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PREGHIERA
Michel Quoist, Preghiere, Editrice Marietti
Bisogna saper dire grazie. Le nostre giornate sono ricche di doni che il Signore ci fa. Se sapessimo esaminarli e farne l'inventario, alla sera saremmo sorpresi e raggianti per tanti beni ricevuti. Saremmo allora riconoscenti dinanzi a Dio, fiduciosi perché ci dona tutto, gioiosi perché sappiamo che ogni giorno rinnova i suoi doni.
Tutto è dono di Dio, anche le più piccole cose, ed è l'insieme di questi doni che forma una vita, bella o cupa, secondo il modo in cui uno se ne serve.
Grazie, Signore. Grazie.
Grazie per tutti i regali che Tu mi hai offerti oggi,
Grazie per tutto quello che ho veduto, sentito, ricevuto.
Grazie per l'acqua che mi ha svegliato, per il sapone profumato e il dentifricio fresco.
Grazie per i vestiti che mi proteggono, per il loro colore ed il loro taglio.
Grazie per il giornale fedele all'appuntamento, per le sue storielle, sorriso del mattino,
per le riunioni serie che si succedono, la giustizia resa e la partita vinta.
Grazie per i servizi della nettezza urbana e per chi li svolge,
per le loro grida mattutine e per i rumori della strada che si sveglia.
Grazie per il mio lavoro, i miei strumenti, i miei sforzi.
Grazie per il metallo fra le mie mani, per il suo lungo lamento sotto l'acciaio che lo morde, per lo sguardo soddisfatto del caporeparto e per il carrello dei pezzi finiti.
Grazie per Giacomo che m'ha prestato la sua lima, Daniele che m'ha dato una sigaretta, Carlo che m'ha tenuto la porta.
Grazie per la strada accogliente che mi ha portato, per le vetrine dei negozi, per le vetture, per i passanti, per tutta la vita che scorreva rapida fra i muri delle case.
Grazie per il cibo che mi ha sostenuto,
per il bicchiere di birra che nel pomeriggio mi ha dissetato.
Grazie per la moto che docilmente m'ha condotto ove desideravo,
per la benzina che l'ha fatta correre, per il vento che mi ha accarezzato il viso
e per gli alberi che mi hanno salutato al passaggio.
Grazie per le ragazze che ho incontrato,
per il rossetto di Graziella dalla tinta delicata,
per la permanente di Michelina, che dà risalto al suo viso,
per la smorfia d'Anna Maria e la sua risata che distende.
Grazie per il bimbo che ho guardato giocare sul marciapiede di fronte,
Grazie per i suoi pattini a rotelle e per l'aria strana che aveva quand'è caduto.
Grazie per i saluti che mi hanno rivolto, per le strette di mano che ho dato,
per i sorrisi che mi hanno offerto.
Grazie per la mamma che mi accoglie a casa,
per il suo affetto discreto, per la sua silenziosa presenza.
Grazie per il tetto che mi ripara, per la luce che mi rischiara,
per la radio che canta.
Grazie per il giornale-radio e per tutti i programmi.
Grazie per il mazzo di fiori, piccolo capolavoro sul mio tavolo.
Grazie per la notte quieta.
Grazie per le stelle.
Grazie per il silenzio.
Grazie per il tempo che Tu mi hai dato.
Grazie per la vita.
Grazie per la grazia.
Grazie d'essere qui, o Signore.
Grazie di ascoltarmi, di prendermi sul serio,
di ricevere nelle Tue mani il fascio dei miei doni per offrirli al Padre Tuo.
Grazie, o Signore, Grazie.
ringraziamentopreghieravita quotidianagraziegratitudine
inviato da Paolo Capuzzo, inserito il 11/02/2022
TESTO
Chiara Lubich, Hanno sloggiato Gesù
S'avvicina Natale e le vie della città s'ammantano di luci.
Una fila interminabile di negozi, una ricchezza senza fine, ma esorbitante. A sinistra della nostra macchina ecco una serie di vetrine che si fanno notare. Al di là del vetro nevica graziosamente: illusione ottica. Poi bambini e bambine su slitte trainate da renne e animaletti waltdisneyani. E ancora slitte e babbo-Natale e cerbiatti, porcellini, lepri, rane burattine e nani rossi. Tutto si muove con garbo.
Ah! Ecco gli angioletti... Macché! Sono fatine, inventate di recente, quali addobbi al paesaggio bianco.
Un bambino coi genitori si leva sulle punte dei piedini e osserva, ammaliato.
Ma nel mio cuore l'incredulità e poi quasi la ribellione: questo mondo ricco si è "accalappiato" il Natale e tutto il suo contorno, e ha sloggiato Gesù!
Ama del Natale la poesia, l'ambiente, l'amicizia che suscita, i regali che suggerisce, le luci, le stelle, i canti.
Punta sul Natale per il guadagno migliore dell'anno.
Ma a Gesù non pensa.
"Venne fra i suoi e non lo ricevettero..."
"Non c'era posto per lui nell'albergo"... nemmeno a Natale.
Stanotte non ho dormito. Questo pensiero mi ha tenuta sveglia.
Se rinascessi farei tante cose. Se non avessi fondato l'Opera di Maria, ne fonderei una che serve i Natali degli uomini sulla terra. Stamperei le più belle cartoline del mondo. Sfornerei statue e statuette coll'arte più pregiata. Inciderei poesie, canzoni passate e presenti, illustrerei libri per piccoli e adulti su questo "mistero d'amore", stenderei canovacci per rappresentazioni e film.
Non so quel che farei...
Oggi ringrazio la Chiesa che ha salvato le immagini.
Quando sono stata, venticinque anni fa, in una terra in cui dominava l'ateismo, un sacerdote scolpiva statue d'angeli per ricordare il Cielo alla gente. Oggi lo capisco di più. Lo esige l'ateismo pratico che ora invade il mondo dappertutto.
Certo che questo tenersi il Natale e bandire invece il Neonato è qualche cosa che addolora.
Che almeno in tutte le nostre case si gridi Chi è nato, facendoGli festa come non mai.
inviato da Qumran2, inserito il 23/06/2020
TESTO
don Tonino Bello, Scrivo a voi... Lettere di un vescovo ai catechisti, EDB
Carissimi catechisti,
ogni volta che tornavo nel mio paese, andavo a trovarlo. Ultimamente si era incurvato e gli tremavano le mani. Ma per me è rimasto sempre il maestro di un tempo. Tornavo da lui per un dovere di gratitudine. Ma soprattutto condotto dalla speranza. Chi sa, mi dicevo, che non abbia, come nelle fiabe che ci raccontava in quarta elementare, una noce misteriosa da farmi schiacciare nei momenti difficili!
Di tutti gli insegnanti che ho avuto, lui era l'unico a provare soggezione di me. Me ne accorgevo dall'imbarazzo con cui, nel discorso con me, passava dal “lei” al “tu”. Mi hanno detto anche che era fiero di avermi avuto come discepolo. Forse però non ha mai saputo che se ancora tornavo da lui era perché avevo il presentimento che mi avrebbe aiutato a risolvere, come un tempo, qualche altro complicato problema, per il quale non mi bastavano più le quattro operazioni dell'aritmetica che lui mi aveva insegnato. Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.
Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?
Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.
Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.
Vorrei augurare a tutti voi che i vostri ragazzi provino per voi gli stessi sentimenti che ho provato io per il mio vecchio maestro delle elementari... statene certi: se restate saldi in Gesù e vi animerà una forte passione di trasmettere la sua Verità, essi, i vostri ragazzi di oggi, un giorno verranno a farvi visita. Sì, perché anche se saranno diventati professori dell'università gregoriana, torneranno da voi per recuperare quei frammenti di mistero, di cui non hanno ancora trovato spiegazione neppure sui libri di teologia.
Vi saluto, don Tonino Vescovo
3 marzo 1991
educareeducatoricatechistiinsegnaretestimoniaremaestridomandescuola
inviato da Anna Barbi, inserito il 29/12/2018
TESTO
don Tonino Bello, www.mosaicodipace.it
Carissima Rut, avrei voluto scriverti in ben altra circostanza.
Per approfondire ad esempio le ragioni di quell'universalismo della salvezza che hanno indotto Dio a includere anche te, unica straniera nell'albero della genealogia ebraica di Gesù.
Non ti nascondo infatti che quando nella messa viene proclamata la lista degli antenati di Cristo tramandataci da Matteo, mi sorprende e mi commuove sentir pronunciare il tuo nome di donna fugace come un fremito d'ala. Sembra un nome abbreviato per pudore. O intimidito di comparire in mezzo al ferrigno scrosciare dei nomi di tanti maschioni.
Ti scrivo, invece, perché voglio sfogare con qualcuno la tristezza che mi devasta l'anima in questi giorni, alla vista di tanti stranieri che hanno invaso l'Italia, e verso i quali la nostra civiltà, che a parole si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multireligiosa e multinonsoché non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità.
So bene che il problema dell'immigrazione richiede molta avvedutezza e merita risposte meno ingenue di quelle fornite da un romantico altruismo. Capisco anche le «buone ragioni» dei miei concittadini che temono chi sa quali destabilizzazioni negli assetti consolidati del loro sistema di vita. Ma mi lascia sovrappensiero il fatto che si stenti a capire le «buone ragioni» dei poveri allo sbando e che in questo esodo biblico non si riesca ancora a scorgere l'inquietante malessere di un mondo oppresso dall'ingiustizia e dalla miseria.
Tu mi sembri, allora, l'interlocutrice più adatta delle mie confidenze, dal momento che, avendo coniugato il verbo accogliere non solo nella forma attiva ma anche nella forma passiva, hai sperimentato la durezza dell'emigrazione nella duplice fase: l'esilio in patria e la ghettizzazione in terra straniera.
Non tutti conoscono la tua storia. Perciò mi scuserai se, nel rievocarne alcuni particolari, sfiorerò la discrezione e farò violenza al tuo riserbo.
Vivevi spensierata sulle alture di Moab, al di là del mar Morto, cullando sogni e parlando d'amore con le tue compagne, quando un giorno arrivò nel tuo paese una famiglia di spiantati. Erano stranieri, provenienti dalla terra di Canaan, colpita in quegli anni da una terribile carestia.
Ti impressionò subito la carnagione bruna dei due figli. Uno dei quali si accorse di te.
Ma tu eri ancora ragazzina. Tanto ragazzina, che il cuore si mise a battere di paura quando egli, con i gesti più che con le parole, venne dai tuoi genitori a chiederti come sposa.
Non so se in casa quel giorno accaddero scenate. Ma c'è da supporre che ti rinfacciarono tutta la loro disapprovazione. Che eri il disonore della famiglia. Che non ti avrebbero più riconosciuta come figlia. E che era un infamia girar le spalle tutt'una volta alla propria tradizione, alla propria lingua, alle proprie divinità, per correr dietro a una maledetto sconosciuto. E che, comunque, non avrebbero tollerato mai e poi mai, dopo averti cresciuta come un fiore, di doverti consegnare a uno di quei morti di fame. Accidenti a lui e a tutti quelli della sua razza!
Furono giorni amarissimi, ma alla fine la spuntasti tu, pur pagando caramente il prezzo della tua caparbietà.
Ti vedesti così tagliare tutti i ponti, e alla fine rimanesti sola. Al punto che, quando dopo dieci anni di tribolazione tuo marito morì e morirono anche il fratello e il padre di lui, decidesti di seguire Noemi, la suocera addolorata, che, non avendo più nessuno anche lei in quella amarissima terra straniera, volle rimpatriare.
«Dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta».
Varcasti così la frontiera, e cominciò per te la seconda fase della tua esperienza di “diversità”.
Un vero e proprio mestiere non ce l'avevi. Insieme con la qualifica professionale, ti mancava anche il libretto di lavoro, e a Betlemme, dove andasti ad abitare con Noemi, non ti vollero iscrivere nelle liste di collocamento. Sicché, per camparti la vita, essendo il tempo in cui si cominciava a mietere l'orzo, andasti a spigolare furtivamente nelle campagne.
O Dio, non era proprio lavoro nero, ma era certo un lavoro umiliante, perché scartato da tutti ed esposto alle molestie del mietitori.
Meno male che trovasti grazia presso un ricco massaro, un certo signor Booz, il quale ti prese a ben volere e ordinò ai suoi dipendenti: «Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non le fate affronto; anzi lasciate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; abbandonatele, perché essa le raccolga, e non sgridatela».
Ti andò veramente bene. Anzi meglio di così la sorte non poteva arriderti, dal momento che il massaro cominciò ad avere del tenero per te e addirittura ti volle sposare, tra la meraviglia di tutte le donne di Betlemme che creparono d'invidia. E brava la Moabita!
Carissima Rut, qualcuno potrebbe dire che, a proposito di immigrati, la tua vicenda non fa testo, perché, essendosi conclusa con la fatidica frase «e vissero felici e contenti», sembra appartenere più al genere delle telenovele che ai resoconti del telegiornale o ai servizi di Samarcanda, laddove le storie degli extracomunitari si intridono spesso di lacrime e di morte.
Io, invece, penso che nelle pieghe della tua avventura possiamo leggere il giudizio di Dio su questa impressionante transumanza di gente alla deriva.
La tua storia, insomma, ci interpella non solo con la forza esemplare del paradigma, ma anche con la sollecitazione di risposte intelligenti di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri nel nostro territorio.
Anzitutto, ci dice che la fusione di etnie diverse è possibile: anzi, appartiene a quel pacco di progetti che costituiscono la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà. La comunicazione con le culture altre, insomma non è un'utopia, né uno sterile sospiro di sognatori.
Quando alle porte della città si celebrarono le tue nozze col massaro di Betlemme, gli anziani rivolsero a Booz tuo marito uno splendido augurio, che vale tutto un trattato sulla integrazione al razziale: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa di Israele».
In secondo luogo, la tua storia ci provoca a vincere gli istinti xenofobi che ci dormono dentro. Che si ammantano di ragioni patriottiche. Che scatenano all'interno delle nostre raffinatissime città, inqualificabili atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di violenza, di razzismo. E che implorano dalle istituzioni con martellante coralità, rigorosi provvedimenti di forza.
Siamo vittime di una insopportabile prudenza, e scorgiamo sempre angoscianti minacce dietro l'angolo.
Perché lo straniero mette in crisi sostanzialmente due cose: la nostra sicurezza e la nostra identità.
Da una parte, infatti, ci toglie il lavoro, ci contende la casa, ci riduce gli spazi, entra in competizione con noi, decostruisce l'articolazione dei nostri interessi economici. Dall'altra, sembra attentare ai nostri connotati, sfida la compattezza del nostro mondo spirituale, relativizza i nostri altari, sfibra il deposito delle nostre tradizioni.
Ebbene, la tua storia ci fa capire che la segregazione è la risposta più sbagliata al problema razziale, così come rappresenta una iattura simmetrica il tentativo di voler assorbire nelle stratificazioni della nostra cultura i tratti emergenti della «diversità» altrui, senza lasciarne neppure la traccia. Solo la progressiva intersezione di aree di valori sarà capace di creare il terreno, calcando il quale nessuno debba sentirsi in esilio.
Grazie, dolcissima Rut, per questo tuo incredibile messaggio di universalità che lasci cadere dai tuoi covoni.
Dietro i quali, alla ricerca dei tratti di un mondo più solidale, siamo venuti anche noi a spigolare.
Luglio 1991
stranierimigrantimigrazionidiversitàaccoglienzaintegrazionemulticulturalità
inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018
RACCONTO
Viola Mariani, Chi ha paura del lupo?
L'uccellino cinguettava “ciu ciiiiuciu ciu” e i clienti del bar del Signor Antonio entravano volentieri a prendere un caffè nella terrazza per ascoltare il suo canto delicato e trillante come tanti campanellini. La sua voce argentina sembrava intonare un canto allegro e spensierato per la gioia dei clienti del bar che lo ascoltavano distratti e non vedevano la tristezza e la solitudine nei suoi piccoli occhi di uccellino.
Lui invece cantava ma non di allegria, il suo canto aveva parole tristi e malinconiche che gli ricordavano la sensazione del vento tra le piume delle ali e lo spettacolo magnifico delle chiome degli alberi viste da lassù, volando. Mentre cantava riusciva a non pensare alle sbarre della gabbietta e alla noia delle giornate che si ripetevano monotone.
Un giorno però successe qualcosa, una bambina entrando nel bar per comprare un gelato ascoltò il suo canto e si sentì improvvisamente triste senza sapere bene il perché. Allora guardò negli occhi il piccolo uccellino, si accorse che la tristezza veniva proprio da quel canto e si avvicinò alla gabbia.
- “Perché sei triste?” sussurrò la bimba.
- “Ciu ciiiu ciu” trillò l'uccellino.
Gea, cosí si chiamava la bambina, aveva un segreto per capire gli altri anche quando le parole non erano d'aiuto: si immaginava di essere al loro posto, si metteva nei panni degli altri per capire le loro emozioni. E così fece, si immaginò di vivere chiusa in una piccola gabbia senza poter correre e giocare con gli amici.
Chiuse gli occhi per concentrarsi e all'improvviso sentì un formicolio alle gambe, come quando stava molto tempo nella stessa posizione: “Forse è proprio quello che sente quest'uccellino: di certo gli formicolano le ali per non poterle aprire e forse è triste perché non è libero di volare come gli altri uccelli”, pensò. Per un momento le sembrò quasi che le fossero spuntate le ali e sentì un forte desiderio di volare in alto nel cielo.
Senza pensarci due volte Gea aprì la piccola gabbia sperando che nessuno la vedesse e l'uccellino la guardò cercando di capire perché quella bambina gli aveva dato la libertà. Avrebbe voluto dimostrarle la sua gratitudine ma non sapeva come fare, allora fece un ultimo cinguettio di addio e seguì il suo istinto che gli diceva di aprire le ali e volare via.
I clienti del bar senza capire cosa fosse successo si fermarono un istante, fu una frazione di secondo in cui sembrava che il tempo si fosse fermato. Nessun cucchiaino suonava contro il bordo della tazza, i ragazzi che scherzavano interruppero le loro risate e persino i cellulari per un attimo smisero di suonare.
In silenzio Gea usci dal bar mangiando il suo gelato e si ritrovò a camminare per strada con lo sguardo rivolto verso il cielo, cercando distrattamente quell'uccellino dallo sguardo triste.
All'improvviso cominciò a sentire il fruscio del vento tra le dita, l'aria fresca le accarezza il viso e il rumore del traffico si sentiva in lontananza, ovattato. Chiuse gli occhi per assaporare quella sensazione di libertà e, con gli occhi chiusi, vide la città dall'alto, il porto con le barche dei pescatori e le colline alle spalle.
Capi che era il regalo d'addio dell'uccellino, il suo modo di dirle grazie: stava volando con lui e osservando il mondo con i suoi occhi.
Quando ci mettiamo nei panni degli altri si aprono nuovi orizzonti.
empatiacomprensionesolidarietàlibertàschiavitù
inviato da Viola Mariani, inserito il 29/12/2018
TESTO
6. Il cuore di Dio. Pasqua: questo giorno, ogni giorno
Alessandro D'Avenia, Avvenire, 5 aprile 2015, Pasqua
Riparare i viventi è il titolo di un bel romanzo scritto della bravissima Maylis de Kerengal che in questi giorni mi ha accompagnato.
Mi sembra il titolo perfetto per questa domenica.
La storia parla di un adolescente che, uscito con i suoi amici in una fredda notte in cerca dell'onda perfetta da cavalcare all'alba con i loro surf ruggenti, sulla strada del ritorno ha un incidente ed entra in coma irreversibile. I suoi genitori consentono l'espianto degli organi, anche se è il cuore il vero protagonista della storia. Il cuore che viene estratto dal petto del ragazzo va a riempire quello di una donna in attesa di un organo che la salvi grazie ad un trapianto. Ad un tratto la madre di Simon, il ragazzo morto, si chiede che accadrà al contenuto del cuore di suo figlio: «Che ne sarà dell'amore di Juliette una volta che il cuore di Simon ricomincerà a battere dentro un corpo sconosciuto, che ne sarà di tutto quel che riempiva quel cuore, dei suoi affetti lentamente stratificati dal primo giorno o trasmessi qua e là in uno slancio d'entusiasmo o in un accesso di collera, le sue amicizie e le sue avversioni, i suoi rancori, la sua veemenza, le sue passioni tristi e tenere? Che ne sarà delle scariche elettriche che gli sfondavano il cuore quando avanzava l'onda? Che ne sarà di quel cuore traboccante, pieno, troppo pieno?».
Che ne sarà del nostro cuore, con tutto quello che ha filtrato di amore e disamore in una vita? Ma non è forse questo il senso della grande promessa di Dio: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez. 36, 26-7)?
Anche noi eravamo a rischio di vita, anzi eravamo già morti, il nostro cuore aveva subito troppi infarti, non riusciva più ad amare senza rischiare il colpo di grazia. E proprio per un colpo di grazia riceviamo un cuore nuovo, che viene trapiantato gradualmente nella nostra vita nella misura in cui lo vogliamo.
L'uomo nuovo di cui parla Paolo nelle sue Lettere è un uomo dopo il trapianto. Rimane l'uomo vecchio, ma il trapianto irrora gradualmente ogni fibra trasformandola. In noi comincia ad abitare il battito di un Altro, che non muore.
La vita di Dio che non può essere distrutta entra e gradualmente trapianta (ci innesta nella sua vita come si fa in botanica), purifica, trasforma, nella misura di quanto vogliamo. C'è tanto del cuore di Dio nella nostra vita quanto noi vogliamo ne venga trapiantato ogni giorno.
Ad un certo punto della narrazione il medico che condurrà l'operazione di trapianto avverte la paziente perché si prepari: «Il cuore sarà qui fra trenta minuti, è splendido, è fatto per lei, vi intenderete alla perfezione. Claire sorride: ma aspetterà che sia qui prima di togliere il mio, vero?».
Il nostro rimarrà, proprio quello nostro, ma il centro di ogni pensiero, decisione, amore, caduta, tristezza, malinconia, il motore di ogni nostro amore e disamore, non verrà tolto, ma trasformato.
La natura umana è riparata perché il Perfetto Uomo ha attraversato tutto l'umano, ha conosciuto tutto ciò che passa per il cuore dell'uomo e lo ha sentito come fosse suo, anche il peccato, non come atto ma nelle sue conseguenze (dalla tentazione, al dolore, alla morte). E quel cuore che ha cessato di battere sulla croce, quel cuore che ha dato tutto, tanto che, quando il soldato lo trafisse con la lancia, sputò sangue e acqua, il siero che si riversa nella sacca del pericardio quando dopo un infarto la parte densa del sangue si separa da quella più leggera, proprio quel cuore diventa nostro.
Quel cuore in realtà non è vuoto, non è il cuore di un morto, inservibile per un trapianto. È il cuore di un vivo, è il cuore del Vivente, è il cuore della Vita; il cuore che ci consente di avere passione per la vita e di patire per la vita; il cuore che ci concede il trasporto erotico per il creato e le creature e la capacità di patire per il creato e le creature. Il cuore di Dio, spiritualmente trapiantato in noi grazie al Battesimo e riparato dagli altri Sacramenti, batte fortissimo nel petto dei cristiani, che per questo ogni giorno, se vogliono, risorgono.
E quando quel cuore verrà pesato (amor meus pondus meum, il mio amore è il mio peso, dice Agostino) alla fine della vita lo si troverà 'pieno' dell'amore di Dio stesso, perché era il Suo in noi.
Solo lui ripara i viventi e i morenti, perché il Suo cuore non ha conosciuto la corruzione della morte, conosce solo la vita e ciò che dà la vita.
Si dice che, dopo aver bruciato Giovanna D'Arco, i carnefici trovarono intatto il suo cuore in mezzo alla cenere. Quel cuore non poteva essere distrutto, perché la sua materia non apparteneva a questo mondo e il fuoco degli uomini non poteva consumarlo. Era il cuore di Giovanna o quello di Dio?
Se è amore che vogliamo per vivere, è un cuore nuovo che vogliamo. Oggi è il giorno del trapianto.
pasquacuore nuovoconversionerinascitaamoreamare
inviato da Marcello Rosa, inserito il 06/07/2018
RACCONTO
Robin Sharma, Il monaco che vendette la sua Ferrari
C'era una volta Peter, un ragazzino molto vivace a cui tutti volevano bene: la sua famiglia, i suoi maestri e i suoi amici... Ma Peter aveva un piccolo, grande problema. Peter non riusciva a vivere il presente. Non aveva imparato a godere della vita. Quando era a scuola, sognava di essere fuori a giocare. Quando giocava, sognava di essere già in vacanza. Peter sognava sempre ad occhi aperti, non godendosi mai il presente che la vita gli offriva.
Un mattino, Peter stava camminando nel bosco vicino a casa. Siccome si sentiva stanco, decise di fermarsi in una radura e di fare un pisolino. Si addormentò come un sasso, ma dopo qualche minuto, si sentì chiamare per nome: «Peter, Peter!», ripeteva una voce stridula. Quando aprì gli occhi... sorpresa! Si ritrovò dinnanzi una donna vecchia di almeno cent'anni, con i capelli candidi che le ricadevano sulle spalle come matasse di lana arruffata. Nella mano rugosa aveva una pallina magica, con un foro nel centro da cui pendeva un lungo filo dorato. «Peter - disse la vecchia - questo è il filo della vita. Se lo tiri piano piano, in pochi secondi passerà un'ora; se tiri più forte, in pochi minuti passeranno giorni interi. Se tiri con tutta la tua forza, in pochi giorni passeranno dei mesi o addirittura degli anni». Peter era eccitato dalla scoperta. «Oh, mi piacerebbe tanto averlo!» esclamò smanioso. Allora la vecchietta si chinò e gli diede la pallina con il filo magico.
Il giorno dopo, Peter era seduto nel suo banco a scuola, e si sentiva annoiato e irrequieto. Improvvisamente si ricordò del suo nuovo giocattolo. Tirò il filo pian piano e si trovò subito a casa, a giocare nel suo giardino. Rendendosi conto dei poteri del filo magico, Peter presto si stancò di andare a scuola e desiderò essere un ragazzo più grande, alla scoperta della vita. Allora tirò il filo un po' più forte e si ritrovò adolescente, con una ragazza di nome Elise. Ma Peter non era ancora soddisfatto. Egli non era in grado di cogliere la bellezza di ogni istante e di esplorare le semplici meraviglie offerte dalle diverse fasi della vita. Sognava invece di essere già adulto, e così tirò di nuovo il filo, sicché gli anni passarono in un lampo. Si ritrovò allora trasformato in un uomo maturo. Elise era diventata sua moglie e Peter era circondato da tanti bambini. Ma notò un'altra cosa: i suoi capelli neri avevano iniziato a diventare grigi, e la sua dolce e adorata mamma era diventata vecchia e debole. Eppure, Peter ancora non riusciva a vivere il presente. Perciò, tirò un'altra volta il filo d'oro e attese la nuova trasformazione.
Adesso aveva novant'anni. Ormai i suoi folti capelli scuri erano diventati bianchi come la neve e la moglie, un tempo bellissima, era morta già da qualche anno. I suoi deliziosi bambini erano cresciuti ed erano usciti di casa per vivere la loro vita. Così, a un tratto, Peter si rese conto di non essersi mai fermato a godere di nulla. Non era mai andato a pescare con suo figlio, non aveva mai fatto una passeggiata al chiaro di luna con sua moglie, non aveva mai piantato un albero... e non aveva mai nemmeno trovato il tempo di leggere quei bellissimi libri che tanto piacevano a sua madre. Era sempre andato di corsa, senza fermarsi a guardare le bellezze che adornavano il suo cammino. Questa scoperta rattristò molto Peter. Allora, per riordinare le idee e rasserenarsi un po', decise di andare a fare un giro nel bosco dove era solito giocare da bambino. Entrò nel bosco, si accorse che gli alberelli della sua infanzia erano diventati querce gigantesche; era stupendo, sembrava di trovarsi in un Paradiso Terrestre. Allora si distese sull'erba di una radura e si addormentò profondamente.
Dopo qualche minuto, qualcuno lo chiamò: «Peter, Peter!» Aprì gli occhi e con suo grande stupore rivide la vecchia che gli aveva regalato la pallina molti anni prima. «Ti è piaciuto il mio regalo?» «All'inizio è stato divertente, ma ora lo odio a morte», disse Peter. «Tutta la vita mi è passata davanti agli occhi senza che potessi goderne un solo istante. Certo, ci saranno anche stati dei momenti molto belli e altri molto tristi, ma non ho avuto la possibilità di coglierli. Ora mi sento vuoto, mi manca il dono della vita». «Sei davvero un ingrato - disse la vecchietta. - Ma ti concederò di esprimere un ultimo desiderio». Peter ci pensò un istante e poi rispose fulmineamente: «Vorrei ridiventare bambino e riprovare a vivere daccapo». Poi si riaddormentò.
A un tratto sentì di nuovo che qualcuno lo chiamava, e si risvegliò. «Chi sarà questa volta?», si chiese. Quando aprì gli occhi, scoprì con gioia che era sua madre che lo stava chiamando, e che era tornata giovane, sana e forte. Allora Peter si rese conto che la vecchietta aveva mantenuto la promessa e che l'aveva riportato all'infanzia. «Su, Peter, dormiglione! Se non ti sbrighi ad alzarti farai tardi a scuola», lo ammoniva sua madre. Naturalmente Peter scattò su dal letto e da quel momento incominciò a vivere come aveva sperato: una vita piena, ricca di gioie, soddisfazioni e successi... Ma tutto ebbe inizio quando smise di sacrificare il presente per il futuro e si rese conto di dovere vivere nell'oggi.
tempopresentefuturovitavalore del tempopazienzaconsapevolezza
inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2018
TESTO
8. Auguri di Natale non in serie
Carissimi,
formulare gli auguri di Natale dovrebbe essere la cosa più semplice di questo mondo. Invece, quest'anno sto provando tanta difficoltà. Ho scritto e riscritto cento volte l'attacco di questa lettera, ma mi è parso di dire sempre delle cose estremamente banali. Come sono banali certi presepi bell'e confezionati che si acquistano ai grandi magazzini. Saranno anche attraenti con i loro svolazzi di angeli e con i loro muschi di plastica. Ma sono freddi. Perché fatti in serie.
Ecco: è proprio la «serialità» che mi mette in crisi. Ho l'impressione, cioè, di esporre anch'io la mia merce preconfezionata, e poi lasciare che ognuno si serva da solo, come nei self-service di certi ristoranti.
È qui lo sbaglio: nella pretesa di voler trovare delle formule standard, buone per tutti. Invece, a Natale, non si possono porgere auguri indistinti.
Dire buon Natale a te, Ignazio, che vivi immobilizzato da anni, dopo quel terribile incidente stradale che ti ha ridotto a un rudere, è molto diverso che dire Buon Natale a te, Franco, che hai fatto spese pazze per rinnovarti l'attrezzatura sciistica, e il 25 dicembre lo passerai in montagna, dove hai già prenotato l'albergo per la settimana bianca. Tu, Ignazio, la stella cometa del presepe non la vedi neanche, perché non puoi muovere la testa dal guanciale. E, allora, devo descrivertela io, e dirti che essa fa luce anche per te, e assicurarti che Gesù è venuto a dare senso alla tua tragedia e che, nella Notte Santa, anzi, ogni notte della tua vita, egli trasloca dalla mangiatoia per venirti accanto e farsi scaldare da te. Tu, Franco, la stella cometa non la vedi perché non hai tempo per pensare a queste cose, e in testa hai ben altre stelle. E, allora, devo provocartene io la nostalgia, e dirti che le lampade dei ritrovi mondani dove consumi le tue notti e i tuoi soldi, non fanno luce sufficiente a dar senso alla tua vita.
Dire buon Natale a te, Katia, che il 26 andrai all'altare con Cosimo, è molto diverso che dire buon Natale a Rosaria, che il mese scorso ha firmato la separazione consensuale, dopo che Gigi se n'è andato con un'altra. Perché a te, Katia, basterà l'invito a vedere nel presepe la celebrazione nuziale suprema di Dio che prende in sposa l'umanità, e già ti sentirai coinvolta nel mistero dell'incarnazione. A te, Rosaria, invece, che per la prima volta le feste le passerai sola in casa, e che non hai voglia neppure di andare a pranzo dai tuoi, occorrerà tutta la mia discrezione per farti capire che non è molto dissimile il ripudio subito da Gesù nella notte santa. Buon Natale, Rosaria. E buon Natale anche a Gigi, perché, scorgendo nel bambino del presepe il mistero della fedeltà di Dio, torni presto a casa.
Dire buon Natale a te, carissimo Nicola, che mi sei tanto vicino con la tua amicizia ma anche tanto lontano con l'ateismo che professi, è molto diverso che dire buon Natale a te, don Donato, che le parole di santità, tu sei bravo a dirmele più di quanto io non sappia fare con te. Perché tu, don Donato, hai un cuore che trabocca di tenerezza, e quando parli del Verbo che scende sulla terra e diventa l'Emmanuele, cioè il Dio con noi, si vede che ci credi a quello che dici, e daresti la vita perché anche gli altri ponessero lo sguardo su quel pozzo di luce che rischia di accecare i tuoi occhi. Mentre tu, Nicola, davanti al presepe resti impassibile, e il bue e l'asino ti fanno sorridere, e l'incanto di quella notte ti sembra una fuga dalla realtà, e rassomigli tanto a qualcuno di quei pastori (qualcuno ci deve essere pur stato!) che, all'apparizione degli angeli, non si è neppure scomposto ed è rimasto a scaldarsi davanti al fuoco del suo scetticismo. Non voglio forzare la tua coscienza: ma sei proprio sicuro che, quel bambino non abbia nulla da dirti, e che questo mistero (che tu vorresti confinare tra le favole) di Dio fatto uomo per amore, sia completamente estraneo al tuo bisogno di felicità? Auguri, comunque, perché la tua irreprensibile onestà umana trovi nella culla di Betlemme la sua sorgente e il suo estuario.
Dire buon Natale a te, Corrado, che vivi nella casa di riposo, e la sera ti lasci cullare dalle nenie pastorali, e te ne vai sulle ali della fantasia ai tempi di quando eri bambino, e la tua anima brulica di ricordi più di quanto i tratturi del presepe non brulichino di percorelle, e pensi che questo sarà forse il tuo ultimo Natale, e ti raffiguri già il momento in cui Gesù lo contemplerai faccia a faccia con i tuoi occhi... è molto diverso che fare gli auguri a te, Antonietta, che hai vent'anni e tutti dicono che non sei più quella di una volta, e l'altro giorno mi hai confidato che non fai più parte del coro e che forse quest'anno non ti confesserai neppure. Buon Natale, Antonietta. Pregherò perché tu possa trovare cinque minuti per piangere da sola davanti alla culla, e in quel pianto tu possa sperimentare le stesse emozioni di quando la semplice carta stagnola del presepe ti faceva trasalire di felicità.
Un conto è dire buon Natale a te, Gianni, che stai in ospedale e oggi anche i medici se ne sono andati e tu non vedi l'ora che arrivi il momento delle visite per poter parlare con qualcuno, e un conto è dire buon Natale a te, Piero, che in carcere nessuno verrà a trovare dopo che ne hai combinate di tutti i colori perfino a tuo padre e a tua madre. Auguri a tutti e due, comunque, e ai vostri compagni di corsia o di cella: Gesù Cristo vi restituisca la salute del corpo e quella dello spirito.
Buon Natale a te, Carmela, che sei rimasta vedova. A te, Marina, che sei felice perché le cose vanno bene. A te, Michele, che ti disperi perché le cose vanno male. A te, Mussif, e a tutti i profughi albanesi che vivono insieme nella casa di accoglienza. A te, Sahid, che guardi alla televisioni gli spettacoli dell'Unicef sui bambini irakeni e slavi decimati dalla fame, e, per un'associazione di immagini non certo molto strana, pensi ai tuoi figli che hai lasciato in Tunisia.
Dopo che l'ho poggiata sull'altare, profumata d'incenso e grondante ancora di benedizioni divine, voglio dare la mano a tutti, sicuro che nessuno tirerà indietro la sua.
Perché a Natale, felice o triste che sia, fedele o miscredente, miserabile o miliardario, ognuno avverte, chi sa per quale mistero, che di quel bambino «avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia», una volta che l'ha conosciuto, non può più fare a meno.
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inserito il 19/02/2018
PREGHIERA
Giuliano Guzzo, www.giulianoguzzo.com
Caro Gesù Bambino,
una manciata di giorni e sarà il Tuo, se ancora vorrai visitare quest'umanità distratta e sperduta, in tutt'altre faccende affaccendata. E' incredibile, infatti, eppure accade ogni anno: si avvicina il Natale e di tutto ci si occupa - di mercatini, di cibo, di idee regalo, di pandori con la farina di insetti - fuorché della Ragione di Tutto, del Regalo dei Regali, di un Dio che non solo non se la tira, ma si umilia fino a farsi neonato, minuto ospite del mondo che Egli stesso ha creato; un po' come se Messi chiedesse di iscriversi alla squadra dei pulcini; se Federer elemosinasse la racchetta più economica; se Armani si aggirasse, sognante, fra bancarelle di capi di terza mano.
Un meraviglioso ed abbagliante paradosso che solo a Te, caro Gesù, sarebbe potuto venire in mente. Tuttavia, dicevo, quaggiù si stenta a rendersene conto. Non chiedermene la ragione, ma è così. La prima richiesta che mi permetto di avanzare con questa lettera è, quindi, quella di donarci lo stupore per la Tua venuta, il desiderio di fiondarci tra pecore e pastori, di bramare un posto che - oggi come 2000 e passa anni fa, purtroppo - pare interessi a pochi: quello dinnanzi a una grotta senza viste panoramiche, Jacuzzi né pavimento riscaldato ma con, dentro, una Grande Luce. Anzi, la sola vera Luce, al cui confronto le stesse stelle più splendenti non sono che fiacche lampadine.
La seconda richiesta che Ti rivolgo, sono Giga spirituali illimitati. La voglia di tornare a pregare, di farlo con intensità, fermi e in ginocchio, cosa oggi non facile. Come difatti saprai, qui è un continuo invito alla corsa: corri per affermarti, corri per cogliere l'attimo, corri per vincere, corri per restare in forma. Lo stesso Avvento è stato da tempo rimpiazzato dalla «corsa per gli acquisti»; come se a Natale si festeggiassero dei centometristi giamaicani e non un Bambino che, pur non potendo ancora camminare, ha fatto fare - da subito - enormi balzi in avanti all'umanità. Regalaci, insomma, la capacità di tornare ad affidarci a Te, la sola Bussola di cui abbisogna quel povero migrante che è il nostro cuore.
Sperando di non esagerare, avrei un terzo e ultimo desiderio. Ti vorrei chiedere di salutarci tanto, prima di venirci a trovare, Charlie Gard e tutti i piccoli come lui, scartati da un mondo che, da tempo, non sa più dare un significato alla fragilità, un senso al dolore, una direzione alle lacrime. Già lo sapranno, ma è bene che a questi Angeli venga ricordato che alcuni, qui, non si sono dimenticati di loro e che in loro nome continueranno a sottolineare che, se non si è favorevoli ad accogliere sempre la Vita, si può ben festeggiare Halloween, il Black Friday e, che so, la giornata mondiale del peto, ma il Natale, ecco, meglio lasciarlo stare. Per un briciolo di coerenza, se non altro.
Detto questo, caro Gesù, concludo - oltre che con la speranza le Poste Celesti sappiano recapitare questo messaggio per tempo dato che con l'eternità, sai com'è, hanno già abbastanza pratica quelle Italiane - con un ringraziamento. Ti ringrazio, senza voler dare ciò per scontato, per essere in viaggio e per riposare già nel ventre di Maria, al sicuro, dove le unghie e i soldati degli Erode, inclusi gli odierni, non possono arrivare. Non saprei dire, adesso, quanti saremo ad accoglierTi come meriti, ma dico grazie fin d'ora per la gioia che vorrai condividere col Tuo gregge, anche se è quello che è. Siamo infatti solo poveri diavoli stanchi di credersi grandi. Ma è per questo, in fondo, che aspettiamo un Bambino.
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inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018
TESTO
10. Lettera d'amore di Dio per te 2
Figliolo mio,
forse non mi conosci, ma Io so tutto di te. So quando ti siedi e quando ti alzi, conosco ogni passo che fai e so il numero esatto dei capelli sulla tua testa, perché sei stato fatto a mia immagine. Ti ho conosciuto prima che tu nascessi, ti ho scelto quando ho pianificato la creazione, non sei stato un errore, perché ogni tuo giorno è già scritto nel mio Libro. Sei stato fatto in modo meraviglioso, Io ti ho formato nel ventre di tua madre e ti ho preso dal suo grembo il giorno in cui sei nato.
Chi non mi conosce mi ha presentato in modo sbagliato, non sono né lontano né arrabbiato, ma sono l'espressione perfetta dell'amore, manifestato in mio Figlio Gesù... ed è mio desiderio amarti, semplicemente perché sei stato creato per essere mio figlio e affinché Io sia tuo Padre.
Io sono colui che provvede ad ogni tua esigenza, il mio piano per il futuro è pieno di speranza. Perché ti amo di un amore eterno. I miei pensieri per te sono smisurati, sono come la sabbia del mare. Sono vicino a te per salvarti, in te mi rallegro e gioisco. Non smetterò mai di farti del bene: se ascolti la mia parola e la metti in pratica, sarai il mio tesoro speciale.
Voglio con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima che tu prosperi, desidero mostrarti cose grandi e meravigliose. Se mi cerchi con tutto il cuore mi incontrerai... Trova il tuo diletto in me e Io ti concederò i desideri del tuo cuore. Perché sono Io che suscito in te ciò che tu vuoi. Sono potente, e posso fare in te molto più di quanto tu immagini.
Sono il Padre che ti consola in tutte le tue tribolazioni, sono vicino a te quanto il tuo cuore è ferito. Vedo che a volte sei tanto lontano da me, e arrivo a temere di perderti per sempre. Ieri ti ho visto molto triste e avrei voluto privarti di questo dolore. Ho gridato ai quattro venti, ma non sei venuto a cercarmi. Ti ho visto parlare con i tuoi amici, ti ho visto mangiare fuori orario e ho camminato con te nella strada verso casa. Ho quasi visto con i tuoi occhi ciò che stavi guardando tu, ciò che ti ha provocato tanta nostalgia. Avrei voluto che tu mi prestassi ascolto. Ma non l'hai fatto, e quindi ho aspettato tutto il giorno.
Ti ho donato un bel tramonto a conclusione delle tue giornate, e una leggera brezza per permetterti di riposare meglio. Ti ho aspettato, dopo un giorno così frenetico, ma non sei mai venuto. La scorsa notte ti ho visto dormire e ti ho voluto toccare la fronte. Ti ho mandato dei raggi di luna dentro casa per vedere se ti fossi svegliato, ma hai continuato a dormire.
Ti parlo all'orecchio attraverso le foglie degli alberi e il profumo dei fiori, grido a te nei ruscelli di montagna, e attraverso gli uccelli canto il mio amore per te. Ti rivesto del calore del sole e profumo l'aria della natura con l'aroma della natura. Ascolto il silenzio dentro di te e provo a suscitare in te dei buoni desideri. Non sono lontano, sono nel tuo cuore. Regala uno sguardo d'amore a tutti coloro che ti circondano, e mi troverai, in ogni momento.
Oggi ho cercato qualcuno che mi prestasse le sue mani per scriverti, d'ora in poi scriverò direttamente nel tuo cuore. Se me lo permetti, devi solo dirmi ‘Sì'... So che è difficile vivere in questo mondo, lo è davvero, ma se confidi in me ti darò nuove forze. A partire da oggi. Parla con me, scarica i tuoi pesi e le tue ansie su di me. Ho sempre tempo per te, raccontami ogni cosa, piangi se vuoi, asciugherò ogni tua lacrima e accarezzerò il tuo volto.
Chiamami a qualsiasi ora del giorno o della notte, non dormo mai e ti risponderò sempre. Se tu riuscissi a guardare l'universo con amore, a vederti nello specchio con umiltà, a mostrare tenerezza a chi ti sorride, misericordia a chi ti chiede compassione e perdono a chi ti fa piangere... la mia voce diventerà il tuo pensiero.
Come il pastore guida le sue pecore, così io ti conduco vicino al mio cuore. Un giorno asciugherò ogni lacrima dai tuoi occhi ed eliminerò tutto il dolore che hai sofferto sulla terra. Ti amo tanto, al punto da aver mandato mio Figlio Gesù affinché tu abbia vita eterna. Perché in Gesù ho rivelato il mio Amore per te, Lui è la rappresentazione esatta del mio essere. È venuto per dimostrarti che Io sono dalla tua parte, non contro di te. È venuto per dirti che non ricorderò più dei tuoi peccati. Gesù è morto affinché tu possa riconciliarti con me, la Sua morte è stata la massima espressione del mio amore per te... Ho dato ogni cosa per avere il tuo amore...
Vieni a casa e celebra la festa più grande che il Cielo abbia mai visto... Sono sempre stato, e sempre sarò, tuo Padre. La domanda è: vuoi essere mio figlio? Sono con le braccia aperte, aspetto te. Devi soltanto ricevere mio Figlio Gesù nel tuo cuore.
Ti abbraccio e non me ne vado. Resto al tuo fianco. Ti amo!
Con affetto: tuo papà, Dio.
amore di DioDio padrepaternità di Diorapporto con Dio
inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018
PREGHIERA
11. Vergine dell'attesa (versione lunga)
Santa Maria, vergine dell'attesa, donaci del tuo olio perché le nostre lampade si spengono. Vedi: le riserve si sono consumate. Non ci mandare ad altri venditori. Riaccendi nelle nostre anime gli antichi fervori che ci bruciavano dentro, quando bastava un nonnulla per farci trasalire di gioia: l'arrivo di un amico lontano, il rosso di sera dopo un temporale, il crepitare del ceppo che d'inverno sorvegliava i rientri in casa, le campane a stormo nei giorni di festa, il sopraggiungere delle rondini in primavera, l'acre odore che si sprigionava dalla stretta dei frantoi, le cantilene autunnali che giungevano dai palmenti, l'incurvarsi tenero e misterioso del grembo materno, il profumo di spigo che irrompeva quando si preparava una culla.
Se oggi non sappiamo attendere più è perché siamo a corto di speranza. Se ne sono disseccate le sorgenti. Soffriamo una profonda crisi di desiderio. E, ormai paghi dei mille surrogati che ci assediano, rischiamo di non aspettarci più nulla neppure da quelle promesse ultraterrene che sono state firmate col sangue dal Dio dell'alleanza.
Santa Maria, donna dell'attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli che, usciti un giorno di casa, non ci son tornati mai più, perché uccisi da un incidente stradale o perché sedotti dai richiami della giungla. Perché dispersi dalla furia della guerra o perché risucchiati dal turbine delle passioni. Perché travolti dalla tempesta del mare o perché travolti dalle tempeste della vita.
Riempi i silenzi di Antonella, che non sa che farsene dei suoi giovani anni, dopo che lui se n'è andato con un'altra. Colma di pace il vuoto interiore di Massimo, che nella vita le ha sbagliate tutte, e l'unica attesa che ora lo lusinga è quella della morte. Asciuga le lacrime di Patrizia, che ha coltivato tanti sogni a occhi aperti, e per la cattiveria della gente se li è visti così svanire a uno a uno, che ormai teme anche di sognare a occhi chiusi.
Santa Maria, vergine dell'attesa, donaci un'anima vigiliare. Giunti alle soglie del terzo millennio, ci sentiamo purtroppo più figli del crepuscolo che profeti dell'avvento. Sentinella del mattino, ridestaci nel cuore la passione di giovani annunci da portare al mondo, che si sente già vecchio. Portaci, finalmente, arpa e cetra, perché con te mattiniera possiamo svegliare l'aurora.
