratello nel mietere lasciava indietro una spiga, subito gli strappava di mano la falce con gesto iracondo. Se al vicino di stallo sfuggiva una nota falsa nel coro, arrotava i denti e gli allungava una gomitata.

Un giorno si presentò all'Abate: "Padre - gli disse - ben vedo che non sono fatto per vivere con i fratelli: trovo in loro continue occasioni di peccato. Io mi figuravo che i monaci fossero tutti perfetti, invece mi sono d'inciampo. Mi ritirerò nel deserto, al di là del fiume. Laggiù, solo con Dio, non avrò più occasione di adirarmi". E trascurando gli ammonimenti dell'Abate, prese con sé una brocca per attingere acqua dal fiume e se ne partì.

Sdraiato sulla tiepida arena, dormì il più bel sonno di vita sua. Poi cantò i suoi dodici salmi senza una nota stonata, e pregò con fervore. Com'era quieto e felice in quella solitudine, in quel silenzio!

Ora occorreva andare al fiume per attingere acqua. Andò e tornò, salmeggiando quasi come in estasi. Ma - che è che non è - la brocca si rovesciò, e giù tutta l'acqua a correre per l'arena. "Pazienza!" disse il monaco, e rifece la via andata e ritorno, quieto come l'olio, meditando sulla morte.

Posò a terra la brocca, e di nuovo quella gli sfuggì di mano. Vi rimase un po' di umidore, ma dentro neppure una goccia. "Maledizione! Cos'è mai questo? Il diavolo mi vuole tentare. Orsù, pazienza!". Trafelato, riprende la via, attinge e fa ritorno. E la brocca rotola a terra una terza volta. "Maledetta sii tu! Vattene al diavolo!". Una pedata furiosa e la brocca va in cento pezzi.

Sferra calci ai frantumi, e solleva un polverone di sabbia. Il povero giovane ha capito, e torna piangendo al monastero. "Padre mio, mea culpa!" dice all'Abate. "Ho rotto la brocca a furia di calci: ecco qua i cocci. La causa delle mie collere non è la compagnia dei fratelli: il nemico (e si picchiava il petto) è qui dentro".

male nel cuorepeccatoira

inserito il 08/05/2002

RACCONTO

76. La formica n. 49.783.511

Un formicaio ai piedi di un vecchio abete. Milioni di formiche nere corrono senza sosta, perfettamente organizzate. Sezione trasporto aghi e foglie; sezione ricerca semi, insetti, larve; sezione allevamento e cura piccoli; comitato difesa dagli assalti...

Un giorno la formica n. 49.783.511 si fermò. Ansimando s'appoggiò al lungo ago che stava trascinando e alzò lo sguardo. Si sentiva svenire... abituata a scansare i fili d'erba, i sassolini, i bruchi, ora i suoi occhi si smarrivano nell'azzurro immenso del cielo, il cuore le scoppiava d'emozione guardando il grande tronco, i rami ordinati, il verde brillante.

"N. 49.783.511 - gridò il capo settore - gli altri sgobbano e tu poltrisci! T'assegno un quarto d'ora supplementare!".

La sera la formica n. 49.783.511 fece il recupero di lavoro. Poi mentre tutte s'infilavano nelle tane, restò fuori e scoprì le stelle. Un incanto!

Tutta la notte ebbe gli occhi pieni di luce. Da allora i turni supplementari aumentavano, ma lei non si preoccupava. Diceva a tutti: "Alzate gli occhi. c'è qualcosa di grande sopra di noi, non possiamo portare solo larve e semi. Non avete mai guardato nemmeno l'abete!".

La prendevano in giro: "Tu guardi e guardi, ma come riempiamo le riserve di cibo? Chi ripara la casa quando piove?".

La formica n. 49.783.511 lavorava, s'impegnava, rendeva bello il suo formicaio. Ma brontolavano lo stesso: "Se guardare il cielo fosse utile, dovresti essere più brava di noi, invece sei anche tu come noi. Le stelle non servono a niente".

Che volete, per capire che cos'è guardare il cielo bisogna provare, spiegare non si può.

Hai mai provato a spiegare la preghiera? C'è sempre un tizio pieno di "saggezza", che ti risponde: "uomo n. 789.451.331 smettila. Bisogna studiare, lavorare, produrre; fare sport per mantenersi sani; bisogna cambiare il mondo, avere mentalità scientifica; bisogna divertirsi, essere moderni...".

Il formicaio umano va avanti. Io credo d'essere importante perché porto aghi d'abete, o rivoluzionario perché faccio confusione.
E non ho il coraggio di guardare il cielo.

senso della vitaricerca di sensovitastuporeinteriorità

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

TESTO

77. Voi siete un miracolo   1

Leo Buscaglia, Vivere amare capirsi

Abbiamo paura di vivere la vita, e perciò non facciamo esperienze, non vediamo. Non sentiamo. Non rischiamo! Non prendiamo a cuore nulla! Non viviamo... perché la vita significa essere coinvolti attivamente. Vivere significa sporcarvi le mani. Vivere significa buttarvi con coraggio. Vivere significa cadere e sbattere il muso. Vivere significa andare al di là di voi stessi... tra le stelle!

Ma dovete decidere voi, per voi stessi. "Cosa significa per me la vita?" Sono convinto che se ogni giorno dedicassimo a pensare alla vita e a vivere e ad amare lo stesso tempo... no, un quarto del tempo che dedichiamo a preparare i pasti, saremmo incredibili!

Ma la vita ha un modo meraviglioso per risolvere questo problema. Per me è sempre affascinante perché, quando la vita non viene vissuta, esplode in noi. E' come cercare di bloccare il coperchio di una pentola che bolle. Succederà qualcosa, ne sono convinto. Finirete per piombare nella paura, nella sofferenza, nella solitudine, nella paranoia o nell'apatia. Tutti segni del fatto che non state vivendo! Quindi, se avvertite uno di questi sintomi, rimboccatevi le maniche e dite: "Ora devo vivere". Nell'attimo in cui incominciate a lasciarvi coinvolgere nella vita, il vapore fuoriesce, e siete salvi. Non è facile: ma la vita ci fa sapere che deve essere vissuta. Meraviglioso!

Perché c'è la morte? Io non so perché c'è la morte. Perché c'è la sofferenza? Vorrei che non ci fosse, ma non so perché c'è. Se passassi la vita a cercare le risposte a questi interrogativi, non vivrei mai.

Però a quelli che vengono da me dico che so qualcosa della vita. C'è una cosa chiamata gioia, perché io l'ho provata. E c'è una cosa chiamata follia meravigliosa, perché l'ho vissuta. E so che c'è una cosa chiamata amore perché ho amato. E so che c'è una cosa chiamata estasi perché ho conosciuto l'estasi. E so anche - perché ho conosciuto gente che ne ha fatto l'esperienza - che c'è una cosa chiamata rapimento. Oh, mi piace questa parola, "rapimento"! Cercate il rapimento! Mi rifiuto di morire fino a quando non avrò imparato che cos'è!

Perché uno si comporti così, bisogna che faccia molte scelte. Una delle più importanti è "scegliere se stesso".
Scegliete voi stessi.

Finitela di odiarvi. Finitela di buttarvi giù. Abbracciatevi e dite: "Sai, va bene così! Starai perdendo i capelli, ma sei tutto ciò che ho!".

Quando vi riconciliate con le vostre debolezze, ce l'avete fatta! Non sono enormi, sono soltanto una piccola parte di voi.

Dovete scegliere voi stessi. Sono sicuro che coloro che si tolgono la vita, che non vivono, sono soprattutto coloro che non hanno rispetto per se stessi. Non so quando è stata l'ultima volta che qualcuno ha detto questo, ma voglio sottolinearlo: Voi siete un miracolo.

senso della vitaricerca di sensosuicidiomortevitaprogettostuporeaccettazione di séottimismosperanza

inviato da Emilio Centomo, inserito il 05/05/2002

TESTO

78. Decalogo del buon marito   2

Per essere un bravo papà... devi essere prima un buon marito: ecco il decalogo di un buon marito:

1. Esaminati seriamente: se tra queste qualità ce n'è una che ti appartiene (aggressivo, arrogante, autoritario, bugiardo, contestatore, egoista, impulsivo, prepotente, schiavizzante o violento) non saresti un buon marito; per esserlo dovresti subito riqualificarti.

2. Non essere prevenuto contro tua moglie; credile, stimala ed amala coma la creatura più amabile, non ti è stata donata dal caso, ma te la sei scelta coma la migliore compagna della tua vita.