Di fronte ai cambi che scuotono la storia, donaci di sentire sulla pelle i brividi dei cominciamenti. Facci capire che non basta accogliere: bisogna attendere. Accogliere talvolta è segno di rassegnazione. Attendere è sempre segno di speranza. Rendici, perciò, ministri dell'attesa. E il Signore che viene, vergine dell'Avvento, ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con la lampada in mano.
attesaattendereavventomariasperanza
inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018
TESTO
12. Andiamo fino a Betlemme (versione completa)
Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il bastone, e scendere, lungo i sentieri profumati di menta, giù per le gole di Giudea. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l'antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.
Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori i quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d'Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste... per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».
Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni dentro infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.
Andiamo fino a Betlemme. E' un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all'indietro», è l'unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall'ipoteca della morte.
Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L'importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, dunque, senza paura. Il Natale di quest'anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell'impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.
nataleincarnazionericerca di Diosperanza
inviato da Francesco De Luca, inserito il 15/01/2018
PREGHIERA
13. Esame di coscienza sui vizi capitali 1
Penitenziale per i giovani in preparazione alla XXII Giornata Mondiale della Gioventù in San Pietro alla presenza di Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2007
Perdona Signore i nostri peccati di superbia: le azioni che cercano solo la lode e l'approvazione della gente, l'ambizione, la ricerca di potere e di notorietà.
Perdonaci per quando parliamo, diamo consigli, studiamo, lavoriamo, facciamo il bene solo in funzione di ciò che ne penseranno gli altri e per catturare la stima altrui.
Perdonaci per quando esibiamo con vanità la bellezza fisica e le qualità dateci da Dio.
Perdonaci per l'arroganza che nasce dalla superbia, per il desiderio di non dipendere da nessuno, e nemmeno da Dio, per il vittimismo con cui sappiamo darci sempre una giustificazione.
Rendici umili. L'umiltà è la virtù che elimina tutte le passioni perché in essa noi ci rendiamo disponibili ad essere aiutati da Dio.
Perdona Signore i nostri peccati di invidia: l'ostilità, l'odio, l'idea che il male altrui possa essere bene per noi.
Perdona l'egocentrismo che ci impedisce di desiderare il bene per gli altri e ci rende incapaci di amare, il malcontento e i contrasti generati dall'invidia. Liberaci dal rancore, dal tormento interiore, dall'insoddisfazione.
Perdonaci quando vediamo tutto in funzione di noi stessi, quando non sappiamo mettere un freno ai desideri, quando chiamiamo l'invidia "sana competitività".
Perdona i cedimenti a una società che alimenta continuamente l'ambizione, l'avidità e la vuota curiosità.
Perdonaci quando desideriamo la roba d'altri e ci condanniamo all'infelicità.
Aiutaci a contrastare l'invidia con il dono quotidiano di noi stessi per i fratelli.
Perdona Signore i nostri peccati d'ira: i turbamenti del cuore, i sentimenti di avversione verso i fratelli quando sentiamo colpito il nostro io, l'animosità eccitata, l'aggressività del corpo, la sete di vendetta.
Perdonaci quando l'ira soffoca la libertà, ci rende schiavi di noi stessi, toglie la pace interiore ed esteriore.
Perdonaci la tentazione di "farla pagare" a chi ci ha umiliato, il piacere perverso del "far del male a qualcuno", i giudizi taglienti e la gratuita durezza verso gli altri, le mille giustificazioni dell'ira.
Aiutaci a seguire la via suggerita dai padri: “il silenzio delle labbra pur nel turbamento del cuore", dato che "La medicina perfetta... sarà quella di essere prima di tutto ben persuasi che non ci è consentito adirarci mai e in nessun modo".
Perdona Signore i nostri peccati di accidia: il torpore, la pigrizia, l'abbattimento, la tristezza, la dipendenza e le crisi di astinenza da stimoli e piaceri esteriori che ci lasciano sempre tristi e vuoti.
Perdonaci per la noia che a volte proviamo nel pregare e che ci spinge a cercare distrazioni, o ci lascia soli a parlare con noi stessi.
Perdonaci quando l'accidia genera disgusto e noia per ogni attività sana e spirituale, per quando la stessa vita quotidiana si tinge di tristezza, svogliatezza, vittimismo e lagnanza.
Perdonaci per la vita senza scopo, il tempo perso e la fuga dall'impegno quotidiano.
Donaci il desiderio di reagire. Facci trovare una guida spirituale e fa' che accettiamo la disciplina dell'obbedienza, unica via per non essere sballottati come un corpo inerte in balia delle passioni.
Perdonaci Signore per i peccati di avarizia: l'avidità, la brama di possedere, la fiducia smodata riposta nel denaro. Perdonaci se per avarizia lavoriamo di domenica, siamo disonesti, non diamo in elemosina, ci circondiamo di cose superflue.
Perdona le conseguenze terribili della fame di soldi: liti familiari, ansie e falsi timori, tradimenti, frodi, inganni, spergiuri, violenza e indurimento del cuore.
Perdonaci l'abitudine a essere insoddisfatti per ciò che abbiamo e bramosi di ciò che non ci è dato. Liberaci da lussi inutili, comodità e abitudini dispendiose.
Perdona le ingiustizie della società, le drammatiche disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri, le guerre, i disumani sfruttamenti e l'inganno delle coscienze prodotto da un sistema di accumulo e consumo che fa di tutto per eccitare la brama di possesso.
Aiutaci a sottrarci all'influenza dei media e a fidarci di te, che rivesti i gigli del campo e non abbandoni gli uccelli del cielo.
Perdonaci Signore per i peccati di gola: il rapporto irrazionale con il cibo, i vizi del fumo, dell'alcool, delle droghe, la dipendenza che ci fa schiavi.
Perdonaci se scambiamo per la libera scelta ciò che è solo condizionamento dell'abitudine, delle mode, della pubblicità.
Perdonaci per la mente ottenebrata che si allontana anche dalla preghiera e dalle sane letture, per gli eccessi che ci rendono meno padroni di noi stessi e affievoliscono la capacità di autocontrollo.
Insegnaci la capacità dell'astinenza, che disintossica il corpo e la mente. Aiutaci a scoprire i piaceri sani della vita, per essere capaci di amare i fratelli con la libertà e la gioia con cui tu hai amato noi.
Perdonaci Signore per i peccati di lussuria, che ci fanno schiavi del sesso, e per il disordine morale che mette a rischio persone, famiglie e società.
Perdona il cedimento a immagini proposte ad arte, a voci allusive, alla pornografia in video e in rete. Perdonaci la debolezza di fronte a piaceri tanto intensi quanto effimeri.
Perdona la mentalità diffusa che si spaccia il disordine sessuale per conquista e fa credere che ogni istinto debba trovare immediata soddisfazione. Facci comprendere che non è libero chi non ha il controllo di se stesso, chi si riduce al doppio gioco e alla menzogna, chi perde l'integrità morale e la pace, chi si chiude in se stesso.
Perdona i danni gravi nella società: per il sesso si litiga, si minaccia, si uccide; la libidine alimenta uno stile di vita fatuo, degenera spesso nella prostituzione, nel ricatto, nella pedofilia...
Aiutaci a custodire la castità nel cuore e nella mente, e a non avere rapporti sessuali prima o fuori del matrimonio, a evitare deviazioni e stravaganze. Insegnaci modestia e dignità nel vestire, custodisci sguardi e fantasie.
Aiutaci a riscoprire la meraviglia della sessualità secondo Dio, nella cornice dell'amore coniugale, nell'atmosfera di famiglia e di tenerezza dove il sesso non è profanato e svenduto ma è sacra partecipazione al dono della vita.
esame di coscienzavizi capitalisuperbiainvidiairaaccidiaavariziagolalussuria
inviato da Qumran2, inserito il 02/12/2017
TESTO
Roberto Benigni, I Dieci Comandamenti, Rai 1, 15 dicembre 2014
Il problema fondamentale dell'umanità da 2000 anni è rimasto lo stesso... amarsi. Solo che ora è diventato più urgente, molto più urgente, e quando oggi sentiamo ancora ripetere che dobbiamo amarci l'un l'altro, sappiamo che ormai non ci rimane molto tempo. Ci dobbiamo affrettare, affrettiamoci ad amare, noi amiamo sempre troppo poco e troppo tardi, affrettiamoci ad amare, perché al tramonto della vita saremo giudicati sull'amore, perché non esiste amore sprecato e perché non esiste un'emozione più grande di sentire quando siamo innamorati che la nostra vita dipende totalmente da un'altra persona, che non bastiamo a noi stessi, e che tutte le cose, ma anche quelle inanimate come le montagne, i mari, le strade, il cielo, il vento, le stelle, le città, i fiumi, le pietre, i palazzi... tutte queste cose, che di per sé sono vuote, indifferenti, improvvisamente quando le guardiamo si caricano di significato umano e ci affascinano, ci commuovono, perché? Perché contengono un presentimento d'amore, anche le cose inanimate, perché il fasciame di tutta la creazione è amore e perché l'amore combacia con il significato di tutte le cose: la felicità. Si, la felicità... e a proposito di felicità, cercatela, tutti i giorni, continuamente e anzi, chiunque mi ascolti ora, si metta in cerca della felicità ora, in questo momento stesso perché è lì, ce l'avete, ce l'abbiamo perché l'hanno data a tutti noi, ce l'hanno data in dono quando eravamo piccoli, ce l'hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che l'abbiamo nascosto, come fanno i cani con l'osso, quando lo nascondono; e molti di noi l'hanno nascosto così bene che non si ricordano più dove l'hanno messo, ma ce l'avete, ce l'abbiamo. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all'aria: i cassetti, i comodini che avete dentro... vedrete che esce fuori, c'è la felicità. Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa ma è lì, dobbiamo pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei, fino all'ultimo giorno della nostra vita.
E non dobbiamo avere paura nemmeno della morte, guardate che è più rischioso nascere che morire eh! Non bisogna avere paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero. Saltate dentro l'esistenza ora, qui, perché se non trovate niente ora, non troverete niente mai più, è qui l'eternità, e allora dobbiamo dire "SI” alla vita, dobbiamo dire un SI talmente pieno alla vita che sia capace di arginare tutti i no, perché alla fine di queste due serate insieme, abbiamo capito che non sappiamo niente e che non ci si capisce niente, e si capisce solo che c'è un gran mistero che bisogna prenderlo come è e lasciarlo stare, e che la cosa che fa più impressione al mondo è la vita che va avanti e non si capisce come faccia; "Ma come fa? Come fa a resistere? Ma come fa a durare così?"... è un altro mistero, e nessuno lo ha mai capito, perché la vita e molto più di quello che possiamo capire noi, per questo devi resistere. Se la vita fosse solo quello che capiamo noi, sarebbe finita da tanto, tanto tempo, e noi lo sentiamo, lo sentiamo che da un momento all'altro ci potrebbe capitare qualcosa di infinito, e allora ad ognuno di noi non rimane che una cosa da fare: inchinarsi.
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inviato da Qumran, inserito il 02/12/2017
RACCONTO
Antica leggenda africana
Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all'avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà.
Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l'incendio stava per arrivare anche lì.
Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d'acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento.
Il colibrì, però, non si perse d'animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d'acqua che lasciava cadere sulle fiamme.
La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: «Cosa stai facendo?». L'uccellino gli rispose: «Cerco di spegnere l'incendio!».
Il leone si mise a ridere: «Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?» e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l'uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un'altra goccia d'acqua.
A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco.
Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d'acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme.
Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d'animale si prodigarono insieme per spegnere l'incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume.
Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell'antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell'aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.
A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l'arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l'incendio poteva dirsi ormai domato.
Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco.
Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: «Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d'acqua può essere importante e che insieme si può spegnere un grande incendio. D'ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo».
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inviato da Qumran, inserito il 01/12/2017
RACCONTO
Piero Ferrucci, La forza della gentilezza, Oscar Mondadori 2005
C'era una volta un uomo che odiava il suo lavoro. Era un tagliapietre, e doveva faticare tutto il giorno per una misera paga. «Che orrendo modo di vivere», pensava. «Come mi piacerebbe essere un riccone che può oziare tutto il giorno.» A un certo punto il suo desiderio divenne così intenso che si tramutò in realtà. Il tagliapietre sentì una voce che diceva: «Tu sei ciò che vuoi essere». Divenne ricco e poté avere da subito tutto ciò che aveva da sempre desiderato: una casa bellissima, cibo squisito, svaghi meravigliosi.
Era felice, ma dopo un po' vide passare il re in una processione e penso: «Lui è più potente di me, come vorrei essere io nei suoi panni!», di nuovo udì la voce e, come per magia, divenne il re. Era diventato l'uomo più potente del mondo. Ah, che ebbrezza il potere! Tutti gli obbedivano, tutti lo temevano, era felice, ma non completamente. A poco a poco si fece strada in lui una certa insoddisfazione che lo solleticava maligna. «Voglio ancora di più» pensò. Voglio voglio voglio. Vide il sole nel cielo, e pensò: «Il sole e ancora più potente di me, voglio essere il sole!».
Ed ecco che divenne il sole. Luminoso, grande, fortissimo. Dominava il cielo e la terra. Nulla e nessuno poteva esistere senza di lui. Che felicità! E che importanza! Però poi si accorse che sotto di lui le nuvole gli impedivano di vedere il paesaggio. Erano mobili e leggere. Invece di stare fisse nel cielo, potevano assumere infinite forme e al tramonto si coloravano di tinte stupende. Vivevano senza preoccupazioni ed erano libere. Che invidia.
Ma l'invidia durò poco. Sentì di nuovo la voce: «Tu sei ciò che vuoi essere». E fu subito nube. Era un piacere essere sospesa nell'aria, mobile, vaporosa. Si divertiva a prendere forme sempre diverse, ora spessa e opaca, ora bianca e ricca, ora sottile come un ricamo. Ma la nuvola d'un tratto dovette condensarsi in goccioloni di pioggia, che andarono a colpire una roccia di granito. Che impatto. La roccia era lì da millenni. Dura e solida. E invece le misere gocce di acqua si rompevano sul granito e scorrevano fino a essere assorbite dalla terra e comparire per sempre. Come sarebbe stato bello essere roccia, pensò.
Subito divenne roccia. Per un po' si godette la vita. Finalmente aveva trovato la stabilità. Ora si sentiva sicuro. «È la sicurezza che cercavo, dopo tutto, e di qui non mi muove più nessuno.» Le gocce di pioggia lo colpivano e scendevano lungo i suoi fianchi. Era un massaggio piacevole. Un omaggio. Il sole l'accarezzava con i suoi raggi. Com'era bello venire riscaldati! Il vento lo rinfrescava. Le stelle lo guardavano. Aveva raggiunto la completezza.
Un giorno, però, vide una figura che si stagliava all'orizzonte. Era un uomo un po' curvo con un grosso martello. Un tagliapietre. Incominciò a battere con il martello su di lui. Più che male sentì sgomento. Il tagliapietre era ancora più forte e poteva decidere del suo destino. «Come vorrei essere il tagliapietre» pensò.
E così il tagliapietre fu di nuovo tagliapietre. Dopo essere stato tutto ciò che avrebbe voluto essere, divenne di nuovo ciò che era sempre stato. Ma questa volta era felice, tagliare le pietre era diventato un'arte, il suono del martello era musica, la fatica alla fine della giornata era il benessere di chi aveva fatto bene il suo lavoro. E quella notte in sogno ebbe una meravigliosa visione della cattedrale che le sue pietre avrebbero contribuito a formare. Gli pareva che non ci fosse niente di meglio che essere ciò che era. Era rivelazione bellissima che, sapeva, non lo e mai abbandonato. Era la gratitudine.
Il tagliapietre in questa storia compie un passaggio essenziale. Dalla rivendicazione («Voglio questo, voglio quello») alla gratitudine («Sono contento di ciò che ho»). Nella prima c'è dualità, perché vogliamo ciò che non abbiamo. Ci presentiamo al mondo chiedendo, sentiamo di avere un diritto. Talora ciò che vogliamo lo chiediamo con passione, magari con prepotenza, e una volta che lo abbiamo ottenuto ci viene voglia di qualcos'altro. Gli altri sono nostri concorrenti e li guardiamo con sospetto. Nel secondo stato c'è unità, perché, invece di recriminare e protestare, diventiamo tutt'uno con ciò che ci è dato. Questo è il momento che ho sempre aspettato, pensiamo. Questo è ciò per cui vale la pena di vivere. Gli altri sono amici, non avversari. Sentiamo ogni cellula del nostro essere che dice grazie. «Gratefulness is heaven itself» diceva il poeta inglese William Blake: la gratitudine è il paradiso.
felicitàaccontentarsigratitudinelavoro
inviato da Qumran, inserito il 01/12/2017
RACCONTO
Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.
«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.
Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.
Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.
A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.
È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»
Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.
Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.
ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione
inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017
RACCONTO
Un uomo, rimasto vedovo, con un figlio ancora bambino, sposò una giovane donna. Nel giorno del matrimonio, la donna, commossa dal dolore così evidente sul viso del bambino, fece una promessa a se stessa: «Aiuterò questo bambino a guarire dal suo dolore e sarò per lui una buona madre».
Da quel momento ogni suo pensiero ed energia furono spesi per questo obiettivo, ma invano.
Il bambino opponeva un netto rifiuto a tutte le sue attenzioni e cure. I cibi preparati amorevolmente non erano buoni come quelli della mamma naturale, i vestiti lavati e rammendati venivano sporcati e strappati di proposito, i baci ricevuti venivano prontamente ripuliti col dorso della mano, gli abbracci allontanati, e così via. Per quanto la donna cercasse di consolare il dolore del bambino e si sforzasse di conquistare il suo affetto non incontrava altro che rifiuto e rabbia.
Un giorno, al colmo del dispiacere e del senso d'impotenza, decise, tra le lacrime, di chiedere consiglio allo stregone del villaggio.
«Ti supplico! Aiutami! Prepara una magia così ch'io possa conquistare l'amore di questo bambino! Ti pagherò quanto vorrai! Aiutami Stregone!».
«Va bene, ti aiuterò e preparerò questa magia, ma è essenziale che tu mi porti due baffi del leone più feroce della foresta».
«Ma Stregone! E' impossibile! Non c'è nessuna speranza allora! Se mi avvicinerò a quel leone mi sbranerà! Non conquisterò mai l'amore di questo bambino».
«Mi dispiace donna, ma questa è la condizione necessaria per la magia».
La donna, in lacrime, si avviò verso la sua capanna ancora più scoraggiata. Dopo una notte insonne, resasi conto che in nessun modo avrebbe rinunciato al suo proposito di conquistare l'affetto del bambino, la giovane sposa decise di procurarsi i baffi del leone ad ogni costo.
La mattina seguente si mise in cammino verso la foresta con una ciotola di carne sul capo. Giunta al limitare del territorio del leone depose la ciotola a terra e fece quindi ritorno verso la sua capanna.
Il giorno successivo, poco dopo l'alba, si avviò nuovamente con una nuova ciotola piena di carne verso la foresta, ma questa volta depositando il tutto qualche passo più avanti, nel territorio del re della foresta.
Il terzo giorno ancora una ciotola di carne e ancora qualche passo più avanti.
Il quarto giorno lo stesso.
Così il quinto, il sesto, il decimo, il ventesimo, il trentesimo, il centesimo... giorno.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, avanzando con coraggio e costanza. Fino a vedere la tana e l'animale, e poi, dopo giorni, ad incontrare il leone che ormai attendeva la sua ciotola di carne e osservava placido la donna, concedendole di avvicinarsi.
Sino al giorno in cui la ciotola viene deposta davanti al leone, e la donna, col cuore in tumulto nel petto, capisce che è giunto il momento di agire.
Mentre l'animale, ormai perfettamente a suo agio con lei, divora il suo pasto, ecco che lei può strappare i due baffi preziosi senza che il leone neppure se ne accorga.
Allora sorridendo tra le lacrime, con i due baffi stretti al petto, corre a perdifiato verso la capanna dello stregone: «Stregone!!! Stregone!!! Ho i baffi!!! Puoi fare la tua magia!!!»
«Mi dispiace donna, non posso fare ciò che mi chiedi. Non bastano due baffi di leone per conquistare l'amore di un bambino. Non ho questo potere».
«Mi hai ingannata!!! Mi hai tradita! Mi hai fatto rischiare la vita per nulla! Perché? Perché l'hai fatto?». Urlava tra le lacrime la donna al culmine della disperazione. «Avevi promesso! Come farò adesso?».
Lo stregone, in silenzio, attende che la donna esaurisca le sue lacrime e la sua rabbia e poi risponde: «Io non posso compiere alcuna magia, donna. La magia è nelle tue mani. Guarda cos'hai fatto col leone. Ebbene, la magia è questa: fai col tuo bambino ciò che hai fatto col leone!».
Il Tempo. Ogni cosa necessita del suo tempo, ma c'è un tempo che pare infinito.
E' il tempo della trasformazione, del cambiamento, della guarigione, dell'attesa.
Quel tempo che vorremmo poter cancellare come d'incanto, o che almeno vorremmo accelerare. Soprattutto noi, noi che viviamo in questo momento storico e culturale dove il tutto dev'essere subito, dove ogni cosa si consuma in un attimo, dove l'attesa genera insofferenza e aggiunge spesso sofferenza alla sofferenza.
Non è possibile accelerare.
Ci sono ritmi e tempi che non possiamo modificare, che appartengono alla natura dell'uomo e all'universo.
Quando si dice: il tempo aggiusta tutto...
In realtà siamo noi e sono gli avvenimenti che necessitiamo di tempo per «aggiustarci». Noi per adeguarci, per abituarci, per trasformarci. Gli avvenimenti per evolvere, maturare, manifestarsi.
Non esistono interruttori.
Click! No, nessun click.
Solo la costanza, la tenacia e la paziente attesa mentre «si lavora per».
Illustrazione di Roberta Tezza
gentilezzapazienzaperseveranza
inviato da Qumran2, inserito il 21/08/2017
RACCONTO
Moses è un ragazzo di 11 anni che vive a Cafarnao, piccolo paese della Galilea sulle rive del lago di Genezaret. È solo al mondo: ha perso i genitori in una delle tante guerre che periodicamente travolgono il suo paese. Non ha una casa sua e dorme dove gli capita, a volte in un fienile oppure in una stalla, ma più spesso sotto le stelle, specialmente nelle calde notti d'estate.
Moses, anche se povero, una cosa la possiede: una cesta; con quella gira per i mercati e si offre per trasportare le merci di chiunque ne abbia bisogno. Così guadagna quelle poche monete che gli permettono di vivere.
A Cafarnao tutti lo conoscono per nome, anche perché Moses è sempre molto buono e disponibile; tutti sanno che, all'occorrenza, possono contare sul suo aiuto.
Una mattina un vecchio signore lo chiama:
«Moses, Moses, dove ti sei cacciato?»
«Eccomi, sto arrivando.»
«Ho un lavoro per te. Eccoti due monete: con questa mi comprerai del pane, e con l'altra del pesce; mi raccomando che sia bello e fresco! Stasera aspetto un ospite importante: non farmi fare brutta figura! Se mi servirai bene potrai rimanere a mangiare con noi a cena.»
Il ragazzo è ben contento di aver trovato un lavoro, e la prospettiva di una vera cena gli mette le ali ai piedi. In quattro salti è sulla riva del lago dove alcuni pescatori stanno aggiustando le reti.
«Avete del buon pesce da vendermi?»
«Mi spiace, ragazzo, ma da due giorni il lago è avaro con noi.»
Moses è deluso: di solito c'è pesce in abbondanza, oggi gli toccherà andarne a cercare nel paese vicino. Pazienza, tanto sia il pane che i pesci servono per la sera, poi forse è meglio così, perché su quella strada c'è Aronne che fa il pane più buono di tutta la regione. Avrà per questo una ricompensa in più. Un'ora dopo, infatti, sei bellissimi pani profumati sono scambiati per una moneta e vanno a finire nella cesta di Moses.
Poco lontano incontra due pescatori.
«Avete del buon pesce?»
«Quel poco che avevamo è già stato venduto, prova a chiedere più avanti.»
Da quasi due ore il ragazzo cammina inutilmente sulla riva del lago alla ricerca di pesce: meglio riposarsi un poco all'ombra di un grande eucalipto. I pani profumati sono una tentazione irresistibile e così comincia a mangiarne uno.
Ma ansimanti arrivano quattro bambini che stanno giocando a rincorrersi. Si fermano davanti allo sconosciuto, gli occhi fissi sul pane e la fame dipinta sul volto. Non si può mangiare in pace quando ti sta osservando chi ha più fame di te, e allora Moses divide il pane in quattro e lo dà ai bimbi che corrono via felici. Così non è più un furto ma una buona azione, anche se la pancia rimane vuota.
Una voce dal lago lo distoglie da questi pensieri.
«Ragazzo, afferra la cima e aiutami a tirare in secco la barca.»
In un balzo Moses è in acqua per aiutare il pescatore. Sul fondo della barca solo tre pesci, grossi e bellissimi.
«Me li vendi per una moneta?»
«Prendili pure, sono tuoi.»
Felice di aver completato la sua laboriosa ricerca, Moses si incammina verso casa.
Un'ora dopo incontra sulla riva del lago una gran folla. Strano, due ore fa, all'andata, non c'era nessuno. Ma ancor più strano che tutta quella gente se ne stia ferma e silenziosa ad ascoltare un uomo che parla in piedi su una barca.
«È Gesù», gli sussurra all'orecchio qualcuno. Quel Gesù di cui tutti parlano, che è passato più volte in questi paraggi, ma che Moses non aveva mai fino ad ora incontrato.
Camminando silenziosamente sulla spiaggia arriva a sedersi proprio davanti alla barca. Ma quella è la barca di Simone, anche lui di Cafarnao, che ora se ne sta seduto ai piedi di Gesù. Il ragazzo ascolta quelle bellissime parole che hanno il potere di entrare nel profondo del cuore.
Passa il tempo senza che nessuno mostri di accorgersene, o per lo meno quasi nessuno, visto che proprio Simone è assai preoccupato. Infatti, appena può, consiglia al Maestro di congedare tutta quella gente perché possa andarsi a comperare qualcosa da mangiare nei paesi vicini.
Ma lui risponde: «Dategli voi da mangiare!»
Simone è confuso, si guarda intorno ed esclama: «Ma Signore noi non abbiamo nulla. L'unico cibo che vedo è nella cesta di quel ragazzo qui davanti, cinque pani e tre pesci.»
Gesù allora si fa portare la cesta, la benedice e con quel poco cibo che si moltiplica miracolosamente sfama una folla immensa.
Moses è visibilmente sbalordito. E' uno dei pochi che ha visto coi propri occhi da dove è uscito tutto quel pane e quel pesce. Anche lui ne ha mangiato e più tardi, quando Simone gli restituisce la cesta vuota ancora emozionato balbetta: «Grazie».
«Grazie a te Moses», gli risponde dolcemente l'apostolo.
Le parole si Simone scuotono il ragazzo: è tardi, anzi tardissimo. Bisogna tornare subito a Cafarnao, ma con cosa, se la cesta è rimasta vuota. La gente andandosene ha lasciato dei pezzi di pane: in breve la cesta si riempie di pezzetti, di briciole, tutta roba che va bene per i poveri, non per un ospite importante, ma è pur sempre meglio di niente.
I pensieri galoppano nella testa di Moses mentre torna quasi di corsa verso casa. Ha assistito ad un miracolo incredibile, ha udito parole che danno la pace al cuore, ma cosa dirà al signore che aspetta i pani e i pesci?
Cosi assorto arriva alla casa del suo committente, corre in cucina, vuota sul tavolo la cesta e scappa via per non dover dare spiegazioni. Corre fin sulla riva del lago e va a nascondersi in una barca che ha riconosciuto come quella di Simone. Anche questo è un fatto inaspettato: tutte le altre barche hanno preso il largo per gettare le reti sul far della sera, e questa, che solo qualche ora fa ospitava Gesù, è ferma sulla spiaggia.
Ma è proprio Gesù l'ospite atteso al quale erano destinati i pani e i pesci. Moses questo non lo sa; lo sa invece Simone che racconta al padrone di casa tutto quanto è successo quel giorno, e come da quella cesta sia uscito cibo per una folla immensa.
Il mattino seguente il ragazzo si sveglia, afferra la sua cesta e come il solito va in cerca di qualche lavoro.
«Moses, Moses, aspettami!»
E' la voce del vecchio signore di ieri che lo sta chiamando. Non è arrabbiato, ma addirittura affettuoso, e allora il ragazzo invece di scappare si volta.
«Moses, ti prego, ascoltami. Simone ieri sera mi ha raccontato tutto. Tu senza saperlo hai dato a Gesù tutto quello che io ti avevo mandato a comperare per lui. Sei stato molto più bravo di quanto ti avessi chiesto, ed ora ho un gran debito con te. Io sono vecchio e solo; anche tu sei solo, vuoi venire ad abitare da me? Ti vorrò bene come ad un figlio, e alla mia morte tutto ciò che possiedo sarà tuo.»
Moses ora abita da tempo col vecchio signore. Nel suo cuore ricorda sempre le parole di Gesù ascoltate quella mattina sul lago: «Date, date a tutti, e riceverete il centuplo sulla terra e la vita eterna in paradiso».
Agli amici racconta spesso come un giorno abbia donato tutto ciò che aveva dentro una cesta e per ricompensa abbia ottenuto un padre.
donocondivisionegenerositàmoltiplicazione dei pani e dei pesci
inviato da Guglielmo Morini, inserito il 21/08/2017
RACCONTO
20. La volpe con la pancia piena
L'inverno era ormai alle porte. Gli alberi privi di foglie non offrivano più alcun riparo ed i piccoli animali si erano già preparati ad affrontare il freddo. Una giovane volpe vagava solitaria in cerca di un po' di cibo con il quale placare quella fame terribile che l'aveva colpita. Erano molti giorni che non mangiava. Le sue abituali prede si erano rifugiate in caldi ripari nutrendosi con le scorte alimentari raccolte durante l'estate ed era impossibile stanarli. Così, il povero animale camminava sconsolato pensando che la fame era veramente una brutta nemica. All'improvviso, un profumo delizioso le stuzzicò le narici. La volpe si avvicinò al punto da cui si propagava l'inaspettata fragranza e finalmente vide un enorme pezzo d'arrosto premurosamente sistemato nell'incavo di una quercia. Sicuramente era il pranzo dimenticato da qualche pastore.
L'animale si intrufolò nella cavità della pianta, riuscendo ad entrarvi con molta fatica. Quando si trovò all'interno del buco poté placare la propria irresistibile fame, divorando la carne in un boccone. Trascorsi alcuni minuti, la volpe con la pancia spaventosamente piena, decise di uscire dall'incavo per tornare all'aperto. Ma appena tentò di oltrepassare il buco dal quale era entrata scoprì di non essere più in grado di superarlo! Aveva mangiato troppo ed era diventata molto più grossa rispetto a prima. Spaventatissima si sforzò cosi tanto per uscire che alla fine rimase irreparabilmente incastrata nella fenditura!
Lo sfortunato animale iniziò a gridare finché una seconda volpe passando la vide e saputo quanto accaduto disse: «E' inutile strillare. Avresti dovuto avere pazienza ed aspettare tranquilla all'interno della pianta fino a quando la tua pancia non diminuiva. Invece l'impulsività ti ha ridotto in questa condizione e dovrai comunque aspettare finché non smaltirai ciò che hai mangiato». Così, la povera volpe rimase incastrata nella cavità per più di un giorno, rimpiangendo il calduccio che avrebbe trovato se avesse aspettato paziente all'interno della quercia.
La pazienza e il tempo sono degli ottimi alleati per affrontare qualsiasi difficoltà.
inviato da Qumran2, inserito il 11/07/2017
TESTO
21. La preghiera contemplativa
Carlo Carretto, Deserto in città
Quando partii per il deserto avevo lasciato tutto com'è l'invito di Gesù: situazione, famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno... le mie idee che avevo su Dio e tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.
E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in un'idea e avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui.
Il mio maestro di noviziato continuava a dirmi: "Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all'Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare...contempla...". Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ben ancorato alle mie idee.
Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare. Mamma mia! Lavorare nell'oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più.
Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta. Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca usciva solo qualche lamento.
L'unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà con i poveri, i veri poveri. Mi sentivo con chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno d'estate.
Se per pregare era necessario un po' di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda e ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario.
Non capivo più niente, o meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo!
E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io dovevo fare la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?
La preghiera passa per il cuore, non per la testa.
Sentii come se una vena si aprisse nel cuore e per la prima volta sperimentai una dimensione nuova dell'unione con Dio. Che avventura straordinaria mi stava capitando. Non dimenticherò mai quell'istante. Ero come un'oliva schiacciata dal torchio. Al di là della "sofferenza", che dolcezza indicibile mi inondava tutta la realtà in cui vivevo.
La pace era totale. Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.
Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa.
preghieracontemplazionepoveripovertàrapporto con Diolavoro
inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
TESTO
Carlo Maria Martini, La famiglia alla prova
Il Signore chiama solo per rendere felici. Le possibili scelte di vita, il matrimonio e la vita consacrata, la dedizione al ministero del prete e del diacono, l'assunzione della professione come una missione possono essere un modo di vivere la vocazione cristiana se sono motivate dall'amore e non dall'egoismo, se comportano una dedizione definitiva, se il criterio e lo stile della vita quotidiana è quello del Vangelo.
La prima è quella di essere marito e moglie, papà e mamma. L'inerzia della vita con le sue frenesie e le sue noie, il logorio della convivenza, il fatto che ciascuno sia prima o poi una delusione per l'altro quando emergono e si irrigidiscono difetti e cattiverie, tutto questo finisce per far dimenticare la benedizione del volersi bene, del vivere insieme, del mettere al mondo i figli e introdurli nella vita. L'amore che ha persuaso al matrimonio non si riduce all'emozione di una stagione un po' euforica, non è solo un'attrazione che il tempo consuma. L'amore sponsale è vocazione: nel volersi bene, marito e moglie possono riconoscere la chiamata del Signore.
Il matrimonio non è solo la decisione di un uomo e di una donna: è la grazia che attrae due persone mature, consapevoli, contente, a dare un volto definitivo alla propria libertà. Il volto di due persone che si amano rivela qualcosa del mistero di Dio. Vorrei pertanto invitare a custodire la bellezza dell'amore sponsale e a perseverare in questa vocazione: ne deriva tutta una concezione della vita che incoraggia la fedeltà, consente di sostenere le prove, le delusioni, aiuta ad attraversare le eventuali crisi senza ritenerle irrimediabili.
Chi vive il suo matrimonio come una vocazione professa la sua fede: non si tratta solo di rapporti umani che possono essere motivo di felicità o di tormento, si tratta di attraversare i giorni con la certezza della presenza del Signore, con l'umile pazienza di prendere ogni giorno la propria croce, con la fierezza di poter far fronte, per grazia di Dio, alle responsabilità. Non sempre gli impegni professionali, gli adempimenti di famiglia, le condizioni di salute, il contesto in cui si vive, aiutano a vedere con lucidità la bellezza e la grandezza di questa vocazione. È necessario reagire all'inerzia indotta dalla vita quotidiana e volere tenacemente anche momenti di libertà, di serenità, di preghiera.
Invito pertanto a pregare insieme: una preghiera semplice per ringraziare il Signore, per chiedere la sua benedizione per sé, i figli, gli amici, la comunità: qualche Ave Maria per tutte quelle attese e quelle pene che forse non si riescono neppure a dire tra i coniugi.
Invito ad aver cura di qualche data, a distinguerla con un segno, come una visita a un santuario, una messa anche in giorno feriale, una lettera per dire quelle parole che inceppano la voce: la data del matrimonio, quella del battesimo dei figli, quella di qualche lutto familiare, tanto per fare qualche esempio.
Invito a trovare il tempo per parlare l'uno all'altro con semplicità, senza trasformare ogni punto di vista in un puntiglio, ogni divergenza in un litigio: un tempo per parlare, scambiare delle idee, riconoscere gli errori e chiedersi scusa, rallegrarsi del bene compiuto, un tempo per parlare passeggiando tranquillamente la domenica pomeriggio, senza fretta. E invito a stare per qualche tempo da soli, ciascuno per conto suo: un momento di distacco può aiutare a stare insieme meglio e più volentieri.
Invito infine gli sposi ad avere fiducia nell'incidenza della loro opera educativa: troppi genitori sono scoraggiati dall'impressione di una certa impermeabilità dei loro figli, che sono capaci di pretendere molto, ma risultano refrattari a ogni interferenza nelle loro amicizie, nei loro orari, nel loro mondo. La vocazione dei genitori a educare è benedetta da Dio: perciò occorre che essi trasformino le loro apprensioni in preghiera, meditazione, confronto pacato. Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto. Educare è una grazia che il Signore fa: occorre accoglierla con gratitudine e senso di responsabilità. Talora richiederà pazienza e amabile condiscendenza, talora fermezza e determinazione, talora, in una famiglia, capita anche di litigare e di andare a letto senza salutarsi: ma non bisogna perdersi d'animo, non c'è niente di irrimediabile per chi si lascia condurre dallo Spirito di Dio. Ed esorto ad affidare spesso i figli alla protezione di Maria, a non tralasciare una decina del rosario per ciascuno di loro, con fiducia e senza perdere la stima né di se stessi né dei propri figli. Educare è diventare collaboratori di Dio perché ciascuno realizzi la sua vocazione.
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inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
ESPERIENZA
don Andrea Bellò, Avvenire, 31 maggio 2017
Il muro della parrocchia milanese di san Michele Arcangelo e santa Rita a Milano è stato imbrattato con una scritta offensiva e blasfema: "Aborto libero (anche per Maria)".
Il 29 maggio 2017 il parroco, don Andrea Bellò, ha deciso perciò di scrivere una lettera aperta all'anonimo imbrattatore sulla pagina Facebook della Parrocchia. Il post è divenuto subito virale e ha raccolto migliaia di consensi in poco tempo.
Caro scrittore anonimo di muri,
Mi dispiace che tu non abbia saputo prendere esempio da tua madre. Lei ha avuto coraggio. Ti ha concepito, ha portato avanti la gravidanza e ti ha partorito. Poteva abortirti. Ma non l'ha fatto. Ti ha allevato, ti ha nutrito, ti ha lavato e ti ha vestito. E ora hai una vita e una libertà. Una libertà che stai usando per dirci che sarebbe meglio che anche persone come te non ci dovrebbero essere a questo mondo. Mi dispiace ma non sono d'accordo. E ammiro molto tua mamma perché lei è stata coraggiosa. E lo è tutt'ora, perché, come ogni mamma, è orgogliosa di te, anche se ti comporti male, perché sa che dentro di te c'è del buono che deve solo riuscire a venire fuori. L'aborto è il "non senso" di ogni cosa. È la morte che vince contro la vita. È la paura che vince su un cuore che invece vuole combattere e vivere, non morire. È scegliere chi ha diritto di vivere e chi no, come se fosse un diritto semplice. É un'ideologia che vince su un'umanità a cui si vuole togliere la speranza. Ogni speranza. Io ammiro tutte quelle donne che pur tra mille difficoltà hanno il coraggio di andare avanti. Tu evidentemente di coraggio non ne hai. Visto che sei anonimo. E già che ci siamo vorrei anche dirti che il nostro quartiere è già provato tanti problemi e non abbiamo bisogno di gente che imbratta i muri e che rovina il poco di bello che ci è rimasto. Vuoi dimostrare di essere coraggioso? Migliora il mondo invece di distruggerlo. Ama invece di odiare. Aiuta chi è nella sofferenza a sopportare le sue pene. E dai la vita, invece di toglierla! Questi sono i veri coraggiosi! Per fortuna il nostro quartiere, che tu distruggi, è pieno di gente coraggiosa! Che sa amare anche te, che non sai neanche quello che scrivi!
Io mi firmo:
don Andrea
Posto nella pagina Facebook della Parrocchia san Michele arcangelo e santa Rita, Milano
inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
RACCONTO
In uno sperduto angolo del regno d'Etiopia, viveva un re che amava le favole più di ogni altra cosa al mondo. Diventato vecchio, però, si annoiava perché ormai le conosceva tutte. Così un giorno fece annunciare in tutto il Paese che avrebbe dato il titolo di principe a chiunque gli avesse saputo raccontare una favola nuova, in grado di suscitare la sua attenzione e la curiosità di conoscere il finale. Numerosi cantastorie vennero da tutti gli angoli del reame e dai Paesi vicini, ma nessuno riuscì ad interessare le orecchie reali, sempre tristi e distratte.
Un giorno un povero contadino bussò alle porte del palazzo per raccontare al vecchio re la storia di un agricoltore che aveva ammassato nel suo granaio il raccolto più ricco della sua vita. Ma c'era un piccolo buco nel granaio e, quando tutto il grano fu portato dentro, una formica vi entrò e portò via un chicco. «Molto interessante, continua" disse il re. Il contadino proseguì: «Il secondo giorno un'altra formica passò nel buchino e portò via un altro chicco di grano, il terzo giorno accadde la stessa cosa...».
Il re era ormai molto preso dalla storia del contadino e chiese di tagliare corto sui dettagli per sapere come andava a finire tutto quel via vai di formiche nel granaio. «Vai avanti, non mi annoiare!», urlò il re rosso in viso. Ma il contadino continuava. «Basta! Vai avanti!», ordinò il re. Il contadino sembrava sordo e proseguiva con la sua cantilena di formiche e chicchi di grano. Si interruppe per dire: «Mio re, questa è la parte più importante della storia: il granaio è ancora pieno di chicchi di grano». Allora il sovrano esclamò: «Hai vinto tu! Ho capito che bisogna saper ascoltare gli altri con pazienza e umiltà. I racconti più belli non sono quelli che ci stupiscono con grandi eventi, ricchezze, rivoluzioni e storie d'amore impossibili. Sono quelli che, come succede nella vita di ogni giorno, ci fanno sperare di riuscire a vedere i risultati dei nostri sforzi».
Così il contadino divenne un principe e nacque il proverbio: «Un granello alla volta si costruisce una fortuna».
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inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
TESTO
25. Lettera a Carlotta per il giorno della sua Prima Comunione
Cara Carlotta, domani riceverai per la prima volta nella vita una minuscola particola fatta di grano ma che racchiude, per coloro che hanno fede, il Corpo, il Sangue, l'Anima e la Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. Che mistero grande mia adorata Carlotta. Forse dopo il giorno della tua nascita e quello in cui ricevesti il Battesimo questo sarà il giorno, in assoluto, più importante della tua vita.
Non lasciarti distogliere dall'abito bianco, dalla ghirlanda che forse metterai tra i capelli, ai regali che ti aspetti di ricevere, dai parenti che verranno a vederti in chiesa...
La cosa più importante è Gesù, Gesù solo.
Lui, l'immenso incontenibile viene ad abitare nel piccolo muscolo di carne che è il tuo cuore, viene nella tua anima bianca e immacolata, viene nel tuo corpicino esile come un fiore.
Lui, il grande si umilia per amore e diventa piccolo piccolo, come un boccone di pane. Lo Spirito divino prende in prestito la materia del grano (di cui è fatta quella piccola ostia) per condividere con te la sua divinità, la sua grandezza.
Lo so, lo so, che sono parole troppo difficili da comprendere ora, ma ci avrà pensato la tua catechista a farti comprendere l'inspiegabile mistero. Le catechiste hanno dimestichezza a sminuzzare il pane del catechismo e nutrire le vostre angeliche intelligenze per facilitare l'approccio alla comprensione di tale misterioso avvenimento, a prepararvi a tale privilegiato incontro.
Quando riceverai Gesù, abbraccialo stretto stretto, chiudi gli occhi e digli parole d'amore. Digli che lo ami e lo ringrazi di tale visita, di tale dono.
Non guardarti intorno. Non voltarti a vedere se c'è la nonna, se c'è la zia... se la mamma ti sta fotografando... nessuno in quel Momento conta più di Gesù!
Quello è un momento imperdibile!
Non sprecarlo, non sciuparlo, non sminuirlo...In quel momento il tuo corpicino è diventato un tabernacolo vivente, gli angeli ti stanno svolazzando intorno perché dentro di te c'è il loro Signore!
E tu non distrarti, concedigli almeno dieci minuti per ringraziarlo e per pregarlo. Pregalo per la mamma, per il tuo papà, per la nonna, per il nonno che è in Paradiso... per tutti i bambini che non hanno pane, per quelli che non hanno casa, per quelli che attraversano il mare agitato sui gommoni, in cerca di una terra che li accolga. Prega per le tue amichette, prega per i tuoi insegnanti, prega per i tuoi parenti... prega anche per me. So che lo farai e di questo ti ringrazio e ti abbraccio con tutto il mio cuore.
Sai Carlotta, ricordo quel giorno che aspettavamo dietro una porta che ci comunicassero la tua nascita in questo mondo... quel giorno entrasti anche nella mia vita e lì resterai sempre, e non ne uscirai mai più. Ti voglio bene.
Tua zia Anna
prima comunioneeucaristiacatechismomessa
inviato da Anna Marinelli, inserito il 30/06/2017
ESPERIENZA
Padre Modesto Paris, Panorama, num. 23/2017
Mancano poche ore al mio intervento di tracheostomia. Alcuni giorni fa ho dovuto prendere una decisione che non prevede ripensamenti. Non si può più tornare indietro. Mai avrei pensato di affrontare questa scelta a 59 anni. Ma i dottori mi hanno detto chiaro e tondo che sono arrivato alla fine del mio sentiero. Manca poco. E se non mi faccio aiutare con un foro nella trachea per far passare un tubo da collegare a una macchina esterna, il mio corpo non ce la farà più a respirare in maniera autonoma. L'alternativa era una sola: finire la mia permanenza terrena in modo dolce, addormentato. Da due anni mi hanno diagnosticato la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che, un pezzo alla volta, ha bloccato tutte le mie funzioni motorie e vitali. I medici sono stati chiari: mi hanno detto che solo il 15 per cento delle persone nelle mie condizioni decide di continuare a lottare. Il mio sì alla vita, nonostante le statistiche, è stato però immediato, senza esitazioni. E non solo perché sono un uomo di fede, un frate agostiniano scalzo, ordinato sacerdote 33 anni fa da Papa Giovanni Paolo II. L'ho fatto perché amo la vita in ogni sua sfaccettatura.
Ho puntato tutto il mio sacerdozio sull'esempio. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Per tutti i miei anni con il saio l'ho predicato in migliaia di Messe, in chiesa o in cima alle montagne. Agli adulti o ai giovani delle associazioni che ho fondato, ho sempre proposto un modello di vita basato su una fede viva aperta e gioiosa. Anche nelle difficoltà. Specialmente nelle difficoltà. Mentre sono sul letto su cui aspetto la chiamata per la sala operatoria, arriva una telefonata. È Guido. Il mio amico di sempre, compagno di tutte le mie avventure e "pazzie" nel volontariato. Lo conosco da quando ha cominciato a fare il chierichetto con me 40 anni fa. Io avevo 18 anni, lui 8. Ora è giornalista di Panorama. E nonostante abiti a 150 chilometri di distanza e abbia appena avuto un figlio, non ha mai smesso di credere ai miei sogni. Mi chiama e chiede se voglio raccontare a tutti i lettori perché ho detto sì. Perché non mi voglio arrendere. Se potessi ancora parlare ripeterei a gran voce queste parole di Papa Francesco: "Il dolore è dolore, ma vissuto con gioia e speranza ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo". Non potendo urlare lo scrivo sul tablet che mio fratello Andrea sorregge. Uso tre dita della mano destra. L'unica parte di me che ancora riesco a muovere. Oltre agli occhi.
Vado a ruota libera. Metto in fila i pensieri che come un lampo hanno attraversato la mia mente, gli istanti prima del mio sì. In camera mia i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. "L'aquilone prende il volo solo con il vento contrario". In questi mesi l'ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E proprio per questo ho continuato a volare. La mia decisione per il sì alla respirazione artificiale non è arrivata subito. È frutto di un cammino in salita che dura da mesi. A ogni ostacolo è seguita sempre una soluzione. E la vita è andata avanti. E io sono stato felice. Per prima cosa la malattia mi ha bloccato le corde vocali. Da quasi un anno non parlo più. Ma in mio aiuto è arrivato il comunicatore: un computer che parla al posto mio traducendo in messaggi audio i pensieri che digito sulla tastiera. Grazie a questo strumento tecnologico, per me la Messa non è mai finita. Ho potuto celebrare quasi tutte le domeniche. Anche in ospedale. Persino in diretta su Facebook. L'attenzione è addirittura aumentata. E ho visto tornare in chiesa tanti giovani che si erano smarriti. Poi ha smesso di funzionare la mia deglutizione e lo stomaco. Mi hanno messo un "rubinetto" nella pancia che permette di alimentarmi artificialmente. I canederli di mia madre e la pasta al pesto sono solo un ricordo.
Ma riesco a farne a meno. Sono pure dimagrito e tornato un figurino. Di Sant'Agostino cito spesso una frase: "È meglio aver meno desideri che avere più cose". E mentre scrivo queste righe capisco quanto sia vera. Non so spiegarlo, ma mi sento fortunato. Vado avanti e dico sì anche al rubinetto. Prima l'una poi l'altra, si sono fermate le gambe. E poi il braccio sinistro. Da bravo trentino, come un montanaro su un sentiero, ho continuato a salire in vetta. Questa volta sono spinto da una carrozzina elettrica ultratecnologica che io chiamo Bcs come il mio primo trattore. Penso e ripenso all'ok che ho scritto sulla lavagnetta ai medici e il sì diventa sempre più mio: ho sempre osato nella vita. Mi sono sempre spinto oltre. Per questo per me il sì è venuto spontaneo. Lo dico e lo ripeto più volte a me stesso, chi mi conosce condivide. Chi mi vuole bene sorride orgoglioso di questo sì. Un infermiere mi ha sorpreso: ha detto che il dolore va sempre prevenuto con medicine ad hoc. Ma senza dolore e sacrificio, la vita è noia. Non mi sento un grande, ma un piccolo Modesto che ha sempre sognato oltre le stelle. Questa nuova macchina mi aiuterà a respirare e a mantenere il mio sorriso anche quando non potrò nemmeno fare ok con il pollice: con il cuore e con gli occhi sarà facile farmi capire da chi mi vuol bene. Sant'Agostino scrive: "Ama, e fa' quello che vuoi". Si ama con il cuore e con gli occhi. Quindi non cambierà nulla nemmeno questa volta. Tante sono le cime che ho scalato insieme ai ragazzi e agli adulti dei gruppi che in questi anni ho fondato.
Ci sono vette che vedi sempre mentre stai salendo, scorgi i sentieri, sai benissimo dove si trova la meta perché l'hai raggiunta tante volte. Altre vette non le vedi, le immagini, le sogni. Alcune hanno bisogno di gambe buone, altre di un cuore grande, altre di grinta, altre di tanta fede. Gli infermieri mi chiudono il computer. Ho scritto tutta la notte. Sono esausto. È ora di andare sotto i ferri. E tutto quello che ho digitato forse non potrò leggerlo sfogliando Panorama. Porto con me in sala operatoria il fazzoletto promessa simbolo di appartenenza ai gruppi e una piccola croce di legno. È venerdì, sono le 9 di mattino. Proprio il giorno e l'ora in cui Gesù è stato crocifisso. Ho paura, ma cerco di non farlo vedere. L'anestesia sta svanendo. Mi sono svegliato, respiro bene. Quelli che vedo sono i miei amici di sempre. Sono angeli, ma non hanno le ali. Sono ancora vivo. Chiedo il computer. Voglio finire di scrivere le ragioni del mio sì alla vita. Mi viene in mente un racconto che mi ha fatto un giorno la caposala, trentina di nascita, genovese d'adozione, come me. Mi parla di una ragazza che ha assistito 30 anni fa. Si chiama Paola: a 19 anni, presenta disturbi motori e neurologici. Non si cita la Sla perché non la si conosceva ancora. Soltanto nove anni dopo le comunicano di avere proprio quella malattia. Paola conosce Alessandro, mentre riesce ancora a camminare e gli rivela sin da subito di essere malata. Paola e Alessandro si sposano e poco tempo dopo decidono di avere un figlio. Nel frattempo la malattia di Paola va avanti e non le permette più di camminare. I medici non sono favorevoli alla gravidanza perché pensano che possa essere troppo rischiosa. E invece nasce Luca un bimbo bellissimo e sano. Paola, poco per volta, perde tutte le sue funzionalità motorie e respiratorie, si deve sottoporre a vari interventi come quelli che ho affrontato io. Alimentazione assistita e tracheotomia.
Oggi la sua è una bellissima famiglia. Luca ha 18 anni, Paola muove solo gli occhi e Alessandro sa usare con molta abilità tutte le macchine che tengono in vita la moglie. Tantissimi sono gli amici che a turno vanno ad aiutare la sua famiglia e a chi le chiede come possa vivere così lei risponde: "Io sono felice così". Anche io sono felice così. Perché finché vivo mi posso nutrire della vita degli altri. Della grande famiglia che in questi anni è cresciuta con me. Vivo per sapere come vanno le attività dei miei ragazzi, dei gruppi di adulti, dei miei fratelli (e confratelli agostiniani), di mia mamma. Sapere che un giovane che conosco si è sposato o ha avuto un figlio mi riempie di gioia. Vedere un video e le foto di un campo o un bivacco, oppure sapere che una festa del volontariato è riuscita nell'intento di aiutare un orfanotrofio, mi fa sorridere. Mi fa sentire bene. Mi fa sentire vivo. Quanto è vera la frase "la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare". L'ho ripetuta centinaia di volte per motivare i ragazzi ad arrivare in cima a una montagna. Ora è il mio bastone. La mia fede è rimasta la stessa. Quella fede del montanaro con gli scarponi. Quella del bambino cresciuto in segheria. Primo di sei fratelli ho iniziato a lavorare quando non avevo ancora compiuto 4 anni. Il mio compito era stare accanto alla " bindella a zapar stece", vicino alla sega a nastro per raccogliere le assicelle tagliate che servivano a costruire cassette per le mele. Il mio mondo era quello, lo stesso di mio padre. A 12 anni la chiamata.
Ho lasciato quel mondo per entrare in convento. E non l'ho abbandonato nemmeno quando morì, giovanissimo, mio padre. Lo avevo promesso a mia mamma che, in quell'occasione mi disse: "No nir fora parché se vene fora le come moris en auter". Voleva dire: "Non uscirai mica dal seminario, perché se lo fai è come se morisse un altro". Una frase che mi ha dato la carica per diventare sacerdote e che continua a spronarmi ancora oggi che sono bloccato a letto. È per mia mamma che ho detto sì. Ma non solo. Chiudo con un segreto, che non ho mai rivelato a nessuno. Nel 1985 sono stato ordinato sacerdote da Papa Giovanni Paolo II. Avevo 26 anni. C'è stato un momento, prima che mi ponesse le mani sulla testa, in cui abbiamo scambiato alcune parole. Davanti alla Pietà del Michelangelo, in San Pietro, a Roma, gli ho confidato il mio sogno: fare da guida ai ragazzi e agli adulti nella cordata della vita. Nella frase che ho detto c'era la parola "per sempre". E così è stato. E così sia.
Mercoledì 31 maggio 2017, poco giorni dopo aver scritto questa lettera, il sottile spago che teneva legato alla terra il fragile aquilone si è spezzato, cosi Modesto ha potuto proseguire il volo, verso il cielo.
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inviato da Qumran2, inserito il 08/06/2017
RACCONTO
C'era una volta un chicco di grano. Si era staccato dalla spiga alla fine del mese di giugno e aveva riposato per tutta l'estate in un comodo sacco di juta insieme a migliaia di suoi amici. Si stava proprio bene in quel luogo, sufficientemente comodo e fresco.
L'estate passo senza nessuna grossa novità. Venne infine l'autunno. Le giornate si facevano più corte e dalle finestre del granaio, dove il sacco di juta era stato messo, si intravedeva il sole che ogni giorno si abbassava sempre più: presto sarebbe arrivato l'inverno e le prime piogge.
Improvvisamente, una mattina, il sacco fu sollevato e preso sulle spalle da un uomo e caricato sul pianale di un trattore.
"Che succede? Dove ci portano? Come mai andiamo via da questo luogo?". L'agitazione dentro il sacco cresceva sempre più, e nessuno dei chicchi sapeva dare una spiegazione valida a quello che stava succedendo. Sballottati dalle manovre, i chicchi si lamentavano: "Ohi ohi, che botta! Non spingete! Mi sei venuto addosso!"
Finalmente il trattore si fermò. Il sacco fu scaricato per terra. Mani forti aprirono il sacco, raccolsero diverse manciate di chicchi e le misero in piccolo secchio. Anche Chicco finì lì dentro.
l contadino, con gesto solenne, prendeva continuamente manciate di chicchi e le spargeva nella fredda terra. Era arrivato il tempo della semina.
"Non voglio, non voglio finire nella terra, in quel solco tanto freddo dove mi toccherà stare da solo!", gridava a squarciagola il nostro Chicco.
Il contadino sentì i lamenti, e disse: "Se tu non vuoi essere seminato, nemmeno potrai diventare una bella spiga, piena di tanti chicchi, che macinati, diventeranno buon pane per sfamare tante persone". Chicco capì e si lasciò seminare senza più brontolare.
Arrivò intanto l'autunno e infine l'inverno. Per il nostro Chicco fu davvero difficile. Nel solco del campo, era freddo e buio. Frequentemente arrivava la pioggia, che faceva ancor più intirizzire Chicco. Si faceva forza, pensando alla bella spiga, gonfia di chicchi, che da lui sarebbe nata.
Una bella mattina di fine inverno, rallegrata da un solicchio che con i suoi raggi arrivava fino a fargli il solletico al naso, Chicco sentì che la buccia che lo avvolgeva si stava aprendo e da lui cominciava a germogliare una piccola piantina. Concentrò tutta la sua attenzione su quel germoglio, che ogni giorno di più si faceva posto fra la terra, finché un giorno arrivò a vedere la superficie: che spettacolo meraviglioso! Il campo era pieno di centinaia e centinaia di piantine che facevano capolino, vestite di un verdolino luminoso. Era spuntato il grano!
I giorni e le settimane passavano in fretta. Chicco e le altre piantine di grano crescevano quasi a vista d' occhio. Un giorno, in cima alla piantina ormai diventata grande, spuntò una piccola, meravigliosa spiga di grano, tenera e verdolina. Col passare del tempo, la spiga divenne sempre più robusta e gialla, piena di numerosi chicchi. Era pronta per essere mietuta.
Il grano fu raccolto, i chicchi separati dalla spiga, deposti a loro volta nei sacchi, portati al mulino e macinati. La farina era pronta per essere usata!
Un bravo fornaio ne acquistò vari sacchi, la impasto con l'acqua e il lievito, ne fece belle pagnotte, che una volta cotte nel forno, diventarono pane fragrante, pronto ad essere mangiato.
Si, i sacrifici di Chicco, erano serviti davvero a qualcosa: era diventato pane per saziare chi ha fame. Pane da condividere con tutti, come ogni altro bene che abbiamo ricevuto da Dio.
granopanesacrificioeucaristiadisponibilità
inviato da Don Ernesto Testi, inserito il 20/03/2017
RACCONTO
28. Dov'è finita la stella cometa? 2
Bruno Ferrero, L'iceberg e la duna
Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all'asino. Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.
«La nostra missione è compiuta!», disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. «Torniamo a casa!», esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco. «Guardate! La stella continua a guidarci», annunciò Baldassarre.
La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente. La corte dei Magi si avviò serpeggiando attraverso il deserto di Giudea. La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri. Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile. Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.
Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo. Era scomparsa. «La nostra stella non c'è più», si lamentò Melchiorre. «Non l'abbiamo nemmeno salutata». C'era una sfumatura di pianto nella sua voce. «Pazienza!», ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico. «Adesso possiamo cavarcela da soli. Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio».
Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella. Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c'era proprio più. «Dove sarà andata?», domandò, deluso. Nessuno rispose. In silenzio, ripresero al marcia verso Oriente.
La silenziosa carovana si trovò presto ad un incrocio di piste. Qual era quella giusta? Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore. Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera. Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire, poi con semplicità offrì a tutti latte e formaggio. In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.
I Magi ripartirono pensierosi. Dopo un po', incontrarono un villaggio. Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino. Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise. Cominciava a capire.
Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno ad uno dei suoi dromedari che era caduto e aveva disperso il carico all'intorno. Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia. Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.
«Adesso so dov'è finita la nostra stella!», esclamò Baldassarre in tono acceso. «È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c'è un cuore buono e generoso!». Melchiorre approvò: «La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino: ciò che conta è l'amore». «I gesti concreti dell'amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa», concluse Gaspare. E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d'avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.
Ci sono uomini e donne che conservano in sé un frammento di stella cometa. Si chiamano cristiani.
epifaniare Magistellabontàtestimonianza
inviato da Don Antonello Pelisseri, inserito il 28/12/2016
TESTO
29. Testamento di Raoul Follereau
Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi. Scrivevo, venticinque anni fa: "O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l'uomo vivrà per l'uomo, o gli uomini moriranno". Tutti e tutti insieme.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire. Bisogna scegliere. Subito. E per sempre. Ieri, l'allarme. Domani, l'inferno.
I Grandi - questi giganti che hanno cessato di essere uomini - possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all'idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un'intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore. L'Apocalisse è all'angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire "no" al suicidio dell'umanità.
"Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere". Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele...
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me. Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare. Questa è l'ultima ambizione della mia vita, e l'oggetto di questo "testamento".
Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C'è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l'umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: "la pace, la pace", perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.
I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano. Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.
Allontanatevi dai mascalzoni dell'intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste "tecniche divinizzate" che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi "progressi" e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell'anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell'uomo. Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione! La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l'Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell'umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d'amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.
Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un "progresso" folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido "ho fame!" che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: Essere veramente fratelli.
Allora... domani?
Domani, siete voi.
testamentopaceguerradisarmogiovanilibertàamoregiustiziaingiustiziafame nel mondopovertàricchezza
inviato da Fra Roberto Brunelli, inserito il 28/12/2016
TESTO
Madeleine Delbrel, Il piccolo monaco, Gribaudi editore, Torino, 1990
Gesù vuol vivere in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.
Incontrerà
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.
Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gli inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.
Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.
Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.
discepolisequelatestimonianzaamorecaritàGesù
inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 28/12/2016
PREGHIERA
31. Lettera di un parroco a Gesù Bambino
Caro Gesù Bambino,
da quando il Padre tuo, per mezzo di te, ha creato l'uomo, tu non ti sei mai stancato di amarlo. Per la sua salvezza, ti sei fatto carne nel seno della Vergine. Dalla carne gli hai mostrato quanto è grande la tua compassione, la tua divina carità. Nella carne hai preso tutti i suoi peccati e nel tuo corpo li hai affissi su legno della croce, per toglierli dalle sue spalle. Per attestare che ogni tua parola, ogni tuo gesto d'amore è vero, sei risorto e ora sei assiso nella più alta gloria del Cielo, avendo ricevuto dal Padre un nome che è sopra ogni altro nome.
Dinanzi a te, ogni ginocchio si piega sulla terra, nei cieli, sotto terra e ogni lingua proclama che solo tu sei il Signore. Non esistono altri signori nell'universo. Solo tu sei la Vita di ogni uomo. Questa la tua verità eterna. Questa è la nostra fede. In te, solo in te, l'uomo ritrova la luce, la pace, se stesso.
Dopo la tua gloriosa ascensione, hai bisogno della nostra carne per continuare la tua missione. Hai bisogno del mio corpo per dire la tua parola, per battezzare nel tuo nome, per perdonare i peccati, per fare te pane di vita, per trasformare te in Eucaristia. Per mostrare ad ogni uomo la tua compassione, la tua carità, la tua salvezza, per discerne e separare con taglio netto, più che spada a doppio taglio, la luce dalle tenebre, la verità dalla falsità, il bene dal male, la giustizia dall'ingiustizia, l'amore dall'odio, la pace dalla guerra, la virtù dal vizio.
Non hai bisogno di un corpo di peccato, nel quale non può abitare lo Spirito Santo e il tuo cuore mai potrà muovere il mio. Hai bisogno della mia carne pura, santa, immacolata, come la carne della Madre tua. Se è nel peccato, non può essere data a te, perché appartiene già al principe del mondo. Per questo ti scrivo: per chiederti questa piccola grazia: fa' che la tua carne sia la mia carne, il tuo cuore il mio cuore, la tua anima la mia anima, il tuo Spirito Santo il mio Spirito Santo, i tuoi sentimenti i miei sentimenti.
Conformami a te, perché come te, in te, per te, possa esercitare il mio ministero profetico, sacerdotale, regale come lo hai esercitato tu. Sarò sacerdote secondo il tuo cuore. Il mondo lo vedrà e tutti si lasceranno conquistare a te. Ti prego. Non negarmela. Tu per questo vieni: per farci vita della tua vita, per essere veri strumenti della tua salvezza.
Sarei egoista se pensassi solamente a me. La mia Parrocchia è fatta di molte persone: piccoli giovani, adulti, anziani, sani, ammalati, vicini a te, ma anche tanti che da te sono lontani. Anche per ogni persona affidata alle mie cure pastorali ti chiedo una grazia. Fa' che quanti sono vicini a te, crescano nel tuo amore, diventino tuoi missionari per fare conoscere te a quanti non ti conoscono o si sono stancati di servirti, perché privi del tuo amore nel loro cuore.
Dona a questi tuoi fedeli costanza nel servizio, perseveranza nell'amore, fortezza nell'impegno, zelo nella proclamazione della tua Parola, carità sempre viva perché mai si stanchino di amare, come non ti sei stancato tu, concludendo la tua missione sull'albero della croce. A quanti sono lontani dal tuo cuore e dalla tua parola, manda dal cielo lo Spirito di conversione come hai fatto con Saulo, il tuo persecutore. Tu lo hai convertito e ne hai fatto un tuo apostolo, sempre fedele nel servizio e perennemente obbediente alla tua volontà.
Aiuta quanti sono piccoli a crescere in età, sapienza e grazia. Sostieni i giovani perché non si smarriscano dietro le false profezie del mondo, le ingannevoli promesse e inganni che sempre le tenebre prospettano loro come vera luce. Dona alle famiglia la gioia dell'unità, della pace, del perdono, della mutua carità. Rendi gli uomini liberi per abbracciare la fede nel tuo Vangelo, senza mai vergognarsi di testimoniarti in ogni momento e circostanza della vita.
Ai senza lavoro provvedi perché abbiano il loro pane quotidiano. Agli ammalati porta la consolazione della tua presenza, così come hai fatto con tutti i sofferenti del tuo tempo. A tutti dona la saggezza dello Spirito Santo e la luce della verità.
Tu, Caro Gesù Bambino, dal tuo cielo ci scruti, ci conosci, sai le nostre debolezze, fragilità, carenza di amore. Sai che ci stanchiamo con facilità. Iniziamo tante cose, ma poi non abbiamo la forza di imitarti restando fedeli alla missione. Ti prego, manda con potenza su di noi il tuo Santo Spirito come hai fatto sugli Apostoli il giorno della Pentecoste. Fa' che Lui venga con tutta la potenza dei suoi santi sette doni: sapienza, conoscenza, fortezza, consiglio, intelletto, pietà, timore del Signore.
Senza di lui che ci muove e ci attrae, noi saremo sempre privi di quell'energia divina che ci fa tuoi veri servi. Noi non vogliamo essere discepoli oziosi, infingardi, negligenti, apatici, senza alcuna volontà di amarti. Vogliamo servirti con tutto l'amore che abita nel tuo cuore. Se tu non divieni, con il tuo Santo Spirito, il nostro nuovo alito di vita, mai ti serviremo secondo il tuo cuore e mai porteremo una sola anima a te. Vieni presto, non tardare. Abbiamo bisogno di te, per servire te, per amare te, per mostrare ad ogni uomo te.
Vergine Maria, Madre di Gesù, Madre della Redenzione, presenta la nostra preghiera al tuo Divin Figlio, prima però rivestila con il tuo cuore, avvolgila con la tua anima, così Gesù penserà che se tu che chiedi ogni cosa per te e di certo ti esaudirà. Angeli e Santi, intercedete per noi, gridate al cuore di Gesù perché ascolti la nostra supplica. Vogliamo vivere in lui, per essere di lui, per portare i cuori a Lui. Per lui sempre è Natale quando nasce in un cuore.
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inviato da Qumran2, inserito il 24/12/2016
RACCONTO
Ho capito esattamente come avrei voluto il mondo
quella volta in cui da piccolino
mia madre mi scrisse sulla mano
pane
e mi disse:
- Esci e torna solo quando avrai trovato quello che ti ho scritto sulla mano.
Facile, pensai. Vado fino al forno che è all'angolo della via e torno
Mentre camminavo vidi due vecchietti litigare tra loro
ma non mi fermai perché avevo troppa fretta di prendere il pane e tornare a casa
Arrivai nel negozio e chiesi del pane
la commessa abbastanza disturbata mi chiese che tipo e quanto
- Mica puoi venire fin qui ragazzì se non mi sai dire nemmeno quello che vuoi.
Tornai a casa quel primo giorno senza pane e molto triste
Mia madre sorrideva e io non capii.
Il secondo giorno mi disse:
- Adesso ci riproviamo
e mi scrisse di nuovo
pane
Inquieto nel voler risolvere la pratica, le stavo per chiedere cosa, quanto
Ma lei con voce amorevole aggiunse
- decidi tu -
Corsi al panificio e non mi accorsi della bella ragazza con i capelli biondi che piangeva triste all'angolo della via.
Quel giorno presi del pane a caso
Era decisamente troppo e non del tipo che mangiavamo noi di solito.
Così decisi di prendermi un giorno e fare il furbetto. La sera avrei osservato che tipo di pane mamma aveva preso e in che quantità, così finalmente sarei riuscito a portare a tavola il pane giusto.
Quel pomeriggio uscii e camminando per la solita strada vidi i due signori del primo giorno che mi fermarono e dissero che avevano fatto la pace dopo che mi avevano visto passare qualche giorno prima perché gli avevo ricordato il loro figlio da piccolino.
- Sai, ora è in missione di pace. Ma noi la chiamiamo guerra.
Poi vidi quella splendida ragazzina. Le sorrisi Lei sorrise a me. E ci fermammo a parlare
- Piangevo perché i miei nonni si stavano facendo la guerra.
- Non facevano la guerra, litigavano. - Le dissi
- Si comincia non capendo le piccole cose dell'altro che ti è tanto vicino e si continua facendo la guerra a chi non conosci solo perché non lo conosci ed è diverso da te.
Mi sembrò così grande in quel momento. Le chiesi se le andava di venire a cena da noi.
Lei mi disse.... sì.
La sera intorno alla mia tavola, apparecchiata in giardino come tutte le nostre sere d'estate, con la mia bellissima nuova amica e con il pane caldo che mamma aveva comprato mi sentivo finalmente felice.
Mamma mi sorrise e mi disse
- Finalmente sei tornato con quello che ti avevo chiesto -
Mi guardai la mano.
C'era scritto
Pace
non pane!
Sì. Ho capito esattamente come avrei voluto il mondo, quella sera d'estate.
inviato da Giulia Bella, inserito il 05/09/2016
TESTO
33. Esame di coscienza dello Sportivo 1
Ufficio Nazionale Cei Pastorale dello sport, tempo libero e turismo, Fare pastorale dello sport in Parrocchia, 2013
Passa il tempo, cambia il modo di concepire il bene e il male, ma le due tavole della Legge permangono validissime. I Dieci Comandamenti, rimeditati lungo il percorso del pellegrinaggio giubilare, nel silenzio del cuore, offrono indicazioni sempre attuali per tutti gli sportivi.
Non avrai altro Dio fuori di me
Lo sport ha i suoi dei, ogni sport ha il suo Dio. È sconvolgente quando nello sport emerge un Dio che fa dimenticare il vero ed unico Dio. Non è giusto fare dello sport per esaltare se stesso, mettendo da parte Dio.
Non nominare il nome di Dio invano
Purtroppo lo sport offre una spaventosa occasione per bestemmiare; sia sul campo, sia ai suoi bordi, vissuta come scarica del nervosismo procurato dall'evento sportivo.
Ricordati di santificare le feste
Spesso non si va a Messa nei giorni festivi con la scusa della partita. Si perde il valore del "Giorno del Signore". L'impegno sportivo diventa una facile scusante.
Onora il padre e la madre
Il giocatore, una volta raggiunti i buoni livelli sportivi, non sente più la necessità della "tutela". I cambiamenti di società ed i rapporti sportivi diminuiscono i legami familiari per dare più importanza all'interesse sportivo.
Non ammazzare
La violenza dello sport è vissuta come una necessità per dare sostegno alla propria capacità e danneggiare l'intervento dell'avversario. La violenza è vissuta dagli spettatori come partecipazione attiva all'evento sportivo a favore della propria squadra.
Non commettere atti impuri
Purtroppo anche nello sport prevale la mancanza di rispetto del proprio corpo. Lo spogliatoio mette a dura prova parecchi giovani.
Non rubare
Ci sono anche furti legati allo sport. Si ruba il risultato dell'evento sportivo, riuscendo a pesare sulle decisioni dell'arbitro. Quante partite truccate?!
Non dire falsa testimonianza
Lo sport è vissuto, il più delle volte, come recitazione o come simulazione. Spesso questo comportamento è insegnato dai responsabili delle attività sportive. Quante simulazioni di fallo!
Non desiderare la roba d'altri
Quanti desideri per l'acquisto di attrezzature personali a imitazione dei professionisti. Acquisti che mettono a dura prova il bilancio familiare e che, se insoddisfatti, rendono infelice il giovane.
Non desiderare la donna d'altri
Il desiderio è forte, la tentazione può diventare convincente, ma occorre vigilare per non lasciarsi prendere dalla concupiscienza. Se rispetti, sarai rispettato, se giochi al ribasso sarai un perdente e imbrogli i rapporti veri e sacri.
Cfr. G. P. Ormezzano, Lo sport che fa male, ed. Gruppo Abele, Torino.
esame di coscienzasportsportivicomandamenticorrettezza
inviato da Qumran2, inserito il 26/08/2016
RACCONTO
Nessuno conosce il mio nome. Quel tale che mi ha fatto entrare nel suo racconto ha detto che sono un samaritano. Mi sta bene così, perché quello che ho fatto è una cosa normale per me. Non ho bisogno di pubblicità. Ma, se volete, ve la racconto, a modo mio.
Era un giorno d'estate e faceva molto caldo. Avevo preparato delle cose da andare a vendere a Gerico. Ormai quella strada la conoscevo bene. L'avevo percorsa tante volte. Dopo la sosta in un alberghetto a Gerusalemme, stavo per ripartire, quando un amico mi ha detto di stare attento, perché in questo periodo la strada era pericolosa. Invocai l'aiuto del Signore e cominciai la discesa verso Gerico. Andavo piano, accompagnando il mio asino che faceva fatica. Era sovraccarico. Dovevo fare attenzione che non finisse in un burrone. Quando, ad una curva della strada, sento qualcuno che si lamenta. Affretto il passo e vedo a terra un pover'uomo, pieno di sangue, più morto che vivo. Faccio fermare l'asino contro una roccia e prendo qualcosa per curarlo. Mi faceva compassione. Lui riesce a dirmi qualche parola. Certo, era stato assalito dai banditi che gli avevano portato via tutto e lo avevano picchiato per bene. Mentre lo medicavo, riesce a dirmi che era passato qualcuno prima di me. Mi pare gente che lavorava al tempio (un sacerdote e un levita), ma non si erano fermati. Si vede che avevano fretta. Ma a me interessava lui. Non lo conoscevo, ma lo sentivo come uno della mia famiglia. L'ho pulito per bene e l'ho fasciato. Poi l'ho messo sull'asino e piano piano siamo arrivati a Gerico. Alla prima locanda, lo affido al proprietario, gli do dei soldi e gli dico di accoglierlo come se accogliesse me. E al ritorno, concludo, aggiungerò il resto. Me ne vado a vendere tutte le merci e chissà perché, faccio dei buoni affari. Finalmente, dopo essermi riposato, ritorno alla locanda e trovo l'amico, sano, in piedi. La storia non lo dice, ma ve lo dico io. Ci abbracciamo felici. Lui riprende la sua strada, io la mia. Forse non ci incontreremo più, ma io so che ho incontrato Dio e quell'uomo è diventato mio fratello. Non mi è costato molto fare questo. Mi hanno insegnato a tenere gli occhi aperti e anche il cuore. Così è stato tutto più facile.
buon samaritanomisericordiaopere di misericordiacaritàcompassioneempatia
inviato da P. Oliviero Ferro, inserito il 25/08/2016
TESTO
35. I verbi della misericordia 2
Ermes Ronchi, Il Messaggero di Sant'Antonio, Gennaio 2016
Le porte sante della terra, le porte del Signore, quali sono? Non ha nessun senso passare per la Porta Santa della cattedrale e non passare per la porta santa di un povero, di un malato, non far varcare la porta di casa tua a uno che ha fame, la porta del cuore a uno che è solo. Non ha senso chiedere misericordia a Dio, e non offrirla al tuo vicino.
Se il Giubileo non tocca la vita, non è giubileo. Il Giubileo sarà santo se scriveremo la nostra pagina, la nostra riga, il nostro frammento di un racconto amoroso, con le nostre mani.
La misericordia è un'arte che s'impara, imparando tre verbi: "vedere", "fermarsi", "toccare", i primi gesti del Buon Samaritano.
Vedere. "Lo vide e ne ebbe compassione". Il samaritano vede e si lascia ferire dalle ferite di quell'uomo.
La misericordia inizia con lo sguardo non giudicante del vangelo: "Il primo sguardo di Gesù nei vangeli non si posa mai sul peccato delle persone, ma sempre sul loro bisogno" (Johann Baptist Metz).
Molte volte i vangeli riferiscono che Gesù "mentre camminava vide" (Mt 4,18); camminava e abitava la vita, ben presente a tutto ciò che accadeva nel suo spazio vitale; sapeva guardare negli occhi: "Donna, perché piangi?" (Gv 20,13) e scoprire nel riflesso di una lacrima urgere una promessa, un desiderio.
Davanti alle ferite della vita qualcosa di noi vorrebbe chiudere gli occhi, girare la testa. Come fanno i falsi discepoli: quando mai, Signore, ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo...? Non hanno avuto occhi per vedere le ferite della carne di Cristo.
Fermarsi. Per vedere bene, che sia un volto, un paesaggio, un'opera d'arte o un povero, non puoi accelerare il passo, ti devi fermare. E non "passare oltre" come il sacerdote e il levita della parabola. Oltre non c'è niente, tantomeno Dio.
Quando ti fermi con qualcuno hai messo nel telaio in cui si tesse il tessuto buono della terra i tuoi doni impagabili, le risorse più preziose che hai: tempo e cuore. Hai fatto una dichiarazione d'amore senza parole.
Per vedere un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi).
C'è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, una ferita: fermarsi, inginocchiarsi, e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetri di viso, di occhi, di voce. Guardare come bambini e ascoltare come innamorati, in silenzio.
Toccare. Ogni volta che Gesù si commuove, si ferma e tocca. Tocca l'intoccabile: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain.
Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare, non dico il contagioso o l'infettivo, ma anche il mendicante.
Fai la tua elemosina, e lasci cadere la tua monetina dall'alto, guardandoti bene dal toccare la mano che chiede, mantenendo la distanza di sicurezza, senza rivolgere un saluto, una parola. E il povero rimane un problema anziché diventare una fessura d'infinito.
Il tatto è un modo di amare, il modo più intimo; è il bacio e la carezza. E apre stagioni nuove.
Vedere, fermarsi, toccare: piccoli gesti. Ma la notte comincia con la prima stella, il mondo nuovo con il primo samaritano buono.
misericordiaporta santagiubileovederefermarsitoccarebuon samaritano
inviato da Qumran2, inserito il 25/08/2016
TESTO
Gianni Fanzolato, Da Loreto nell'anno della misericordia 2015-2016
Chiudo gli occhi e mi butto fra le braccia della fantasia: e sogno.
Sognare è l'unico tesoro che nessuno ti può rubare e non costa niente.
Il sogno è il volo dell'anima, è passare il limite, è sfiorare la mente di Dio;
ti prende, ti circonda, ti sprona, ti affascina, ti strega e ti proietta all'infinito.
Che meraviglioso sognare un mondo dove tutti si abbracciano, mano nella mano,
e l'amore di ognuno fa crollare i muri, rompe barriere, spezza le guerre e semina pace.
Ma il sogno si fa duro, perché devo entrare nel cuore di tutti per dare la buona notizia
di quel sognatore che ci ha detto: "amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi".
E' bello sognare che ci sono più abbracci che bombe, più mani tese che armi puntate,
più gente che accoglie che bambini smarriti e annegati nei mari di un mondo diviso.
Cosa costa chiudere gli occhi e vedere che tutti i bambini della terra, di ogni colore
stanno facendo un grande girotondo, un arcobaleno di luce, perché amati da Dio.
Chi mi può rubare il fascino del sogno di Dio di fare del mondo una unica famiglia
dove non si guarda il colore, non c'è passaporto, ma basta la dignità di figli di Dio.
Mi possono togliere la libertà, impedire di parlare, ma non la sfida di volare in alto.
Dio mi sussurra la gioia di essere missionario della sua misericordia e mi accarezza.
Gesù, il grande sognatore che ha cambiato il sogno in un nuovo stile di vita,
si è identificato col migrante, col prigioniero, con l'ammalato, con chi ha fame.
"Ma, Signore, quel che tu dici è sogno, è utopia, la vita è dura, ad ognuno la sua pena."
"Se hai amore, mi vedrai presente nel povero, migrante e il sogno si farà benedizione."
Solo adesso, Signore, ho capito che devo aprire gli occhi, perché il sogno è reale;
ho sognato perché ho volato vicino a Te che mi hai trasmesso la forza di osare.
Sono una goccia d'amore nell'oceano del mondo, sogno e son desto, immerso nell'utopia
di Te che ci vuoi abbraccio, perdono, ponte e famiglia in un mondo possibile.
misericordiagiustiziaaccoglienzamigranti
inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 25/08/2016
TESTO
37. Un libro come fuoco - Papa Francesco ai giovani 4
Papa Francesco, Quaderno N°3972 del 2015/12/26 - Civiltà Cattolica IV 519-654
Miei cari giovani amici,
se voi vedeste la mia Bibbia, forse non ne sareste affatto colpiti. Direste: «Cosa? Questa è la Bibbia del Papa? Un libro così vecchio, così sciupato!». Potreste anche regalarmene una nuova, magari anche una da 1.000 euro: no, non la vorrei. Amo la mia vecchia Bibbia, quella che ha accompagnato metà della mia vita. Ha visto la mia gioia, è stata bagnata dalle mie lacrime: è il mio inestimabile tesoro. Vivo di lei e per niente al mondo la darei via.
La Bibbia per i giovani, che avete appena aperto, mi piace molto: è così vivace, così ricca di testimonianze di santi, di giovani, che fa venir voglia di leggerla d'un fiato, dall'inizio fino all'ultima pagina. E poi...? Poi la nascondete, sparisce sul ripiano di una libreria, magari dietro, in terza fila, finendo per riempirsi di polvere. Finché un giorno i vostri figli la venderanno al mercatino dell'usato. No: questo non può essere!
Voglio dirvi una cosa: oggi, ancor più che agli inizi della Chiesa, i cristiani sono perseguitati; qual è la ragione? Sono perseguitati perché portano una croce e danno testimonianza di Cristo; vengono condannati perché possiedono una Bibbia. Evidentemente la Bibbia è un libro estremamente pericoloso, così rischioso che in certi Paesi chi possiede una Bibbia viene trattato come se nascondesse nell'armadio bombe a mano!
Mahatma Gandhi, che non era cristiano, una volta disse: «A voi cristiani è affidato un testo che ha in sé una quantità di dinamite sufficiente per far esplodere in mille pezzi la civiltà tutta intera, per mettere sottosopra il mondo e portare la pace in un pianeta devastato dalla guerra. Lo trattate però come se fosse semplicemente un'opera letteraria, niente di più».
Che cosa tenete allora in mano? Un capolavoro letterario? Una raccolta di antiche e belle storie? In tal caso, bisognerebbe dire ai molti cristiani che si fanno incarcerare e torturare per la Bibbia: «Davvero stolti e poco avveduti siete stati: è solo un'opera letteraria!». No, con la Parola di Dio la luce è venuta nel mondo e mai più sarà spenta. Nella mia esortazione apostolica Evangelii gaudium ho scritto: «Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente "Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso". Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata» (n. 175).
Avete dunque tra le mani qualcosa di divino: un libro come fuoco, un libro nel quale Dio parla. Perciò ricordatevi: la Bibbia non è fatta per essere messa su uno scaffale, piuttosto è fatta per essere tenuta in mano, per essere letta spesso, ogni giorno, sia da soli sia in compagnia. Del resto in compagnia fate sport, andate a fare shopping; perché allora non leggere insieme, in due, in tre o in quattro, la Bibbia? Magari all'aperto, immersi nella natura, nel bosco, in riva al mare, la sera al lume di una candela... farete un'esperienza potente e sconvolgente. O forse avete paura di apparire ridicoli di fronte agli altri?
Leggete con attenzione. Non rimanete in superficie, come si fa con un fumetto! La Parola di Dio non la si può semplicemente scorrere con lo sguardo! Domandatevi piuttosto: «Cosa dice questo al mio cuore? Attraverso queste parole, Dio mi sta parlando? Sta forse suscitando il mio anelito, la mia sete profonda? Cosa devo fare?». Solo così la Parola di Dio potrà dispiegare tutta la sua forza; solo così la nostra vita potrà trasformarsi, diventando piena e bella.
Voglio confidarvi come leggo la mia vecchia Bibbia: spesso la prendo, la leggo per un po', poi la metto in disparte e mi lascio guardare dal Signore. Non sono io a guardare Lui, ma Lui guarda me: Dio è davvero lì, presente. Così mi lascio osservare da Lui e sento - e non è certo sentimentalismo -, percepisco nel più profondo ciò che il Signore mi dice.
A volte non parla: e allora non sento niente, solo vuoto, vuoto, vuoto... Ma, paziente, rimango là e lo attendo così, leggendo e pregando. Prego seduto, perché mi fa male stare in ginocchio. Talvolta, pregando, persino mi addormento, ma non fa niente: sono come un figlio vicino a suo padre, e questo è ciò che conta.
Volete farmi felice? Leggete la Bibbia.
Vostro Papa Francesco
È la versione italiana della prefazione scritta dal Pontefice per una edizione della Bibbia destinata ai giovani, i quali hanno collaborato a discutere e scriverne i commenti (Bibel. Jugendbibel der Katholischen Kirche): vedi qui l'articolo su Civiltà Cattolica.
bibbiaparola di DioSacra Scritturapreghieratestimonianza
inviato da Centro Missionario Guanelliano, inserito il 25/08/2016
PREGHIERA
38. E beata colei che ha creduto
Vergine beata, che cosa provasti alla sconcertante richiesta di diventare la madre del Salvatore?
Forse udisti solo una voce interiore, una chiamata ad abbandonarti totalmente alla volontà del Padre. E a Lui, pure turbata, desti il tuo assenso, Tu, la Donna del "sì".
Maria, vedesti solo porte chiudersi al tuo passaggio, quando cercavi un luogo in cui dare alla luce la Luce del mondo e, fiduciosa, continuasti a credere, Tu, la Donna fedele all'eterna Parola.
Profuga, nella straziante fuga verso l'Egitto, quanti dubbi dovesti scacciare, contemplando il bambino Gesù tra le tue braccia: "Ma Tu, figlio mio, sei Dio o pericolosa pietra d'inciampo?". Tu, Donna beata perché hai creduto.
E quando al tempio, dopo tre giorni di penosa ricerca, trovasti Gesù - un po' trasgressivo e misterioso come tutti gli adolescenti -, di fronte al dolore di Giuseppe e tuo, pur non comprendendo, continuasti a credere che era Dio Colui che quasi ti sfidava: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?".
...Ed eccolo al Giordano, in fila con i peccatori a farsi battezzare in remissione dei peccati: "Ma Gesù è Dio o uno dei tanti peccatori?", ti sarai chiesta. Tormento scacciato con un atto di fede nella misteriosa volontà divina.
La tua fede operò il miracolo dell'acqua cambiata in vino, a Cana di Galilea, dopo aver perdonato parole dure come pietre: "Ti emoi kai soi gunai?" ("Che cosa tra me e te, donna?"). Povera Vergine Maria, chiamata "donna" e non "Mamma"!
Tu accettasti che Gesù indirizzasse ad altri - agli ascoltatori della Parola - la lode rivolta a te per averlo generato. Così pure non ti lamentasti quando rifiutò di darti udienza: "Chi è mia madre?", o forse ti sentisti doppiamente madre per aver concepito la Parola nel tuo cuore, prima di concepirla nella carne?
Vergine addolorata ai piedi della croce, accettasti di "privarti" di una maternità divina, di "perdere" un così grande Figlio, per diventare madre di chi stava ammazzando il tuo Signore, il tuo Dio, l'unico tuo sostegno e conforto, l'unico tuo grande Amore.
E in Lui credesti quando te lo depositarono, morto, tra le braccia. Un Dio morto?...
Nel supremo dei dolori, solo il mistero di Dio poteva illuminare il mistero della sofferenza che, come trivella, perforava il tuo cuore alla ricerca dell'acqua viva, la grazia, fulgida luce che dissipa le tenebre della morte con il fulgore della resurrezione.
E nell'alba radiosa del primo giorno della settimana, il Risorto, forse, venne a ringraziare te, Donna del sabato santo, per aver tenuta viva la fede dei discepoli, per averli aiutati a credere e a sperare. Forse ti ringraziò con le sublimi parole di Elisabetta: "Beata te che hai creduto".
A te, Donna che ascolta, crede e si abbandona totalmente al Mistero; a te, Donna il cui latte è diventato il sangue di Dio, nel suo e tuo Figlio, Gesù; a te, Donna che danzi cantando il "Magnificat" e hai il privilegio di sentirti chiamare "Mamma" dal Salvatore del mondo; a te, che pure io invoco come "Madre mia e mia fiducia", chiedo il dono di credere come Tu hai creduto. La fede dilati gli orizzonti della speranza e si consumi nell'amore, affinché, quando busserò alla porta del paradiso, Tu mi corra incontro gioiosa, rivolgendo pure a me l'entusiastico encomio: "Beato te che hai creduto".
inviato da Don Valentino Salvoldi, inserito il 23/08/2016
PREGHIERA
Vergine Santa, che hai percorso territori sconfinati, dalla Palestina all'Egitto, e seguendo le orme del Tuo Figlio non ti sei risparmiata nessun cammino, proteggi coloro che, per terra, cielo e mare sono in viaggio per qualsiasi motivo che li spinge a lasciare i loro luoghi d'origine e camminare senza mete e senza confini.
Tu che hai affrontato il primo viaggio della carità, da Nazareth a Ain-Karin, per andare incontro alla tua anziana cugina, insegnaci ad andare incontro, con generosità, alla vita nascente, agli anziani, agli ammalati e a tutti i sofferenti della Terra.
Tu che sei andata da Nazareth a Betlemme, per dare alla luce il Tuo Figlio Gesù, conforta le madri che soffrono per motivi attinenti la loro vita di nutrici e genitrici.
Tu che sei stata costretta a lasciare, per la violenza e il terrore di Erode, con Gesù e Giuseppe, la tua Nazareth, guarda con amore e proteggi coloro che sono immigrati storici o di questi giorni, che sono senza patria e senza un popolo, e che sono fuggiti via per motivi di fame, lavoro, guerre e violenze di ogni genere.
Tu che sei rientrata in Patria con la tua famiglia naturale, fa' che tutti coloro che desiderano ritornare alla loro casa, vicina o lontana, possono farlo senza alcuna difficoltà.
Tu che hai camminato insieme a Gesù, per celebrare la Pasqua nella Gerusalemme terrena, fa' che anche noi possiamo festeggiare la Pasqua eterna, senza perderci nel lungo o breve viaggio nel tempo e che, con il tuo santo aiuto, passiamo raggiungere per sempre Gesù.
Tu che hai seguito Cristo, nel suo peregrinare per portare la dolce parola del Vangelo alla gente del suo tempo, guidaci nel cammino della nuova evangelizzazione, ora e sempre.
Tu, Stella che conduci la Chiesa nel suo impegno apostolico e missionario in tutto il mondo, illumina gli annunciatori della parola del Signore ad essere veri testimoni di Gesù.
Tu che hai accompagnato il tuo Figlio Gesù lungo la via del Calvario, e ti sei incontrata con Lui, nel mezzo del cammino del suo patire, sii vicino alle tante sofferenze di questa umanità, che va in cerca della vera libertà.
Tu, infine, che hai partecipato alla Risurrezione del Tuo Figlio e sei stata la prima ed unica creatura ad essere elevata al cielo in anima e corpo, donaci la possibilità di sperimentare ogni giorno la gioia e la serenità di chi cammina con il cuore e la mente rivolti al Signore, che è Dio Amore e Padre di misericordia.
Tu Vergine e Donna del cammino, Tu Madre Immacolata e Purissima del Redentore, spingi i nostri cuori incontro al Signore della vita e della storia, perché nessuno dei tuoi figli vada perduto nel carcere eterno dell'inferno.
Amen.
mariamadonnacamminoimmigratimigranti
inviato da Padre Antonio Rungi, inserito il 24/05/2016
RACCONTO
Un giorno, la pietra disse: «Sono la più forte!». Udendo ciò, il ferro disse: «Sono più forte di te! Lo vuoi vedere?». Subito, i due lottarono fino a quando la pietra fu ridotta in polvere.
Il ferro disse a sua volta: «lo sono il più forte! Udendolo, il fuoco disse: «lo sono più forte te! Lo vuoi vedere?». Allora i due lottarono finché il ferro fu fuso.
Il fuoco disse a sua volta: «lo sì che sono forte!». Udendo ciò, l'acqua disse: «lo sono più forte di te! Se vuoi te lo dimostro». Allora, lottarono fin quando il fuoco fu spento.
L'acqua disse a sua volta: «Sono io la più forte!». Udendola il sole disse: «lo sono più forte ancora! Guarda!». I due lottarono finché il sole fece evaporare l'acqua.
Il sole disse a sua volta: «Sono io il più forte!». Udendolo, la nube disse: «lo sono più forte ancora! Guarda!». I due lottarono finché la nube nascose il sole.
La nube disse a sua volta: «Sono io la più forte!». Ma il vento disse: «lo sono più forte di te! Te lo dimostro». Allora i due lottarono fin quando il vento soffiò via la nube ed essa sparì.
ll vento disse a sua volta: «lo sì, che sono forte!». I monti dissero: «Noi siamo più forti di te! Guarda!». Subito i due lottarono fino a che il vento restò preso tra le catene dei monti.
I monti, a loro volta, dissero: «Siamo i più forti!». Ma sentendoli, l'uomo disse: «lo sono più forte di voi! E, se lo volete vedere...». L'uomo, dotato di grande intelligenza, perforò i monti, impedendo che bloccassero il vento. Dominando il potere dei monti, l'uomo proclamò: «lo sono la creatura più forte che esista!».
Ma poi venne la morte, e l'uomo che si credeva intelligente e tanto forte, con un ultimo respiro, morì.
La morte a sua volta disse: Sono io la più forte! Perché prima o poi tutto muore e finisce nel nulla"
La morte già festeggiava quando, inatteso, venne un uomo e, dopo soli tre giorni dalla morte, risuscitò, vincendo la morte.
Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori è diventata testata d'angolo...
inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2016
TESTO
41. Ogni stagione della vita ha un suo paradiso 1
Enzo Bianchi, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015
Ogni cristiano che recita il "Credo", la professione di fede, dice: "Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen", e questo credere non è periferico, ma fondamentale nella fede cristiana. Il cristiano, dunque, crede che ci sia un dopo la morte, una vita piena per sempre, nella quale non vi saranno più pianto, né dolore, né malattia, né morte, ma la gioia eterna della comunione, attraverso Gesù Cristo, con Dio e con gli uomini e le donne da lui salvati. Anch'io, in quanto cristiano e monaco, aderisco a questa speranza, ma confesso che il mio immaginario è molto personale ed è mutato nelle diverse stagioni della mia vita. La domanda che mi viene posta: "Come immagini il paradiso?", mi spinge dunque a dare diverse risposte.
Innanzitutto, il paradiso è un'immagine che ci viene trasmessa quando siamo piccoli, e così è stato anche per me. Quando morì mia mamma avevo solo otto anni. Chiedevo dov'era andata, perché non riuscivo ancora a comprendere la morte, e mi veniva risposto: è in paradiso, in un bel giardino, e là passeggia tra gli asfodeli, fiori molto profumati. Così immaginavo dunque il paradiso e speravo di andarci presto, per ritrovare mia mamma e vedere questi fiori profumati che nessuno sapeva descrivermi, perché nel Monferrato nessuno li aveva mai visti.
Con la giovinezza e gli studi biblici, elaborai altre immagini, sovente in contrapposizione al possibile esito opposto: gli inferi, luogo di perdizione, lontano da Dio e da tutti gli altri. Il paradiso assumeva le immagini della Bibbia che leggevo e studiavo: un luogo pieno di luce, in cui non era mai notte; un luogo di pace, senza litigi, dispute, violenze, guerre; un banchetto con abbondanza di cibi squisiti e di vini raffinati; tanta musica e la possibilità di stare insieme, in una festa continua... Belle immagini, ma che svanivano velocemente, perché la ragionevole fede mi spingeva a comprendere che il paradiso non era un luogo, bensì una condizione di comunione con il Signore. Mi piaceva però l'immagine del pranzo con piatti sempre nuovi e dal gusto straordinario, dell'ascolto di musiche che rendevano l'eternità sopportabile...
Poi le immagini del paradiso sono cambiate ancora, tra dubbi, rinnovamenti della speranza, a volte anche stanchezza delle immagini stesse e desiderio di rinnovarle. Ora che sono vecchio, il paradiso o l'esito contrario dell'inferno sono sempre più prossimi: non nascondo una certa paura che mi abita al pensiero della morte, perché credo nel giudizio di Dio sulle mie responsabilità, sul mio operare che è stato buono o cattivo.
Spero soprattutto che nessuno vada all'inferno; ma se qualcuno ci va, allora - mi dico - rischio di andarci anch'io, che non mi sento tanto diverso dagli altri nell'acconsentire all'egoismo che mi abita.
E le immagini del paradiso, da vecchio? Sono svanite. Oggi non so dire, non so immaginare, non oso neppure pensare di dire qualcosa che lo descriva. Nella mia fede è solo una cosa: una grande comunione in Gesù Cristo, in cui regnerà l'amore. Sono convinto che chi ho amato qui sulla terra, lo ritroverò anche di là, e così continueranno il nostro amore e la nostra amicizia. Se pensassi di andare di là e di non trovare più i miei amici, preferirei allora non andarci!
Spero di ritrovare questa terra che tanto ho amato, certamente da Dio trasfigurata, ma ancora questa terra con le sue colline, le sue vigne, i suoi boschi... Sì, vorrei che continuassero le "storie d'amore" vissute qui; anzi, che riprendessero quelle che si sono interrotte e, senza gelosie né concorrenze, potessimo tutti insieme bere alle coppe del vino dell'amore.
Per farvi sorridere, cari lettori, vi confesso che ho un'altra paura: di finire sì in paradiso, ma vicino a persone che non mi piacevano, sebbene fratelli o sorelle nella fede e magari anche di rinomata santità. No, questo proprio no! Ma forse, se Dio mi salverà, sarò cambiato tanto da sopportare anche questo. Purché il Signore non mi faccia perdere gli amici, quelli che ho amato bene e quelli che ho amato male: li vorrei con me.
mortevita eternaparadisorapporto con Dioeternitàpienezza
inviato da Simone Pestelli, inserito il 07/02/2016
TESTO
La prima grande porta della storia si è aperta in cielo: la porta del cuore di Dio.
Si è spalancata sull'umanità e mille portenti son piovuti dall'alto, inondando il mondo;
è scesa la luce, i colori dell'arcobaleno, bellezza e grazia e l'uomo capolavoro di Dio
ma tanto Dio ha aperto la porta, quanto l'uomo ha fatto di tutto per chiuderla.
Per riaprire la porta del cuore di Dio c'è solo una chiave possibile, che diventa porta:
"Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo" e il salmo centodiciotto:
"E' questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti", e Sant'Ignazio di Antiochia:
"Egli è la porta del Padre, attraverso la quale entrano i profeti, gli apostoli e la Chiesa".
Ma Cristo si è fatto via e porta, perché Dio ha trovato in Maria un cancello aperto.
Il messaggio e la proposta di Dio sono caduti nell'umiltà della sua serva e dalla porta
del suo cuore è scaturito il Santo dei santi, il primogenito dei morti, Signore dei signori.
Io sono la via, la chiave, la porta, chi vuole essere felice deve passare attraverso di me.
La porta santa di Gesù ha scatenato una valanga di porte aperte a Dio e all'amore.
Sono i cuori che palpitano per Dio e aprono la loro casa all'accoglienza e al dono.
Mille portoni che lasciano passare lo Spirito del Cristo vivo e lo riversano nei fratelli
provocando quell'effetto domino di porte che si aprono verso la vera porta di Dio.
Mi sono accorto allora che la porta santa è lo stesso mio cuore spalancato da Gesù:
sarà porta santa se lascio entrare i bambini della strada, i barboni della stazione,
i fratelli emigranti nei quali Gesù si è identificato, i giovani che cercano estasi,
ma che hanno sete di valori e di speranza, gli anziani e le persone sole, se lascio entrare Gesù.
La mia porta santa è il sorriso e la gioia dipinti nei miei occhi, perché ho trovato la pace,
è ottimismo cristiano e abbandono all'amore di Dio che mi fa essere aperto all'altro,
focolare dove trovano riparo e calore chi ha sofferto il gelo e l'indifferenza,
il grazie perché Gesù buon pastore ha fasciato e guarito le mie piaghe, amandomi.
La porta santa di San Pietro e tutte le porte sante del mondo saranno Cristo.
Se passando ci sentiremo lavati, purificati e convertiti per essere pietre vive.
Se sentiremo l'abbraccio del Cristo, il suo calore, la sua pazzia d'amore per noi.
Saremo porta e via dove i fratelli troveranno la pace nell'unica porta del cuore di Dio.
porta santagiubileoaccoglienzaapertura
inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 02/01/2016
ESPERIENZA
43. Voi non avrete il mio odio 5
Antoine Leiris è un papà di un bambino di 17 mesi. Fino alle tragedie di Parigi accanto a sé aveva una donna che amava e, quel piccino, una mamma amorosa. Erano una famiglia. Ma non si piega al rancore questo papà francese e ai terroristi che hanno ucciso la moglie, una delle 129 vittime dell'altra sera, lui ha scritto una lettera, affidandola a facebook. Eccola:
Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l'amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardessi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa. L'ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d'attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo "petit garçon" vi farà l'affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio.
Clicca qui per vedere il post originale su Facebook
Clicca qui per vedere ed ascoltare il testo letto da Donato Intini
inviato da Qumran2, inserito il 19/11/2015
ESPERIENZA
Non molto tempo fa ho accompagnato un amico al cimitero. Non era più giovanissimo ma in buona salute, con la moglie era in una casetta in montagna quando di notte un infarto gli ha chiuso gli occhi per sempre.
Aveva lasciato detto che il suo corpo fosse cremato, così per la prima volta sono andato al crematorio al Cimitero dei Lupi, non mai avuto occasione, non sono un frequentatore di cimiteri: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22) ha detto Gesù. Le persone che ho amato le porto con me tutti i giorni e andare a visitare il luogo della conservazione dei loro resti biologici non è tra i miei interessi. Quando per diversi motivi sono andato nei cimiteri cittadini avevo fatto l'abitudine a un ordine caotico, con tutte le tombe in fila una accanto all'altra, una sopra l'altra; tra quelle tombe troviamo l'abbandono con vasi vuoti, i fiori secchi, il vento che si è divertito a lasciare traccia del suo passaggio ma anche la stravaganza di girandole al vento, di fiocchi colorati, alberi di Natale, troviamo l'abbondanza di fiori freschissimi, o artistiche composizioni di fiori di plastica, un po' di buon gusto e tanto kitsch. Poi sgabelli, scalette, scope, secchi... un armamentario di cose diverse che i frequentatori di quei luoghi lasciano lì per il giorno successivo. La parola cimitero significa "Luogo del riposo" e credo che dovremmo rispettare di più questo riposo. Invece non è così, è diventato il luogo delle esternazioni, spesso di degrado e, con la necessità di posti, il riposo è interrotto da esumazioni e nuove collocazioni.
Arrivando nel giardino davanti al crematorio ho avuto l'impressione di un luogo assai curato dove il rispetto della morte si traduce in vita. Ci sono grandi libri in bronzo con incise frasi che aiutano a pensare alla preziosità della vita proprio lì dove giunge al compimento, alla ricapitolazione del tutto, quando arriva sulla soglia del tempo e sta immergendosi nella eternità.
Perché in fondo questa è la morte: l'attimo in cui nel passaggio dal tempo al "non tempo" tutta la nostra vita, le nostre azioni, i nostri pensieri, le paure, i desideri, le sconfitte, le gioie e le sofferenze, come un fiume in piena arrivano e finalmente si liberano nel mare dell'eternità.
Mi ha colpito, all'interno del crematorio, nell'angolo della saletta di commiato e di attesa l'immagine del Crocifisso. È scolpito nel legno d'ulivo, l'artista più che modellare il legno si è fatto condurre da quel tronco, dalle sue venature, contorsioni... la storia di quella pianta continua ad esprimere e raccontare. Tra tutti i piegamenti, le storture, gli arzigogoli del legno c'è una fessura, ampia che attraversa il corpo del Cristo.
Ecco, quel legno ci racconta l'amore di Gesù, il suo cuore è spalancato, è un invito ad entrarvi, attraversarlo e andare oltre. Perché se l'amore ci conquista non ci rende prigionieri ma ci libera: la morte è la vita liberata.
Il giorno dopo siamo andati a raccogliere le ceneri perché aveva chiesto che fossero disperse; nell'angolo del cimitero c'è un giardinetto all'ombra di vecchi alberi, qua e là qualche statua forse reduci di altre storie: una colonna spezzata, una croce, una madonna... in terra come delle aiuole colme di sassi. In quella ai piedi della Madonna sono state versate le ceneri del mio amico, un po' acqua le ha trascinate più in basso togliendole alla nostra vista.
La preghiera è sgorgata spontanea di fronte al niente che rimane della nostra prosopopea umana, che certi addobbi tenderebbero a mantenere; davanti a quel barattolo di ceneri la nostra povertà è evidente ma anche la ricchezza del Creatore che dalla polvere ha tratto la grandezza dell'uomo. Eppure quella pochezza manifesta tutta la grandezza di Dio che, sola, si erge sulla storia degli uomini e la guida.
inviato da Don Luciano Cantini, inserito il 29/10/2015
TESTO
45. Lettera di Dio per la custodia della donna 2
La donna che hai al fianco, emozionata, con l'abito da sposa, è mia. Io l'ho creata. Io le ho voluto bene da sempre; ancor prima di te e ancor più di te. Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Ho dei grandi progetti per lei. Te l'affido. La prenderai dalle mie mani e ne diventerai responsabile.
Quando l'hai incontrata l'hai trovata bella e te ne sei innamorato. Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza, è il mio cuore che ha messo dentro di lei la tenerezza e l'amore, è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità e la sua intelligenza e tutte le qualità belle che hai trovato in lei.
Però non basta che tu goda del suo fascino. Dovrai impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri. Ti renderai conto che ha bisogno di tante cose: ha bisogno di casa, di vestito, di serenità, di gioia, di equilibrio psichico, di rapporti umani, di affetto e tenerezza, di piacere e di divertimento, di presenza umana e di dialogo, di relazioni sociali e familiari, di soddisfazioni nel lavoro e di tante altre cose.
Ma dovrai renderti conto che ha bisogno soprattutto di me, e di tutto quello che aiuta e favorisce questo incontro con me: la pace del cuore, la purezza di spirito, la preghiera, la Parola, il perdono, la speranza e la fiducia in me, la mia vita. Sono Io e non tu il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.
Facciamo un patto tra noi: la ameremo insieme. Io la amo da sempre. Tu hai incominciato ad amarla da qualche anno, da quando te ne sei innamorato. Sono io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei. È stato il modo più bello perché ti accorgessi di lei. Volevo affidarla a qualcuno che se ne prendesse cura. Ma volevo anche che lei arricchisse con la sua bellezza e le sue qualità la vita di un uomo. E questo uomo sei tu.
Per questo ho fatto nascere nel tuo cuore l'amore per lei. Era il modo più bello per dirti: "ecco, te la affido", e perché tu potessi godere della sua bellezza e delle sue qualità. Quando le dirai "prometto di esserti fedele, di amarti e rispettarti per tutta la vita", sarà come se mi rispondessi che sei lieto di accoglierla nella tua vita e di prenderti cura di lei. Da quel momento saremo in due ad amarla.
Dobbiamo però metterci d'accordo: non è possibile che tu la ami in un modo e io in un altro. Devi avere per lei un amore simile al mio, e devi desiderare per lei le stesse cose che Io desidero. Non puoi pensare nulla di più bello e gioioso per lei.
Se la ami sul serio vedrai che ti troverai d'accordo con me nel progetto che ho concepito per lei. Ti farò capire poco alla volta quale sia il mio modo di amare, e ti svelerò quale vita ho sognato e voluto per questa mia creatura che diventerà tua sposa.
Mi rendo conto che ti sto chiedendo molto. Pensavi che questa donna fosse tutta e solo tua, e ora invece hai l'impressione che io ti chieda di spartirla con Me. Non è così. Io non sono il tuo rivale in amore. Al contrario, sono molui che ti aiuta ad amarla appassionatamente. Per questo desidero che nel tuo piccolo amore ci sia il mio grande amore.
Col tuo amore potrai fare molto per lei, ma è sempre troppo poco. Io ti rendo invece capace di amare da Dio. È questo il mio dono di nozze: un supplemento di amore che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende capace di produrre le opere di Dio nella donna che ami.
Sono parole per te misteriose, ma le capirai un poco alla volta. Ti assicurò che non ti lascerò mai solo in questa impresa. Sarò sempre con te e farò di te lo strumento del mio amore, della mia tenerezza; continuerò ad amare la mia creatura, che è diventata tua sposa, attraverso i tuoi gesti d'amore, di attenzione di impegno, di perdono, di dedizione. In una parola: ti renderò capace di amare come io amo, perché ti darò una forza nuova di amare che è il mio stesso amore.
Se vi amerete in questo modo, la vostra coppia diventerà come una fortezza che le tempeste di vita non riusciranno mai ad abbattere. Un amore costruito sulla mia Parola è come una casa costruita sulla roccia: nessuna vicenda potrà distruggerla. Ricordatelo, perché molti si illudono di poter fare a meno di me: ma se io non sono con voi nell'edificare la casa della vostra vita e del vostro amore, vi affaticherete invano: come gli apostoli che faticarono tutta una notte e al mattino tornarono a riva con le reti vuote; bastò un semplice intervento Mio, e le reti pescarono tanto pesce che per l'abbondanza si rompevano. Di più. Se vi amerete in questo modo diventerete forza anche per gli altri.
Oggi si crede poco all'amore vero, quello che dura per sempre, e che offre la propria vita all'amato. Si cercano più le emozioni amorose che l'amore. Ma le emozioni nascono e muoiono presto, lasciando solo vuoto e nostalgia.
Per questo qualcuno ha detto che il matrimonio è solo una grande illusione che si dissolve presto. Se voi saprete amarvi come io amo, con una fedeltà che non viene mai meno, diventerete come la città sul monte. Sarete una speranza per tutti, perché tutti vedranno che l'amore è una cosa possibile.
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inviato da Paola Berrettini, inserito il 16/06/2015
TESTO
46. A coloro che non trovano pace
Carissimi,
l'idea di rivolgermi a voi mi è venuta stasera quando, recitando i vespri, ho trovato questa invocazione: «Metti, Signore, una salutare inquietudine in coloro che si sono allontanati da te, per colpa propria o per gli scandali altrui».
Per prima cosa mi son chiesto se, nel numero delle mie conoscenze, ci fosse qualcuno che poteva essere raggiunto da questa preghiera.
E mi sono ricordato dite, Giampiero, che, dopo essere passato per tutta la trafila dei gruppi giovanili della parrocchia, un giorno te ne sei andato e non ti sei fatto più vedere.
L'altra sera ti ho incontrato per caso. Pioveva. Eri fermo sul marciapiede e ti ho dato un passaggio. In macchina mi hai chiesto con sufficienza se durante la quaresima continuavo a predicare le «solite chiacchiere» ai giovani, riuniti in cattedrale. Ci son rimasto male, perché mi hai detto chiaro e tondo che tu ormai a quelle cose non ci credevi più da un pezzo, e che al politecnico stavi trovando risposte più utili di quelle che ti davano i preti.
Mi hai raccontato che a Torino hai conosciuto Gigi, ex seminarista e mio alunno di ginnasio, il quale ti parla spesso di me. Ho notato che avevi una punta d'ironia e sembrava che ti divertissi quando hai aggiunto che ora sta con una ragazza, bestemmia come un turco, e fuma lo spinello.
Quando all'improvviso ti ho chiesto se eri felice, mi hai risposto che ne avremmo parlato un'altra volta, perché dovevi scendere e poi era troppo tardi.
Addio, Giampiero! L'invocazione del breviario stasera la rivolgo al Signore per te. E per Gigi. E la rivolgo anche per te, Maria, che ti sei allontanata senza una plausibile ragione. Facevi parte del coro. Ora a messa non ci vai nemmeno a Pasqua. Tu dici che hai visto troppe cose storte anche in chiesa, e che non ti aspettavi certe pugnalate alle spalle proprio da coloro che credono in Dio. Non so che cosa ti sia successo di preciso. Ma l'altro giorno, quando sei venuta da me per implorare un ricovero urgente al Gemelli a favore del tuo bambino che sta male, e io ti ho esortata ad aver fiducia in Dio, e tu sei scoppiata a piangere dicendomi che in Dio non ci credi più... mi è parso di leggere in quelle lacrime, oltre alla paura di poter perdere il figlio, anche l'amarezza di aver perduto il Padre.
Non temere, Maria. Pregherò io per il tuo bambino, perché guarisca presto. Ma anche per te, perché il Signore ti metta nel cuore una salutare inquietudine.
Vedo che non afferri il senso di una preghiera del genere. Di inquietudini nei hai già tante e non è proprio il caso che mi metta anch'io ad aumentartene la dose. Tu sai bene, però, che in fondo io imploro la tua pace. Ecco, infatti, come il breviario prolunga l'invocazione su coloro che si sono allontanati da Dio: «Fa' che ritornino a te e rimangano sempre nel tuo amore».
E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po' per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.
Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell'inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt'altro che rara la coesistenza di Dio con l'insoddisfazione cronica dello spirito.
Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell'irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l'avrei anch'io da confidarvelo.
A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un'altra piega all'esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l'anima ce l'avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c'è bicchiere d'acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.
A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.
Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.
Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.
O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.
Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola: «O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».
pacepace interioreinterioritàfelicitàgioiatristezzainquietudine
inviato da Francesco De Luca, inserito il 16/06/2015
RACCONTO
Leggenda araba
C'era una volta un vecchio, così vecchio che non ricordava neppure di essere stato giovane. E forse non lo era mai stato. In tutto il tempo che era stato in vita, ancora non aveva imparato a vivere. E, non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.
Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Nulla esisteva al mondo che potesse addolorarlo e stupirlo. Trascorreva i suoi giorni inoperosi sulla soglia della sua capanna, guardando con occhi indifferenti il cielo, quello zaffiro immenso che Allah pulisce ogni giorno con la soffice bambagia delle nuvole. A volte qualcuno si fermava ad interrogarlo. Così carico d'anni qual era, la gente lo credeva molto saggio e cercava di trarre qualche consiglio dalla sua secolare esperienza.
«Che cosa dobbiamo fare per conquistare la gioia?» gli chiedevano i giovani. «La gioia è un'invenzione degli stolti», rispondeva lui.
Passavano uomini dall'animo nobile, apostoli bramosi di rendersi utili: «In che modo possiamo sacrificarci, per giovare ai nostri fratelli?» gli domandavano. «Chi si sacrifica per l'umanità è un pazzo», rispondeva il vecchio con un ghigno sinistro.
«Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?», domandavano i padri e le madri. «I figli sono serpi», rispondeva il vecchio. «Da essi non ci si può aspettare che morsi velenosi».
Anche gli artisti e i poeti, nella loro ingenuità, si recavano talvolta a consultare quell'uomo. «Insegnaci ad esprimere quell'anelito che abbiamo nel cuore!», gli dicevano. «Fareste meglio a tacere», sogghignava il vegliardo.
Le convinzioni malvagie di colui che non sapeva né vivere né morire, poco a poco si diffondevano nel mondo. L'Amore, la Bontà, la Poesia, investiti dal ventaccio del Pessimismo (poiché tale era il nome del Vecchio), si appannavano e inaridivano. L'esistenza umana veniva sommersa in una gora di stagnante malinconia.
Alla fine Allah si rese conto dello sfacelo che il Pessimismo operava nel mondo, e decise di porvi riparo. «Poveretto», pensò, «scommetto che nessuno gli ha mai dato un bacio». Chiamò un bambino e gli disse: «Va' a dare un bacio a quel povero vecchio».
Subito il bambino obbedì: mise le braccia intorno al collo del vecchio e gli scoccò un bacio sulla faccia rugosa. Il vegliardo fu molto stupito - lui che non si stupiva di niente. Difatti, nessuno mai gli aveva dato un bacio. E così il Pessimismo aperse gli occhi alla vita, e morì sorridendo al bambino che lo aveva baciato.
pessimismoottimismofiduciasorrisotenerezza
inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015
RACCONTO
Leggenda peruviana
Era piccolo, sparuto e miserabile, quell'ometto. Era un servo, un domestico indiano, e doveva compiere la sua corvée nella residenza del grande Signore.
Pieno di umiltà e di terrore, l'Ometto si teneva in piedi di fronte al padrone. Forse a causa di quella sua aria smarrita, era da questi particolarmente disprezzato.
«Mi sembri un cane», gli diceva. «Mettiti a quattro zampe. Ora trotta come i cagnolini. Ora drizza le orecchie. Giungi le mani!».
L'Ometto obbediva come meglio poteva, e il padrone rideva a crepapelle. E così ogni giorno, obbligava il suo servo a umiliarsi, lo esponeva alle canzonature dei suoi compagni. Ma una sera, l'Ometto alzò d'un tratto la voce. Aveva qualcosa da dire.
«Grande Signore, Padrone mio, perdonami, ma vorrei parlarti», disse.
«Che? proprio tu?... e a me?».
«Si, Signore. Ho fatto un sogno. Ho sognato che eravamo morti tutti e due: tu, ed io».
«Tu?... Con me?... Racconta, che ridiamo un po'». «Ecco, eravamo morti, e perciò nudi tutti e due insieme. Nudi davanti al nostro grande Patrono san Francesco». «Ma guarda un po'! E allora?... Parla!», ordinò il padrone, tra seccato e incuriosito.
«II nostro grande Patrono ci esaminava con i suoi occhi che vedono fin dentro al cuore. Poi chiamò un Angelo e gli ordinò: "Porta una coppa d'oro piena del miele più trasparente!». «E allora?», incalzò il padrone.
«Allora san Francesco disse: "Ricopri questo gentiluomo col miele della coppa d'oro". E l'Angelo, prendendo il miele nelle proprie mani, lo ha spalmato sopra il tuo corpo, o Padrone, dalla testa ai piedi, cosicché tu eri raggiante di luce, come una statua d'oro, trasparente nello splendore del cielo». «Bene», fece il padrone. Poi aggiunse: «E tu?». «Per me, il nostro Santo Patrono fece venire un Angelo con un grosso bidone pieno di escrementi umani. "Andiamo, gli disse, insudicia il corpo di questo ometto; coprilo tutto come meglio potrai. Alla svelta". Così fece l'Angelo. Mi impiastricciò tutto il corpo, da capo a piedi, ed io comparvi, vergognoso e puzzolente, nella luce del cielo...».
«Proprio così ha da accadere», approvò il Padrone. «Finisce qui la tua storia?».
«Oh no, mio Signore, no, Padre mio. San Francesco riprese a scrutarci con quei suoi occhi che frugano il cuore, poi comandò: "Ed ora, leccatevi l'un l'altro. Lentamente, e a lungo!" E ordinò agli Angeli di vegliare perché si adempisse la sua volontà».
inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015
TESTO
49. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione lunga)
don Primo Mazzolari, Scritti
«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)
Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».
Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.
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«Gesù sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre»...
Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli; ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre allo spirituale, dal parziale all'universale, dal temporale all'eterno.
Il distacco, che prepara il transito, non può avvenire che per un accrescimento d'amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».
Un «passaggio» o una «conversione» che diminuisse le affezioni naturali e ci sottraesse alle parziali emozioni che tali affetti giustamente ci comandano, non sarebbe un'ascensione.
Si sale verso il Padre, con cuore purificato, ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescerne il valore nella santità.
Niente ci deve impedire di portare «sino alla fine», nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.
Proprio quando Gesù sa che «il diavolo aveva già messo in cuore» a Giuda Iscariota di tradirlo, quando ha la certezza che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare a Dio «...si levò da tavola, depose le sue vesti e preso un asciugatoio, se ne cinse...».
Facendosi uomo aveva preso «la forma del servo». Ma nessuno se n'era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava sul monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.
Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L'amore ve l'avrebbe fissato per sempre e in un gesto che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.
«Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio».
Non ha cominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per subito gustare l'estrema ripugnanza di servire l'inservibile, di amare l'inamabile.
Quando arriva a Pietro si sente dire: - Tu Signore, lavare i piedi a me? - Pietro misurava soltanto la propria miseria, e non poneva l'occhio sul mandato di carità che lo avrebbe impegnato come seguace di Cristo, per tutta la vita.
- Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo. Capiva il fatto dell'umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva dargli attraverso il mistero dell'umiliazione. Pietro voleva aver parte con Cristo immaginando chi sa quali ricompense; per questo era disposto a farsi lavare anche le mani e il capo. Neanche il primo degli apostoli sapeva che l'unica condizione per aver parte con lui, è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.
«Come dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: - Capite quel che vi ho fatto?».
E poiché gli apostoli non capivano l'istituzione della carità, che doveva precedere di poco l'istituzione del sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione.
«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro v'ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v'ho fatto io».
L'istituzione dell'eucaristia si chiude con parole quasi eguali: - Fate questo in memoria di me.
I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza eucaristica della presenza della carità, dimenticando che non si può capire una mensa dalla quale, almeno uno, dietro l'esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del mistero.
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Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.
Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.
I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».
lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo
inviato da Qumran, inserito il 09/06/2015
PREGHIERA
50. Cristo, volto misericordioso del Padre
Convertici a Te, Gesù,
che sei venuto a chiamare i peccatori
e non i giusti che non hanno bisogno di redenzione.
Convertici a Te, in questo anno giubilare,
indetto da Papa Francesco, per aiutare
il cammino di credenti verso la penitenza,
la conversione e il rinnovamento spirituale e morale.
Riconosciamo, Signore, le nostre colpe di oggi
e tutte quelle della vita passata,
vissuta, molte volte, nell'ipocrisia e nella falsità.
Noi abbiamo bisogno del tuo perdono
e della tua misericordia
per sentire quanto è grande il tuo amore per noi,
e quanto tieni poco conto dei nostri errori,
e delle nostre deviazioni,
dalla tua santa legge, o Signore.
Non abbandonarci, Signore, nella tentazione
di poter fare a meno di Te,
illudendo noi stessi che è possibile
essere felici e vivere senza il tuo sorriso
e dell'abbraccio della tua paternità infinita.
Con il tuo aiuto, vogliamo sinceramente
riprendere il cammino che ci porta a Te,
mediante la Penitenza e l'Eucaristia,
sacramenti della nostra continua rinascita spirituale
nel segno della coscienza di quanto poco valiamo
se non siamo ancorati a Te che sei la Via, la Verità e la Vita.
Non sia, Gesù, il nostro pentimento
solo e soltanto esteriore o apparente,
ma tocchi le profondità del nostro essere
e le corde di quell'armonia d'amore
che solo tuo puoi ridonarci, Signore.
Convertici a Te, con la tua Parola,
che è luce ai nostri passi,
è forza nel nostro cammino
è consolazione nel nostro patire.
Convertici a Te Signore e abbatti in noi
l'orgoglio e la presunzione di essere giusti
come il fariseo al tempio,
mentre dovremmo batterci sinceramente il petto,
come il pubblicano che non ha avuto
neppure la forza di alzare gli occhi
e lasciarsi illuminare dal tuo volto,
indegno quale era di avanzare nel tempio,
quale segno di riavvicinamento a Te.
Signore, converti il nostro cuore,
la nostra vita,
la nostra storia.
Purifica tutto e lava le nostre colpe
nel tuo sangue prezioso versato sulla croce per noi.
Gesù abbi pietà di noi e non abbandonarci più
nelle nostre illusioni, delusioni e tentazioni,
non abbandonarci nel peccato,
ma donaci il tuo abbraccio di Padre
dal volto tenero e misericordioso.
Amen.
inviato da Antonio Rungi, inserito il 13/04/2015
TESTO
Erri De Luca, Nel nome della Madre
Glielo dissi il giorno stesso. Non potevo stare una notte con il segreto. Non trascorrerà intero il giorno sulla rottura della tua alleanza. Eravamo fidanzati. Nella nostra legge è come essere sposati, anche se non ancora nella stessa casa. Ed ecco che ero incinta. La voce del messaggero era arrivata insieme a un colpo d'aria. Mi ero alzata per chiudere le imposte e appena in piedi sono stata coperta da un vento, da una polvere celeste, da chiudere gli occhi. Il vento di marzo in Galilea viene da nord, dai monti del Libano e dal Golan. Porta bel tempo, fa sbattere le porte e gonfia la stuoia degli ingressi, che sembra incinta. In braccio a quel vento la voce e la figura di un uomo stavano davanti a me.
Ero in piedi e l'ho visto contro luce davanti alla finestra. Ho abbassato gli occhi che avevo riaperto. Sono sposa promessa e non devo guardare in faccia gli uomini. Le sue prime parole sul mio spavento sono state: "Shalòm Miriàm". Prima che potessi gridare, chiamare aiuto contro lo sconosciuto, penetrato nella stanza, quelle parole mi hanno tenuto ferma: "Shalòm Miriàm", quelle con cui Iosef si era rivolto a me nel giorno del fidanzamento. "Shalòm lekhà", avevo risposto allora. Ma oggi no, oggi non ho potuto staccare una sillaba dal labbro. Sono rimasta muta. Era tutta l'accoglienza che gli serviva, mi ha annunciato il figlio. Destinato a grandi cose, a salvezze, ma ho badato poco alle promesse. In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell'incavo del ventre.
Il mio Iosef, bello e compatto da baciarsi le dita, si stringeva le braccia contro il corpo, cercava di tenersi fermo, ripiegato come col mal di pancia. La notizia per lui era una tromba d'aria che scoperchiava il tetto. Tentava un riparo con il corpo, smarrito in faccia, i muscoli che saltavano fuori dalle braccia. Si proteggeva il ventre teso e magro, non si permetteva di toccarmi, di scuotere la mia calma così opposta al suo sgomento, senza poter fingere un po' di agitazione.
Ero in piedi, schiena dritta, un'agilità nuova mi dava slancio, mi accorgevo di essere più alta e più leggera precisamente al centro del corpo, sotto le costole nell'ansa del ventre. Là dove lui accusava il colpo e il peso coi muscoli contratti di un atleta sotto sforzo, io ricevevo una spinta dal basso verso l'alto da aver voglia di mettermi a saltare. I suoi capelli a ciuffi scossi sbattevano sulla fronte chiara, ballavano davanti agli occhi. Glieli misi in ordine con un paio di carezze svelte. Nel suo scompiglio era ancora più bello.
"Cos'altro ha detto, cos'altro", chiedeva Iosef affannato con la testa tra le mani, gli occhi a terra. "Sforzati di ricordare, Miriàm, è importante, cos'altro voleva far sapere?"
Gli uomini danno tanta importanza alle parole, per loro sono tutto quello che conta, che ha valore. Iosef le voleva per poterle serbare, riferire. Immaginò subito le conseguenze legali. L'annuncio aveva rotto la nostra promessa. Ero incinta di un angelo in avvento, prima del matrimonio. Perciò chiedeva altre parole da riportare all'assemblea, in cerca di una difesa di fronte al villaggio.
"Cos'altro ha detto, Miriàm? Ti prego, sforza la memoria, è accaduto solo poche ore fa." "Ero sopra pensiero, Iosef, stupita da un rimescolio del corpo, dalla polvere chiara che mi aveva investito senza lasciare traccia a terra, solo addosso. Ce l'ho ancora, la vedi?" "Lascia stare la polvere, pulirai dopo, adesso aiutami, cosa racconterò agli anziani?"
Mentre accadeva guardavo in basso, la veste fino ai piedi. Sotto, il mio corpo chiuso era calmo come un campo di neve. Mentre parlava io diventavo madre. Gli uomini hanno bisogno di parole per consistere, quelle dell'angelo per me erano vento da lasciar andare. Portava parole e semi, a me ne bastava uno.
Ero rimasta in piedi innanzi a lui e in piedi stavo davanti a Iosef. Lui sedeva, si alzava, si risedeva, chiedeva di mettermi seduta, ma restavo in piedi. Eravamo promessi ed era già un atto grave stare soli sotto lo stesso tetto. Avevo chiesto il colloquio, l'avevano concesso ma c'era stato un gran trambusto, ed era quasi sera. E poi non volevo sedermi. Con le mani intrecciate sul ventre piatto mi toccavo la pelle per sentire sulla punta delle dita la mia vita cambiata. Era per me il giorno uno della creazione.
Mi sforzavo di ricordare qualcosa per consolarlo. Mi stava a cuore il suo sgomento, m'importava di lui mortificato dalla rottura del nostro patto di unione.
Iosef fu sorpreso dalla mia quiete. Si attaccò anche a lui. Si alzò in piedi, sollevò la testa, asciugandosi la faccia con il dorso di quelle mani sante che avrei voluto baciare. "Conosci la legge, Miriam?" "Conosco la legge." "Per filo e per segno?" "Non bene come te, non tutte le parole. Spetta a voi uomini conoscerle a memoria. So le conseguenze." "Ascoltami, Miriàm. C'è una possibilità. Tu domani vai da sola in campagna con un pretesto, in cerca di qualche erba invernale per fare un decotto. E torni a sera dal campo dicendo di essere stata aggredita e violata lì, di aver gridato, ma senza risposta. E già successo, si sa di altri casi di ragazze che sono riuscite a evitare così l'accusa di adulterio."
Guardai Iosef per la prima volta. Conoscevo la sua faccia serena anche sotto le mosche e la fatica. Ora vedevo un uomo desolato che provava a governare la situazione progettando menzogne. Quanto dev'essere importante per gli uomini la legge, per ridurli a questo. Dissi: "Quell'uomo messaggero è venuto da me a mezzogiorno, porte e finestre aperte, spalancate. Io mi sono trovata in piedi davanti a lui nella mia stanza e non ho pronunciato una sillaba, non ho neanche risposto al suo saluto, altro che gridi."
Ero felice. Avrei voluto abbracciare il mio Iosef, per lui mi era salita in petto una tenerezza mai provata. Il rispetto, la soggezione che ci insegnano verso l'autorità maschile, abbassano i sentimenti affettuosi. Ma l'annuncio dell'angelo e la risposta del mio corpo quel giorno mi avevano affrancato. Non arrossivo, la fiducia di essere nel giusto mi dava la prontezza necessaria e un contegno nuovo. Anche il mio silenzio era cambiato. Con la tenerezza venne la gratitudine. Mi aveva creduto. Contro ogni evidenza si affidava a me. Sulla sua bella faccia non s'era mosso neanche un muscolo del sospetto, un aggrumo di ciglia, uno sguardo di sbieco. E aveva visto la sua Miriàm per la prima volta, perché era la prima volta che lo guardavo in faccia senza abbassare la fronte, come neanche le mogli osano fare. Mi aveva creduto, ero felice e calda di gratitudine per lui. "Fai quello che è giusto, Iosef. Io oggi sono tua più di prima, più della promessa."
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inviato da Qumran, inserito il 21/01/2015
RACCONTO
C'erano una volta due sassi di montagna, due fratelli che si erano staccati dalla parrete rocciosa e si erano trovati a terra insieme, vicino ad un ruscello. Un giorno decisero di seguire il corso del ruscello per scendere a valle e vedere la grande città. Così si misero di buon sasso... cioè, di buon passo, e rotola oggi, rotola domani, pian piano si dirigevano verso la città. Uno dei due sassi (il più furbo dei due) di tanto in tanto si tuffava nelle acque del ruscello, si fermava un po' a farsi carezzare dall'acqua, e poi riprendeva il cammino.
"Sbrigati!" gli gridava l'altro, il più sciocco dei due, "Non vedi che resti indietro? E poi, cosa ti fermi a fare nell'acqua?"
"Mi levo un po' di polvere di dosso!", rispondeva quello. "Che stupido che sei! Quando esci di qui, e hai fatto due rotolate sulla terra, sei di nuovo sporco come prima! A che ti serve lavarti, se poi ti sporchi ancora?".
Ma il sasso furbo non gli dava retta. Rotolava un po', poi si fermava, entrava nel ruscello e si faceva lavare. Po tornava sul prato e ricominciava a rotolare. E la cosa bella è che non rimaneva mai indietro! Sì, perché mentre il sasso sciocco, tutto spigoloso e appuntito, faceva una gran fatica a rotolare, e faceva pochi metri per volta, il sasso furbo diventava più rotondo ogni volta che entrava in acqua! Sapete perché? Perché l'acqua, scorrendoli tutta intorno, lo levigava, cioè gli levava ogni volta un po' di pietra di dosso, e lo consumava, così da renderlo liscio e tondo. Così, quando usciva dall'acqua, con poca fatica raggiungeva l'amico sciocco.
Andarono avanti così per un bel pezzo. E ogni volta che il sasso furbo usciva dall'acqua, si accorgeva di essere diventato un po' più piccolo. Entra oggi, entra domani, il sasso furbo stava rimpicciolendo. Il sasso sciocco, che non capiva, lo scherzava ancora di più: "Ecco che cosa ci guadagni a fare il bagno ogni giorno! Se vai avanti di questo passo, fra un po' non ci sarai più! Quell'acqua ti sta uccidendo, ti toglie le forze, e non sei più tu! Ma guardati! Siamo fratelli, figli della stessa montagna! Eravamo uguali, e ora? Tu non sei che un piccolo ciottolo di fiume! Io sì che assomiglio alla grande montagna! Guarda come sono forte!"
Ma un bel giorno, uscendo dall'acqua, il sasso furbo si accorse che ora risplendeva su di lui una strana luce. Era un puntino piccolo piccolo, ma luminoso come il sole. E ogni volta che riemergeva dall'acqua, il puntino luminoso era sempre più grande. Finché, adagio adagio, tutto il suo corpo aveva perduto il colore grigio ed era diventato completamente luminoso e dorato.
Erano ormai giunti in città; il sasso sciocco era identico a quando era partito. Anzi, era ancora più incrostato di polvere e di terra. Il sasso furbo era molto più piccolo, ma tondo e luminoso. Il sasso sciocco si lamentava:" Non capisco proprio che cosa ti abbia ridotto così! Sei mio fratello e quasi non ti riconosco! Ma cosa sei diventato?" (Però era invidioso di quel luccichìo...).
In quell'istante passò accanto a loro un signore con una valigetta in mano. Quando vide i due sassi, si fermò di colpo, si inginocchiò a terra, prese il sasso luminoso, aprì la valigetta e ne estrasse una lente. Osservò attraverso la lente quel piccolo ciottolo, e poi esclamò pieno di gioia: "Ma è una pepita d'oro!". Subito lo avvolse con cura in un panno morbido, lo mise nella valigetta e si incamminò verso il suo negozio in città. Era infatti un gioielliere..
...E... l'altro sasso?...
Rimase solo, vicino al fiume, e finalmente capì: "Che sciocco, sono stato... Ma sono ancora in tempo: mi tufferò nel fiume e mi lascerò levigare fino a che tutto il sasso e le incrostazioni si saranno consumate, e sarò anch'io una pepita d'oro...".
Domande per la comprensione e la catechesi:
1. Anche il sasso sciocco era una pepita? (Sì)
2. Perché il gioielliere ha preso solo il piccolo ciottolo? (Perché era dorato)
3. Perché l'altra pepita era ancora ricoperta di incrostazioni? (Perché non si era mai lavata)
4. Come ha fatto il primo sasso a diventare pepita? (Era entrato tante volte nell'acqua)
5. Cosa rappresenta il fiume? (La misericordia di Dio e il sacramento della Riconciliazione)
confessionericonciliazionecrescitacambiamentomiglioramento
inviato da Maria Cristina Cattaneo, inserito il 14/04/2014
RACCONTO
53. Il ponte 12
Questa è la storia di due fratelli che vissero insieme d'amore e d'accordo per molti anni. Vivevano in cascine separate, ma un giorno scoppiò una lite e questo fu il primo problema serio che sorse dopo 40 anni in cui avevano coltivato insieme la terra condividendo le macchine e gli attrezzi, scambiandosi i raccolti e i beni continuamente.
Cominciò con un piccolo malinteso e crebbe fino a che scoppiò un diverbio con uno scambio di parole amare a cui seguirono settimane di silenzio.
Una mattina qualcuno bussò alla porta di Luigi. Quando aprì si trovò davanti un uomo con gli utensili del falegname: "Sto cercando un lavoro per qualche giorno", disse il forestiero, "forse qui ci può essere bisogno di qualche piccola riparazione nella fattoria e io potrei esserle utile per questo".
"Sì", disse il maggiore dei due fratelli, "ho un lavoro per lei. Guardi là, dall'altra parte del fiume, in quella fattoria vive il mio vicino, beh! È il mio fratello minore. La settimana scorsa c'era una splendida prateria tra noi, ma lui ha deviato il letto del fiume perché ci separasse. Deve aver fatto questo per farmi andare su tutte le furie, ma io gliene farò una. Vede quella catasta di pezzi di legno vicino al granaio? Ebbene voglio che costruisca uno steccato di due metri circa di altezza, non voglio vederlo mai più". Il falegname rispose: "Mi sembra di capire la situazione".
Il fratello maggiore aiutò il falegname a riunire tutto il materiale necessario e se ne andò fuori per tutta la giornata per fare le spese in paese. Verso sera, quando il fattore ritornò, il falegname aveva appena finito il suo lavoro. Il fattore rimase con gli occhi spalancati e con la bocca aperta.
Non c'era nessuno steccato di due metri. Invece c'era un ponte che univa le due fattorie sopra il fiume. Era una autentica opera d'arte, molto fine, con corrimano e tutto.
In quel momento, il vicino, suo fratello minore, venne dalla sua fattoria e abbracciando il fratello maggiore gli disse: "Sei un tipo veramente in gamba. Ma guarda! Hai costruito questo ponte meravilloso dopo quello che io ti ho fatto e detto".
E così stavano facendo la pace i due fratelli, quando videro che il falegname prendeva i suoi arnesi. "No, no, aspetta; rimani per alcuni giorni ancora, ho parecchi lavori per te", disse il fratello maggiore al falegname. "Mi fermerei volentieri", rispose lui, "ma ho parecchi ponti da costruire".
Molte volte lasciamo che i malintesi e le stizze ci allontanino dalla gente a cui vogliamo bene, molte volte lasciamo che sia l'orgoglio a prevalere sui sentimenti.
- Non permettere che ciò succeda nella tua vita.
- Impara a perdonare e apprezza quanto hai. Ricorda che perdonare non cambia nulla del passato, ma del futuro sì. Non conservare rancore né sentimenti di amarezza che ti feriscono, ti allontanano da Dio e dalle persone che ti vogliono bene.
- Impara ad essere felice e a godere delle meraviglie che Dio ha creato. Egli ti ama e desidera che tu abbia una vita felice e piena di amore e armonia.
- Non permettere che un piccolo incidente rovini una grande amicizia.
- Ricorda che il silenzio, a volte, è la miglior risposta.
- Ciò che più importa è una casa felice. Fa' tutto quello che è nelle tue mani per creare un ambiente di pace e armonia.
- Ricorda che la miglior relazione è quella in cui l'amore tra due persone è più grande del bisogno che hanno l'una dell'altra.
pacelitigiarmoniaconcordiaperdono
inviato da Qumran2, inserito il 27/12/2013
RACCONTO
54. Quanto pesa un bicchiere d'acqua? 27
Siamo all'Università di Berkley, in California. Un professore della Facoltà di Psicologia fa il suo ingresso in aula, come ogni martedì. Il corso è uno dei più gremiti e decine di studenti parlano del più e del meno prima dell'inizio della lezione. Il professore arriva con il classico quarto d'ora accademico di ritardo. Tutto sembra nella norma, ad eccezione di un piccolo particolare: il prof. ha in mano un bicchiere d'acqua.
Nessuno nota questo dettaglio finché il professore, sempre con il bicchiere d'acqua in mano, inizia a girovagare tra i banchi dell'aula. In silenzio. Gli studenti si scambiano sguardi divertiti, ma non particolarmente sorpresi. Sembrano dirsi: "Eccoci qua: oggi la lezione riguarderà sicuramente l'ottimismo. Il prof. ci chiederà se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto. Alcuni diranno che è mezzo pieno. Altri diranno che è mezzo vuoto. I nerd diranno che è completamente pieno: per metà d'acqua e per l'altra metà d'aria! Tutto così scontato!".
Il professore invece si ferma e domanda ai suoi studenti: "Secondo voi quanto pesa questo bicchiere d'acqua?". Gli studenti sembrano un po' spiazzati da questa domanda, ma in molti rispondono: il bicchiere ha certamente un peso compreso tra i 200 e i 300 grammi. Il professore aspetta che tutti gli studenti abbiano risposto e poi propone il suo punto di vista: "Il peso assoluto del bicchiere d'acqua è irrilevante. Ciò che conta davvero è per quanto tempo lo tenete sollevato". Felice di aver catturato l'attenzione dei suoi studenti, il professore continua: "Sollevatelo per un minuto e non avrete problemi. Sollevatelo per un'ora e vi ritroverete un braccio dolorante. Sollevatelo per un'intera giornata e vi ritroverete un braccio paralizzato".