3. Se tua moglie ti sembra non più quella di prima, esaminati bene con gran sincerità: forse tu sei cambiato.

4. Sei capofamiglia: ti deve interessare il benessere fisico, morale e spirituale di tua moglie, come fosse il tuo e dei tuoi figli; non permettere dunque che si sovraccarichi di lavoro e responsabilità. Condividi con lei tutti gli oneri della casa e quando te lo chiedesse anche quelli di sua specifica competenza.

5. Il legame matrimoniale è sacro per cui non puoi permettere che neppure l'ombra del sospetto venga a offuscare la tua fedeltà. Dinanzi a tuoi eventuali sbagli, comportati umilmente nel riconoscerli: il miglior modo per essere da lei perdonato è chiedergliene scusa.

6. Nell'educazione dei figli ambedue avete pari diritti e doveri; ma se capisci che in qualcosa lei ha più disposizioni di te, cedile umilmente la preferenza.

7. Nella gestione economica della casa ricorda che la donna è quasi sempre più capace dell'uomo. Ha bisogno però della tua fiducia.

8. Non cedere mai alla rabbia tentando di correggerla con violenza. La donna non va percossa neppure con un fiore. Nelle discussioni non rimettere in ballo il passato i cui errori vanno seppelliti nel dimenticatoio.

9. Non ti permettere di umiliare tua moglie in presenza di estranei o dei figli: guasteresti tutto e forse per sempre.

10. Non essere avaro di gesti di tenerezza anche in pubblico: una carezza o un piccolo dono è capace di farle dimenticare mille torti.

famigliacoppiafigligenitorimatrimoniopapàmarito

inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 03/05/2002

TESTO

79. Lirica del Capo

Quando dopo un'uscita faticosa ed impegnativa rifletti sui risultati ottenuti non indugiare, non aspettare: inginocchiati e ringrazia Dio per ciò che ti ha permesso di vivere e sperimentare, prega per i tuoi ragazzi, per le loro speranze i loro sogni e le loro sofferenze.

Quando ti sembra di aver dato il massimo della tua intelligenza, competenza, disponibilità e creatività, non dimenticare di donare senza limiti entusiasmo gioia e amore.

Quando accetti di essere un capo, ricordati di accettare un capo sopra di te.

Quando fai coraggiosa proposta di vita in cui credi, vivila intensamente con tutta la tua generosità.

Quando un problema ti assilla, la tristezza sta per avere il sopravvento, la paura ti assale, non fuggire nel frastuono delle parole o nella polverizzazione di mille esperienze, taci e nel silenzio della solitudine, ascolta.

Quando ti accorgi di ripetere esperienze già fatte, discorsi orecchiati, attività già vissute, impara a sognare: proiezione per il futuro.

Quando ti senti soddisfatto per ciò che hai fatto e ciò che sei riuscito ad ottenere non voltarti e non attendere: riparti subito.

Quando sai imporre le tue idee con chiarezza e determinazione, con dialettica e convinzione, rifletti e medita con serietà sulle idee e proposte contrarie alle tue.

Quando un ragazzo ti parla, non sottovalutare mai la ricchezza del dialogo e dell'incontro, anche il più banale.

Quando hai la sensazione che tutto vada bene, che non ci siano problemi, che ciò che hai fatto e che fai è giusto, sappi che sei fuori strada, qualcosa non va sei tu.

Quando capisci che la tua presenza è inutile, la tua strada coi ragazzi l'hai percorsa, ciò che dovevi dire l'hai detto, sappi salutare e senza voltarti riprendere il tuo zaino per continuare il tuo cammino da solo. Incontrerai altra gente da aiutare, da ascoltare, da amare, per ricevere il dono più grosso che Dio ci ha dato in questa vita: l'amore che è felicità.

Quando credi di sapere già, di conoscere tutto, di non aver bisogno degli altri, non fare il capo. Meglio la tua incertezza, la tua titubanza, la tua modestia, ostinatamente orientate verso la ricerca della verità.

Quando ti poni degli obiettivi educativi, cercali sempre nel profondo del tuo cuore ed illuminali con la ricchezza della tua intelligenza.

Quando le cose non vanno, quando tutto ti sembra crollarti addosso, quando ti viene voglia di mandare tutto all'aria, non disperare, tieni duro, non piegarti in ginocchio se non per pregare.

Quando ti accorgerai che gioie e dolori dei tuoi ragazzi ti interrogano continuamente e ti fanno gioire e soffrire, con loro ringrazia Dio per questo dono immenso che ti ha dato.

Quando sei un capo, non cessare mai di meravigliarti e di stupirti sempre di tutto e di tutti. Allena il tuo occhio, la tua mente ed il tuo cuore a scoprire, anche nelle cose vecchie, quelle nuove che le circostanze diverse mettono in evidenza, per cogliere il bello e l'inedito di ogni istante.

Quando la tua presenza offusca o adombra qualcuno o qualcosa, sforzati di essere trasparente tu stesso ed allora la luce passerà senza riflessi.

Quando... lascia che la Grazia di Dio riempia i vuoti che inevitabilmente tu lasci.

scouteducare

5.0/5 (1 voto)

inviato da Maria Vitali, inserito il 30/04/2002

PREGHIERA

80. Amare - La preghiera dell'adolescente   2

Michel Quoist, Preghiere

Signore, vorrei amare, ho bisogno d'amare.
Tutto il mio essere non è che desiderio:
il mio cuore, il mio corpo,
si protendono nella notte verso uno sconosciuto da amare.

Le mie braccia brancicano nell'aria verso uno sconosciuto da amare.
Sono solo mentre vorrei essere due.
Parlo e nessuno è presente ad ascoltarmi.
Vivo e nessuno coglie la mia vita.

Perché essere così ricco e non aver nessuno da arricchire?
Donde viene quest'amore? Dove va?
Vorrei amare, Signore,
ho bisogno d'amare.

Ecco stasera, Signore, tutto il mio amore inutilizzato.

Ascolta, mio caro,
fermati,
fai, in silenzio, un lungo pellegrinaggio fino in fondo al tuo cuore.

Cammina lungo il tuo amore nuovo,
così come si risale un ruscello per scoprirne la sorgente.
E al termine, laggiù in fondo, nell'infinito mistero della tua
anima turbata, Mi incontrerai,
perché io mi chiamo Amore piccolo,
ed Io non sono altro che Amore, da sempre,
E l'amore è in te.

Io ti ho fatto per amare, per amare eternamente.
Ed il tuo amore sarà un altro te stesso.

Lei sta cercando;
Rassicurati, è già sulla tua strada,
In cammino da sempre,
Sulla strada del Mio Amore.

Bisogna aspettare il suo passaggio,
lei si avvicina,
tu ti avvicini,
vi riconoscerete,
perché Io ho fatto il suo corpo per te,
ho creato il tuo per lei,
ho fatto il tuo cuore per lei, ho creato il suo per te,
e voi vi state ricercando nella notte,
nella mia notte che diventerà luce
se voi avrete fiducia in Me.

Conservati per lei, piccolo mio,
come lei si conserva per te.
Io vi custodirò l'uno per l'altra,
e, giacché hai fame d'amore,
ho posto sul tuo cammino tutti i tuoi fratelli da amare.

Credimi, è un lungo tirocinio l'amore,
e non vi sono diverse specie di amore:
amare, vuol sempre solo dire abbandonare se stessi
per darsi agli altri...

Signore, aiutami a dimenticarmi per gli uomini miei fratelli,
perché dando me stesso impari ad amare.

amoresessualitàamareaffettività

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 26/04/2002

TESTO

81. Amami come sei (versione lunga)   2

Mons. Lebrun

Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le deficienze e le infermità del tuo corpo; so la tua viltà, i tuoi peccati, e ti dico lo stesso: Dammi il tuo cuore, amami come sei...

Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non amerai mai. Anche se sei vile nella pratica della virtù e del dovere, se ricadi spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto di non amarmi. Amami come sei.

In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nell'infedeltà, amami... come sei... voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai.

Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Non sono io l'Onnipotente? E se mi piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore?

Figlio mio, lascia che ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo trasformarti, ma per ora ti amo come sei... e desidero che tu faccia lo stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore. Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: Gesù ti amo.

Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua scienza, né del tuo talento. Una cosa sola mi importa, di vederti lavorare con amore.

Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò persino il poco che hai... perché ti ho creato soltanto per l'amore.

Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re! Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allargare la tua miseria; se tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, moriresti di dolore. Ciò che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di fiducia.

Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che tu faccia anche l'azione più insignificante soltanto per amore. Conto su di te per darmi gioia...

Non ti preoccupare di non possedere virtù; ti darò le mie. Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l'amore, ti darò di poter amare al di là di quanto puoi sognare...
Ma ricordati... Amami come sei...

Ti ho dato mia Madre: fa passare, fa passare tutto dal suo Cuore così puro.

Qualunque cosa accade, non aspettare di essere santo per abbandonarti all'amore, non mi ameresti mai... Va...

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accettazione di séamare Dioamore di Dio

4.0/5 (2 voti)

inviato da Sara D'Erasmo, inserito il 26/04/2002

TESTO

82. Ti voglio per amico   2

Padre Zezhino

Ti voglio per amico
ed è importante per me che tu lo sappia.
Però, anche se tu non lo sapessi e non ti interessasse saperlo,
ti vorrei bene lo stesso!
Non ti voglio bene per me, ti voglio bene per te!
Non sei una persona che voglio possedere,
sei una persona che voglio vedere sbocciare ogni giorno di più.
Se avrai tempo per me, sarò felice di stare insieme a te.
Se sarai occupato e non mi vorrai accanto, cercherò di capire.
Se cercherai il mio tempo, farò in modo di sbrigarmi,
perché immagino che non mi cercheresti senza una ragione:
per me la tua ragione sarà sempre importante.
Se vuoi piangere, ti offro le mie spalle.
Se vuoi urlare contro il mondo ti offro la mia voce,
se vuoi sorridere, ci sarò anch'io a sorridere con te.
Se vuoi pace e silenzio, cercherò di parlare, ma non troppo.
Se per caso cercherai di vedere in me l'unico amico che hai,
cercherò di farti trovare altri amici,
perché non potrei mai darti tutto ciò di cui hai bisogno.
Non voglio essere il tuo unico amico,
sembra bello, però non ti fa bene.
Hai bisogno di altri, come io ne ho bisogno.
Se si spegnerà la tua luce, prendi la mia.
Se la tua pace se ne va, ci sarà ancora la mia, prendila pure.
Se la tua fede si farà confusa, credi con me: in due si crede meglio.
Se avrai paura, uniamo le nostre paure,
forse troveremo il coraggio di vivere.
Allora non ti prometto di non deluderti mai!
Sai che sono umano e perciò posso sbagliare.
Non ti prometto di amarti come vuoi essere amato!
Non ti prometto niente di più che cercare di essere vicino a te e camminare insieme.
Voglio essere il tuo compagno, il tuo amico, il tuo fratello,
senza la presunzione di essere la tua unica forza.
Guardami negli occhi e cerca di immaginarmi come un ponte:
non devi restare in me, devi passare attraverso di me,
perché io sono tuo amico, perché sono tua strada verso l'Infinito,
perché sono il ponte che ti porta all'al di là,
e se non riuscissi a portarti più vicino a Dio,
non sarei stato un vero amico.
Ti voglio per amico.
Pensa a me come a un ponte nel tempo,
dopo di me troverai il vero amico: Dio.
Mi vuoi?

amicizia

inviato da Antonella Muscatello, inserito il 11/04/2002

TESTO

83. Quanto mi hai fatto soffrire, Chiesa, eppure...   4

Carlo Carretto

Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!
Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo!
Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza.
Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità!
Nulla ho visto al mondo di più oscurantista, più compresso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello.
Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porte della mia anima, quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure.

No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te.
E poi, dove andrei?
A costruirne un'altra?
Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo.
Sono abbastanza vecchio per capire che non sono migliore degli altri.

L'altro ieri un amico ha scritto una lettera ad un giornale: "Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi, non è più credibile". Mi fa pena!
O è un sentimentale che non ha esperienza, e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri.
Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra...
La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo.

Forse che la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse che la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?
Quando Paolo arrivò a Gerusalemme portando nel cuore la sua sete di universalità, forse che i discorsi di Giacomo sul prepuzio da tagliare o la debolezza di Pietro che si attardava con i ricchi di allora e che dava lo scandalo di pranzare solo con i puri, poterono dargli dei dubbi sulla veridicità della Chiesa, che Cristo aveva fondato fresca fresca, e fargli venire la voglia di andarne a fondare un'altra ad Antiochia o a Tarso?
Forse che a Santa Caterina da Siena, vedendo il Papa che faceva una sporca politica contro la sua città, poteva saltare in capo l'idea di andare sulle colline senesi, trasparenti come il cielo, e fare un'altra Chiesa più trasparente di quella di Roma cosi spessa, così piena di peccati e così politicante?