Gli studenti continuano ad ascoltare attentamente il loro professore di psicologia: "In ognuno di questi tre casi il peso del bicchiere non è cambiato. Eppure, più il tempo passa, più il bicchiere sembra diventare pesante. Lo stress e le preoccupazioni sono come questo bicchiere d'acqua. Piccole o grandi che siano, ciò che conta è quanto tempo dedichiamo loro. Se gli dedichiamo il tempo minimo indispensabile, la nostra mente non ne risente. Se iniziamo a pensarci più volte durante la giornata, la nostra mente inizia ad essere stanca e nervosa. Se pensiamo continuamente alle nostre preoccupazioni, la nostra mente si paralizza." Il professore capisce di avere la completa attenzione dei suoi studenti e decide di concludere il suo ragionamento: "Per ritrovare la serenità dovete imparare a lasciare andare stress e preoccupazioni. Dovete imparare a dedicare loro il minor tempo possibile, focalizzando la vostra attenzione su ciò che volete e non su ciò che non volete. Dovete imparare a mettere giù il bicchiere d'acqua".
stresspreoccupazioniserenitàtranquillitàfaticaconcentrazione
inviato da Qumran2, inserito il 06/08/2013
RACCONTO
55. La conquista della penna d'aquila 9
In riva ad un lago azzurro, sorgeva un tranquillo villaggio indiano. A mezzogiorno e a sera, dalle tende uscivano fumo e fragranti profumi che mettevano appetito ai piccoli indiani che giocavano.
Una sera d'estate, il clima del villaggio sembrò improvvisamente cambiare. Gli uomini della tribù si raccolsero tutti nella tenda di Bisonte Nero, il grande capo, per il consiglio dei saggi e degli anziani.
Si erano riuniti per una questione importante che riguardava i piccoli indiani che avevano compiuto sette anni, dovevano cioè decidere quale sarebbe stata la "prova di forza" che avrebbero dovuto superare per essere accettati come membri della tribù.
Era ormai calato il sole, quando dalla tenda uscirono gli uomini, gli anziani e il grande capo. I piccoli indiani si avvicinarono a Bisonte Nero impazienti di sapere quale sarebbe stata la prova di forza, e lui con voce solenne dichiarò: "Domani all'alba con il primo raggio di sole, partirete con le vostre canoe verso l'altra riva del lago e cercherete la penna d'aquila dorata che è nascosta in un posto segreto".
Al primo chiarore, apparvero dietro le montagne le ombre dei giovani indiani che portavano le loro canoe verso la riva del lago. Stavano tutti indaffarati a prepararsi quand'ecco arrivare, camminando lentamente, Falco Stanco, un vecchio indiano che abitava in un villaggio dall'altra parte del lago.
Il vecchio si avvicinò ai bambini e disse loro: "Sono vecchio e stanco e per tornare dalla mia tribù devo andare sull'altra riva del lago, e a piedi ci impiegherei una nottata. Qualcuno di voi mi potrebbe portare sulla sua canoa?".
Il piccolo Volpe Astuta guarda gli altri e dice: "Ma noi dobbiamo fare la prova di forza!".
E tutti gli altri dissero: "No, non è possibile; se fosse un altro giorno sì, ma oggi dobbiamo correre".
"Eh, sì!", pensò Nuvola Rossa. "Se uno di noi prende sulla sua canoa Falco Stanco, rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna d'aquila. Ma che fatica dovrà fare, povero vecchio, per compiere il giro del lago. E come sarà triste se gli diremo tutti di no!". Nuvola Rossa si avvicinò al vecchio e disse, deciso: "Vieni, Falco Stanco; ti porto io!".
Gli altri sorpresi lo guardarono e pensarono: "Nuvola Rossa non è stato molto furbo, così rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna, ha perso la sua occasione, lui che è tra i ragazzi più abili!".
In quel momento spuntò il primo raggio di sole e con un grido di gioia i piccoli indiani partirono veloci. Nuvola Rossa vedeva i suoi amici molto più avanti di lui, ormai lontani, e gli venne il dubbio di aver sbagliato. Poi guardava Falco Stanco, aedeva il suo viso rugoso che sorrideva felice e sentiva nel suo cuore una voce che gli diceva: "Hai fatto bene, hai fatto bene!".
I piccoli indiani avevano già preso a cercare nei boschi, quando verso Mezzogiorno arrivò anche Nuvola Rossa. Il piccolo indiano era tutto sudato per la fatica e pensava che già vi era un vincitore. Ma, a quanto pareva, nessuno aveva ancora trovato la penna d'aquila.
Nuvola Rossa riprese forza e entusiasmo, salutò Falco Stanco e si accinse alla ricerca. Ma il vecchio indiano lo chiamò: "Aspetta, vieni qui! Ti devo dare una cosa!". Un po' a malincuore, Nuvola Rossa si fermò e andò verso Falco Stanco. "Ieri sera", proseguì l'anziano, "il grande capo del tuo villaggio mi ha detto: domani all'alba, quando vorrai tornare al tuo villaggio, recati dai piccoli indiani, chiedi loro di portarti sull'altra sponda, e a chi lo farà quando sarete arrivati, consegnagli questa". E Falco Stanco tirò fuori una meravigliosa penna d'aquila dorata!
Nuvola Rossa la afferrò e la sollevò con un urlo di gioia. Gli altri accorsero pieni di stupore.
Falco Stanco rivolgendosi a Nuvola Rossa disse: "Hai vinto la prova, perché la forza più grande è la forza dell'amore, e tu hai dimostrato di averla aiutandomi. Nuvola Rossa ha avuto il coraggio di fare quello che nessuno voleva fare!".
I piccoli indiani si guardarono l'un l'altro, poi dissero: "E' vero, la forza più grande è l'amore e adesso anche noi vogliamo fare come Nuvola Rossa!".
Falco Stanco li salutò con la mano e pensò: "Sì, questo è stato un giorno importante per i piccoli indiani perché hanno imparato che c'è qualcosa nella vita che vale più dell' arrivare primi".
amoresolidarietàdonaregratuitàgenerosità
inserito il 10/07/2013
RACCONTO
C'era una volta un vecchio pastore, che amava la notte e conosceva bene il percorso degli astri. Appoggiato al suo bastone, con lo sguardo rivolto verso le stelle, il pastore stava immobile sul campo.
"Egli verrà!" disse.
"Quando verrà?" chiese il suo nipotino.
"Presto!".
Gli altri pastori risero.
"Presto!", lo schernirono. "Lo dici da tanti anni!".
Il vecchio non si curò del loro scherno. Soltanto il dubbio che vide sorgere negli occhi del nipote lo rattristò. Quando fosse morto, chi altri avrebbe riferito la predizione del profeta? Se lui fosse venuto presto! Il suo cuore era pieno di attesa.
"Porterà una corona d'oro?". La domanda del nipote interruppe i suoi pensieri. "Sì!".
"E una spada d'argento?". "Sì!".
"E un mantello purpureo?". "Sì! Sì!".
Il nipotino era contento. Il ragazzo era seduto su un masso e suonava il suo flauto. Il vecchio stava ad ascoltare. Il ragazzo suonava sempre meglio, la sua musica era sempre più pura. Si esercitava al mattino e alla sera, giorno dopo giorno. Voleva essere pronto per quando fosse venuto il re. Nessuno sapeva suonare come lui.
"Suoneresti anche per un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo?", chiese il vecchio.
"No!", disse il nipote.
Un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, come avrebbe potuto ricompensarlo per la sua musica? Non certo con oro e argento! Un re con corona, con spada e mantello purpureo l'avrebbe fatto ricco e gli altri sarebbero rimasti a bocca aperta, l'avrebbero invidiato.
Il vecchio pastore era triste. Ahimé, perché aveva promesso al nipote ciò a cui egli stesso non credeva? Come sarebbe venuto? Su nuvole dal cielo? Dall'eternità? Sarebbe stato un bambino? Povero o ricco? Di certo senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, e tuttavia sarebbe stato più potente di tutti gli altri re. Come poteva farlo capire al suo nipotino?
Una notte in cielo comparvero i segni che il nonno così a lungo aveva cercato con gli occhi. Le stelle splendevano più chiare del solito. Sopra la città di Betlemme c'era una grande stella. E poi apparvero gli angeli e dissero: "Non abbiate paura! Oggi è nato il vostro Salvatore!".
Il ragazzo corse avanti, verso la luce. Sotto il mantello sentiva il flauto sul suo petto. Corse più in fretta che poteva. Arrivò per primo e guardò fisso il bambino, che stava in una greppia ed era avvolto in fasce. Un uomo e una donna lo contemplavano lieti. Gli altri pastori, che l'avevano raggiunto, si misero in ginocchio davanti al bambino. Il nonno lo adorava. Era dunque questo il re che gli aveva promesso?
No, doveva esserci un errore. Non avrebbe mai suonato qui.
Si voltò deluso, pieno di dispetto. Si allontanò nella notte. Non vide né l'immensità del cielo, né gli angeli che fluttuavano sopra la stalla.
Ma poi sentì piangere il bambino. Non voleva sentirlo. Si tappò le orecchie e corse via. Ma quel pianto lo perseguitava, gli toccava il cuore e infine lo costrinse a tornare verso la greppia.
Eccolo là, per la seconda volta.
Vide che Maria, Giuseppe e anche i pastori erano spaventati e cercavano di consolare il bambino piangente. Ma tutto era inutile. Che cosa poteva avere il bimbo?
Non c'era altro da fare. Tirò fuori il suo flauto da sotto il mantello e si mise a suonare. Il bambino si quietò subito. Si spense anche l'ultimo, piccolo singhiozzo che aveva in gola. Guardò il ragazzo e gli sorrise.
Allora egli si rallegrò, e sentì che quel sorriso lo arricchiva più di tutto l'oro e l'argento del mondo.
natalepastoriGesù bambinoMariaGiuseppedonodonaregioiainterioritàesteriorità
inviato da Qumran2, inserito il 18/03/2013
PREGHIERA
don Tonino Bello, Maria, donna dei nostri giorni
I love you. Je t'aime. Te quiero. Ich liebe Dich. Ti voglio bene, insomma.
Io non so se ai tempi di Maria si adoperassero gli stessi messaggi d'amore, teneri come giaculatorie e rapidi come graffiti, che le ragazze di oggi incidono furtivamente sul libro di storia o sugli zaini colorati dei loro compagni di scuola.
Penso, però, che, se non proprio con la penna a sfera sui jeans, o con i gessetti sui muri, le adolescenti di Palestina si comportassero come le loro coetanee di oggi.
Con «stilo di scriba veloce» su una corteccia di sicomòro, o con la punta del vincastro sulle sabbie dei pascoli, un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento, antico e sempre nuovo, che scuote l'anima di ogni essere umano quando si apre al mistero della vita: ti voglio bene!
Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell'esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell'universo.
Ha assaporato pure lei la gioia degli incontri, l'attesa delle feste, gli slanci dell'amicizia, l'ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo.
Cresceva come un'anfora sotto le mani del vasaio, e tutti si interrogavano sul mistero di quella trasparenza senza scorie e di quella freschezza senza ombre.
Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: «Maria, ti amo». Lei gli rispose, veloce come un brivido: «Anch'io». E nell'iride degli occhi le sfavillarono, riflesse, tutte le stelle del firmamento.
Le compagne, che sui prati sfogliavano con lei i petali di verbena, non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura. Il sabato la vedevano assorta nell'esperienza sovrumana dell'estasi, quando, nei cori della sinagoga, cantava: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora ti cerco: di te ha sete l'anima mia come terra deserta, arida, senz' acqua». Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d'amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato, con le cadenze del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto è riconoscibile tra mille... I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua... Il suo aspetto è come quello del Libano, magnifico tra i cedri...».
Per loro, questa composizione era un'impresa disperata. Per Maria, invece, era come mettere insieme i due emistichi d'un versetto dei salmi.
Per loro, l'amore umano che sperimentavano era come l'acqua di una cisterna: limpidissima, sì, ma con tanti detriti sul fondo. Bastava un nonnulla perché i fondigli si rimescolassero e le acque divenissero torbide. Per lei, no.
Non potevano mai capire, le ragazze di Nazaret, che l'amore di Maria non aveva fondigli, perché il suo era un pozzo senza fondo.
Santa Maria, donna innamorata, roveto inestinguibile di amore, noi dobbiamo chiederti perdono per aver fatto un torto alla tua umanità. Ti abbiamo ritenuta capace solo di fiamme che si alzano verso il cielo, ma poi, forse per paura di contaminarti con le cose della terra, ti abbiamo esclusa dall'esperienza delle piccole scintille di quaggiù. Tu, invece, rogo di carità per il Creatore, ci sei maestra anche di come si amano le creature. Aiutaci, perciò, a ricomporre le assurde dissociazioni con cui, in tema di amore, portiamo avanti contabilità separate: una per il cielo (troppo povera in verità), e l'altra per la terra (ricca di voci, ma anemica di contenuti) .
Facci capire che l'amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall'unico incendio di Dio. Ma facci comprendere anche che, con lo stesso fuoco, oltre che accendere lampade di gioia, abbiamo la triste possibilità di fare terra bruciata delle cose più belle della vita.
Perciò, Santa Maria, donna innamorata, se è vero, come canta la liturgia, che tu sei la «Madre del bell'amore», accoglici alla tua scuola. lnsegnaci ad amare. È un'arte difficile che si impara lentamente. Perché si tratta di liberare la brace, senza spegnerla, da tante stratificazioni di cenere.
Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio. Soffrire per far cadere le squame dell'egoismo. Togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa. Desiderare la felicità dell'altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione.
Santa Maria, donna innamorata, visto che il Signore ti ha detto: «Sono in te tutte le mie sorgenti», facci percepire che è sempre l'amore la rete sotterranea di quelle lame improvvise di felicità, che in alcuni momenti della vita ti trapassano lo spirito, ti riconciliano con le cose e ti danno la gioia di esistere.
Solo tu puoi farci cogliere la santità che soggiace a quegli arcani trasalimenti dello spirito, quando il cuore sembra fermarsi o battere più forte, dinanzi al miracolo delle cose: i pastelli del tramonto, il profumo dell'oceano, la pioggia nel pineto, l'ultima neve di primavera, gli accordi di mille violini suonati dal vento, tutti i colori dell'arcobaleno... Vaporano allora, dal sotto suolo delle memorie, aneliti religiosi di pace, che si congiungono con attese di approdi futuri, e ti fanno sentire la presenza di Dio.
Aiutaci, perché, in quegli attimi veloci di innamoramento con l'universo, possiamo intuire che le salmodie notturne delle claustrali e i balletti delle danzatrici del Bolscjoi hanno la medesima sorgente di carità. E che la fonte ispiratrice della melodia che al mattino risuona in una cattedrale è la stessa del ritornello che si sente giungere la sera... da una rotonda sul mare: «Parlami d'amore, Mariù».
inviato da Barbara Battilana, inserito il 13/03/2013
RACCONTO
Gianni Rodari, Favole al telefono
La vecchia zia Ada, quando fu molto vecchia, andò ad abitare al ricovero dei vecchi, in una stanzina con tre letti, dove già stavano due vecchine, vecchie quanto lei. La vecchia zia Ada si scelse subito una poltroncina accanto alla finestra e sbriciolò un biscotto secco sul davanzale.
- Brava, così verranno le formiche, - dissero le altre due vecchine, stizzite.
Invece dal giardino del ricovero venne un uccellino, beccò di gusto il biscotto e volò via.
- Ecco, - borbottarono le vecchine, - che cosa ci avete guadagnato? Ha beccato ed è volato via. Proprio come i nostri figli che se ne sono andati per il mondo, chissà dove, e di noi che li abbiamo allevati non si ricordano più.
La vecchia zia Ada non disse nulla, ma tutte le mattine sbriciolava un biscotto sul davanzale e l'uccellino veniva a beccarlo, sempre alla stessa ora, puntuale come un pensionante, e se non era pronto bisognava vedere come si innervosiva.
Dopo qualche tempo l'uccellino portò anche i suoi piccoli, perché aveva fatto il nido e gliene erano nati quattro, e anche loro beccarono di gusto il biscotto della vecchia zia Ada, e venivano tutte le mattine, e se non lo trovavano facevano un gran chiasso.
- Ci sono i vostri uccellini, - dicevano allora le vecchine alla vecchia zia Ada, con un po' d'invidia. E lei correva, per modo di dire, a passettini passettini, fino al suo cassettone, scovava un biscotto secco tra il cartoccio del caffè e quello delle caramelle all'anice e intanto diceva:
- Pazienza, pazienza, sono qui che arrivo.
- Eh, - mormoravano le altre vecchine, - se bastasse mettere un biscotto sul davanzale per far tornare i nostri figli. E i vostri, zia Ada, dove sono i vostri?
La vecchia zia Ada non lo sapeva più: forse in Austria, forse in Australia; ma non si lasciava confondere, spezzava il biscotto agli uccellini e diceva loro: - Mangiate, su, mangiate, altrimenti non avrete abbastanza forza per volare.
E quando avevano finito di beccare il biscotto: - Su, andate, andate. Cosa aspettate ancora? Le ali sono fatte per volare.
Le vecchine crollavano il capo e pensavano che la vecchia zia Ada fosse un po' matta, perché vecchia e povera com'era aveva ancora qualcosa da regalare e non pretendeva nemmeno che le dicessero grazie.
Poi la vecchia zia Ada morì, e i suoi figli lo seppero solo dopo un bel po' di tempo, e non valeva piú la pena di mettersi in viaggio per il funerale. Ma gli uccellini tornarono per tutto l'inverno sul davanzale della finestra e protestavano perché la vecchia zia Ada non aveva preparato il biscotto.
vecchiaiagenitorifigligratuità
inserito il 16/12/2012
TESTO
Tonino Bello, La carezza di Dio. Lettera a Giuseppe
Dimmi, Giuseppe, quand'è che hai conosciuto Maria?
Forse, un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio, con l'anfora sul capo e con la mano sul fianco snello come lo stelo di un fiordaliso?
O forse, un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte sotto l'arco della Sinagoga?
O forse, un meriggio d'estate, in un campo di grano, mentre, abbassando gli occhi splendidi per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all'umiliante mestiere di spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi... e poi, tu, nella notte, hai intriso il cuscino con lacrime di felicità?
Ti scriveva lettere d'amore?
Forse sì!
E il sorriso, con cui accompagni il cenno degli occhi verso l'armadio delle tinte e delle vernici, mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi, una notte, hai preso il coraggio a due mani, sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta, e le hai cantato, sommessamente, le strofe del Cantico dei Cantici:
"Alzati, amica mia, mia bella e vieni!
Perché, ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia e se n'è andata.
I fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia, mia bella e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro".
E la tua amica, la tua bella, la tua colomba si è alzata davvero.
È venuta sulla strada, facendoti trasalire.
Ti ha preso la mano nella sua e, mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi capirla.
Ti ha parlato di:
Jahvé, di un Angelo del Signore, di un Mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo, di un progetto più grande dell'universo e più alto del firmamento, che vi sovrastava.
Poi, ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio, e di dimenticarla per sempre.
Fu, allora, che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando:
"Per te, rinuncio volentieri ai miei piani.
Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te".
Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente. [...]
E io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore.
Lei ha puntato tutto sull'onnipotenza del Creatore.
Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura.
Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza.
La carità ha fatto il resto, in te e in lei.
fedesperanzaGiuseppeMariaMadonnasogniabbandonofiduciaprogetto di Dio
inviato da Sandra Aral, inserito il 23/09/2012
TESTO
60. Parlami d'Amore (versione 2) 3
Michel Quoist, Parlami d'amore, Sei, Torino 1987, pp. 104-107
L'amore non è la folgorazione della bellezza
davanti a un volto che d'improvviso s'illumina per te,
perché la vera bellezza è il riflesso dell'anima,
ma l'anima è oltre, e la cerchi tremando.
L'amore non è seduzione di un'intelligenza viva e sciolta
che scorre in parole e idee per piacerti,
perché l'intelligenza può splendere di mille barbagli
senza essere autentico diamante nascosto nelle profondità dell'amato.
L'amore non è l'emozione di fronte a un cuore
che batte per te
più di quanto non batta per gli altri,
né quella meraviglia d'essere scelto, eletto,
senza motivo ai tuoi occhi
che valga questa follia,
perché un cuore può un giorno turbarsi per un altro,
e lasciarti sanguinare, in lacrime,
senza che il tuo amore muoia.
L'amore non è voglia di catturare, di afferrare
l'oggetto del tuo desiderio,
sia esso cuore, corpo, mente o tutti e tre insieme,
perché l'altro non è "oggetto";
e se lo prendi per te, lo mangi e lo distruggi,
è te che ami credendo di amare l'altro.
Folgorazione e seduzione, fame e fremiti,
emozione e sgorgare di desideri,
tutto ciò è bello e necessario, nell'uomo, nella donna,
ma soltanto per aiutare ad amare chi accetta di amare.
E' la porta socchiusa e le finestre spalancate,
è il vento che entra a folate,
è il richiamo del largo, è il mormorio di Dio
che invitano a uscire dalla casa sbarrata
per andare verso un altro
che hai scelto per colmare la tua vita
perché lo ami e lo vuoi amare.
Amare è volere l'altro libero e non sedurlo,
è liberarlo dai suoi lacci se ne rimane prigioniero,
perché anche lui possa dire: ti amo,
senza esservi spinto dai suoi desideri non domati.
Amare è con tutte le forze volere il bene dell'altro,
anche prima del tuo,
è fare di tutto perché l'amato cresca, e poi sbocci e fiorisca
diventando ogni giorno l'uomo che deve essere
e non quello che tu vuoi modellare
sull'immagine dei tuoi sogni.
Amare è dare il tuo corpo, e non prendere il suo,
ma accogliere il suo quando si offre per essere condiviso,
è raccoglierti, arricchirti,
per offrire all'amato più che mille carezze e folli abbracci,
la tua vita intera raccolta nelle braccia del tuo "io".
Amare è offrirti all'altro,
anche se questi ad un certo momento si rifiuta,
è dare senza tenere il conto di quello che l'altro ti dà,
pagando il prezzo alto senza mai reclamare il resto,
ed è supremo amore perdonare
quando l'amato purtroppo si sottrae,
tentando di consegnare ad altri ciò che ti aveva promesso.
Amare è credere nell'altro e dargli fiducia,
credere nelle sue forze nascoste, nella vita che ha in sé;
e quali che siano le pietre da tagliare
per appianare la strada,
è decidere da uomo ragionevole
di avviarsi coraggiosamente per il viaggio del tempo.
Non per cento giorni, per mille, e neppure per diecimila,
ma per un pellegrinaggio che non finirà,
perché è un pellegrinaggio che durerà
"sempre"...
Se amare è questo, come potrò riuscirci?
Ero scoraggiato...
Non avevo ancora capito...
che l'amore era un fine da raggiungere
e non un punto di partenza
e che, per cercare di riuscirci,
bisognava lottare per tutto il tempo della vita.
Io volevo tutto e subito.
Questo era il mio errore.
Dovevo accettare di adottare
il passo lento e regolare,
il passo dell'autentico montanaro.
Clicca qui per un altro testo di Michel Quoist sullo stesso tema.
amoreinnamoramentoamaredonarsigratuitàlibertàcrescerematurità
inviato da Qumran2, inserito il 20/09/2012
PREGHIERA
Mio Dio eccomi.
Signore, quanto vorrei poterti dire così, quanto vorrei potermi fidare di te al punto da presentarmi davanti a te così come sono, senza preparare le parole, senza pensare a come sono vestita, senza timore di non essere accettata.
Come vorrei, Signore, buttarmi nelle tue braccia con gli occhi chiusi, fare il grande salto, superare le acque che sotto si muovono e rumoreggiano ostili, incurante dell'abisso che ci separa, senza paura di essere risucchiata dai gorghi di morte, senza ali che mi sollevino in alto.
Come vorrei Signore potermi affidare completamente a te al punto da dimenticare la distanza e il vuoto che si apre davanti ai miei occhi.
Sono, Signore, ancora tutta impastata di paura, di pregiudizi, di dubbi, sono ancora troppo preoccupata di me e di ciò che tu potresti dire, fare o pensare.
Signore mio Dio, eccomi davanti a te, questa mattina: i miei vestiti li vedi, sono quelli di cui non ancora riesco a fare a meno, il mio cuore non ancora si apre stabilmente al tuo amore, le braccia sono contratte, incapaci ti tendersi verso di te, la mente non riesce ancora a farsi da parte perché il desiderio di studiarti, capirti possederti è troppo grande.
Signore mio Dio eccomi con tutte le imperfezioni di cui sono piena, eccomi con tutte le contraddizioni che mi porto addosso, mio Dio eccomi con la mia incapacità di vivere la fede in modo semplice e sereno, mio Dio eccomi anche se non riesco a ritornare bambina, non riesco a ridiventare piccola come quelli a cui hai promesso il regno dei cieli..
Mio Dio eccomi ancora tanto attaccata alla terra, a questa sponda del mare, così tanto timorosa di prendere il largo, abbandonando le reti a terra, le mie sicurezze, lasciando la barca con cui sono abituata ad andare a pescare da sola, a prendere pesci destinati ad imbandire una mensa alla quale spesso dimentico d'invitarti.
Mio Dio eccomi, con lo sguardo perso nel vuoto, rivolto al mare che tu mi inviti ad attraversare, a solcare con la tua barca, incominciando il cammino a piedi nudi, camminando sull'acqua, che pure si muove e mi ricorda l'insidia che si cela sotto di essa.
Mio Dio eccomi, con la paura a procedere ferma e salda sulla strada che tu mi indichi.
Ti vedo allargare le braccia, ti vedo guardarmi negli occhi, con amore, con autorevolezza.
Mio Dio eccomi: Dio di amore, di misericordia, di giustizia, Dio padre e madre, Dio di tenerezza, Dio di compassione, Dio buono, Dio che mi stai aspettando, perché smetta di piangere e di avere paura.
Mio Dio eccomi
affidamentofedefiduciarapporto con Diopauracoraggiolimiti
inviato da Antonietta Milella, inserito il 20/09/2012
ESPERIENZA
Tanino Minuta, Città nuova, n. 24, 2009
Gelida mattina d'inverno. Alla fermata attendo il bus 61. Dal cancello principale del cimitero che sta di fronte vedo uscire una vecchietta che cammina lentamente, appoggiandosi ricurva ad un malfermo bastoncino. Si avvicina alle strisce pedonali per attraversare. Ma una dopo l'altra le macchine le passano veloci davanti. Finalmente una macchina si ferma e la lascia camminare lentamente. Lei, giratasi, continua a guardare grata verso l'auto che l'ha lasciata passare.
Le vado incontro per aiutarla a salire il gradino del marciapiede. Dentro di me ribolle l'indignazione
per quanti non si sono fermati. Lei, offrendomi la mano per essere aiutata, guarda ancora la macchina, ormai lontana, che l'aveva fatta passare. Poi, con un sorriso di indicibile bellezza, mi chiede: «Vero che c'è tanta bontà in questo mondo?».
Quando arriva il 61 l'aiuto a salire. In mezzo a tanti volti che sembrano delle casseforti sigillate, quella nonnina mi sembra sia il tesoro che il bus sta trasportando senza che nessuno lo sappia. La guardo ancora, sorpreso per la lezione che mi ha dato. Lei non ha tenuto conto di chi non si era fermato, ha visto soltanto chi le aveva permesso di passare. Non ha visto altro.
Le dico: «Come sarebbe diverso il mondo se vedessimo soltanto il bene e non il male». Interviene a questo punto un signore seduto vicino: «Allora sì che fallirebbero telegiornali e rotocalchi. Di cosa si nutrirebbe la politica? Veleno, veleno è l'unica risorsa di ogni potere. Soltanto la malvagità equilibra il mondo. Odio ci vuole, sempre di più. Sto andando a denunciare il mio vicino di casa che con le sue orge notturne non ci lascia dormire. Lui ci avvelena la vita e io l'unica cosa che posso fare è distruggerlo. E stavolta se la passerà male!».
La vecchietta lo guarda con materna comprensione; poi, fattasi seria: «Avevo un figlio, che ha vissuto forse come il suo vicino di casa. È morto a trentatrè anni per overdose. Tutte le mattine lo vado a salutare. Quando sono alla tomba mi sembra di rivederlo nella culla, piccolo, indifeso, bisognoso di tutta la mia protezione. Ormai nulla può fargli male, eppure è come se mi chiedesse di proteggerlo ancora. L'unica cosa che posso fare è continuare a difenderlo.
«L'unico figlio. Mio marito ed io abbiamo lavorato duramente per assicurargli una vita migliore della nostra. Ma è stato più infelice di noi. Amicizie sbagliate. Per un ragazzo buono e pulito come lui la scivolata è stata veloce. Per anni non abbiamo saputo dov'era. Poi, attraverso un suo vecchio amico, siamo venuti a sapere che gironzolava come un barbone alla periferia della città. Mio marito è riuscito a trovarlo. Era irriconoscibile. Sembrava più vecchio del padre. Ha accettato di essere curato. In ospedale si comportava come un animale ferito. Parlava poco, lui che era un brillante intrattenitore delle feste.
«Un giorno mi ha detto: "Non c'è cosa peggiore per un uomo che sapere di essere inutile. Niente è più soffocante dell'inutilità". Non serviva ripetergli che per noi era importante. Era come se in lui fosse bruciata la radice della vita.
«Uscito dall'ospedale è sparito, senza dirci niente, come la prima volta. Mio marito è morto di crepacuore. Io avevo speranza.
«Quando sono venuti a dirmi che l'avevano trovato morto, si è chiusa la speranza. Chissà da quanto tempo era morto. Non me l'hanno fatto mai vedere. Nella sua giacca, hanno trovato delle frasi scritte su carta da sigarette o droga, la grafia era la sua: "La vita non mantiene mai le sue promesse. Se tu esistessi, faresti giustizia. Il male ha tutti i poteri. Tu non sei mai nato su questa Terra. Se ci fossi, ti chiederei di ricrearmi".
«Povero figlio mio, chissà che dolori ha provato! Il nostro amore non è bastato! Si apriva davanti a me la strada della disperazione, oppure... rigenerare mio figlio. Per amore di lui ho cominciato a vivere per gli altri e non per me. Ciò mi ha aiutato a rinascere e a rigenerare mio figlio. In qualche modo era come se Dio mi avesse affidato il compito di possedere un amore che non avevo mai avuto. Certo che senza la fede non ce l'avrei fatta. La fede ha delle risorse di forza che, quando meno te lo aspetti, si mostrano in tutta la loro potenza. Ora mio figlio palpita in me».
Il signore che le siede accanto, nonostante la sua statura, sembra diventato piccolo e insicuro. Come disorientato. Poi le chiede, quasi balbettando, se può fare qualche cosa per lei. La vecchietta, come se attendesse la richiesta, risponde veloce: «Il suo vicino potrebbe essere suo figlio che vuole essere ricreato!».
Soltanto il rumore del motore vibra nell'aria. Quando lei si alza per dirigersi alla fermata, il signore l'accompagna. Mi salutano tutti e due. Scende anche lui. Il palazzo dove prima aveva detto di essere diretto non era da quelle parti. Mentre il bus si allontana vedo sul marciapiede quel grande uomo che offre il braccio alla vecchietta. L'atmosfera di Natale colora la città e abbraccia il bus, le macchine, la gente.
«Vero che c'è tanta bontà in questo mondo?», echeggia in me la piccola voce di una fragile donna quasi piegata su un bastoncino instabile. Mi guardo in giro. La gente chiusa nei cappotti e nei cuori è fragile e indifesa. La commozione è forte.
È come se ogni sguardo spento mi stia implorando: «Aiutami a nascere, fammi da madre!».
amorevitabontàpositivitàrinasceresperanzasenso della vita
inviato da Fernanda Plomitallo, inserito il 12/08/2012
PREGHIERA
63. Maria donna del piano superiore 3
Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, ed. San Paolo
Santa Maria, donna del piano superiore, splendida icona della Chiesa, tu, la tua personale Pentecoste, l'avevi già vissuta all'annuncio dell'angelo, quando lo Spirito Santo scese su di te, e su di te stese la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Se, perciò, ti fermasti nel cenacolo, fu solo per implorare su coloro che ti stavano attorno lo stesso dono che un giorno, a Nazareth, aveva arricchito la tua anima. Come deve fare la Chiesa, appunto. La quale, già posseduta dallo Spirito, ha il compito di implorare, fino alla fine dei secoli, l'irruzione di Dio su tutte le fibre del mondo.
Donale, pertanto, l'ebbrezza delle alture, la misura dei tempi lunghi, la logica dei giudizi complessivi. Prestale la tua lungimiranza. Non le permettere di soffocare nei cortili della cronaca. Preservala dalla tristezza di impantanarsi, senza vie d'uscita, negli angusti perimetri del quotidiano. Falle guardare la storia dalle postazioni prospettiche del Regno. Perché, solo se saprà mettere l'occhio nelle feritoie più alte della torre, da dove i panorami si allargano, potrà divenire complice dello Spirito e rinnovare, così, la faccia della terra.
Santa Maria, donna del piano superiore, aiuta i pastori della Chiesa a farsi inquilini di quelle regioni alte dello spirito da cui riesce più facile il perdono delle umane debolezze, più indulgente il giudizio sui capricci del cuore, più istintivo l'accredito sulle speranze di risurrezione. Sollevali dal pianterreno dei codici, perché solo da certe quote si può cogliere l'ansia di liberazione che permea gli articoli di legge. Fa' che non rimangano inflessibili guardiani delle rubriche, le quali sono sempre tristi quando non si scorge l'inchiostro rosso dell'amore con cui sono state scritte.
Intenerisci la loro mente, perché sappiano superare la freddezza di un diritto senza carità, di un sillogismo senza fantasia, di un progetto senza passione, di un rito senza estro, di una procedura senza genio, di un logos senza sophìa.
Invitali a salire in alto con te, perché solo da certe postazioni lo sguardo potrà davvero allargarsi fino agli estremi confini della terra, e misurare la vastità delle acque su cui lo Spirito Santo oggi torna a librarsi.
Santa Maria, donna del piano superiore, facci contemplare dagli stessi tuoi davanzali i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi della vita: la gioia, la vittoria, la salute, la malattia, il dolore, la morte. Sembra strano: ma solo da quell'altezza il successo non farà venire le vertigini, e solo a quel livello le sconfitte impediranno di lasciarsi precipitare nel vuoto.
Affacciàti lassù alla tua stessa finestra, ci coglierà più facilmente il vento fresco dello Spirito con il tripudio dei suoi sette doni. I giorni si intrideranno di sapienza, e intuiremo dove portano i sentieri della vita, e prenderemo consiglio sui percorsi più praticabili, e decideremo di affrontarli con fortezza, e avremo coscienza delle insidie che la strada nasconde, e ci accorgeremo della vicinanza di Dio accanto a chi viaggia con pietà, e ci disporremo a camminare gioiosamente nel suo santo timore. E affretteremo così, come facesti tu, la Pentecoste sul mondo.
pentecosteSpirito Santochiesamariamadonna
inviato da Anna Barbi, inserito il 12/08/2012
PREGHIERA
64. Preghiera a Maria alla conclusione del mese di maggio 1
don Sandro Vigani, Gente Veneta, Settimanale della Diocesi di Venezia
Quando ti penso, Maria, vedo una giovane donna
che si prepara al matrimonio,
una figlia d'Israele cresciuta nella fede e nella storia
di un popolo col quale Dio ha intrecciato
una meravigliosa alleanza.
Vedo una donna che sta progettando il proprio futuro,
pensa alla casa, ai figli, allo sposo,
è innamorata della vita e delle tradizioni della propria gente.
E' piena di attese, di curiosità
e forse anche di un po' di timore.
Il Signore è entrato, potente, Maria,
nella casa della tua esistenza, e la storia del mondo
è cambiata per sempre, duemila anni fa,
perché Tu quel giorno hai detto di «sì».
Il vento di Dio ha soffiato forte e mescolato
le carte dei tuoi progetti, come il vento della primavera
a volte alza la sabbia sulla riva del mare.
Penso alla tua paura, Maria, quel giorno.
Alle parole con le quali, stupita,
chiedi conto al messaggero di Dio
di quello che sta accadendo in Te:
«Come è possibile, io non conosco uomo».
E penso alle paure che tante volte
hanno popolato la casa della mia vita,
ai momenti di buio, di dolore, di incertezza.
Alle direzioni così strane
che spesso ha preso la mia strada,
a come il vento di Dio l'ha battuta
e ha scombinato le tracce
che credevo indispensabili per orientami.
Maria, dopo la prima paura ti sei fidata.
O forse ti sei abbandonata, arresa alla voce del Signore
alla quale sentivi di non poter resistere.
Forse non sempre hai capito subito,
ma hai conservato nel tuo cuore
il senso di quello che ti accadeva.
E al tuo cuore hai attinto
negli anni che sono venuti,
mentre accompagnavi tuo figlio Gesù
giorno dopo giorno verso la croce,
finché quel significato si è dispiegato davanti ai tuoi occhi.
Io ho resistito mille volte più di Te a quella voce,
finché sulla mia strada,
sotto la sabbia e la terra delle mie debolezze,
a poco a poco sono comparse
altre tracce più vive e più vere,
che mi parlavano di quanto il tuo Figlio mi amava.
Anche oggi, molte volte, so di resistere a quella voce,
e mi affido alla pazienza di Dio
perché a poco a poco mi aiuti a leggere
nelle pagine della mia vita le parole che scrive per me.
Maria, hai accolto nel tuo grembo il figlio di Dio.
Sei stata ad un tempo madre e figlia.
Mi chiedo come hai vissuto questo duplice ruolo.
Quel figlio che cresceva in te e poi accanto a te,
era tuo ma non ti apparteneva.
Lo amavi come ogni madre,
accarezzavi per lui i tuoi progetti,
mentre lo cullavi tra le tue braccia,
e dovevi ogni giorno distaccarti da lui,
lasciare che andasse per la sua strada dove lo voleva suo Padre.
La vita è fatta anche di molti distacchi.
Maria, io credo che per poter
affrontare i momenti più difficili accanto a Gesù,
Tu abbia avuto nel tuo cuore un'invincibile speranza,
che si era accesa quando il messaggero di Dio
ti aveva assicurato che il Signore
non ti avrebbe mai abbandonata.
Maria, abbiamo il tesoro più grande
che un uomo possa sperare di avere,
la perla per la quale vale la pena vendere tutto,
abbiamo con noi il Signore.
Aiutaci ad accendere la nostra speranza,
perché il fuoco di Dio che non distrugge,
ma dona la vita,
bruci dentro di noi e attorno a noi.
Fa' che comprendiamo che vale la pena di credere,
essere cristiani conviene: così impareremo a guardare
la vita ed il mondo con occhi pieni di luce.
inviato da Don Mario Sgorlon, inserito il 11/08/2012
TESTO
65. Il piccolo grande presepe dei dimenticati
Davide Rondoni, Il Sole 24Ore del 24/12/2009
E' un presepe strano. Il presepe dei poveri della cronaca.
Vorrei fare un presepe con i nomi che ci hanno commosso, che hanno suscitato forti sentimenti con le loro storie dure lanciate dai media e poi se ne sono andati nell'oblio di tutti, tranne di quelli che li hanno amati veramente. Un presepe degli esibiti e poi dimenticati.
Presepe di Arianna, ad esempio, che fu uccisa insieme alla madre dal padre marocchino a Treviso. E presepe del marito di Monica, che era uscito per andare a prender le pizze per la moglie e i due piccoli e al ritorno ha trovato lei con il coltello in mano e il cadavere di Alessandro, tre anni.
Presepe di quei duecentotredici o duecentocinquantasette o quanti erano che affondarono davanti alle coste libiche. Senza nome, proprio come le statuine del presepe, identificabili per qualcosa che fanno, o che gli succede (il filatore, il panettiere, quello che ha un colpo di sonno davanti a Dio…).
Presepe del sorriso di Rachida, marocchina, liberata a Limbiate, Milano, dopo dieci anni di schiavitù del clan di zingari che l'aveva rapita in Marocco. O della fisarmonica di Petru, che suonava alla fermata Montesanto a Napoli, e il 26 maggio cadde colpito a caso durante la sparatoria di otto sicari di camorra, davanti alle telecamere.
Davanti alla grotta con il Bambino, sotto la stella, mettiamo questa sfilza di poveri nomi sparati a caratteri cubitali o nei titoli che corrono sugli schermi di tutti, per uscire dal lato che sembra portare al niente.
Invece, no: memoria e presepe di questi e degli infiniti altri che riemergono negli archivi della mente o del web, chiamata anche di questi sperduti di fronte al segno universale di speranza, di loro non più solo come nomi da dare in pasto al circo dei media ma da posare, delicatamente, tra il muschio e i sassolini, come per un'offerta, un risarcimento, un omaggio.
Perché il presepe, si sa, è la festa umile e altissima delle comparse. Di coloro che hanno valore per il fatto solo d'esserci. Il Dio che s'è incarnato per risarcire e salvare le comparse nel teatro del mondo che sembra dominato dai potenti e dai famosi accetterà anche questo strano presepe, fatto di ritagli di giornale, di vite illuminate per un attimo dai faretti televisivi, e di senza più fama.
Perché è Natale anche nelle redazioni dei giornali e dei network di media. E ognuno deve mettere nel presepe qualcosa di caro.
Quei nomi sono la cosa più cara, più onorevole, più importante nel lavoro non facile di dare e commentare le notizie.
inviato da Marcello Rosa, inserito il 05/08/2012
TESTO
66. Introduzione alla Via Crucis
Don Angelo Saporiti, Riflessione sull'amore di Madre Teresa
Oggi fra la gente del mondo, Gesù vive la propria passione.
La Via Crucis si ripete oggi come duemila anni fa nei giovani, nei sofferenti, negli affamati, nelle persone malate e portatrici di handicap.
Noi oggi siamo qui per vivere la Via Crucis di Gesù.
La Via Crucis è fatta di stazioni.
Stazione significa "sosta" "fermata".
Significa per noi "esserci", stare lì vicino a quella situazione, a quella persona, a quella sofferenza...
Vivere la Via Crucis significa esserci.
E allora noi siamo lì?
Siamo lì in quel bambino che mangia un pezzo di pane, briciola dopo briciola, perché sa che, quando quel tozzo di pane sarà finito, non ce ne sarà più e avrà di nuovo fame?
Siamo lì con quel bambino?
Siamo lì con quelle migliaia di persone che ogni giorno muoiono, non solo per un tozzo di pane, ma per un po' d'amore, di considerazione, di giustizia...
Siamo lì?
Siamo lì quando i nostri giovani cadono, come Gesù è caduto più volte per noi?
Siamo lì come era lì Simone il Cireneo, a risollevarli, a prendere su di noi la loro fatica, la loro delusione, la loro depressione?
Siamo lì con gli alcolizzati, i senzatetto, i senza lavoro, i senza famiglia, i vecchi, gli esclusi...
Queste sono alcune stazioni della Via Crucis.
Le altre sono dentro di noi. Le conosciamo bene:
sono il nostro rapporto difficile con il marito, la moglie,
i nostri conflitti con i figli adolescenti,
le nostre incomprensioni con i parenti,
le nostre liti con i vicini,
i nostri volti duri con gli amici,
i nostri preconcetti con i compagni,
il nostro disimpegno sociale e cristiano,
il nostro correre tutta la giornata senza avere un orientamento,
le nostre scuse per non trovare mai il tempo per pregare, per stare un po' in silenzio, per meditare, per conoscere meglio Gesù, per incontralo...
Non possiamo far finta di non vedere queste stazioni della nostra Via Crucis.
La Via Crucis è una via di consapevolezza del mio peccato personale e una presa di coscienza del nostro peccato sociale, come comunità civile e come Chiesa.
Iniziamo ad andare dietro a Gesù sulla via dolorosa.
Precorriamo la Via Crucis, passo dopo passo, con consapevolezza, con lucidità, con coscienza, con trasparenza. Lasciamoci andare all'amore di Dio.
Chiediamo a Gesù il dono delle lacrime e il dono del cambiamento della nostra vita.
Gesù è morto per noi per dirci che non c'è amore più grande di quello che dona la vita.
Lui ci darà la forza, perché Gesù è la nostra forza!
inviato da Don Angelo Saporiti, inserito il 05/08/2012
TESTO
67. La segnaletica del Calvario 2
Tonino Bello, Scritti vari
Miei cari fratelli, sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agli incroci, ce ne sono ogni tanto delle altre, di piccole dimensioni, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a rallentare la corsa per imboccare l'unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne dico tre. Ma bisogna fare attenzione, perché si vedono appena.
La freccia dell'accoglienza. E' una deviazione difficile, che richiede abilità di manovra, ma che porta dritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono. Non come un rivale. Un pretenzioso che vuole scavalcarmi. Un possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere il fratello con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d'identità! Si, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che è iscritto all'anagrafe del mio quartiere o che abita di fronte a casa mia. Coraggio! Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.
La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E' sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. E' su questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo ed a misurare la nostra fedeltà al mistero della croce.
La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe qualcosa. Non il cristallo di una virtù che, al limite, con una confessione si può anche ricomporre. Ma il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.
Il Signore ci conceda la grazia di discernere, al momento giusto, sulla circonvallazione del Calvario, le frecce che segnalano il percorso della Via Crucis. Che è l'unico percorso di salvezza.
via crucisgolgotaaccoglienzariconciliazionecomunioneperdonocomunitàvolontariato
inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012
TESTO
Tonino Bello, Dalla testa ai piedi
Carissimi,
Io non so se nell'ultima cena, dopo che Gesù ebbe ripreso le vesti, qualcuno dei dodici si sia alzato da tavola e con la brocca, il catino e l'asciugatoio si sia diretto a lavare i piedi del maestro. Probabilmente no. C'è da supporre comunque che dopo la sua morte ripensando a quella sera, i discepoli non abbiano fatto altro che rimproverarsi l'incapacità di ricambiare la tenerezza del Signore.
Possibile mai, si saranno detti, che non ci è venuto in mente di strappargli dalle mani quei simboli del servizio, e di ripetere sui suoi piedi ciò che egli ha fatto con ciascuno di noi? Dovette essere così forte il disappunto della Chiesa nascente per quella occasione perduta, che, quando Gesù apparve alle donne il mattino della risurrezione, esse non seppero fare di meglio che lanciarsi su quei piedi e abbracciarli. "Avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono". Ce lo riferisce Matteo, nell'ultimo capitolo del suo Vangelo. Gli cinsero i piedi. Non gli baciarono le mani o gli strinsero il collo. No.
Gli cinsero i piedi! Erano già bagnati di rugiada. Glieli asciugarono, allora con l'erba del prato e glieli scaldarono col tepore dei loro mantelli. Quasi per risarcire il maestro, sia pure a scoppio ritardato, di una attenzione che la notte del tradimento gli era stata negata. Gli cinsero i piedi. Fortunatamente avevano portato con sé profumi per ungere il corpo di Gesù. Forse ne ruppero le ampolle di alabastro e in un rapimento di felicità riversarono sulle caviglie del Signore gli olii aromatici che furono subito assorbiti da quei fori: profondi e misteriosi, come due pozzi di luce.
Gli cinsero i piedi. Finalmente! Verrebbe voglia di dire. Ma chi sa in quel ritardo ci doveva essere anche tanto pudore. Forse la chiesa nascente rappresentata dalle due Marie prima di cadergli davanti nel gesto dell'adorazione aveva voluto aspettare di proposito che Gesù riprendesse davvero le vesti. Non quelle che aveva momentaneamente deposto prima della lavanda. Ma quelle veramente inconsutili del suo corpo glorioso. Carissimi fratelli, oggi voglio dirvi che la Pasqua è tutta qui. Nell'abbracciamento di quei piedi. Essi devono divenire non solo il punto di incontro per le nostre estasi d'amore verso il Signore, ma anche la cifra interpretativa di ogni servizio reso alla gente, e la fonte del coraggio per tutti i nostri impegni di solidarietà con la storia del mondo.
Non c'è da illudersi. Senza questa dimensione adorante, espressa dal gruppo marmoreo di donne protese dinanzi al risorto, saremo capaci di organizzare solo girandole appariscenti di sussulti pastorali. Se non afferriamo i piedi di Gesù, lavare i piedi ai marocchini, o agli sfrattati, o ai tossici, non basta.