...La Chiesa ha il potere di darmi la santità ed è fatta tutta quanta, dal primo all'ultimo, di soli peccatori, e che peccatori!
Ha la fede onnipotente e invincibile di rinnovare il mistero eucaristico, ed è composta di uomini deboli che brancolano nel buio e che si battono ogni giorno contro la tentazione di perdere la fede.
Porta un messaggio di pura trasparenza ed è incarnata in una pasta sporca, come è sporco il mondo.
Parla della dolcezza dei Maestro, della sua non-violenza, e nella storia ha mandato eserciti a sbudellare infedeli e torturare eresiarchi.
Trasmette un messaggio di evangelica povertà, e non fa' che cercare denaro e alleanze con i potenti.

Coloro che sognano cose diverse da questa realtà non fanno che perdere tempo e ricominciare sempre da capo. E in più dimostrano di non aver capito l'uomo.

Perché quello è l'uomo, proprio come lo vede visibile la Chiesa, nella sua cattiveria e nello stesso tempo nel suo coraggio invincibile che la fede in Cristo gli ha dato e la carità dei Cristo gli fa vivere.
Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo Papa- Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che avere fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nella umiltà e nella coscienza della propria fragilità.

No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una roccia così debole, perché ne fonderei un'altra su una pietra ancora più debole che sono io.

...E se le minacce sono così numerose e la violenza del castigo così grande, più numerose sono le parole d'amore e più grande è la sua misericordia. Direi proprio, pensando alla Chiesa e alla mia povera anima, che Dio è più grande della nostra debolezza.

E poi cosa contano le pietre? Ciò che conta è la promessa di Cristo, ciò che conta è il cemento che unisce le pietre, che è lo Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo è capace di fare la Chiesa con delle pietre mai tagliate come siamo noi!...
E il mistero sta qui.
Questo impasto di bene e di male, di grandezza e di miseria, di santità e di peccato che è la Chiesa, in fondo sono io...

Ognuno di noi può sentire con tremore e con infinito gaudio che ciò che passa nel rapporto Dio-Chiesa è qualcosa che ci appartiene nell'intimo.
In ciascuno di noi si ripercuotono le minacce e la dolcezza con cui Dio tratta il suo popolo di Israele, la Chiesa. A Ognuno di noi Dio dice come alla Chiesa: "Io ti farò mia sposa per sempre" (Osea 2, 21), ma nello stesso tempo ci ricorda la nostra realtà: "La tua impurità è come la ruggine. Ho cercato di toglierla, fatica sprecata! E' così abbondante che non va via nemmeno col fuoco" (Ezechiele 24, 12).

Ma poi c'è ancora un'altra cosa che forse è più bella. Lo Spirito Santo, che è l'Amore, è capace di vederci santi, immacolati, belli, anche se vestiti da mascalzoni e adulteri.

Il perdono di Dio, quando ci tocca, fa diventare trasparente Zaccheo, il pubblicano, e immacolata la Maddalena, la peccatrice.

E' come se il male non avesse potuto toccare la profondità più intima dell'uomo. E' come se l'Amore avesse impedito di lasciar imputridire l'anima lontana dall'amore.

"Io ho buttato i tuoi peccati dietro le mie spalle", dice Dio a ciascuno di noi nel perdono, e continua: "Ti ho amato di amore eterno; per questo ti ho riservato la mia bontà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine Israele" (Geremia 3 1, 3-4).

Ecco, ci chiama "vergini" anche quando siamo di ritorno dall'ennesima prostituzione nel corpo, nello spirito e nel cuore.
In questo, Dio è veramente Dio, cioè l'unico capace di fare le "cose nuove".
Perché non m'importa che Lui faccia i cieli e la terra nuovi, è più necessario che faccia "nuovi" i nostri cuori.
E questo è il lavoro di Cristo.
E questo è l'ambiente divino della Chiesa...

chiesacomunitàpeccatopapato

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002