Non basta neppure lavarsi i piedi a vicenda, tra compagni di fede. Se la preghiera non ci farà contemplare speranze ultramondane attraverso quei fori lasciati dai chiodi, battersi per la giustizia, lottare per la pace e schierarsi con gli oppressi, può rimanere solo un'estenuante retorica. Se, caduti in ginocchio, non interpelleremo quei piedi sugli orientamenti ultimi per il nostro cammino, giocarsi il tempo libero nel volontariato rischia di diventare ricerca sterile di sé e motivo di vanagloria. Se l'adorazione dinnanzi all'ostensorio luminoso di quelle stigmate non ci farà scavalcare le frontiere delle semplici liberazioni terrene, impegnarsi per le promozione dei poveri potrà sfiorare perfino il pericolo dell'esercizio di potere. Non basta avere le mani bucate. Ci vogliono anche i piedi forati. E' per questo che quando Gesù apparve ai discepoli la sera di Pasqua "mostrò loro le mani e i piedi".
E poi, quasi per sottolineare con la simbologia di quei due moduli complementari che senza l'uno o l'altro, ogni annuncio di risurrezione rimarrà sempre mortificato, aggiunse: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io".
Mani e piedi, con tanto di marchio! Ecco le coordinate essenziali per ricostruire la carta d'identità del risorto. Mani bucate. Richiamo a quella inesauribile carità verso i fratelli, che si fa donazione a fondo perduto. Piedi forati.
Appello esigente a quell'amore verso il Signore, che ci fa scorgere il senso ultimo delle cose attraverso le ferite della sua carne trasfigurata.
pasquaresurrezionerisortorisurrezioneserviziovolontariato
inviato da Qumran2, inserito il 07/04/2012
TESTO
Che cos'è Dio?
E' la mia matrice: il mio principio ed il mio compimento; è l'esigenza irreparabile di un dover essere con pienezza, non è un atto di fede, è soltanto uno scoprire, un risentire, un constatare.
Dov'è questo mio Dio?
E' nelle mia coscienza della vita.
E' là dove io mi riconosco, dove trovo me stessa.
E' nell'insoddisfazione per ciò che non riesco ad essere.
E' in ciò che soffro disperatamente per ingiustizia, delusione, amarezza; mancanza o violenza a quello che è sigillato in me e che porto mio malgrado.
E' in tutto quello che accorda me con me, che mi aiuta a realizzarmi.
E' in qualsiasi bellezza che mi scuote e mi purifica.
E' nelle piccole cose che fioriscono ogni giorno intorno a me.
E' nel risentire la terra: il respiro della luce, il canto del sole, il salire del verde, l'odore dell'aria limpida, il senso rigeneratore di ogni alba.
E' nel compiersi e nel rifluire delle cose, dei gesti familiari; le mani di mia madre sulla mia fronte; le braccia del bambino tese verso di me; la profondità del suo sguardo; il passo di un ritorno; un bacio che ripaga; un sorriso sopra una tolleranza; una carezza su una comprensione; un saluto che mi si porge od il pane.
E' nella pace che lievita la mia solitudine.
E' nella musica che intensifica in autenticità il mio spirito.
E' nel gusto dell'innocenza.
E' in ogni moto puro che mi trascina via.
E' nel precedere per consegnare la vita.
E' in tutto ciò che mi rende bambina: intensa e semplice; poeta e concreta.
E' nella forza di scegliere di morire per restar fedele a me stessa.
E' in quello che nell'ora più pesante mi riporta l'ora delle rondini. E' nello stringere una mano comprensiva e fedele.
E' nel dono che precede l'attesa.
E' nel mio bisogno di creature prepotenti di verità; nell'amarle senza esigere di possederle, per sentirmi meno povera, più libera e più sicura; per renderle più libere, più forti, più se stesse.
E' nel mio vibrare ad ogni istante di luce, ad ogni soffio d' amore.
E' nel germinare in me di ogni fermento vero che non si piega ad ipocrisie, sovrastrutture o costrizioni.
E' nell'infinita capacità di amore che ogni giorno mi fa nuova insieme al sole.
Diorapporto con Diofedeinterioritàsperanzacoerenza
inviato da Flavia Perin, inserito il 07/04/2012
ESPERIENZA
70. Una poesia prima di andare via
La costanza è una di quelle virtù che ci permette di raggiungere i sogni più lontani e il cuore delle persone; è un lavoro continuo e delicato: il mio Padre Fondatore ci diceva sempre che per arrivare ad un'anima si deve fare come fanno gli uccelli nel posarsi sul ramo, cioè delicatamente.
Conobbi Mario in un reparto isolato dell'ospedale di Terni, uno di quei reparti in cui nessuno entra, per paura di contagio; era sempre in compagnia di un anziano, sembrava essere suo padre.
Lui scriveva al computer ed era talmente concentrato, che a malapena mi salutò quando entrai nella stanza, avevo l'impressione che io non gli fossi molto simpatica, invece l'anziano mi salutò cortesemente.
Il giorno seguente io ed un'altra sorella entrammo nella stessa stanza: Mario ci salutò e cordialmente c'invitò ad uscire; conclusi che quell'uomo aveva bisogno d'aiuto!
Da quel momento passai da lui ogni giorno, anche senza entrare nella stanza, almeno lo salutavo dalla porta, finché un giorno, finalmente, m'invitò ad entrare, cominciammo a parlare e mi spiegò che stava trascrivendo nel portatile delle poesie, scritte dall'anziano, che io pensavo fosse suo padre, ma che in realtà era un amico, famoso poeta di Terni.
Pian piano Mario mi raccontò tutta la sua vita, molto sofferta già dall'infanzia, con conseguenze, alla fine, nefaste. Il rapporto tra noi iniziò a migliorare, sapevo però, che non sarebbe durato a lungo, mentre il suo animo andava via via migliorando, purtroppo quella bestiale malattia svolgeva lentamente il suo scopo, portarlo via.
Durante una di queste visite iniziammo a parlare di poesia e gli suggerii di scriverne una di suo pugno: lui si rifiutò categoricamente, perché non ne aveva mai scritta una; al termine della visita, ci accordammo affinché ciascuno di noi ne avrebbe scritta una.
La sua salute peggiorò, tanto che lui non riusciva né a scrivere né a parlare: capii che da un momento all'altro, saremmo arrivati a ciò che lo aspettava.
Un giorno non lo vidi più, se n'era andato.
Il suo amico mi disse che Mario era riuscito a scrivere la poesia e me la consegnò; era bellissima e diceva così:
"Sei venuta a trovarmi
Portando Cristo con te
Mi hai sorriso
Piena di luce e di serenità
Io non trovo parole
Ma il silenzio che hai scoperto
Lo hai compreso
Scusa le mie difficoltà
E considerami
Un amico vero sincero
Che apprezza
Il tuo sorriso fraterno".
Quanta ragione ha Cristo, quando afferma che "chi cerca, trova", sono sicura che Mario è morto in pace.
Quante volte le parole dette sono troppe, con Mario ho capito che il silenzio, tante volte sinonimo di chiusura, è piuttosto un richiamo a stare con le persone, soprattutto un richiamo ad ascoltare ed accogliere quel silenzio che può trasmettere tante cose.
Credo che per fare questo sia sufficiente essere veri strumenti di Dio per lasciar trasparire quello che Lui, in quel momento, vuol dire loro.
costanzaperseveranzasilenziopoesiaessere strumento di Diosolitudineincontro
inviato da Roxsana Chavez, inserito il 07/02/2012
TESTO
71. Padre mio, mi sono affezionato alla terra
Mario Luzi, Via Crucis al Colosseo 1999
Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell'uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l'ho fatto troppo mio o l'ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d'amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l'ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell'eternità.
Ma da questo stato umano d'abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell'iniquità è pagato all'iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.
Gesù Cristoumanitàvenerdì santo
inviato da Anna Laura Carta, inserito il 25/01/2012
ESPERIENZA
Constantin Virgil Georghiu, prete ortodosso, Dalla venticinquesima ora all'eternità, ed. San Paolo, 2007
Quando, davanti alla porta, arrivava un cristiano a cavallo, si sapeva che da qualche parte era successo qualche cosa di grave... prima che l'uomo bussasse alla porta mio padre era già pronto a partire con lui. Preparava svelto la borsa nella quale si trovava sempre l'Euchologio o libro di preghiere, la croce di legno, grande come il libro, le Sante Specie e il cucchiaino per la comunione, il labìs, o pinzette "per i divini carboni ardenti". Questo cucchiaino era d'argento, sempre molto pulito e luccicante, ma talmente usato che da una parte ne mancava. Esso è sempre servito solo per la comunione; lo si posa sulle labbra del fedele, con il pane bagnato nel vino, che sono il Corpo e il Sangue di Cristo... ero estremamente emozionato al pensiero che con esso anch'io avrei distribuito il Corpo e il Sangue di Dio. Il libro delle preghiere, la custodia delle Sante Specie e il cucchiaino erano avvolti nell'epitrakèlion e riposti nella borsa. L'epitrakèlion o stola, è l'ornamento primo che testimonia della dignità, del potere e della grazia sacerdotale. Letteralmente, epitrakèlion significa "sul collo" o "attorno al collo". Consiste in una lunga striscia di stoffa di lino o di seta, larga sei centimetri, che il sacerdote porta attorno al collo e le cui estremità ricadono in avanti, fin sotto il ginocchio. Queste due strisce che ricadono in avanti sono tenute insieme da dei bottoni, delle fibie o da una cucitura. In generale, esse sono ricamate con sette croci e con immagini di santi, e terminano con delle frange. L'epitrakèlion o stola simboleggia anzitutto il giogo di Cristo, che ogni sacerdote deve portare sulla terra. A causa di ciò, per ogni ufficio sacerdotale, anche per il più breve, il sacerdote deve portare attorno al collo "il giogo", l'epitrakèlion. Le frange simbolizzano le anime dei fedeli. L'epitrakèlion rappresenta il giogo di Cristo, ma rappresenta anche la grazia di Dio, effusa sul sacerdote, e il potere dello Spirito Santo, il potere sacerdotale. Per richiamare questa grazia e questo potere discesi dall'alto e riversati su di lui, il sacerdote, mettendo la stola attorno al collo prima dell'ufficio, recita ogni volta questa preghiera: "Benedetto sia Dio, che versa la sua grazia sui suoi sacerdoti, come il profumo effuso sulla testa di Aronne discese sulla sua barba e sulla frangia del suo vestito".... Il prete non può mai celebrare senza avere attorno al collo il giogo del sacerdozio. Se un prete si trova rinchiuso in una prigione o in un campo di concentramento, e se è spogliato di tutto, prima di celebrare deve trovare una stola, un giogo, un epitrakèlion. Deve strappare la sua tonaca o la sua camicia, farne una striscia che benedirà e metterà attorno al collo, a modo di epitrakèlion. E se il sacerdote non può trovare una striscia, allora deve utilizzare, come stola una corda. Qualsiasi corda. E servirà validamente da stola, da epitrakèlion, da ornamento sacerdotale (cf Simeone di Tessalonica). Nel corso dei secoli passati, i miei antenati, i sacerdoti di Petrodava, hanno dovuto passare una buona parte della loro vita, con i loro parrocchiani, rifugiati sulle rocce, nelle foreste e negli anfratti selvaggi dei loro Carpazi, a causa degli invasori dall'est. Lassù, vicini al cielo, i sacerdoti, come ornamento sacerdotale per i battesimi, per i funerali, per la comunione, non potevano fare altra cosa che prendere la corda che attaccava i loro cavalli e mettersela attorno al collo. Era il loro unico ornamento sacerdotale. Guardando dall'alto del cielo, gli angeli, che sono i cerimonieri della Chiesa, non sono mai rimasti scandalizzati e non hanno mai sorriso; semplicemente, hanno asciugato una lacrima alla vista di quei poveri preti proletari, con i piedi nudi nella montagna moldava, e che utilizzavano la corda dei loro animali come ornamento sacerdotale. Dopo la seconda guerra mondiale, migliaia e migliaia di preti, della mia famiglia e del mio popolo, sono stati impiccati agli alberi dei loro villaggi. Non avevano bisogno di cercare una corda per servirsene da epitrakèlion per dire la loro preghiera prima di morire. I carnefici mettevano loro la stola attorno al collo: la corda e l'ornamento sacerdotale nelle stesso tempo.. Soprattutto l'ornamento sacerdotale. Perché la morte, per un sacerdote, è una promozione: lascia la chiesa terrena, che è una copia, per andare nella cattedrale celeste, dove celebrerà la sublime e divina Liturgia, a fianco del nostro unico vescovo, il Signore Gesù Cristo.
inviato da Qumran2, inserito il 23/01/2012
TESTO
73. Davanti al cielo stellato 3
Antonietta Milella, Meditazione sul Salmo 8
Quando ti senti solo, quando ti senti abbandonato, quando ti senti messo da parte, quando pensi che nessuno si ricordi di te, affacciati alla finestra, alza gli occhi e guarda il cielo stellato. Quante luci riesci a vedere? Quante ne immagini nello spazio ristretto del tuo limitato orizzonte?
Pensa... ciò che vedi ha una profondità infinita, le luci che distingui sono nulla, gocce d'acqua nell'oceano del cielo profondo e sconfinato.
Pensa... ogni stella si muove secondo una legge per lei fissata dalla notte dei tempi, intorno a lei girano i pianeti, intorno ai pianeti i satelliti, ognuno con una precisione millimetrica, secondo un tempo che è stato dato ad ogni più piccolo essere come sua misura.
Moltiplica quelle luci, moltiplica quei movimenti, moltiplica il tuo piccolo quadro di cielo all'infinito, e... sei infinitamente distante dalla verità.
Pensa... dietro ad ognuna di quelle luci, dietro ad ogni impercettibile movimento, dietro ad ogni realtà percepita dall'uomo con i suoi strumenti imperfetti c'è qualcuno che quella realtà, quel movimento, la legge che lo regola li ha creati. Tanta perfezione, per cosa?
Guarda te ora... guarda i tuoi occhi capaci di comprendere e abbracciare ciò che è così tanto più grande di loro, guarda il tuo cuore, quel cuore che ora senti piagato e pensa...
Il tuo cuore ha in sé un'ansia infinita di amore, un desiderio infinito di assoluto, di Dio... ha un'ansia infinita di infinito. Eppure il cuore per quanto grande è piccolo rispetto al corpo che lo contiene! Eppure il cuore soffre più di qualsiasi altro organo, più di qualsiasi altra parte del corpo!
Pensa... le cose piccole capaci di cose grandi! Gli occhi, il cuore capaci di accogliere la più grande pena, ma anche la più grande manifestazione di amore, quella di Dio!
"Chi è l'uomo perché te ne curi, chi è l'uomo perché te ne ricordi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e onore lo hai coronato. Tutto hai messo ai suoi piedi".
Così recita un salmo.
Di fronte a quel cielo stellato ci sei tu, di fronte alla più grande meraviglia del Creato ci sei tu, piccolo, fragile, smarrito, turbato, ma ci sei.
Tu sei prezioso di più della più luminosa stella che riesci a vedere ad occhio nudo dalla tua finestra, sei prezioso perché Dio ha fatto tutto quello che ti sta davanti per te, perché potessi percepire un frammento della sua potenza, della sua grandezza, un frammento del suo amore.
Se ad ogni stella, ad ogni pianeta, ad ogni molecola, ad ogni atomo che sono inerti e senza vita ha dato il compito così grande di celebrare la sua gloria, quanto più grande è il progetto su di te, sull'uomo che si eleva su tutte le cose create e le domina con il suo pensiero!
Guarda lontano, guarda in alto; guarda ora dentro di te.
Scoprirai che quell'universo che ti sembra così irraggiungibile, così perfetto e misterioso, davanti ai tuoi occhi è dentro di te. E' un universo da esplorare, è un universo in cui troverai le risposte che cerchi, è l'universo delle emozioni e dei sentimenti che arricchiscono e illuminano il cielo sconfinato della tua anima.
Guarda, ma ad occhi chiusi: E vedrai dentro di te accendersi tante stelle luminose. Vedrai che nel buio più profondo, proprio come in quel cielo da cui tu ora hai distolto lo sguardo, spuntano fiori stupendi, che tu non ti eri accorto di avere piantato.
Fratello, nel tuo cuore Dio ha seminato ciò che vuole tu impari a guardare: vuole che tu nel tuo cuore riscopra l'amore con cui lui ti guarda, vuole che tu almeno una volta ti fidi di lui.
E' ansioso di manifestarti il suo progetto meraviglioso che ha in serbo per te, desidera che almeno una volta tu gli permetta di entrare per farsi conoscere più da vicino.
Vuole incontrarti non nel cielo infinito, ma nella tua pena, nella tua sofferenza, nella tua difficoltà di ogni giorno, nel tuo bisogno di amore non soddisfatto, per trasformarli in canto di gioia, in inno di lode a lui, che non ha smesso neanche un momento di occuparsi di te.
gratitudinericerca di sensoricercasenso della vitagrandezzapiccolezzaumanitàfiduciasperanza
inviato da Antonietta Milella, inserito il 21/01/2012
TESTO
74. Voglio adottarvi come genitori 3
Ascoltami ancora, si dice infatti che dalla bocca dei bambini viene la verità; se sono un bambino sfuggito dal carnaio notturno, trattenuto da un filo d'amore lanciato da chissà dove.
Se sono un bambino caduto dal nido, abbandonato da padre e madre, rapiti o mortalmente feriti alle sbarre della loro gabbia.
Se sono un bambino nudo, senza panni d'amore o con panni imprestati, ma col diritto di vivere, perché sono vivo.
E se nello stesso istante persone innamorate piangono davanti a una culla vuota, consumati nel desiderio di accarezzare un bambino.
Se sono ricchi d'amore che ritengono sprecato, e vogliono gratuitamente donarlo, perché cresca e fiorisca ciò che non hanno piantato.
Allora voglio che vengano silenziosamente a chiedermi se desidero adottarli come miei genitori. Ma non voglio dei fanatici del bambino, come collezionisti d'arte che cercano il pezzo raro che manca alla loro vetrina. Non voglio clienti che hanno fatto l'ordinazione e, pagata la fattura reclamano il loro bebè prefabbricato. Perché non sono fatto per salvare genitori dalle membra amputate, ma loro sono stati fatti, misterioso percorso, magnifico progetto, per salvare dei bambini dal cuore malato, forse anche condannato. E sarà come addormentarci l'un l'altro.
Io berrò il latte di cui ignoravo il sapore, ascolterò musiche sconosciute, imparerò nuove canzoni, sulle vostre dita, sulle vostre labbra genitori adottati, decifrerò lentamente l'alfabeto della tenerezza.
E l'amore sconosciuto per me prenderà il volo alla luce dei vostri occhi. Voi innesterete le vostre vite sulla mia crescita e grazie a voi io rinascerò una seconda volta.
Così sarò ricco di quattro genitori, due lo saranno della mia carne e due del mio cuore e della mia carne cresciuta. Voi non giudicherete i miei genitori sconosciuti, li ringrazierete e mi aiuterete a rispettarli. Perché dovrò riuscire lo so, ad amarli nell'ombra, se un giorno vorrò poterli amare nella luce.
E se in una sera di tempesta, adolescente focoso, impacciato di me stesso, io vi rimprovererò di avermi accolto, non vi addolorate, ma amatemi ancor di più: lo sapete, perché un innesto prenda ci vuole una ferita e, chiusa la ferita, rimane la cicatrice.
Ma io sogno. Io sogno perché non sono che un bambino in viaggio, lontano dalla terra ferma, la mia parola è muta e il canto senza musica.
Ciò che vi dico piano non potrò urlarlo, se non il giorno in cui, avendomi voi adottato, mi avreste messo in cuore tanto amore e autentica libertà, sulle mie labbra parole sufficienti, perché possa dire: papà, mamma, io vi scelgo e vi adotto allora saprete che il vostro amore è dono, e che è riuscito.
adozionefigligenitoriamoregratuitàdonazione
inviato da Emanuela Pandini, inserito il 11/01/2012
ESPERIENZA
Era stata una giornata molto faticosa, avevo finito il mio lavoro con i malati e mentre mi preparavo per tornare a casa, passando per l'UTIC (Unità di Terapia Intensiva Cardiovascolare) vidi una signora abbastanza giovane che piangeva sconsolatamente era da sola in quel momento, io non potevo passare indifferente, senza pensare due volte mi avvicinai e le chiesi se potevo fare qualcosa per aiutarla, mi disse di no: "Mio marito ha avuto un infarto, è stato sottoposto ad un intervento e adesso non mi lasciano entrare per vederlo, vorrei solo sapere come sta".
Mi offrii di entrare nel reparto e chiedere di lui, m'informarono che l'intervento era andato bene ma che era ancora addormentato, chiesi poi se potevo avvicinarmi e cosi feci, quando mi avvicinai, vidi che si trattava di un signore molto giovane che non passava i cinquanta, era pieno di tubi come si è di solito dopo un intervento al cuore; mentre lo guardavo lui aprì gli occhi e mi chiese "come sto?", io sorridendo gli risposi "bene", e lui dopo qualche secondo richiuse gli occhi.
Uscendo dal reparto riferii alla moglie quello che mi avevano detto e che per il momento non erano possibili le visite, la invitai ad avere pazienza e fiducia e me ne andai.
Passati alcuni giorni, io avevo dimenticato l'accaduto, mentre portavo la comunione nel reparto di cardiologia, ricordai quello che era successo e cosi entrai nella stanza e vide un signore giovane che parlava allegramente con un altro, era lui! lo trovavo abbastanza bene, mi avvicinai per salutarlo e lui sorpreso mi disse: sei tu! Allora era vero, pensavo che fosse stato un angelo, tutta di bianco e con un sorriso mi credevo in paradiso... ci facemmo una risata tutti tre.
Ho la certezza che gli angeli esistono, ma ricordando le parole di quell'uomo mi chiedevo se esistono gli angeli sulla terra.
La domanda di Javhé a Caino "Dove è tuo fratello?" ci mette di fronte ad una realtà molte volte non riconosciuta, anzi non accettata per gli esseri umani, ma che senza dubbio dovrà rispondere alla fine dei tempi, in conseguenza ognuno di noi è custode di un altro, cioè di chi è accanto a noi, e se questo è cosi gli angeli sulla terra sono coloro che si prendono questa responsabilità con coraggio e disinteressatamente, e nella misura in cui noi siamo consapevoli e percepiamo questa missione che ci è stata donata allora diventiamo angeli anche noi.
Gli angeli non possono essere persone qualsiasi, hanno un volto distinto, i gesti sono diversi, le loro parole parlano di cose che sempre lasciano un tocco speciale nel cuore dell'altro, trasmettono la pace, la gioia, ma non come quella del mondo, vedono il mondo diversamente da come la vediamo noi, non si fermano soltanto a contemplare il negativo, anzi lo trasformano e possono trovare anche nel brutto cose belle e positive che riempiono nostri cuori di speranza.
Gli angeli della terra sono come le api che stanno in ogni luogo ma quando si fermano su un'anima, lasciano il dolce miele.
Gli angeli vedono il volto di Cristo in qualsiasi persona senza dar peso a colore, razza, atteggiamento, carattere, simpatia o antipatia, ecc.
Gli angeli non sanno far altro che amare.
Gli angeli sono capaci d'intuire un pericolo e ti guidano con sani consigli perche tu non cada e ti faccia male, ti dicono tuoi errori in faccia e ti rimproverano quando è necessario.
Gli angeli sanno aspettare con pazienza, tolleranza e misericordia che tu possa cambiare per migliorare tua vita.
Gli angeli sulla terra non temono di perdere il tempo per offrirlo a qualcuno, perché considerano più importante il tempo donato che il tempo per loro stessi.
Gli angeli sono accanto a te, certe volte consolandoti, rianimandoti, spesso in silenzio pregando per te.
Angelo sulla terra sei anche tu quando non pensi a te stesso e piuttosto esci da te per andare incontro a qualcuno morendo a te stesso. Gli angeli sulla terra sono veri figli di Dio.
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inviato da Roxsana Chavez, inserito il 13/12/2011
RACCONTO
76. L'angelo del dopo-Natale 4
Don Angelo Saporiti, Commento sul Natale
Ancora un poco e sarà già tempo di disfare il nostro presepe e di buttare via l'albero di Natale che abbiamo messo su all'inizio dell'avvento.
Solo qualche patacca qua le là o qualche luccichio d'argento ci ricorderanno i giorni di festa trascorsi.
Ogni angioletto, ogni luce dorata so che li ritroverò intatti al prossimo Natale.
C'è una cosa che però rimarrà con me e non metterò nello scatolone...
Quando l'anno scorso misi via il presepe e i cinque angioletti, tenni l'ultimo tra le mie mani...
"Tu resti", gli dissi, "ho bisogno di un po' della gioia di Natale per tutto questo nuovo anno".
"Hai avuto fortuna!" mi rispose.
"Come?" gli chiesi.
"Ehm, io sono l'unico angelo che può parlare...".
"È vero! Ma guarda un po'! Un angelo che parla? Non l'ho mai visto. Non può esistere!".
"Certo che può esistere. Succede soltanto quando qualcuno, dopo che il Natale è passato, vuole tenere con sé un angioletto, non per errore, ma perché desidera rivivere un po' della gioia di Natale, come succede adesso con te. Solo in questi casi noi angeli possiamo parlare. Ma capita abbastanza raramente... A proposito, mi chiamo Enrico".
Da allora Enrico è sulla libreria nella mia stanza.
Nelle sue mani regge stranamente un cestino della spazzatura. Abitualmente sta in silenzio, fermo al suo posto. Ma quando mi arrabbio per qualcosa, mi porge il suo cestino e mi dice: "Getta qua!".
Io getto dentro la mia rabbia. E la rabbia non c'è più. Qualche volta è un piccolo nervosismo, o un stress, altre volte è una preoccupazione, a volte un bisogno, altre volte un dolore o una ferita che io da solo non posso chiudere, né riparare...
Un giorno notai con più attenzione, che il cestino di Enrico era sempre vuoto.
Gli chiesi: "Scusa ma dove porti tutto quello che ci getto dentro?".
"Nel presepe", mi risponde.
"E c'è così tanto posto nel piccolo presepe?".
Enrico, sorrise.
"Stai attento: nel presepe c'è un bambino, che è ancora più piccolo dello stesso presepe. E il suo cuore è ancora più piccolo. Le tue difficoltà, non le metto proprio nel presepe, ma nel cuore del bambino. Capisci adesso?".
Stetti un po' a pensare.
"Questo che mi dici è veramente complicato da comprendere. Ma, nonostante ciò, sento che mi fa felice. Strano, vero?".
Enrico, aggrottò la fronte e poi aggiunse: "Non è per niente strano, ma è la gioia del Natale. Capisci?".
Avrei voluto chiedere ad Enrico molte cose. Ma lui mise il suo dito sulla sua bocca: "Pssst", mi fece in tono garbato. "Non parlare. Semplicemente, gioisci!".
natalestanchezzaforzasperanzagioia
inviato da Don Angelo Saporiti, inserito il 09/12/2011
ESPERIENZA
77. Tre storie della vita di Steve Jobs 3
Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo.
Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.
La prima storia è su una cosa che io chiamo "unire i puntini" di una vita.
Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? E' iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente! ". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.
Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.
Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.
Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.
Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.
Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Consentitemi di fare subito un esempio.
Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.
Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.
Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita.
Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.
Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.
Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.
Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.
Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.
Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.
Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.
La terza storia è a proposito della morte.
Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.
Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.
Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.
Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.
Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto.
Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. E' l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.
Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. E' stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. E' stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. E' stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.
Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso.
E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.
vitasconfittacreativitàentusiasmoperditamorteprogetti
inviato da Lisa, inserito il 06/11/2011
ESPERIENZA
78. Grazie mamma e papà per non avermi abortito! 1
Elisa Bertoli, www.gingergeneration.it
Quando si discute di aborto, non ci si chiede mai cosa sceglierebbe il bimbo concepito. Intervistiamo Federica, 21 anni, venuta al mondo dopo che sua madre ha avuto il coraggio di non abortire.
Non ci si ricorda mai che, quando si discute di aborto, si parla prima di tutto di persone. Che magari sono talmente piccole da stare nel palmo di una mano, ma che, per citare il film "Juno", "hanno già le unghie". Loro in questi dibattiti non hanno voce, nonostante si discuta della loro vita e della loro morte. Ma provate a pensarci: cosa risponderebbe secondo voi un feto se gli si potesse chiedere di scegliere tra la venuta al mondo e la soppressione nel grembo della mamma? Secondo me vorrebbe nascere, nonostante tutto.
Tuttavia si sa che una mamma per il proprio bimbo desidera sempre il massimo, e il timore che egli non lo potrà avere, o la paura di non riuscire a portare avanti la gravidanza in una situazione che non è delle migliori, le impedisce di sentire una vocina che chiede semplicemente un po' di amore. E questo succede soprattutto se si sente sola e tutti, invece di aiutarla, le dicono che quella dell'aborto è "la soluzione più giusta, veloce e indolore" (non sanno queste persone che le donne in tanti casi ne portano il segno per tutta la vita). Ma ci sono anche mamme che, trovandosi in grandi difficoltà, riescono a chiedere aiuto e a vincere le proprie paure, perché si accorgono di non essere sole. E ci sono anche papà (già, perché dei papà non si parla mai!) che sono pronti a combattere con loro per avere la gioia di vedere finalmente quel bimbo. Sono grata a queste mamme (e a questi papà), perché, se una di loro non avesse avuto questo coraggio, anch'io non avrei mai potuto conoscere Federica!
Federica ha ventuno anni, abita sul Lago d'Orta. Studia informatica a Milano, svolge servizio civile presso la Croce Rossa Italiana, è animatrice in oratorio e per parecchie ore la settimana lavora in una pizzeria come cameriera. Ha due sorelle più grandi: Elena di ventisette anni e Maura di ventidue. Quando sua madre scoprì di essere in dolce attesa per la terza volta, non passava un momento facile: assieme al marito correva continuamente da un ospedale all'altro per far curare Elena, molto spesso malata, e al tempo stesso doveva accudire Maura, di soli otto mesi.
Come ha reagito tua madre alla notizia?
Aveva molta paura: Elena non stava ancora bene e Maura era molto piccola. Inoltre le condizioni economiche non erano delle migliori, lei aveva appena ripreso a lavorare dopo la seconda maternità... Insomma, una paura dietro l'altra!
Così ha pensato di abortire?
Sì, ha cominciato a tener presente la possibilità di abortire.
E come hanno reagito alla notizia invece tuo padre, i familiari, gli amici? Cosa le consigliavano?
Le persone esterne alla famiglia che le erano accanto le consigliavano di abortire, "tanto è solo una goccia di sangue". Mia madre nel frattempo macinava tutto questo dentro di sé senza parlarne con mio padre, senza sapere quindi cosa ne pensasse. Un giorno però il ginecologo le ha detto che era ora di prendere una decisione e così, capendo che non poteva decidere da sola, ha preso il coraggio tra le mani e ne ha parlato con lui. La risposta è stata decisa: le ha detto subito che non era proprio il caso di abortire. Anche perché erano cattolici praticanti e le ha chiesto con quale coraggio, commettendo un tale gesto, avrebbero poi potuto ancora andare in chiesa e ricevere l'Eucaristia.
Così il supporto di tuo padre è stato fondamentale per lei?
Sì, mio padre le ha assicurato che si sarebbero fatti forza a vicenda e che sarebbero andati avanti comunque. Mia madre ha capito allora che il sostegno del compagno nella coppia è fondamentale e che non sempre le persone che ci stanno vicino ci consigliano ciò che è meglio per noi... Ed eccomi qui!
E tu, quanto sei grata loro per aver avuto il coraggio di accogliere la tua vita, nonostante tutto?
Moltissimo! Ora posso dire di essere molto fortunata: sono cresciuta in una bella famiglia, mi sono stati insegnati valori importanti. E poi i miei genitori mi hanno fatto capire che la famiglia è il dono più grande e che bisogna rispettare la vita: essa non è "solo una goccia di sangue".
Quanto le difficoltà familiari si sono fatte sentire nella tua vita? Ti è mai mancato qualcosa?
Non mi hanno mai fatto mancare nulla. Certo, magari non avevo i pantaloni o la maglia firmati, ma l'amore e la gioia che mi donavano i miei genitori e che mi donano tuttora mi rendono molto più ricca. Non mi sono mai sentita una figlia non voluta: ho sempre ricevuto tanto amore sia dalle mie sorelle sia dai miei genitori.
Alla luce della tua esperienza, cosa ti senti di dire alle ragazze che si trovano ora in una situazione simile a quella vissuta da tua madre?
Alle ragazze che stanno pensando di abortire, vorrei dire che questa non è l'unica soluzione, che dentro di loro c'è una vita e che non hanno il diritto di buttarla via, perché è stata donata loro con amore, è stata generata da amore. Ragazze, oggi ci sono tante associazioni che aiutano le giovani mamme in difficoltà, ci sono tante persone che vogliono solo aiutarvi, provate ad ascoltarle! E poi ci sono anche molte famiglie che cercano un figlio con fatica senza riuscirci. Pensate a loro, e pensate se qualcuno decidesse della vostra vita senza chiedervi un parere, non credo vi piacerebbe!
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inviato da Elisa Bertoli, inserito il 10/07/2011
RACCONTO
79. Seti 1
Piero Gribaudi, Il Libro della Saggezza Interiore
Non appena Dio creò l'uomo, si mise subito in ascolto, da buon padre, dei bisogni e delle richieste di quella sua nuova, inconsueta creatura. "Ho fame e sete", disse subito l'uomo.
Dio gl'insegnò come cibarsi: gl'indicò le sorgenti, gli alberi da frutta e i favi delle api, i cespugli di bacche e mille altre leccornie prodotte dalla terra. Ma l'uomo, saziata fame e sete, fece altre richieste. "Ho sete di protezione e di riposo", disse.
Dio gl'insegnò come utilizzare le mani, cosa che non aveva mai fatto con nessun'altra delle sue creature. L'uomo si costruì una capanna ed un giaciglio, ed ebbe la soddisfazione di udire la pioggia tamburellare sul suo capo mentre lui, all'asciutto, lasciava vagabondare i suoi pensieri. "Ho sete di piaceri", disse poi, forse impigrito dal troppo dormire.
Dio lo accontentò. Gli aguzzò i sensi, come fa un arciere con le punte della sua freccia; e l'uomo poté assaporare, in maniera tutta speciale, gusti, suoni, profumi, panorami e carezze.
Poiché queste ultime gli piacquero immensamente, l'uomo disse: "Ho sete d'amore".
Dio fu contento di questa richiesta meno materiale delle altre e insufflò nell'anima dell'uomo un pizzico del suo soffio personale. L'uomo amò col cuore e con il corpo e fu tutt'uno con la persona amata, e comunicò con lei quasi nel modo in cui Dio, creandolo, aveva comunicato con lui.
Fu allora che Dio si sentì fare dall'uomo la richiesta a lui più cara. "Ho sete di bellezza, d'armonia e d'eternità", disse l'uomo. Dio fu felice. Cosparse l'anima dell'uomo di un suo polline specialissimo, che teneva in serbo dall'eternità per chi, seppure molto alla lontana, gli fosse simile. E, considerata terminata la sua opera, si allontanò.
L'uomo, però, aveva ancora una sete da saziare. Si trattava, benché non lo sapesse, di una sete impossibile da estinguere ma che, colmata anche solo in parte, gli avrebbe dato una soddisfazione tale da annullare tutte le altre. Essa però lo avrebbe divorato, a tal punto da trasformarlo in un'altra creatura, odiata ma temuta dai suoi simili più di tutte.
"Ho sete di potere", disse l'uomo. Poiché Dio era assente, gli si presentò un demone pronto ad esaudirlo. Ecco perché, di tutte le seti dell'uomo, quest'ultima sete rinascerà sempre insaziata nel suo cuore, ed avrà sempre, non la benedizione di Dio, ma la voracità del suo nemico.
inviato da Lisa, inserito il 08/07/2011
RACCONTO
80. Non c'è posto nella locanda... ma se vogliamo, possiamo cambiare la storia 6
Guido Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media. Era già stato bocciato due volte. Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di comprendonio, ma benvoluto dai compagni. Sempre servizievole, volenteroso e sorridente, era diventato il protettore naturale dei bambini più piccoli.
L'avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia. A Guido sarebbe piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la signorina Lombardi gli diede una parte più impegnativa, quella del locandiere, perché comportava poche battute e il fisico di Guido avrebbe dato più forza al suo rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria.
La sera della rappresentazione c'era un folto pubblico di genitori e parenti. Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di Guido Purlini. E venne il momento dell'entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano verso la porta della locanda sorreggendo teneramente Maria. Giuseppe bussò forte alla porta di legno inserita nello scenario dipinto. Guido il locandiere era là, in attesa.
"Che cosa volete?" chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
"Cerchiamo un alloggio".
"Cercatelo altrove. La locanda è al completo". La recitazione di Guido era forse un po' statica, ma il suo tono era molto deciso.
"Signore, abbiamo chiesto ovunque invano. Viaggiamo da molto tempo e siamo stanchi morti".
"Non c'è posto per voi in questa locanda", replicò Guido con faccia burbera.
"La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e ha bisogno di un luogo per riposare. Sono certo che riuscirete a trovarle un angolino. Non ne può più".
A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e guardò verso Maria. Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo d'imbarazzo tra il pubblico.
"No! Andate via!", sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
"No!", ripeté Guido automaticamente. "Andate via!".
Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei. Invece di richiudere la porta, però, Guido il locandiere rimase sulla soglia con lo sguardo fisso sulla miseranda coppia. Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da rughe di preoccupazione, e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. Tutto ad un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre.
"Non andar via, Giuseppe", gridò Guido. "Riporta qui Maria". E, con il volto illuminato da un grande sorriso, aggiunse: "Potete prendere la mia stanza".
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva mandato a pallino la rappresentazione. Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la più natalizia di tutte le rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.
inviato da Marcello Rosa, inserito il 08/07/2011
RACCONTO
suor Ch. Augusta Lainati, clarissa
L'asino camminava nella notte. Camminava e pensava a quella madre che portava sul dorso, tutta ravvolta nel mantello oscurato dall'ombra.
Un passo dietro l'altro, attento a che il suo andare fosse quieto e sempre uguale, per non destare il bimbo che dormiva. Un passo dietro l'altro, misurati dal battito del cuore: finché i battiti divennero più frequenti dei passi e il cuore, in petto, parve scoppiare.
Allora smise di fissare il cielo e la notte che si stendeva davanti a perdita d'occhio e, piegato il capo, cominciò a guardare a terra, sul sentiero appena segnato, ora per evitare un sasso troppo acuto, ora per posare lo zoccolo sui ciuffi d'erba bianchi di brina.
Cominciava a sentire il peso del carico; le gambe si stendevano nel passo ogni volta più faticosamente, finché l'andatura divenne secca, legnosa, e ad ogni piegare di ginocchi gli sembrava di udire come un ramo secco spezzarsi. Si ricordò della catasta di legna ammucchiata nella sua stalla tiepida, dell'alone di luce fumosa intorno alla lucerna pendente sopra la greppia, e l'immagine divenne tanto seducente che gli parve di sentire su per le narici l'odore penetrante di una manciata di fieno fresco.
Si volse, allora, con occhi imploranti verso l'uomo che gli camminava a fianco. Era giovane, ma la strada lo aveva curvato sopra il bastone, e il vento freddo della notte invernale gli incollava il mantello contro un fianco. Il ciuco non riuscì a vedergli bene il volto, ma vide che l'oscurità, interrotta solo dalla luce delle stelle, incavava le occhiaie dell'uomo e riduceva ad una oscura macchia ansante il collo vigoroso, e il petto, che ad ogni passo si alzava e si abbassava.
"Sta peggio di me" pensò l'asino: e riprese a camminare. Camminò per un'ora con la testa bassa, con l'odore di fieno che sempre gli solleticava le narici con l'aumentare della stanchezza: finché il desiderio di cibo scomparve e rimase solo un'acuta brama di paglia tiepida su cui stendersi, della paglia che aveva lasciato a Betlemme quando l'avevano destato nella notte appena cominciata. Fu proprio il tepore associato al ricordo di Betlemme, di Betlemme con la sua piccola tiepida stalla, che lo aiutò a proseguire ancora sul terreno accidentato. Via, via e via.
Dopo qualche ora, ricominciò a sentire che non ne poteva più. Nessun ricordo veniva ad addolcire la sua andatura e ad ogni passo migliaia di fitte gli trapassavano il corpo.
Decise di fermarsi, di sdraiarsi sul terreno ad aspettare il sonno, la morte. Si guardò attorno, voltò il capo per trovare un riparo dal vento; e fu come se una mano gelida gli si fosse posata sul cuore: la donna sulla sua groppa era tutta un tremito per il freddo e il suo alito gelava nell'aria appena uscito dalle labbra dischiuse.
"Sta peggio di me" pensò ancora il somaro.
Continuò a camminare e un'altra ora passò, un'ora di stanchezza infinita, di contrasti col vento, di paura per quella dama, per quel Bambino, per quella figura scolpita dall'ombra che gli camminava al fianco e sulla cui andatura cercava faticosamente di regolare il passo.
Non ne poteva veramente più. Il terreno sassoso aveva a poco a poco ceduto ad un molle strato di sabbia; prima poche manciate insinuatesi tra le zolle indurite dal freddo e i sassi denudati dal vento, poi un tappeto soffice su cui era stato agevole camminare, e infine uno strato alto, dove gli zoccoli sprofondavano e si appesantivano e non venivano più fuori.
Ansimava; il sudore scendeva copioso giù per la fronte, nonostante il freddo, e si raccoglieva in due rivoletti lungo naso. Non sapeva che cosa fare, se lasciarsi cadere sfinito lì, sotto la volta del cielo, o se continuare impazzito di dolore e di freddo, senza avere più nozione, né di tempo, né di strada, finché la morte lo cogliesse e gli irrigidisse il passo nell'ultimo sforzo.
Fra le due prospettive, la prima gli sembrava infinitamente più desiderabile: doveva essere pur dolce lasciarsi cadere sulla sabbia ad aspettare la morte come liberazione dal male, riempire l'attesa con il ricordo di pigre giornate di sole, di terra smossa e odorosa, di mosche fastidiose che era divertente scacchiare con subito fremere delle membra. Anche il ricordo della pesante macina gli avrebbe fatto piacere, purché potesse distendersi ad aspettare la morte.
Aveva deciso. Ma, prima di lasciarsi cadere raccolse le forze per un ultimo raglio, l'addio alla vita. Al deserto, alla volta celeste: pensò che tra poco le stelle sarebbero impallidite nei suoi occhi spenti. Usò quanta forza gli rimaneva, e il raglio si alzò acuto, più sonoro nel silenzio del deserto.
E fu allora, mentre le ginocchia già si piegavano, mentre già assaporava la dolcezza di quella sabbia, pur fredda, che udì il pianto cheto del Bambino, del Bambino che non aveva pianto per il disagio dell'andare, non per il vento che si insinuava fin sotto le fasce, ma piangeva per il raglio dell'asino che non voleva più soffrire.
Fu così, per quel pianto infantile, che il ciuco scelse di continuare.
E andò, appesantito dalla sabbia, sferzato dal vento, sotto la volta concava e scura del cielo, finché le stelle impallidirono: e credette di sognare quando, nella luce ancora incerta, si profilò la sagoma di un villaggio straniero.
Gli diedero un giaciglio di paglia fresca, colmarono la greppia di fieno odoroso e l'acqua che versarono nell'abbeveratoio della stalla rispecchiava, insieme alle travi rozze del soffitto, una lampada lucente.
Ma non riuscì né a bere né a mangiare, per lungo tempo; rimase disteso sulla paglia senza neppure goderne il contatto, né vide l'immagine increspata della lampada nell'acqua dell'abbeveratoio. Ma quando, risvegliatosi dal torpore di morte avvertì il profumo penetrante del fascio di fieno nella mangiatoia e cercò di alzarsi, facendo forza sulle zampe anteriori, vide - e lo vide lui solo - l'Angelo che aveva invitato alla fuga Giuseppe. Aspettava il suo risveglio, e lo aspettava lieto, come a ringraziarlo per quanto aveva fatto.
Il ciuco si alzò del tutto, gli si avvicinò tanto da essere nella sua stessa luce, coronato dalla sua stessa aureola: allora soltanto, quando vide che l'Angelo non si ritraeva, che non rifiutava di fasciarlo del suo stesso fulgore, raccolse tutto il coraggio, tutta la forza che ancora gli restava nelle membra e, chinata la testa, chinatala fino a terra, ebbe l'ardire di chiedere una ricompensa.
Chiese, piano: "Fa' che sia io a riportarli indietro."
natalesacra famigliasanta famiglianatività
inviato da Marcello Rosa, inserito il 08/07/2011
TESTO
Don Luciano, web
Qualche anno fa ci fu un incidente aereo all'aeroporto "Catullo" di Verona. Lo ricordo ancora adesso, a distanza di tempo, per la causa che provocò il disastro. L'aereo apparteneva alla compagnia di bandiera rumena ed era diretto a Bucarest, ma precipitò subito dopo il decollo. La causa? Ghiaccio sulle ali. Era inverno e la ripulitura delle ali dal ghiaccio è parte della procedura ordinaria di manutenzione dell'aereo a terra prima del decollo. Ma, per tagliare le spese, la compagnia aerea si era rifiutata di pagare per questo servizio. Per quanto possa essere sorprendente, uno strato di ghiaccio sulle ali aggiunge quel tanto di peso che basta per impedire all'aereo di volare. Interrompe il flusso d'aria che mantiene l'aereo in volo, e comincia a perdere quota. Per risparmiare un po' di soldi non si è fatta un'operazione di sicurezza indispensabile, lasciando che si formasse del ghiaccio sulle ali - sapendo che si andava facilmente incontro a un disastro!
Non c'è bisogno che ci sia davvero molto ghiaccio sulle ali per provocare la perdita di quota di un aereo. Non c'è bisogno che ci sia molto ghiaccio sulla tua anima perché tu cominci a perdere quota - cominci a precipitare spiritualmente.
La Parola di Dio ci indica chiaramente alcuni comportamenti e reazioni che provocano uno strato di ghiaccio sul tuo cuore. In Efesini 4, 26 e seguenti, l'apostolo Paolo dice: «Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira». Basta che si accumuli un po' di ira, di risentimento sul tuo cuore - problemi con gli altri che non si vogliono affrontare e risolvere immediatamente - e scatta il pericolo. Quanto pericolo? Tanto quanto uno strato di ghiaccio sulle ali di un aeroplano. Fa precipitare il tuo rapporto con Dio e con gli altri. Senti come Dio continua: «E non date occasione al diavolo». Una rabbia che non si vuole risolvere, basta che duri anche solo un giorno, è sufficiente per aprire la porta al diavolo e farti precipitare!
Poi Dio ti parla della manutenzione, ossia ti dice che azioni radicali devi prendere per sconfiggere quei sentimenti distruttivi: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano... Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità». In altre parole, Dio ti dice di farla finita con quel gelo spirituale che si è addensato sulla tua vita! Spazzali via - il risentimento che hai permesso che crescesse dentro di te... la gelosia... la mancanza di perdono... l'invidia... la rabbia.
Ma Dio sa bene che non puoi rimuovere il ghiaccio dalla tua anima senza rimpiazzarlo con qualcosa che dà calore. Così lui ti dice di trattare le persone che ti fanno arrabbiare o ti feriscono, esattamente nella maniera opposta con cui ti verrebbe spontaneo trattarle. Dio ti dice: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo».
Le ultime parole sono la chiave di tutto: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo». Devi prendere la convinta decisione di rimuovere tutti i muri fra te e gli altri, trattandoli non come loro hanno trattato te - ma con pazienza e misericordia. Fino a quando non chiedi intensamente a Dio la grazia di perdonare quella persona... di trattarla con compassione e gentilezza - continuerai a perdere quota. E alla fine il peso del ghiaccio sul tuo cuore ti farà precipitare.
Sii vigilante in modo che non si formi ghiaccio sul tuo cuore, come è successo sulle ali di quell'aereo a Verona. Non permettere nemmeno per un solo giorno che se ne formi uno strato! Se lo fai, alla fine quella pellicola di gelo farà precipitare il rapporto che hai con qualcuno, il tuo matrimonio, la famiglia, le attività, un servizio che stai facendo. Farà precipitare il tuo rapporto con Dio. Ed è un prezzo troppo alto da pagare per un sottile strato di ghiaccio!
inviato da Lisa, inserito il 06/07/2011
RACCONTO
Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.
Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.
Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."
Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.
Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"
"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".
Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.
Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.
"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".
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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011
PREGHIERA
84. Maria, donna del Sabato santo 2
Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, ed. San Paolo
Santa Maria, donna del Sabato santo, estuario dolcissimo nel quale almeno per un giorno si è raccolta la fede di tutta la Chiesa, tu sei l'ultimo punto di contatto col cielo che ha preservato la terra dal tragico blackout della grazia. Guidaci per mano alle soglie della luce, di cui la Pasqua è la sorgente suprema.
Stabilizza nel nostro spirito la dolcezza fugace delle memorie, perché nei frammenti del passato possiamo ritrovare la parte migliore di noi stessi. E ridestaci nel cuore, attraverso i segnali del futuro, una intensa nostalgia di rinnovamento, che si traduca in fiducioso impegno a camminare nella storia.
Santa Maria, donna del Sabato santo, aiutaci a capire che, in fondo, tutta la vita, sospesa com'è tra le brume del venerdì e le attese della domenica di Risurrezione, si rassomiglia tanto a quel giorno. È il giorno della speranza, in cui si fa il bucato dei lini intrisi di lacrime e di sangue, e li si asciuga al sole di primavera perché diventino tovaglie di altare.
Ripetici, insomma, che non c'è croce che non abbia le sue deposizioni. Non c'è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c'è peccato che non trovi redenzione. Non c'è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell'alleluia pasquale.
Santa Maria, donna del Sabato santo, raccontaci come, sul crepuscolo di quel giorno, ti sei preparata all'incontro col tuo figlio Risorto. Quale tunica hai indossato sulle spalle? Quali sandali hai messo ai piedi per correre più veloce sull'erba? Come ti sei annodata sul capo i lunghi capelli di nazarena? Quali parole d'amore ti andavi ripassando segretamente, per dirgliele tutto d'un fiato non appena ti fosse apparso dinanzi?
Madre dolcissima, prepara anche noi all'appuntamento con lui. Destaci l'impazienza del suo domenicale ritorno. Adornaci di vesti nuziali. Per ingannare il tempo, mettiti accanto a noi e facciamo le prove dei canti. Perché qui le ore non passano mai.
inviato da Qumran2, inserito il 21/04/2011
TESTO
85. Trenta consigli per rendere la vita più bella 3
1. Cammina da 10 a 30 minuti tutti i giorni. Mentre cammini, sorridi.
2. Siediti e stai in silenzio per almeno 10 minuti.
3. Ascolta ogni giorno della buona musica, è un alimento autentico per lo spirito.
4. Quando ti alzi al mattino pronuncia quanto segue: "Il mio proposito odierno è...".
5. Gioca più dell'anno passato.
6. Leggi più libri dell'anno passato.
7. Osserva il cielo almeno una volta al giorno e renditi conto della maestosità del mondo che ti circonda.
8. Sogna di più quando stai sveglio.
9. Vivi con entusiasmo ed energia.
10. Non farti sfuggire l'opportunità d'abbracciare chi apprezzi.
11. Cerca di far ridere almeno tre persone al giorno.
12. Elimina il disordine dalla tua casa, dal tuo scrittoio e lascia che nuove energie entrino nella tua vita.
13. Fai una colazione da Re, pranza come un Principe e cena da Mendicante.
14. Sorridi e ridi di più.
15. La vita è troppo corta per perdere tempo ad odiare qualcuno.
16. Non prenderti troppo sul serio; non lo fa più nessuno.
17. Non devi necessariamente uscire vincitore da ogni discussione; accetta quando non sei d'accordo ed impara dagli altri.
18. Mettiti in pace con il tuo passato, così non ti rovinerai il presente.
19. Non paragonare la tua vita con quella di un altro; ha fatto un cammino diverso.
20. Nessuno è responsabile della tua felicità se non te stesso.
21. Ricorda che non hai il controllo di tutto ciò che succede, però "Sì" di ciò cha fai con esso.
22. Ogni giorno, impara qualcosa di nuovo.
23. Non importa quanto la situazione sia buona o cattiva; cambierà
24. Il tuo lavoro non si occupa di te quando sarai ammalato. I tuoi amici lo faranno; mantieniti in contatto con loro.
25. Lascia perdere tutto ciò che non sia utile, buono o divertente.
26. L'invidia è una perdita di tempo; hai già tutto quello che desideri.
27. Tieniti in contatto con i tuoi familiari; scrivi loro dicendo ."vi sto pensando"!!!
28. Il meglio deve ancora arrivare.
27. Quello che la maggioranza pensa di te, non è un'incombenza.
29. Sfrutta un viaggio. E' un'opportunità da cui devi trarre il maggior beneficio.
30. La vita è bella; godila finché puoi.
vitagioia di vivereapprezzare le piccole cose
inviato da Qumran2, inserito il 08/03/2011
TESTO
Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008, pp. 39-43
Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.
Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l'amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.
Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».
Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora - in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan - Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.
Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa', hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all'ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.
Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.
Per cui cerco sempre d'essere d'aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.
Shahbaz Bhatti, ucciso a Islamabad il 2/03/2011
testimonianzamartiriopersecuzione
inviato da Qumran2, inserito il 08/03/2011
RACCONTO
Un alunno presentò al suo professore un problema: "Sono qui, professore, perché sono tanto debole, e non ho la forza per fare niente. Dicono che non servo a nulla, che non faccio bene niente, che sono lento e multo stupido. Come posso migliorare? Che posso fare per valorizzarmi di più?".
Il professore senza guardarlo, disse: "Sono molto spiacente mio caro, ma ora non posso aiutarti, devo prima risolvere il mio problema. Forse dopo". E facendo una pausa parlò: "Se mi aiuterai, potrò risolvere il mio problema con più rapidità e dopo forse potrò aiutarti a risolvere il tuo".
"Va bene, professore", balbettò il giovane, ma si sentì un'altra volta sminuito.
Il professore prese un anello che portava al mignolo, lo dette al ragazzo e disse: "Monta a cavallo e vai fino al mercato. Devi vendere questo anello perché devo pagare un debito. È necessario che tu ottenga per l'anello il massimo possibile, ma non accettare meno di una moneta d'oro. Va e torna con la moneta il più velocemente possibile".
Il giovane prese l'anello e partì. Arrivò al mercato e cominciò a offrire l'anello ai commercianti. Essi lo guardavano con interesse, fino a quando il giovane diceva quanto pretendeva per l'anello.
Quando il giovane menzionava una moneta d'oro, alcuni ridevano, altri andavano via senza nemmeno guardarlo, e solo un vecchietto fu amabile al punto di spiegargli che una moneta d'oro era molto preziosa per comprare un anello.
Tentando di aiutare il giovane, arrivarono a offrire una moneta d'argento e una tazza di rame, ma il giovane ricusava le offerte seguendo le istruzioni di non accettare meno di una moneta d'oro.
Dopo aver offerto il gioiello a tutti coloro che passavano al mercato e abbattuto per l'insuccesso, montò a cavallo e ritornò. Il giovane avrebbe desiderato avere una moneta d'oro per comprare egli stesso l'anello, liberando così il suo professore dalla preoccupazione e poter poi ricevere il suo aiuto e i suoi consigli.
Entrò in casa e disse: "Professore, mi dispiace molto, ma è impossibile ottenere ciò che ha chiesto. Forse si potrebbero ottenere 2 o 3 monete d'argento, ma non credo che si possa ingannare nessuno sul valore dell'anello".
"È importante quello che mi dici, ragazzo", obiettò sorridendo. "Prima si deve sapere il valore dell'anello. Prendi il cavallo e vai dal gioielliere. Chi meglio di lui può sapere il valore esatto dell'anello? Digli che vuoi venderlo e domanda quanto ti può dare. Ma non importa quanto ti offre, non lo vendere. Torna qui con il mio anello".
Il giovane arrivò dal gioielliere e gli dette l'anello da esaminare. Il gioielliere lo esaminò con una lente d'ingrandimento, lo pesò e disse: "Dica al suo professore che, se vuole venderlo ora, non posso dargli più di 58 monete d'oro". "58 monete d'oro!", esclamò il giovane. "Sì", replicò il gioielliere, "io so che col tempo potrei offrire circa 70 monete, ma se la vendita è urgente...".
Il giovane corse emozionato a casa del professore per raccontare quelle che era successo. Il professore dopo aver udito quanto offerto dal gioielliere, disse: "Tu sei come questo anello, una gioia preziosa e unica. Può essere valutata solo da uno specialista. Pensavi che chiunque potesse scoprire il suo vero valore?". E così dicendo tornò a collocare il suo anello nel dito.
Tutti noi siamo come questa gioia. Preziosi e unici e andiamo per tutti i mercati della vita pretendendo che persone inesperte ci valorizzino. Ripensa al tuo valore!
valoreinterioritàsperanzaricchezza interiorericchezzaunicitàimportanza del singolo
inviato da Liliana, inserito il 01/02/2011
RACCONTO
88. Il pacchetto dei biscotti 5
Una ragazza stava aspettando il suo volo in una sala d'attesa di un grande aeroporto. Siccome avrebbe dovuto aspettare per molto tempo, decise di comprare un libro per ammazzare il tempo. Comprò anche un pacchetto di biscotti. Si sedette nella sala VIP per stare più tranquilla.
Accanto a lei c'era la sedia con i biscotti e dall'altro lato un signore che stava leggendo il giornale. Quando lei cominciò a prendere il primo biscotto, anche l'uomo ne prese uno; lei si sentì indignata ma non disse nulla e continuò a leggere il suo libro. Tra sé pensò: "Ma tu guarda, se solo avessi un po' più di coraggio gli avrei già dato un pugno...".
Così ogni volta che lei prendeva un biscotto, l'uomo accanto a lei, senza fare un minimo cenno ne prendeva uno anche lui. Continuarono fino a che non rimase solo un biscotto e la donna pensò: "Ah, adesso voglio proprio vedere cosa mi dice quando saranno finiti tutti!".
L'uomo prese l'ultimo biscotto e lo divise a metà! "Ah!, questo è troppo"; pensò e cominciò a sbuffare indignata, si prese le sue cose, il libro, la sua borsa e si incamminò verso l'uscita della sala d'attesa.
Quando si sentì un po' meglio e la rabbia era passata, si sedette in una sedia lungo il corridoio per non attirare troppo l'attenzione ed evitare altri dispiaceri.
Chiuse il libro e aprì la borsa per infilarlo dentro quando nell'aprire la borsa vide che il pacchetto di biscotti era ancora tutto intero nel suo interno.
Sentì tanta vergogna e capì solo allora che il pacchetto di biscotti uguale al suo era di quel uomo seduto accanto a lei che però aveva diviso i suoi biscotti con lei senza sentirsi indignato, nervoso o superiore, al contrario di lei che aveva sbuffato e addirittura si sentiva ferita nell'orgoglio.
Quante volte nella nostra vita mangeremo o avremo mangiato i biscotti di un altro senza saperlo? Prima di arrivare ad una conclusione affrettata e prima di pensare male delle persone, guarda attentamente le cose, molto spesso non sono come sembrano!
condivisionefraternitàpazienzasolidarietàgratuità
inviato da Qumran2, inserito il 18/01/2011
ESPERIENZA
Vivo nel dolore, ma ho imparato da Gesù abbandonato e Risorto come vincerlo e trasformarlo in amore. Non sempre ci riesco, non sempre vivo il Risorto, ma non per questo il dolore vince, l'amore sempre vince! Come ci riesco? Non ci riesco, è sempre lui, Gesù che mi aiuta, senza di lui nulla posso fare! Nulla può riuscire.
È un'alchimia d'amore. Gesù ha offerto la sua vita per noi e ha trasformato il dolore in amore. Ha vinto il male, ma solo con l'amore abbracciando il dolore e il male del mondo, così da vincerlo. Il male ancora non è scomparso dal mondo, come mai allora?
Sarebbe stato troppo facile, se qualcuno lo avesse fatto per noi e basta, tutti dobbiamo imparare, se no dove sta il bello. Un maestro non fa il compito all'alievo, glielo insegna, così impara a risolverlo.
Così anche noi dobbiamo imparare a offrire e offrirci, come dice quel cantico della via Crucis: "Andiamo a morire con lui" oppure "insegnaci a offrire la nostra vita", ma ce ne sono tante altre di espressioni simili. Come è possibile fare questo, non siamo capaci di essere dei martiri, o forse solo per alcuni c'è questa strada. Ho parlato di un'alchimia d'amore. Pensate a una locomotiva; per andare ha bisogno di acqua, carbone o legna e le rotaie e una speciale reazione chimica che trasforma l'energia del calore in energia cinetica.
L'acqua, grazie al fuoco prodotto dal carbone o dalla legna diventa vapore. Il vapore spinge i stantuffi e quindi le ruote. Poi ci vogliono le rotaie che guidano la locomotiva. Il macchinista deve solo farla funzionare, ma non la guida, sono le rotaie che la guidano. Credo che ora tutto sia chiaro anche per voi!
L'acqua della vita è lo Spirito che agisce nel nostro corpo, che è mosso solo dallo spirito e dal fuoco Divino che è ancora lo Spirito Santo. Le rotaie sono la legge e il vangelo che ci dirige, e se ci lasciamo dirigere senza deragliare arriviamo a destinazione, alla stazione. Il paragone può continuare all'infinito, ogni cosa ci può aiutare per capire il nostro viaggio.
Trasformiamo in amore il dolore allora! Ho male alla schiena, oppure ho un male che mi attanaglia lo spirito? Devo amare! Ho dolore, ma voglio amare, anche se mi sembra di soffrire di più, a volte. Uno mi offende, prego per lui, uno vorrebbe farmi del bene, ma mi fa del male, lo aiuto a trovare una via del bene. Non posso, faccio finta di ignorarlo, ma lo ricordo al Signore. Non riesco a compiere la mia parte di lavoro, chiedo aiuto, do la possibilità a qualcuno di compiere del bene, perché aiuta il prossimo, proprio come vorrei fare io. Mi lascio aiutare e cerco di aiutare quando posso.
Come ho detto, non sempre è possibile, non sempre ne siamo capaci, ma Dio ci aiuta. È Gesù che è abbandonato e ha bisogno di aiuto. Siamo noi che abbiamo bisogno di aiuto, è uguale, perché Gesù è in noi. Siamo tempio del suo Spirito, dello Spirito Santo.
È incredibile, no, basta credere in Lui e impareremo. Saremo imperfetti, ma Lui ci ha insegnato come amare, come rispondere, come agire, come vivere. Forse noi non siamo capaci di rispondere così perfettamente, ma Dio ci ama comunque, Gesù ci ama così come siamo. Se desideriamo migliorare allora conserviamo in noi quel grande amore che ci fa crescere all'infinito, perché l'uomo è aperto a questo infinito.
Dio ama e ci insegna ad amare. Questa è l'immagine di Dio, di quel Dio che ci ha creato, una immagine che dovremmo riacquistare. E come diceva Michelangelo, si toglierà solo quello che è in più per scoprire quella figura che è già in quel blocco del marmo. Grazie Signore.
Questo è cio che ho imparato grazie alla spiritualità dalla scuola e dal movimento dei focolari.
doloreamoresofferenzaaccettazione
inviato da Claudio Filanti, inserito il 15/01/2011
TESTO
90. Don Camillo non ti crucciare
Giovannino Guareschi, Tutto don Camillo, volume primo, pag. 248
..."Pioverà, pioverà, don Camillo" lo rassicurò il Cristo. "E' sempre piovuto da che mondo è mondo. La macchina è combinata in modo tale che, a un bel momento, deve piovere. O sei del parere che l'Eterno abbia sbagliato nell'organizzare le cose dell'universo?".
Don Camillo si inchinò. "Sta bene" disse sospirando. "Capisco perfettamente quanto sia giusto quello che voi dite. Però che un povero prete di campagna non possa neanche permettersi di chiedere al suo Dio di far venire giù due catinelle d'acqua, perdonate, ma è sconfortante."
Il Cristo si fece serio. "Hai mille ragioni don Camillo. Non ti resta che far anche uno sciopero di protesta." Don Camillo ci rimase male e si allontanò a capo chino, ma il Cristo lo richiamò.
"Non ti crucciare, don Camillo" sussurrò il Cristo. "Lo so che il vedere uomini che lasciano deperire la grazia di Dio (era in atto uno sciopero degli lavoratori agricoli e la roba del raccolto e degli allevamenti cominciò ad intristire) è per te peccato mortale perché sai che sono sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane. Ma bisogna perdonarli perché non lo fanno per offendere Dio. Essi cercano affannosamente la giustizia in terra perché non hanno più fede nella giustizia divina, e ricercano affannosamente i beni della terra perché non hanno fede nella ricompensa divina. E perciò credono soltanto a quello che si tocca e si vede, e le macchine volanti sono per essi gli angeli infernali di questo inferno terrestre che essi tentano invano di fare diventare un Paradiso. E' la troppa cultura che porta all'ignoranza perché, se la cultura non è sorretta dalla fede, a un certo punto l'uomo vede soltanto la matematica delle cose e l'armonia di questa matematica diventa il suo Dio, e dimentica che è Dio che ha creato questa matematica e questa armonia. Ma il tuo Dio non è fatto di numeri, don Camillo, e nel cielo del tuo Paradiso volano gli angeli del bene. Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico e allora l'uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull'infinito e nell'infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita. E odierà le macchine che hanno ridotto il mondo a una manciata di numeri e le distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà del tempo ancora, don Camillo. Quindi rassicurati: la tua bicicletta e il tuo motorino non corrono per ora nessun pericolo".
Il Cristo sorrise e don Camillo lo ringraziò di averlo messo al mondo.
progressofedeumanitàscienzasenso della vita
inviato da Osvaldo Pozzi, inserito il 11/01/2011
RACCONTO
Bruno Ferrero, Tutte Storie, ed. Elledici
In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali.
Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra e a giocherellare con le gocce di rugiada, per farle sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre.
La pianta senza nome, invece, non si perdeva un salo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l'altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po', il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri.
Le piante del giardino cominciarono a considerarlo con rispetto, e anche con un po' d'invidia. «Quello spilungone è un po' matto», bisbigliavano dalie e margherite.
La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l'avrebbe seguito per non abbandonarlo un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all'unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai.
Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. «Si è innamorato del sole», cominciarono a propagare ai quattro venti. «Lo spilungone è innamorato del sole», dicevano ridacchiando i tulipani. «Ooooh, com'è romantico!», sussurravano pudicamente le viole mammole.
La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome «girasole». Glielo misero per prenderlo in giro, ma piacque a tutti, compreso il diretto interessato.
Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva orgoglioso: «Mi chiamo Girasole». Rose, ortensie e dalie non cessavano però di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o, peggio, qualche sentimento molto disordinato. Furono le bocche di leone, i fiori più Coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al girasole.
«Perché guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te», gridarono le bocche di leone per farsi sentire. «Amici», rispose il girasole, «sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po'. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui...».
Come tutti i buoni, il girasole parlava forte e l'udirono tutti i fiori del giardino. E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per «l'innamorato del sole».
cristianoseguire Gesùamare Diovivere per Diocontemplare Dio
inviato da Anna Barbi, inserito il 12/09/2010
RACCONTO
92. L'uomo che piantava gli alberi 1
Molti anni fa, un giovane studente intraprese una lunga passeggiata in una regione desolata e triste del Sud della Francia. Si presentava come un deserto fustigato dal vento, screpolato dall'arsura, tra i 1200 e i 1300 m. d'altitudine. Vi cresceva soltanto qualche cespuglio di lavanda selvatica. Lo studente si accampò nei pressi di un villaggio abbandonato, che sembrava un vecchio nido di vespe. Il vento sibilava tra i muri in rovina con una brutalità insopportabile. Non c'era la minima traccia d'acqua. Il giovane dovette riprendere la marcia.
Dopo cinque ore di quel desolante deserto, scorse una piccola sagoma nera, sul profilo di una collina. Poteva anche essere un tronco solitario, ma il giovane si diresse da quella parte. Era un pastore. Una trentina di pecore si riposavano sulla terra bruciata intorno a lui. Il pastore porse al giovane la sua borraccia e, un po' più tardi, lo condusse nella sua baita. Estraeva la sua acqua, eccellente, da un pozzo naturale, molto profondo.
Quell'uomo parlava poco. La sua era una vera casa di pietra, non una baracca. I tetti erano ben fermi e il vento lottava con essi invano. L'interno era in ordine e pulito; il fucile ingrassato a dovere; sul fuoco bolliva la zuppa. Anche il cane, silenzioso come il padrone, era cordiale ma non servile. Lo studente passò la notte in quella casa sulle colline. Fu un invito tacito. Il villaggio più vicino era a due giorni di marcia. Inoltre, tutti e due conoscevano perfettamente il carattere dei rari villaggi della regione. Ce n'erano quattro o cinque dispersi lontani gli uni dagli altri sui fianchi delle alture. Erano abitati da boscaioli che fabbricavano carbone di legna. Erano posti in cui si viveva male. Le famiglie, in quel clima esasperante, d'estate come d'inverno, erano chiuse in un egoismo allucinante. Non avevano che un desiderio: andarsene da quel posto. Il vento che non cessava mai irritava i nervi. La gente era piena di rancori. Esplodevano spesso epidemie di suicidio ed erano numerosi i casi di follia, quasi sempre cruenti.
Lo studente era affascinato dalla figura dell'uomo che l'aveva ospitato. Dopo cena, il pastore andò a prendere un sacchetto e rovesciò sul tavolo un mucchio di ghiande. Si mise ad esaminarle una dopo l'altra con molta attenzione, separando le buone dalle cattive.
Compiuto 85 anni, la regione era cambiata. Quasi tutti i villaggi erano stati ricostruiti. Le case, dipinte di fresco, erano circondate da orti e giardini. Gli abitanti non pensavano più a scappare e altri venivano a cercare casa. Uomini, donne, e bambini avevano ripreso a ridere e a sperare.
Contandoli tutti, più di diecimila persone dovevano la felicità a Elzéard Bouffier. Anche se nessuno di loro lo seppe mai.
speranzaseminaregratuitàperseveranza
inviato da Angela Balacchi, inserito il 05/09/2010
TESTO
93. E' possibile pregare o meditare scandendo i tempi della giornata? 2
Jean-Marie Lustiger, Avvenire del 30/11/2008
Ecco i consigli dell'arcivescovo di Parigi: «Obbligatevi a spezzare il ritmo frenetico delle nostre metropoli. Fatelo sui mezzi pubblici e nelle pause del lavoro». Uno scritto inedito del cardinale Francese morto un anno fa.
Come pregare durante il giorno? La tradizione della Chiesa raccomanda di pregare sette volte al giorno. Perché? Una prima ragione è che il popolo d'Israele offriva il proprio tempo a Dio in sette preghiere quotidiane, in momenti fissi, nel Tempio o almeno voltati verso di esso: «Sette volte al giorno io ti lodo» ci rammenta il salmista (Salmo 118,164). Una seconda ragione è che il Cristo stesso ha pregato così, fedele alla fede del popolo di Dio. La terza ragione è che i discepoli di Gesù hanno pregato così: gli apostoli (vedi Atti 3,1: Pietro e Giovanni) e i primi cristiani di Gerusalemme «assidui nelle preghiere» (vedi Atti 2,42; 10,3-4: Cornelio nella sua visione); poi le comunità cristiane e, più tardi, le comunità monastiche. E così anche i religiosi e le religiose, i preti, sono stati chiamati a recitare o a cantare in sette riprese le «ore» dell'«ufficio» (che significa «dovere», «incarico», «missione» di preghiera), facendo una pausa per cantare i salmi, meditare la Scrittura, intercedere per i bisogni degli uomini e rendere gloria a Dio. La Chiesa invita ogni cristiano a scandire la propria giornata con una preghiera ripetuta, deliberata, voluta per amore, fede, speranza.
Prima di sapere se è bene pregare due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte al giorno, un consiglio pratico: associate i momenti di preghiera a gesti fissi, a punti di passaggio obbligati che scandiscono le vostre giornate.
Per esempio: per coloro che lavorano e in genere hanno orari stabili, esiste pure un momento in cui lasciate il vostro domicilio e vi recate al lavoro... a piedi o in auto, in metropolitana o in autobus. A un orario preciso. E ciò vi prende un determinato tempo, sia all'andata sia al ritorno. Perché quindi non associare dei tempi di preghiera a quelli di spostamento?
Secondo esempio: siete madre di famiglia e rimanete a casa, ma avete dei figli da portare e riprendere a scuola in momenti precisi della giornata. Un altro obbligo che segna una pausa: i pasti, anche se a causa di forza maggiore o cattiva abitudine mangiate solo un panino o pranzate in piedi. Perché non trasformare queste interruzioni nella giornata in punti di riferimento per una breve preghiera?
Sì, andate a cercare nella vostra giornata questi momenti più o meno regolari di interruzione delle occupazioni, di cambiamento nel ritmo di vostra vita: inizio e fine del lavoro, pasti, tempi di viaggio ecc.
Associate a questi momenti la decisione di pregare, anche solo per un breve istante, il tempo di fare l'occhiolino a Dio. Datevi l'obbligo rigoroso, qualunque cosa accada, di consacrare quindi anche solo trenta secondi o un minuto a dare un nuovo orientamento alle vostre diverse occupazioni sotto lo sguardo di Dio.
La preghiera così, pervaderà quanto vi sarà dato vivere.
Quando andate al lavoro forse intanto rimuginate sui colleghi che ritroverete, sulle difficoltà da affrontare in un ufficio in cui lavorate in due o in tre; le personalità cozzano maggiormente quando la vicinanza è troppo stretta e quotidiana. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, fa' che io viva questo rapporto quotidiano nella vera carità. Permettimi di scoprire le esigenze dell'amore fraterno nella luce della Passione di Cristo che mi renderà sopportabile lo sforzo richiesto».
Se lavorate in un grande centro commerciale, forse rimuginerete sulle centinaia di volti che vi scorreranno davanti senza che abbiate il tempo di guardarli. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, ti prego per tutte quelle persone che passeranno davanti a me e alle quali cercherò di sorridere.
Anche se non ne ho la forza quando mi insultano e mi trattano come fossi una macchina calcolatrice».
Insomma, approfittate al meglio, durante la vostra giornata, di questi punti di passaggio obbligati, dei momenti in cui disponete di un po' di margine e vi lasciano, se siete vigili, un piccolo spazio di libertà interiore per riprendere fiato in Dio.
Si può pregare nella metropolitana o sui mezzi pubblici? Io l'ho fatto. Ho utilizzato diversi metodi secondo i momenti della mia vita o le circostanze. Ci fu un tempo in cui mi ero abituato a mettere i tappi nelle orecchie per isolarmi e poter avere un minimo di silenzio, tanto ero esasperato dal rumore. Pregavo così, senza per questo tagliar fuori le persone che mi erano attorno visto che potevo ancora essere presente a essi con lo sguardo, senza però scrutarli, senza fissarli, senza essere indiscreto nel modo di guardarli. Il silenzio fisico dell'orecchio mi permetteva di essere ancora più libero nell'accoglienza. In altri periodi, invece, ho vissuto un'esperienza esattamente contraria. Ognuno di noi fa come può, ma in nessun caso dobbiamo ritenere che sia impossibile pregare.
Ecco un altro suggerimento. Scommetto che lungo il vostro tragitto, dalla stazione della metropolitana o dalla fermata dell'autobus fino a casa o al posto di lavoro, potete incontrare, nel raggio di trecento o cinquecento metri, una chiesa o una cappella (una piccola deviazione vi consentirebbe di camminare un po'). A Parigi si può fare. In quella tal chiesa potete pregare in tranquillità o, al contrario, essere continuamente disturbati; può essere adatta o meno alla vostra sensibilità: questo è un altro discorso. Ma c'è una chiesa con il Santissimo Sacramento. Perciò, camminate per qualche centinaio di metri in più; vi ci vorranno dieci minuti, e un po' d'esercizio non farà male alla vostra linea... Entrate in chiesa e andate fino al Santissimo Sacramento. Inginocchiatevi e pregate. Se non potete di più, fatelo per dieci secondi. Ringraziate Dio Padre per il mistero dell'Eucaristia nel quale siete inclusi, per la presenza del Cristo nella sua Chiesa. Lasciatevi andare all'adorazione con il Cristo, nel Cristo, tramite la forza dello Spirito. Rendete grazie a Dio. Rialzatevi.
Fatevi un bel segno della croce e ripartite.
preghierapregaretempoquotidianitàperseveranzafedeltà nella preghiera
inviato da Anna Barbi, inserito il 05/09/2010
TESTO
94. Che cos'è un sacerdote? Meditazione dettata in occasione di una prima messa
Karl Rahner, Sul sacerdozio
Nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita...
Come popolo dei redenti in Gesù Cristo, noi presentiamo sugli altari della Chiesa il sacrificio della Nuova Alleanza. Anche in un giorno come questo, non possiamo far niente di più di quello che facciamo sempre. Si compie infatti qualcosa che è così alto da non essere suscettibile di reale accrescimento: si fa presente in mezzo a noi il Signore di tutti i secoli, il cuore del mondo e, insieme, l'azione del suo amore che muove le stelle e tutto accoglie nella gloria di Dio.
E tuttavia nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita, finché un giorno la sua vita intera sarà consumata in quel sacrificio, che egli celebra ogni giorno e nella cui accettazione soltanto tutta la realtà terrena trova la propria accettazione nell'infinita maestà di Dio. Perché celebriamo solennemente questo giorno? Forse che la Chiesa vuol indurre i suoi fedeli a concedere, per così dire, anticipati allori ad un giovane, il quale non ha fatto ancora niente altro che offrire a Dio il suo cuore e la sua vita, mentre sarebbe lecito glorificare solo il sacrificio interamente compiuto? No, noi non celebriamo un uomo: celebriamo solo il sacerdozio di Gesù Cristo. Celebriamo la Chiesa, tutta la Chiesa di tutti i redenti, i santificati, i chiamati alla vita eterna: quella di cui noi tutti facciamo parte, sia che siamo preti o 'soltanto' credenti e santificati. Poiché noi tutti apparteniamo all'unico Corpo del Cristo in modo tale che ciò che ad uno viene concesso di grazia, dignità e potenza è grazia ed elevazione per tutti, ed in maniera tale che nel servizio e nella vocazione di uno si manifesta la santa dignità di tutti.
Che cos'è un sacerdote?
Egli è un uomo
Quando Paolo, nella lettera agli Ebrei, parla del prete, la prima cosa che dice è che il prete è scelto fra gli uomini. A tal punto che perfino l'eterno sommo sacerdote Gesù Cristo, nato da donna, soggetto alla legge, pellegrino attraverso la valle di questa realtà peritura, volle essere il figlio dell'uomo, un uomo, trovato in tutto simile a noi. Il prete è un uomo. Non è fatto, dunque, di un legno diverso da quello di cui tutti siete fatti: è vostro fratello. Egli continua a condividere la sorte dell'uomo anche dopo che la destra di Dio, attraverso la mano del vescovo, si è posata su di lui: la sorte dei deboli, la sorte di quelli che sono stanchi, scoraggiati, inadeguati, peccatori. Gli uomini, però, se l'hanno a male, se uno si presenta nel nome di Dio, pur essendo soltanto un uomo: vogliono messaggeri più splendi, araldi più convincenti, cuori più ardenti. Accoglierebbero volentieri dei vittoriosi, di quegli uomini che hanno sempre una risposta a tutto e un rimedio per tutto. Terribile illusione! Quelli che vengono sono deboli, in timore e tremore, uomini che devono anch'essi continuamente pregare: Signore, io credo, aiuta la mia incredulità! che devono anch'essi continuamente battersi il petto: Signore, abbi pietà di me, povero peccatore! Eppure essi proclamano la fede che vince il mondo e portano la grazia, che trasforma i peccatori e i perduti in santi e redenti. Sono uomini quelli che vengono. Vengono e dicono, con la loro povera umanità: vedete, Dio ha misericordia di uomini come noi; vedete, per i poveri e per gli stolti, per i disperati e per i moribondi è sorta la stella della grazia. Dicono, come messaggeri umani dell'eterno Dio: non vi adirate contro di noi! Noi sappiamo di portare il tesoro di Dio in vasi di argilla; sappiamo che la nostra ombra offusca continuamente la divina luce che dobbiamo portarvi. Siate misericordiosi verso di noi, non giudicate, abbiate pietà della debolezza sulla quale Dio ha posato il fardello troppo pesante della sua grazia. Considerate come una promessa per voi stessi il fatto che noi siamo uomini: riconoscete da ciò che Dio non ha orrore degli uomini. Voi avrete un giorno paura e orrore di voi stessi, quando avrete sperimentato anche in voi che cosa è l'uomo, che cosa c'è nell'uomo. Beati voi, allora, che non vi siete scandalizzati dell'uomo che è nel prete. Egli è un uomo, affinché voi crediate che la grazia di Dio può essere concessa all'uomo, al pover'uomo, così com'è.
Il sacerdote è un messaggero della verità di Dio
Nella verità di Dio c'è qualcosa di inquietante e insieme di beato. Essa è del tutto semplice, e non fa progressi così rapidi come la verità degli uomini, che diventano tanto sapienti da arrivare, da ultimo, alla fabbricazione delle bombe atomiche. Spesso la verità di Dio penetra nei cuori degli uomini, senza che essi lo sappiano: solo in piccola parte la sua venuta si manifesta, per esempio nell'umiltà silenziosa del cuore, in un'oscura nostalgia dello spirito, nella rassegnazione con cui uno accetta le tacite e mai autogiustificantesi disposizioni del destino. Ma quando viene, per quanto piccola, con la forza dello Spirito Santo, essa è tutta presente, e vi è già in essa anche l'inizio dell'amore e della vita eterna. E tutta questa semplice, unica verità di Dio, per mezzo della quale Dio afferma se stesso nel più profondo del cuore dell'uomo, è la Verità, che è presente nel mondo, perché stillata dal cuore trafitto del Cristo Dio. Perciò questa verità vuole farsi carne nella parola umana; vuole penetrare in tutti i pensieri e le parole degli uomini; vuole divenire il tema permanente di una sinfonia infinita, che risuona attraverso tutti gli spazi del cosmo; vuole essere spiegata e proclamata; vuole entrare attraverso le porte dell'udito nel cuore degli uomini; vuole salire e sorgere dal cuore degli uomini, sua più intima dimora, per penetrare anche in tutti i settori della vita umana, per essere predicata da tutti i tetti, per congiungersi, infine, con ogni verità umana, correggendola e purificandola, salvandola e portandola a compimento. Perciò vi sono messaggeri di questa verità, messaggeri umani. Essi vengono con parole umane, ma queste sono ripiene di verità divina. E dicono una cosa antichissima e tuttavia non mai ancora compresa: dicono la verità, che sola non avvizzisce, sola non si logora, sola non si consuma. Dicono Dio: il Dio dell'eterna gloria, il Dio della vita eterna; dicono che Dio stesso è la nostra vita; proclamano che la morte non è la fine; che l'astuzia del mondo è stoltezza e miopia; che vi è un giudizio, una giustizia ed una vita eterna. Dicono sempre la stessa cosa, monotonamente, infinite volte. La dicono a se stessi ed agli altri, poiché gli uni e gli altri devono confessare di non aver ancora mai compreso ciò che viene predicato: Dio, il Dio vivente, il vero Dio, il Dio rivelato, Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo; Dio, che riversa prodigalmente la propria infinità nel nostro cuore, senza che noi ce ne accorgiamo; Dio, che fa della nostra spaventosa precarietà l'inizio della vita eterna - e noi non vogliamo crederlo. Questo dicono i messaggeri. Per questo hanno studiato e meditato; tutto questo si sono sforzati, spesso disperatamente, di far penetrare anche nella meschinità del proprio spirito e nell'angustia del proprio cuore. Eppure non ci sono ancora riusciti: sono ancora apprendisti di Dio. E tuttavia, Dio ordina loro di mettersi a parlare di ciò che essi stessi hanno compreso soltanto a metà. Ed essi cominciano. Balbettano, sono impacciati, sanno bene che tutto ciò che hanno da dire suona così strano, così inverosimile, sulla bocca di un uomo. Ma vanno e parlano. E, oh meraviglia! trovano perfino degli uomini che, attraverso il loro strano discorso, percepiscono la Parola di Dio; uomini nel cui cuore la Parola penetra, giudicando, salvando e portando la serenità, la consolazione e la forza nella debolezza, sebbene siano essi a dirla, e sebbene portino così male il messaggio. Ma Dio è con loro. Con loro, nonostante la loro miseria e il loro peccato. Essi non predicano se stessi, ma Gesù Cristo, predicano nel suo nome, e sono confusi fino in fondo al cuore per ciò che egli ha detto loro: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Ma egli ha detto proprio così. E dunque essi vanno e parlano. Sanno che si può essere un bronzo sonante e un cembalo tintinnante, e che ci si può perdere dopo aver predicato agli altri: ma non si sono scelti da sé. Sono stati chiamati e inviati, e così devono andare e predicare, opportunamente e importunamente. Vanno per i campi del mondo e spargono il seme di Dio: sono pieni di riconoscenza quando un poco ne germoglia, e implorano per sé la misericordia di Dio, affinché non ne rimanga sterile troppo per colpa loro. Seminano fra le lacrime, e per lo più un altro raccoglie ciò che essi hanno seminato. Ma essi lo sanno: la parola di Dio deve diffondersi dovunque e portar frutto, perché essa è la felice Verità di Dio, la luce dei cuori, la consolazione nella morte e la speranza della vita eterna.
Il sacerdote è il dispensatore dei divini misteri
La parola, che Dio ha posto sulla bocca del prete, non è una semplice parola generica, che viene pronunciata nel vago. È la parola di Dio, deve perciò riguardare anche i singoli, nella loro individualità originale e nella loro irrepetibile storicità. Deve essere detta a ciascun uomo in particolare: al mattino della vita, quando egli comincia a creare nel tempo una eternità; nei molti monotoni giorni del suo pellegrinaggio, in cui egli deve cercare faticosamente se stesso, attraverso tutte le vallate e gli errori di una vita umana; nella cupa disperazione della colpa; in quel sacro istante, in cui sembra che, dalla pienezza del tempo che muore, debba venir fuori per sempre il frutto dell'eternità nella morte. In tali istanti, il prete deve dire la parola di Dio, la parola potente e creatrice di Dio, la parola che non dice, bensì opera, la parola sacramentale: io ti battezzo; io ti assolvo dai tuoi peccati; questo è il mio Corpo. Tali parole, pronunziate nel nome del Cristo, il pret le dice applicandole alla concreta situazione dell'uomo. Ed esse apportano ciò che proclamano, operano quello che annunziano, perché sono parole di Dio. Grazie a queste parole sacramentali, il prete è, al tempo stesso, l'uomo più privo di potenza e il più potente, poiché esse non sono assolutamente più parole sue, ma parole interamente del Cristo: egli, però, ha il diritto di dirle, di ripeterle continuamente, di dirle con pazienza e con fede, instancabilmente. Tutte le altre parole, che egli deve pur dire, nella predica e nell'insegnamento, non sono altro che un'eco, una spiegazione, un commento, aggiunto alle eterne parole fondamentali della sua esistenza sacerdotale, che egli pronunzia nell'amministrare i sacramenti, accompagnandole col gesto santo, che utilizza i poveri elementi della terra per celarvi la beatitudine del cielo, fecondandoli con la parola del Cristo. Munito dunque della parola efficace del Cristo, egli dispensa i misteri del Cristo, i sacramenti. Gli uomini, per lo più, vogliono da lui qualcos'altro: il pane, la soluzione dei problemi sociali, ricette per poter essere felici su questa terra. Si irritano e si annoiano, se si continua a ripetere loro sempre soltanto parole, che si devono credere, che producono effetto solo nella divina eternità e il cui valore non si può negoziare sui mercati del mondo. Ma il prete continua a ripetere la sua parola, la parola dei sacramenti. Il loro effetto non si può provare nei laboratori degli uomini, che vogliono riconoscere come reale solo ciò che si manifesta concretamente. Ma l'effetto c'è. E così, da quella parola, ha inizio il destino dei figli di Dio, si compie il perdono dei peccatori, si celebra il banchetto della vita eterna, scaturisce dalle tenebrose profondità della morte la luce che non conosce tramonto. Col suo dono e con la sua offerta dei misteri di Dio, il prete se ne sta, come uno che sia estraneo al mondo, agli angoli delle vie, dinanzi ai quali passa in fretta il corteo interminabile degli uomini e della loro storia, precipitando non si sa bene se verso la morte o verso la vita. Chi si arresta, chi accetta l'offerta di questo viandante tra due mondi che è il prete, costui riceve i misteri di Dio, per lui si realizza nel tempo l'eternità, dalla morte la vita, dalle tenebre la luce, e si fa manifesta la presenza di Dio. E colui che ha il potere di penetrare nella situazione sempre unica del singolo queste parole della presenza e dell'efficacia sacramentale del Dio vivente nello spazio della santa Chiesa, noi lo chiamiamo il prete.
Al sacerdote è affidato il sacrificio
Abbiamo cominciato a parlare dell'opera del prete nel mondo; dobbiamo intraprendere la trattazione, più esplicita di quanto finora sia stata, del mistero che nel Corpo della Chiesa è paragonabile al cuore, in quanto apporta al regolare battito del polso dei singoli membri la forza nutritiva del sangue. Il prete è l'uomo a cui è affidata l'offerta sacrificale della Chiesa, la ripetizione liturgica della Cena del Cristo, e poiché proprio questo è l'aspetto più intimo e supremo dell'esistenza sacerdotale, noi celebriamo solennemente l'inizio di tale vita non già con un battesimo che egli celebri per la prima volta, o con la parola dell'assoluzione che pronunzi per la prima volta, bensì col sacrificio della messa che egli celebra per la prima volta e noi con lui. Qui, in questo momento, tutto si raccoglie: gli uomini, la Chiesa, Dio, il Cristo, il sacrificio della Croce, i vivi e i morti, l'angoscia terrena e la beatitudine celeste. Qui, infatti, il Signore glorioso è in mezzo alla sua comunità: la comunità dei santificati e redenti, che il prete, per mandato ricevuto dal Cristo, con pieni poteri che provengono dall'alto, e non dal basso, conduce dinanzi al trono della Grazia, affinché essa comunità offra il Signore, reso presente mediante la parola del prete, come offerta di tutta la Chiesa, all'eterno Padre, in lode del suo nome e per la salvezza di tutti quelli che celebrano il sacrificio e in esso sono ricordati con amore e fedeltà. Avendone ricevuto facoltà dal Cristo stesso, che ama la sua Chiesa e a lei ha fatto dono del proprio sacrificio, il prete può celebrare in nome di tutti, con tutti e per tutti, il sacrificio dell'eterna riconciliazione. E se è vero che in questa vocazione egli è stato da Dio sollevato più in alto di tutti gli altri, è anche vero che egli è divorato e consumato al massimo, in un puro servizio di Dio, per gli uomini. Egli acquista, in questo momento, il diritto di portare il Corpo del Signore e di prendere il calice della salvezza, riempito del prezzo del riscatto del mondo, non già per essere lui, il prete, innalzato, bensì perché ne venga salvezza per tutto il popolo di Dio. E ciò che, nel giorno della sua prima messa, egli fa', circondato dalla gioia degli altri, lo farà tutti i giorni. Tutti i giorni, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle grigie mattine di ogni giorno, e nelle ore terribili, che non sono risparmiate a nessuna vita. E sempre questa piccola, povera celebrazione racchiuderà in sé il contenuto, e al tempo stesso la soluzione, di tutti gli enigmi dell'esistenza: il Corpo, che venne immolato, e il Sangue, che fu versato per il perdono dei peccati. Sempre, tutto ciò sarà contenuto in questa piccola mezz'ora, perché in essa è presente, come il Sacrificato e il Vittorioso insieme, colui che è in sé l'unità reale dell'enigma e della sua soluzione, l'unità della terra e del cielo, l'unità dell'uomo e di Dio, nella celebrazione di quell'istante unico in cui, sulla Croce, l'estrema lontananza tra loro divenne inseparabile vicinanza.
Conclusione
È uomo, il prete, messaggero della Verità di Dio, dispensatore dei divini misteri, capace di rendere presente il sacrificio unico del Cristo. Sorte felice! Certo, ogni uomo ha da Dio la sua vocazione, la sorte a lui assegnata dalla eternità, il suo compito anche nel Corpo del Cristo, che è la Chiesa. Non vi è esistenza profana, per nessuno. Ma ciò che per la maggior parte è quasi soltanto la presenza della divina realtà nel profondo della loro più intima coscienza e nel silenzioso segreto della loro sfera privata, per il prete, chiamato da Dio, erompe da quella profondità per abbracciare tutta la estensione della vita. Tutto, in quella vita, Dio deve consumare e ridurre al servizio della sua signoria onnipotente. Questo è il destino del prete: vivere interamente nella manifesta vicinanza di Dio. Un destino beato e terribile a un tempo. Beato, perché Dio solo è la beatitudine; terribile, perché solo difficilmente l'uomo resiste in mezzo al tremendo splendore di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, che il progetto più sublime rimanga sempre anche il più frammentario. Nessuna meraviglia, che l'alta vocazione nasconda in sé anche il pericolo delle cadute estreme: il pericolo che esser prete voglia dire non dovere esser più uomo; il pericolo della perdita della pietà per gli uomini, dell'inaridirsi della sostanza umana; il pericolo della fuga lontano da Dio, verso la più familiare vicinanza degli uomini; il pericolo del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l'altissimo prezzo richiesto dall'esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Se si esamina attentamente questo destino beato e terribile del prete, si potrebbe rimanere colpiti, e quasi ammutolire per lo spavento, in questa festa, perché qui ha inizio ciò che nessun uomo, da solo, può portare a compimento. Ma noi confidiamo nella grazia di Dio: essa, non già noi, porterà a compimento ciò che ha iniziato. È fedele, infatti, colui che ha chiamato il prete, e non si pente dei doni di grazia che concede. E noi, in questa celebrazione del santo sacrificio, vogliamo pregare per la Chiesa sulla terra, che Dio mandi operai alla sua messe, perché gli operai sono pochi. Preghiamo per i nostri preti, che essi comincino nel timore e nella gioia del Signore e perseverino in fedele servizio sino alla beata fine, che noi tutti attendiamo, e in cui è il termine unico e beato di tutte le vocazioni, nell'infinita celebrazione del sacrificio eterno, in cui il Figlio, e noi in lui, tutto rimettiamo al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Amen.
tratto da www.donboscoland.it
sacerdotepretepresbitericleroanno sacerdotale
inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010
RACCONTO
95. Il barilotto (versione 2) 7
Bruno Ferrero, Parabole
Tempo fa, in una terra lontana, viveva un signore potente e famoso in ogni angolo del regno.
Sull'orlo di una nera scogliera aveva fatto costruire una roccaforte così solida e ben armata, da non temere né re, né conti, né duchi, né principi, né visconti.
E questo possente signore aveva un bell'aspetto, nobile e imponente.
Ma nel suo cuore era sleale, astuto e ipocrita, superbo e crudele.
Non aveva paura né di Dio né degli uomini.
Sorvegliava come un falco i sentieri e le strade che passavano nella regione e piombava sui pellegrini e mercanti per rapinarli.
Aveva da tempo calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria.
La sua crudeltà era divenuta proverbiale.
Disprezzava apertamente la gente e le leggi della Chiesa.
Ogni Venerdì santo invece di digiunare e rinunciare a mangiare carne organizzava grandi festini e lautii banchetti per i suoi cavalieri.
Si divertiva a tiranneggiare vassalli e servitù.
Ma un giorno, durante un combattimento, un colpo di balestra lo ferì gravemente ad un fianco.
Per la prima volta, il crudele signore provò la sofferenza e la paura.
Mentre giaceva ferito, i suoi cavalieri gli fecero balenare davanti agli occhi la gola spalancata e infuocata dell'inferno a cui era sicuramente destinato se non si fosse pentito dei suoi peccati e confessato in chiesa.
"Pentirmi io? Mai! Non confesserò neppure un peccato!".
Tuttavia il pensiero dell'inferno gli provocò un po' di spavento salutare.
A malincuore gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna di un santo eremita.
Con tono sprezzante, senza neppure inginocchiarsi, raccontò al santo frate tutti i suoi peccati: uno dietro l'altro, senza dimenticarne neppure uno.
Il povero eremita si mostrò ancora più afflitto:
"Sire, certamente hai detto tutto, ma non sei pentito. Dovresti almeno fare un po' di penitenza, per dimostrare che vuoi davvero cambiare vita".
"Farò qualunque penitenza. Non ho paura di niente, io! Purché sia finita questa storia".
"Digiunerai ogni Venerdì per sette anni...!".
"Ah, no! Questo puoi scordartelo!".
"Vai in pellegrinaggio fino a Roma...".
"Neanche per sogno!".
"Vestiti di sacco per un mese...".
"Mai!".
Il superbo cavaliere respinse tutte le proposte del buon frate, che alla fine propose: "Bene, figliolo. Fa' soltanto una cosa: vammi a riempire d'acqua questo barilotto e poi riportamelo".
"Scherzi? E' una penitenza da bambini o da donnette!". Sbraitò il cavaliere agitando il pugno minaccioso.
Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito.
Prese il barilotto sotto braccio e brontolando si diresse al fiume.
Immerse il barilotto nell'acqua, ma quello rifiutò di riempirsi.
"E' un sortilegio magico", ruggì il penitente, "ma ora vedremo".
Si diresse verso una sorgente: il barilotto rimase ostinatamente vuoto.
Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio.
Fatica sprecata!
Provò ad esplorare l'interno del barilotto con un bastone: era assolutamente vuoto.
"Cercherò tutte le acque del mondo", sbraitò il cavaliere. "Ma riporterò questo barilotto pieno!".
Si mise in viaggio, così com'era, pieno di rabbia e di rancore.
Prese ad errare sotto la pioggia e in mezzo alle bufere.
Ad ogni sorgente, pozza d'acqua, lago o fiume immergeva il suo barilotto e provava e riprovava, ma non riusciva a fare entrare una sola goccia d'acqua.
Anni dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato.
Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto.
Di colpo il barilotto si riempì fino all'orlo dell'acqua più pura, più fresca e buona che mai si fosse vista.
Una sola piccola lacrima di pentimento...
L'esperienza nascosta nel racconto:
Il cavaliere del racconto scopre, con fatica e sofferenza personale, la radice del vero pentimento essenziale per ottenere il perdono di Dio e la pace vera dell'anima.
conversionepenitenzapentimentoconfessionericonciliazioneperdono di Dio
inviato da Don Benito Giorgetta, inserito il 26/08/2010
TESTO
Anna Rita Mazzocco, Il Cantico di Tommaso, Ed. Morlacchi
C'ero anch'io quella mattina
sulla via della croce.
Eri a poca distanza da me
mentre fra sputi ed insulti
arrancavi verso il posto
dove avevamo decretato
che tu morissi.
Attorno a me la folla.
C'era chi voleva solo curiosare
e chi era capitato lì per caso,
ma c'era anche chi voleva partecipare
per vendicarsi di te
almeno solo con lo sguardo.
L'ennesima profanazione di quel corpo
già ridotto ad un'unica piaga:
la miseria umana.
Non so dirti perché accorsi anch'io
a quella sagra dell'ingiustizia
ma, come Zaccheo, mi feci largo tra la folla
per vedere.
Ed ero in prima fila.
Tutto ciò di cui potrei essere capace era lì
davanti ai miei occhi
sprofondati tra quelle piaghe
che invocavano la morte.
Stavi per passarmi davanti
ma io non volevo più vedere oltre.
Avrei voluto essere lontano
il più lontano possibile da quello scempio
ma ormai non potevo più scappare.
Ero imbottigliato tra la folla
che i soldati romani spingevano indietro
per lasciar passare la giustizia dell'uomo.
Ora non eri più una macchia di sangue
sulla via del Calvario.
Ora si riconosceva un volto.
Ed eri ancora umano.
Dicono che tu fossi il più bello fra gli uomini
ma io non ti avevo mai visto prima.
Quella mattina però lo eri davvero
talmente bello da non aver il coraggio di guardarti.
E abbassai lo sguardo
per non correre il rischio d'incontrare il tuo.
Come uno struzzo sperai
d'aver scampato il pericolo di quell'incontro.
E mi passasti davanti
ma io non sollevai gli occhi da terra.
Vidi soltanto i tuoi piedi piagati
che sostarono alcuni secondi davanti a me.
Sicuramente dovevi riprendere fiato.
Ma uno schiocco di frusta
Ti richiamò al tuo dovere di vittima...
E così riprendesti sulle spalle il mio peccato
avanzando ancora con fatica.
Ma sui sassi mi lasciasti il tuo ricordo.
Dicono che moristi alle tre
ma io non venni a vedere.
Ero rimasto lungo la via del Calvario
seduto a terra
davanti a quell'impronta di sangue
che mi schiantava il cuore.
passionecroceGesùCristovia crucis
inviato da Monache Agostiniane Urbino, inserito il 11/08/2010
ESPERIENZA
Giuseppe Rizzo, SMA
A volte noi pensiamo che la carità sia darsi da fare, cercare tutti i modi per riempire i poveri e gli ammalati di attenzioni. Partiamo cioè con un'idea un po' troppo precisa di quello che serve a chi ci chiede aiuto.
L'avevo conosciuta un anno prima, come tanti giovani, aveva l'AlDS. Con l'infermiere della Caritas siamo riusciti a ridarle un po' di energia con alcuni farmaci. Dopo diversi anni di allontanamento da Dio e di una vita senza regole, era ritornata a partecipare alla messa della domenica per ringraziare Dio di quello che lei chiamava il miracolo della guarigione.
Ma un anno dopo, puntuale come un compleanno e senza scampo, arriva una forte crisi e lei è in fin di vita. Mi fa chiamare e mi precipito appena so che si tratta di lei. Arrivato in casa sua, non le chiedo niente, perché mi accorgo della situazione disperata. Prendo la macchina, vado al dispensario e con l'infermiere ritorno da lei. Iniezioni, flebo, pastiglie, gocce. La portiamo all'ospedale, ma anche lì ci dicono che non c'è più niente da fare. Ritornati a casa cerchiamo di fare tutto il possibile per salvarla, offriamo tutte le medicine di cui disponiamo.
Ad un certo momento lei, che fino a quel momento non aveva detto una parola, mi guarda. Poi il silenzio. Provate ad immaginarlo: un silenzio infinito, di quelli che normalmente porgono alla vita come un minuscolo boato, che diventerà un ricordo indimenticabile: "Io ti ho chiamato perché volevo confessarmi! Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto finora, ma in questo momento l'unica cosa di cui ho bisogno, è il perdono di Dio".
È stato come prendere contatto con la realtà. Dieci minuti di confessione: un dialogo d'amore tra lei e Dio. lo l'ho ascoltata e le ho dato il dono dell'assoluzione. Solo ora lei ha chiuso gli occhi con la serenità di aver avuto quello che cercava. Dopo averle preso le mani nelle mie, ci siamo immersi di nuovo in quel meraviglioso silenzio. È passato qualche minuto e lei non respirava più: era fra le braccia di quel Dio che ha voluto incontrare a modo suo, avendo la pazienza di aspettare che il padre se ne rendesse conto.
missionecaritàmorteassoluzioneconfessioneperdono di Dio
inviato da Don Raffaele Gobbi, inserito il 11/08/2010
PREGHIERA
98. Maria, donna del silenzio 1
Santa Maria,
donna del silenzio,
riportaci alle sorgenti della pace.
Liberaci dall'assedio delle parole.
Da quelle nostre, prima di tutto.
Ma anche da quelle degli altri.
Figli del rumore,
noi pensiamo di mascherare l'insicurezza
che ci tormenta
affidandoci al vaniloquio del nostro interminabile dire:
facci comprendere che,
solo quando avremo taciuto noi,
Dio potrà parlare.
Coinquilini del chiasso,
ci siamo persuasi di poter esorcizzare
la paura alzando il volume dei nostri transistor:
facci capire che Dio si comunica all'uomo
solo sulle sabbie del deserto,
e che la sua voce non ha nulla da spartire
con i decibel dei nostri baccani.
Spiegaci il senso profondo di quel brano della Sapienza,
che un tempo si leggeva a Natale
facendoci trasalire di meraviglia:
«Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,
e la notte era a metà del suo corso,
la tua Parola onnipotente dal cielo,
dal tuo trono regale, scese sulla terra...».
Riportaci, ti preghiamo,
al trasognato stupore del primo presepe,
e ridestaci nel cuore la nostalgia di quella "tacita notte".
Santa Maria, donna del silenzio,
raccontaci dei tuoi appuntamenti con Dio.
In quali campagne ti recavi nei meriggi di primavera,
lontano dal frastuono di Nazaret, per udire la sua voce?
In quali fenditure della roccia ti nascondevi adolescente,
perché l'incontro con lui non venisse profanato dalla violenza degli umani rumori?
Su quali terrazzi di Galilea,
allagati dal plenilunio,
nutrivi le tue veglie di notturne salmodie,
mentre il gracidare delle rane,
laggiù nella piana degli ulivi,
era l'unica colonna sonora ai tuoi pensieri di castità?
Che discorsi facevi, presso la fontana del villaggio,
con le tue compagne di gioventù?
Che cosa trasmettevi a Giuseppe quando al crepuscolo, prendendoti per mano,
usciva con te verso i declivi di Esdrelon,
o ti conduceva al lago di Tiberiade nelle giornate di sole?
Il mistero che nascondevi nel grembo glielo
confidasti con parole o con lacrime di felicità?
Oltre allo Shemàh Israel
e alla monotonia della pioggia nelle grondaie,
di quali altre voci risonava la bottega del falegname
nelle sere d'inverno?
Al di là dello scrigno del cuore,
avevi anche un registro segreto
a cui consegnavi le parole di Gesù?
Che cosa vi siete detto, per trent' anni,
attorno a quel desco di povera gente?
Santa Maria, donna del silenzio,
ammettici alla tua scuola.
Tienici lontani dalla fiera dei rumori
entro cui rischiamo di stordirei,
al limite della dissociazione.
Preservaci dalla morbosa voluttà di notizie,
che ci fa sordi alla "buona notizia".
Rendici operatori di quell'ecologia acustica,
che ci restituisca il gusto della contemplazione
pur nel vortice della metropoli.
Persuadici che
solo nel silenzio maturano le cose grandi della vita:
la conversione, l'amore, il sacrificio, la morte.
Un'ultima cosa vogliamo chiederti, Madre dolcissima.
Tu che hai sperimentato, come Cristo sulla croce,
il silenzio di Dio,
non ti allontanare dal nostro fianco nell'ora della prova.
Quando il sole si eclissa pure per noi,
e il cielo non risponde al nostro grido,
e la terra rimbomba cava sotto i passi,
e la paura dell'abbandono rischia di farei disperare,
rimanici accanto.
In quel momento, rompi pure il silenzio:
per direi parole d'amore!
E sentiremo sulla pelle i brividi della Pasqua.
Mariasilenziovita quotidianarumore
inviato da Barbara Battilana, inserito il 30/07/2010
RACCONTO
Ninon Rose Hawryliszyn e Silva
L'altro giorno ho visto una formica che trasportava una foglia enorme. La formica era piccola e la foglia doveva essere almeno due volte il suo peso. Ora la trascinava, ora la sollevava sopra la testa. Quando soffiava il vento, la foglia cadeva, facendo cadere anche la formica. Fece molti capitomboli, ma nemmeno questo fece desistere la formica dalla sua impresa.
L'osservai e la seguii, finché giunse vicino a un buco, che doveva essere la porta della sua casa. Allora pensai: "Finalmente ha concluso la sua impresa!". Mi illudevo. Perché, anzi, aveva appena terminata solo una tappa.
La foglia era molto più grande del foro, per cui la formica lasciò la foglia di lato all'esterno ed entrò da sola. Così mi dissi: "Poverina, tanto sacrificio per nulla". Mi ricordai del detto popolare: "Nuotò, nuotò e morì sulla spiaggia". Ma la formichina mi sorprese. Dal buco uscirono altre formiche, che cominciarono a tagliare la foglia in piccoli pezzi. Sembravano allegre nel lavoro. In poco tempo, la grande foglia era sparita, lasciando spazio a pezzettini che ormai erano tutti dentro il buco.
Immediatamente mi ritrovai a pensare alle mie esperienze. Quante volte mi sono scoraggiato davanti all'ingorgo degli impegni o delle difficoltà? Forse, se la formica avesse guardato le dimensioni della foglia, non avrebbe nemmeno cominciato a trasportarla. Ho invidiato la perseveranza, la forza di quella formichina. Naturalmente, trasformai la mia riflessione in preghiera e chiesi al Signore che mi desse la tenacia di quella formica, per "caricare" le difficoltà di tutti i giorni. Che mi desse la perseveranza della formica, per non perdermi d'animo davanti alle cadute.
Che io possa avere l'intelligenza, l'abilità di quella formichina, per dividere in pezzi il fardello che, a volte, si presenta tanto grande. Che io abbia l'umiltà per dividere con gli altri i frutti della fatica come se il tragitto non fosse stato solitario.
Chiesi al Signore la grazia di riuscire, come quella formica, a non desistere dal cammino, specie quando i venti contrari mi fanno chinare la testa verso il basso... specie quando, per il peso di ciò che mi carica, non riesco a vedere con nitidezza il cammino da percorrere. La gioia delle larve che, probabilmente, aspettavano il cibo all'interno, ha spinto quella formica a sforzarsi e superare tutte le avversità della strada.
Dopo il mio incontro con quella formica, sono stato rafforzato nel mio cammino. Ringrazio il Signore per averla messa sulla mia strada e per avermi fatto passare sul cammino di quella formichina.
I sogni non muoiono, solo si assopiscono nel cuore della gente. Basta svegliarli, per riprendere il cammino!
faticadifficoltà della vitaandare avantiperseveranzafiduciaimpegno collaborazioneresponsabilitàsenso della vitaforzacoraggio
inviato da Suor M. Nerina De Simone, inserito il 26/06/2010
RACCONTO
Renato non aveva quasi visto la signora, dentro la vettura ferma al lato della carreggiata. Pioveva forte ed era buio, ma si rese conto che la donna aveva bisogno di aiuto, così fermò la sua macchina e si avvicinò. L'auto della signora odorava ancora di nuovo. Lei pensava forse che poteva essere un assalitore: non ispirava fiducia quell'uomo, sembrava povero e affamato.
Renato percepiva che la signora aveva molta paura e le disse: "Sono qui per aiutarla, signora, non si preoccupi. Perché non aspetta nella mia auto dove fa un po' più caldo? A proposito, il mio nome è Renato".
La signora aveva bucato una ruota e oltretutto era di età avanzata. Mentre la pioggia cadeva a dirotto, Renato si chinò, collocò il crik e alzò la macchina. Quindi cambiò la gomma, sporcandosi non poco. Mentre stringeva i dadi della ruota, la donna aprì la portiera e cominciò a conversare con lui. Gli raccontò che non era del posto, che era solo di passaggio e che non sapeva come ringraziarlo per il prezioso aiuto. Renato sorrise mentre terminava il lavoro.
Lei domandò quanto gli doveva. Già aveva immaginato tutte le cose terribili che sarebbero potute accadere se Renato non si fosse fermato per soccorrerla.
Ma Renato non pensava al denaro, gli piaceva aiutare le persone... questo era il suo modo di vivere. E rispose: "Se realmente desidera pagarmi, la prossima volta che incontra qualcuno in difficoltà, si ricordi di me e dia a quella persona l'aiuto di cui ha bisogno".
Alcuni chilometri dopo la signora si fermò in un piccolo ristorante, la cameriera arrivò e le porse un asciugamano pulito per farle asciugare i capelli rivolgendole un dolce sorriso.
La donna notò che la cameriera era circa all'ottavo mese di gravidanza, ma lei non permetteva che la tensione e i dolori cambiassero il suo atteggiamento e fu sorpresa nel constatare come qualcuno che ha tanto poco, possa trattare tanto bene un estraneo. Allora si ricordò di Renato. Dopo aver terminato la sua cena, e mentre la cameriera si allontanò ad un altro tavolo, la signora uscì dal ristorante.
La cameriera ritornò curiosa di sapere dove la signora fosse andata, quando notò qualcosa scritto sul tovagliolo, sopra al quale aveva lasciato una somma considerevole.
Le caddero le lacrime dagli occhi leggendo ciò che la signora aveva scritto. Diceva: "Tieni pure il resto. Qualcuno mi ha aiutato oggi e alla stessa maniera io sto aiutando te. Se tu realmente desideri restituirmi questo denaro, non lasciare che questo circolo d'amore termini con te, aiuta qualcuno".
Quella notte, rincasando, stanca, si avvicinò al letto; suo marito già stava dormendo e non volle svegliarlo perché sapeva che prima di addormentarsi era stato preda di mille angosce, quindi, rimase a pensare al denaro e a quello che la signora aveva scritto. Quella signora come poteva sapere della necessità che suo marito e lei avevano di quel denaro: con il bebè che stava per nascere, tutto sarebbe diventato più difficile...
Pensando alla benedizione che aveva ricevuto, fece un grande sorriso. Ringraziò Dio e si voltò verso il suo preoccupato marito che dormiva al suo lato, lo sfiorò con un leggero bacio e gli sussurrò: "Andrà tutto bene. Ti amo... Renato!".
La vita è così... è uno specchio: tutto quello che tu dai, ti ritorna!
solidarietàaltruismogenerositàgratitudinegratuità
inserito il 26/06/2010
RACCONTO
Un uomo, il suo cavallo e il suo cane camminavano lungo una strada. Mentre passavano accanto a un albero gigantesco, si abbatté un fulmine e morirono tutti fulminati.
Ma l'uomo non si accorse di avere ormai lasciato questo mondo e continuò a camminare con i suoi due animali. A volte occorre del tempo perché i morti si rendano conto della loro nuova condizione.
Era una camminata molto lunga, su per la collina, il sole era forte e loro erano tutti sudati e assetati. Avevano disperatamente bisogno di acqua. A una curva della strada, avvistarono un magnifico portone, tutto di marmo, che conduceva a una piazza pavimentata con blocchi d'oro, al centro della quale c'era una fontana da cui sprizzava dell'acqua cristallina.
Il viandante si rivolse all'uomo che sorvegliava l'entrata.
- Buongiorno.
- Buongiorno - rispose l'uomo.
- Che posto è mai questo, così meraviglioso?
- Qui è il Cielo.
- Che bello essere arrivati nel cielo, abbiamo molta sete.
- Lei può entrare e bere a volontà.
E il guardiano indicò la fontana.
- Anche il mio cavallo e il mio cane hanno sete.
- Mi spiace molto, ma qui non è permessa l'entrata di animali.
L'uomo ne rimase assai deluso, perché aveva molta sete, ma non avrebbe mai bevuto da solo. Ringraziò e proseguì. Dopo aver camminato a lungo, ormai esausti, arrivarono in un luogo la cui entrata era segnata da una vecchia porta, che si apriva su di un sentiero sterrato, fiancheggiato da alberi.
All'ombra di uno degli alberi, c'era un uomo sdraiato, con il capo coperto da un cappello, che probabilmente stava dormendo.
- Buongiorno - disse il viandante.
L'uomo fece un cenno con il capo.
- Abbiamo molta sete, il mio cavallo, il mio cane e io.
- C'è una fonte tra quelle pietre - disse l'uomo indicando un posto. - Potete bere a volontà.
L'uomo, il cavallo e il cane si avvicinarono alla fonte e ammazzarono la sete. Poi, l'uomo tornò indietro per ringraziare.
- A proposito, come si chiama questo posto?
- Cielo.
- Cielo? Ma il guardiano del portone di marmo ha detto che il cielo era là!
- Quello non è il cielo, quello è l'inferno.
Il viandante rimase perplesso.
- Voi dovreste evitarlo! Una tale informazione falsa causerà grandi confusioni!
L'uomo sorrise:
- Assolutamente no. In realtà, ci fanno un grande favore. Perché laggiù rimangono tutti quelli che sono capaci di abbandonare i loro migliori amici.
amiciziaparadisoinfernoegoismoaltruismoapertura
inviato da Lisa, inserito il 26/06/2010
RACCONTO
102. Un bicchiere di latte - Si raccoglie quello che si semina 2
Un giorno, un ragazzo povero che vendeva merci porta a porta per pagarsi gli studi all'università, si trovò in tasca soltanto una moneta da 10 centesimi, e aveva fame. Decise che avrebbe chiesto qualcosa da mangiare nella prossima casa, ma i suoi nervi lo tradirono quando gli aprì la porta una donna stupenda. Al posto di qualcosa da mangiare chiese un bicchiere d'acqua. Lei pensò che il giovane sembrava affamato, e dunque gli portò un bel bicchiere di latte. Lui lo bevve piano, e allora chiese: "Quanto devo?". "Non mi deve niente", rispose lei. "Mia madre ci ha insegnato che dobbiamo essere sempre caritatevoli con coloro che hanno bisogno di noi". E lui disse: "Allora la ringrazio di cuore!". Quando Howard Kelly andò via da quella casa, non soltanto si sentì più sollevato, ma anche la sua fede in Dio e negli uomini era diventata più forte. Era stato sul punto di arrendersi e di lasciare gli studi a causa della sua povertà.
Qualche anno dopo la donna si ammalò in modo grave. I medici del paese erano preoccupati. Alla fine la inviarono alla grande città. Chiamarono il Dott. Howard Kelly per un consulto. Quando lui sentì il nome del paese da dove proveniva la paziente, sentì negli occhi una luce particolare e una gradevole sensazione. Immediatamente il Dott. Kelly salì dalla hall dell'ospedale fino alla stanza di lei. Vestito con il suo grembiule da dottore entrò a vederla. Capricci del destino, era lei, la riconobbe subito. Ritornò alla stanza determinato a fare tutto il possibile per salvare la sua vita. Da quel giorno seguì quel caso con la maggiore attenzione, lei subì un'operazione a cuore aperto e si recuperò molto lentamente. Dopo una lunga lotta, lei vinse la battaglia! Era finalmente recuperata! Giacché la paziente era fuori pericolo, il Dott. Kelly chiese all'ufficio amministrativo dell'ospedale che gli inviassero la fattura con il totale delle spese, per approvarla. La ricontrollò e la firmò. Inoltre scrisse qualcosa sui margini della fattura e la inviò alla stanza della paziente.
La fattura arrivò alla stanza della paziente, ma lei aveva paura di aprirla, perché sapeva che avrebbe lavorato per il resto della sua vita per pagare il conto di un intervento così complicato. Finalmente la aprì, e qualcosa attirò la sua attenzione. Sui margini della fattura lesse queste parole: "Pagata completamente molti anni fa con un bicchiere di latte Firmato: Dott. Howard Kelly". I suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia e il suo cuore fu felice e benedisse il dottore per averle ridato la vita.
speranzacaritàamoreseminarebenegratuitàgratitudine
inviato da Marianna Mundo, inserito il 26/06/2010
RACCONTO
103. L'asinello che portò Gesù 3
In un campo pascolavano un'asina con il suo puledro. Era stato svezzato da poco e talvolta, quando si metteva nei guai, cercava ancora il conforto della sua mamma.
Il suo nome era Lollo e aveva grandi orecchie appuntite e occhioni scuri, intelligenti e furbi. Come tutti i cuccioli era birbaccione, chiassoso, prepotente. Appena poteva si allontanava verso i confini del campo cercando di sconfinare e, quando il padrone andava a riprenderlo, puntava le zampe sul terreno e non c'era modo di smuoverlo. Bisognava trascinarlo e quanto erano acuti i suoi ragli di protesta! Il padrone ancora non si decideva a metterlo al lavoro: era talmente giovane e testone!
Una bella mattina di primavera giungono nel campo degli uomini, parlottano un po' col padrone e poi cominciano a guardare verso Lollo. Erano venuti infatti a fare una richiesta curiosa che riguardava proprio lui. Questi uomini erano servi di un tale, un certo Nazareno e, mandati da questo, volevano in prestito proprio Lollo. Serviva al loro Maestro per entrare in Gerusalemme.
Il padrone era perplesso: "Macché Lollo! Per il vostro Maestro ci vuole un cavallo. Io non ce l'ho, ma il mio vicino è un soldato e certamente sarà contento di prestarvi il suo bel cavallo bianco".
Ma quelli insistevano, si erano proprio fissati! Volevano un asino che fosse giovane che non avesse mai lavorato. "E' il Maestro che lo chiede - dicevano - ma non temere te lo restituiremo".
Il padrone alzava gli occhi al cielo: "Ma allora proprio non capite, quest'asino non è adatto! E' prepotente, testone e farà fare a me e al vostro Maestro una brutta figura. E' capace di fermarsi in mezzo alla strada e di non voler più camminare, se gli gira, incomincia a ragliare così forte e non la finisce più, e poi, morde!".
E i servi a lui: "Così come è, lo vuole il Maestro, e Lui non sbaglia! Se ha chiesto quest'asino avrà i suoi buoni motivi!". Il padrone allora, avvilito, prende un pezzo di corda, lo butta intorno al collo di Lollo e lo consegna ai servi. Lollo è troppo interessato alla faccenda per pensare a fare i capricci, e docile si lascia legare e condurre fuori del campo.
Fatta poca strada arrivano a un bivio, poco fuori Gerusalemme. Ci sono uomini, donne e anche bambini che attorniano un giovane uomo. I servi dirigono proprio verso di Lui: "Ecco, Maestro, questo è l'asino che avevi chiesto". Il Maestro si volta, si avvicina a Lollo, allunga una mano, lo accarezza sulla testa e lo guarda. Anche Lollo alza gli occhi verso questo bizzarro Maestro che ha voluto a tutti i costi averlo come cavalcatura, e i suoi occhi si immergono nello sguardo del Maestro: "Mai nessuno mi aveva guardato così" - dirà poi Lollo - "neanche la mia mamma". E' come se con un solo sguardo il Maestro mi dicesse: "Non temere, va bene così. Sì sei un po' un brigante, ma ce la puoi fare. Io mi fido di te e ti voglio bene! Coraggio! Cominciamo questo viaggio, sarai tu a portarmi a Gerusalemme".
Lollo sente come un fuoco dentro il suo cuore, è contento e un po' ha voglia di piangere, senza motivo... Mansueto si lascia mettere un mantello rosso sulla groppa, si lascia montare dal Maestro e, lentamente, incominciano il loro viaggio verso Gerusalemme. Via via che si avvicinano alla città la gente diventa più numerosa. Stendono per terra dei mantelli rossi, hanno in mano dei rami di palma e di ulivo, li agitano e gridano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell'alto dei cieli!".
Lollo si sente davvero un asinello importante... Tutti fanno festa alla persona che lui sta portando in groppa, bardato con quel bel manto rosso! Anche i bambini fanno festa e alcune bambine portano dei fiori.
Ad un tratto una voce si leva dalla folla e chiede: "Chi è quest'uomo?".
Qualcuno risponde: "E' Gesù, da Nazareth di Galilea!".
"Che cosa ha fatto?".
"Io sono vedova, Gesù ha risuscitato il mio unico figlio. Eccolo!".
"Io ero muto per colpa di un demonio e Gesù mi ha liberato".
"Io avevo questa mano come morta e lui mi ha detto: Stendila! E la mia mano è tornata come nuova! Ha fatto bene ogni cosa!".
Lollo ascolta tutto quello che la gente dice sull'uomo che sta accompagnando a Gerusalemme. "Ora capisco perché alcuni chiamano Gesù il Signore!". La folla è al colmo della gioia e della festa. Gesù è pronto per entrare nel tempio. Prima di allontanarsi, con la mano sfiora lentamente il muso dell'asinello. Gesù e Lollo si guardano per un lungo istante.
Gesù capisce ciò che l'asinello gli vuol dire:
"Grazie Signore di avermi cercato.
Tu hai avuto bisogno di me e hai avuto fiducia in me!
D'ora in poi, anche se non credo che riuscirò ad essere sempre bravo, voglio provare ad essere come tu mi vedi.
Forse scalcerò ancora e certamente raglierò ogni tanto ma non potrò mai dimenticare che hai avuto fiducia in me.
Grazie Gesù, anche io ti voglio bene".
domenica delle palmefiduciasguardo di Dio
inviato da Mariolina Puddu, inserito il 25/03/2010
PREGHIERA
104. Da uomo vero, vorrei essere prete 1
Da uomo vero, vorrei essere prete
per annunciare il Vangelo non tanto con le parole
ma con ogni pezzo della vita che mi è stata donata!
Vorrei essere prete per dare speranza a chi non più ce l'ha:
a quell'uomo e quella donna che hanno disgregato la propria famiglia;
a quel bambino senza casa e senza genitori;
a quella mamma che ha ucciso la propria creatura in grembo;
a quel giovane che non ha più nessun orizzonte di vita;
a quell'uomo senza lavoro che va alla ricerca di una busta di alimenti;
a quell'uomo che colpito dalla malattia fisica sopravvive;
a quell'uomo disperato che vede solo nella morte l'unica soluzione;
a quell'uomo che fa del denaro e del sesso l'unica ragione di vita;
a quel prete che ha dimenticato Cristo presente in tutte queste persone.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per risolvere i problemi e le sofferenze della gente e del mondo
ma per condividere i problemi e le sofferenze della gente e del mondo.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per realizzare i miei desideri e i miei sogni,
ma l'unico vero desiderio e sogno di Dio che non ha bisogno delle mie miserie:
essere una delle sue tante candele per dare la sua luce nel tempo stabilito;
poi una volta consumata buttata via perché ci sarà un'altra candela!
Da uomo vero, vorrei essere prete
per dire "sì" con libertà al suo grande amore!
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per avere una poltrona comoda,
ma per essere una poltrona per quell'uomo buttato a terra;
non per avere un bel computer dove scrivere delle belle parole per ore e ore,
ma per essere una sola parola per quell'uomo che ha bisogno d'ascolto in una di quelle ore;
non per avere una macchinetta che faccia un buon caffè per ogni giorno,
ma per preparare un buon pasto quotidiano a quell'uomo che ha fame;
non per avere una automobile con tutti i comfort,
ma per essere conforto per quell'uomo che ha consumato i suoi piedi vagando senza meta.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare al cellulare spesso o sempre, anche quando prego
ma per essere preghiera vivente che sa anche fare del silenzio preghiera.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per essere servito ma per servire.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Croce ma per abbracciare la Croce.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Fede, della Speranza e della Carità
ma per vivere la Fede, la Speranza e la Carità essendone uno specchio fedele.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Risurrezione nei giorni di festa
ma per vivere la Risurrezione nei giorni feriali, in ogni istante dall'altare alla strada.
Da uomo vero, vorrei essere prete non per me stesso
ma "per, con e in" Cristo e la sua Chiesa!
Da uomo vero, vorrei essere prete!
sacerdoziopretevocazioneministeroserviziogratuità
inviato da Giuseppe Mancini, inserito il 22/12/2009
TESTO
105. La preghiera dell'asino di Betlemme 1
Signore,
credo d'averti già molestato troppo
chiedendoti di liberarmi da questa stupida vita d'asino
di un piccolo paese ai margini della Palestina.
Quante volte mi è venuto il desiderio di diventare feroce o velenoso
come tante altre bestie,
giusto per obbligare gli uomini ad essere più accorti nei miei confronti,
ma non te ne sei curato.
Con testarda tenacia ho nutrito il desiderio di libertà,
ma non mi è stato possibile fuggire da questo carico,
sempre meno sopportabile;
non mi stato possibile fuggire dal peso
che gli altri hanno caricato sulle mie spalle,
senza chiedermi nulla, né consenso né permesso,
incuranti delle mie ginocchia traballanti.
Ti ho supplicato di allontanare almeno la verga del mio aguzzino,
che batteva la mia schiena ad ogni tentativo di alzare la testa.
Non sapevo neanche com'è il sole di cui sentivo il calore sulle spalle!
Sconosciuta era per me la bellezza della luna e delle stelle
che di notte rischiarano le vie.
Comunque grazie! Per quella notte di grazia.
Doveva essere gravosa e buia come tutte le altre,
invece ha cambiato il contenuto dei miei pensieri,
il corso della mia vita.
L'uomo e la donna che hai mandato nella mia stalla,
non sono venuti né con la forza né con il bastone,
non fremevano né minacciavano.
Sono entrati piano, umilmente e modestamente.
E allora nell'attimo più buio della notte,
ho visto il Sole in persona.
Quella luce e quel calore verso i quali ho anelato tutta la vita.
A notte fonda, attorno al Bambino adagiato sulla greppia
è risuonato un canto:
"Astro del ciel, Pargol divin, mite Agnello Redentor!".
In un istante ho sentito di non valere meno degli angeli.
Davanti a me e davanti a loro si trovava lo stesso mistero.
Non da meno era la mia meraviglia di fronte al miracolo avvenuto!
Proprio quando mi sono inginocchiato davanti a questo Mistero,
hai reso salde le mie ginocchia vacillanti,
con la forza che lui emanava hai dato fermezza alle mie membra.
Grazie Signore,
perché mi hai liberato a modo tuo e non come io ti ho chiesto.
Non mi hai dato una vita lunga, però me l'hai riempita di senso.
Non hai maledetto le tenebre che mi avvolgevano,
però mi hai mostrato la luce.
Quando non ho potuto né saputo alzare la testa,
tu ti sei chinato davanti a me per mostrarti.
Non hai tolto la croce dalle mie spalle,
mi hai insegnato come portarla.
Sono diventato orgoglioso di me imparando
che è virtuoso portare i pesi degli altri.
Mi hai aperto la porta della conoscenza
quando mi hai persuaso che il tuo giogo è dolce,
il carico leggero.
Ora lo sai perché ho accettato con gioia l'ulteriore peso,
perché mi sono offerto per il viaggio in Egitto,
nonostante gli sforzi e i pericoli.
Grazie,
perché hai scelto me e la mia misera specie per servire la Sacra Famiglia.
Una sola cosa mi ha messo in imbarazzo: quando mi hanno cambiato il nome,
ma ora so che il mio nome era proprio quello,
e sono fiero di essere chiamato Cristoforo,
portatore di Cristo.
serviziosenso della vitaumiltà
inviato da Antonella Fontana, inserito il 08/12/2009
RACCONTO
106. Una nuvoletta in viaggio 2
In un giorno d'Autunno, il Vento soffiava dispettoso facendo volare le foglie. Una piccola Nuvoletta che stava passeggiando lì vicino, gli disse: "Ciao Vento, posso giocare con te?". Il Vento allora chiese: "Cosa potresti fare? Sai soffiare?". La nuvoletta ci provò: "...fff... fff... no non sono capace", disse sconsolata. Allora il Vento le rispose: "Tu non sei capace di soffiare come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò triste.
Più avanti incontrò l'Estate e il Sole splendeva luminoso nel cielo. Allora si avvicinò e disse: "Ciao Sole, posso giocare con te?". Ma il Sole seccato le rispose: "Non vedi che ti sei messa troppo vicina a me? Mi stai oscurando! Vattene via, tu non sei capace di splendere come me e nemmeno di creare calore!". E la Nuvoletta se ne andò sempre più triste.
Poco più in là c'era l'Inverno e la neve cadeva leggera, così la Nuvoletta si fermò e chiese: "Ciao Neve, posso giocare con te?". La Neve la squadrò dalla testa ai piedi e sussurrò: "Ma tu sei capace di far nevicare?". La nuvoletta ci provò e si sforzò talmente tanto che da grigia divenne nera, ma di Neve niente. "No, non credo di esserne capace", brontolò la nuvoletta emettendo un tuono. "Shhh!", la zittì la Neve, "allora non puoi aiutarmi. Io cado silenziosa, tu sei troppo rumorosa! Tu non sei capace di cadere leggera e coprire il paesaggio come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò ancora più triste.
Ormai era sconsolata, quando trovò la Primavera e sentì qualcuno piangere. Si chinò e vide un piccolo Fiorellino che singhiozzava disperato, allora si avvicinò e gli chiese il perché di tanta tristezza. E il Fiorellino rispose: "Ho sete, sto per morire, puoi aiutarmi?". "Non lo so, io non so fare quasi niente.., non so soffiare come il vento, non so splendere come il sole, non so cadere leggera come la neve, e nessuno mi vuole...". Così dicendo la Nuvoletta si mise a piangere e le sue lacrime diventarono tante gocce di pioggia, che dissetarono il Fiorellino. Da quel giorno la Nuvoletta e il Fiorellino diventarono molto amici e capirono di aver bisogno l'uno dell'altra per essere felici.
inviato da Caterina, inserito il 08/12/2009
TESTO
107. Beatitudini degli sposi 5
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).
Beati voi coniugi, quando siete capaci di fare grandi rinunzie per amore dell'altro; beati voi, quando, consapevoli della vostra inadeguatezza di fronte ai problemi della vita, li deponete insieme ai piedi del Signore.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,4).
Beati voi, quando la prova vi trova uniti, quando la preghiera comune diventa lo strumento per affrontarla, quando vi lasciate illuminare dallo Spirito per gioire e crescere nella conoscenza del progetto di Dio su di voi. La sua consolazione sarà la vostra forza.
Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5,5).
Beati voi, quando non date sfogo alla vostra aggressività, quando abbandonate il linguaggio prepotente dell'offesa e della rivendicazione dei meriti, del giudizio o della spartizione fredda dei compiti e assumete le vesti della mitezza inerme e generosa, della tenerezza ospitale e gratuita, del dono disarmato di voi stessi.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).
Beati voi, quando vi lasciate guidare dalla Parola di Dio per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, quando lo insegnate ai vostri figli, quando desiderate che a tutto il mondo arrivi il messaggio di speranza contenuto nel Vangelo. Beati voi, quando la vostra vita diventa testimonianza viva della Parola che salva.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7).
Beati voi, quando avrete imparato a perdonarvi, ad accettarvi nella vostra debolezza e fragilità, beati voi, quando della crisi fate un momento di crescita personale e comune, quando la vostra riconciliazione diventa pedagogia d'amore per i vostri figli.
Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5,8).
Beati voi sposi, quando sgombrate gli occhi e la mente dalle lusinghe del mondo e guardate a ciò che è essenziale, cercandolo nella Parola di Dio. Beati voi, quando la Parola diventa stile di vita, quando vi riconosceranno discepoli di Cristo, pur restando in silenzio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).
Beati voi, uniti nel Sacro Vincolo del Matrimonio, quando coltivate la pace nelle relazioni all'interno della vostra famiglia, beati voi quando, usciti fuori dell'appartamento, sentite insopprimibile il desiderio di creare ponti, di collegare cuori con l'infinita misericordia di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10).
Beati voi, quando decidete di andare contro corrente e rimanete sordi alle logiche del mondo. Beati voi, quando mostrate la bellezza del progetto di Dio sulla famiglia e lo sostenete con la tenacia e la forza che solo il Signore può dare. Beati voi quando, attaccati da ogni parte, continuate a mostrare la gioia del mattino di Pasqua.
matrimoniosposicoppiafamigliabeatitudini
inviato da Antonietta, inserito il 08/12/2009
TESTO
San Francesco d'Assisi, Ammonizione I, FF 141-145
Il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se aveste conosciuto me, conoscereste anche il Padre mio; ma da ora in poi voi lo conoscete e lo avete veduto." Gli dice Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gesù gli dice: "Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto? Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio" (Gv 14,6-9).
Il Padre abita una luce inaccessibile, e Dio è spirito, e nessuno ha mai visto Dio (cf. 1Tm 6,16; Gv 4,24 e 1,18). Perciò non può essere visto che nello Spirito, poiché è lo Spirito che dà la vita; la carne non giova a nulla (Gv 6,64 Vg). Ma che il Figlio, in ciò in cui è uguale al Padre, non è visto da alcuno in maniera diversa da come si vede il Padre né da come si vede lo Spirito Santo.
Perciò tutti coloro che videro il Signore Gesù secondo l'umanità, ma non videro né credettero, secondo lo Spirito e la divinità, che egli è il vero Figlio di Dio, sono condannati. E così ora tuti quelli che vedono il sacramento, che viene santificato per mezzo delle parole del Signore sopra l'altare nelle mani del sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo Spirito e la divinità, che è veramente il santissimo corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati, perché ne dà testimonianza lo stesso Altissimo, il quale dice: "Questo è il mio corpo e il mio sangue della nuova alleanza (che sarà sparso per molti") (Mc 14,22.24); e ancora: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna" (Gv 6,55 Vg).
E perciò lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e sangue del Signore. Tutti gli altri, che hanno la presunzione di riceverlo senza partecipare dello stesso Spirito, mangiano e bevono "la loro condanna" (cf. 1Cor 11,29). Perciò: "Figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore?" (Sal 4,3) Perché non conoscete la verità e non credete "nel figlio di Dio?" (cf. Gv 9,35).
Ecco, ogni giorno egli si umilia (cf. Fil 2,8), come quando "dalla sede regale" (Sap 18,15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con la vista del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con occhi spirituali, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero. E in tal modo il Signore è sempre con i suoi fedeli, come egli stesso dice: "Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo" (Mt 28,20).
inviato da Antonio Antonucci, inserito il 07/12/2009
PREGHIERA
109. Non vi sono che due amori 2
Non vi sono che due amori, o Signore,
l'amore di me, l'amore di te e degli altri,
ed ogni qualvolta mi amo, è un po' meno di amore per te e per gli altri,
una perdita d'amore,
perché l'amore è fatto per uscire da me e volare verso gli altri.
Ogni qualvolta ripiega su me, intisichisce; marcisce e muore.
L'amore di me, o Signore, è un veleno che sorbisco ogni giorno,
l'amore di me mi offre una sigaretta e non ne dà al mio vicino,
l'amore di me sceglie la parte migliore e tiene il posto migliore,
l'amore di me accarezza i miei sensi e ruba il pane sulla mensa degli altri,
l'amore di me parla di me e mi rende sordo all'altrui parola,
l'amore di me sceglie ed impone la scelta all'amico,
l'amore di me mi traveste e mi trucca, vuol farmi brillare eclissando gli altri;
l'amore di me mi compatisce e trascura la sofferenza altrui,
l'amore di me diffonde le mie idee e disprezza quelle altrui,
l'amore di me mi trova virtuoso, mi chiama persona per bene,
l'amore di me mi incita a guadagnar denaro, a spenderlo per il mio piacere, ad ammucchiarlo per il mio avvenire,
l'amore di me mi suggerisce di dare ai poveri per addormentare la mia coscienza e vivere in pace.
L'amore di me m'infila le pantofole e mi adagia in poltrona,
l'amore di me è soddisfatto di me e mi addormenta dolcemente.
La cosa più grave, o Signore, si è che l'amore di me è un amore rubato.
Era destinato agli altri, ne avevano bisogno per vivere, per perfezionarsi, ed io l'ho distolto.
Così l'amore di me crea la sofferenza umana,
così l'amore degli uomini per loro stessi crea la miseria umana,
tutte le miserie umane,
tutte le sofferenze umane,
la sofferenza del ragazzo che la madre batte senza motivo e quella dell'uomo che il padrone riprende davanti agli operai;
la sofferenza della ragazza brutta abbandonata nel ballo e quella della sposa che il marito non abbraccia più;
la sofferenza del bambino che si lascia a casa perché ingombra e quella del nonno deriso dai bambini perché troppo vecchio;
la sofferenza dell'uomo ansioso che non s'è potuto confidare e quella dell'adolescente inquieto di cui s'è messo in ridicolo il tormento;
la sofferenza del disperato che si butta in acqua e quella del bandito che si sta per fucilare;
la sofferenza del disoccupato che vorrebbe lavorare e quella del lavoratore che rovina la sua salute per una paga irrisoria;
la sofferenza del padre che raduna la famiglia in una sola stanza accanto ad un villino vuoto e quella della mamma i cui bambini hanno fame mentre si buttano via i resti di un banchetto;
la sofferenza di chi muore solo, mentre i famigliari nella stanza vicina attendono il momento fatale prendendo il caffè.
Tutte le sofferenze,
tutte le ingiustizie, le amarezze, le umiliazioni, le pene, gli odi, le disperazioni,
tutte le sofferenze sono una fame non saziata,
una fame di amore.
Così gli uomini hanno edificato, lentamente a forza di egoismi, un mondo snaturato che schiaccia gli uomini;
così gli uomini trascorrono sulla terra il loro tempo a rimpinzarsi del loro amore avvizzito,
mentre attorno ad essi gli altri muoiono di fame tendendo loro le braccia.
Hanno rovinato l'amore,
ho rovinato il tuo amore, o Signore.
Questa sera ti chiedo di aiutarmi ad amare.
Concedimi, o Signore, di spargere l'amore vero nel mondo.
Fa' che per mezzo mio e dei tuoi figli penetri un po' in tutti gli ambienti, in tutte le società, in tutti i sistemi economici e politici, in tutte le leggi, i contratti, i regolamenti;
fa' che penetri gli uffici, le officine, i quartieri, le case, i cine, i balli;
fa' che penetri il cuore degli uomini e che mai io dimentichi che la lotta per un mondo migliore è una lotta di amore, al servizio dell'amore.
Aiutami ad amare, o Signore,
a non sprecare le mie potenze di amore,
ad amarmi sempre meno per sempre più amare gli altri,
affinché attorno a me nessuno soffra o muoia
per aver io rubato l'amore che ad essi occorreva per vivere.
Figliuolo, mai giungerai a mettere amore a sufficienza nel cuore dell'uomo e nel mondo,
perché l'uomo ed il mondo hanno fame di un amore infinito,
e Dio solo può amare di amore senza limiti.
Ma se vuoi, figliuolo, ti do la mia vita.
Prendila in te.
Io ti do il mio cuore, lo dono ai miei figli:
ama col mio cuore, figliuolo,
e tutti insieme sazierete il mondo, e lo salverete.
amoreuomosofferenzaingiustiziapovertàegoismochiusuraaltruismoamore di sé
inviato da Giovanna Martinetti, inserito il 07/12/2009
TESTO
Don Ricciotti Saurino, Canne d'organo
Eppure ero convinto di essere proprio così, mentre leggevo sul display del salumiere il numero precedente al mio, e mi dicevo: "Sono il prossimo!" Anche l'infermiera della sala di attesa del dottore, con aria soddisfatta mi ha detto qualche volta: "Lei è il prossimo!" Perfino negli uffici pubblici all'invito "avanti il prossimo" mi hanno riconosciuto come tale.
Ora in chiesa, dove siamo tutti fratelli, mi sento decisamente rispedito in coda alla fila.
A nulla vale esibire il biglietto con il numero alto di frequenze, essere arrivato in anticipo ad ogni suono di campana, dimostrare di aver occupato per trenta anni il solito posto, portare la testimonianza delle persone alle quali ho stretto la mano migliaia di volte al segno della pace. Mi sento dire: "Non sei prossimo!"
Grido all'ingiustizia e preferisco la fila dal salumiere e quella nella sala di attesa dove è riconosciuto il mio diritto.
Oso chiedere qualche chiarimento e qualcuno mi dice che i numeri progressivi sono stati aboliti da tempo e le unità di misura tradizionali, in metri e centimetri, non erano affidabili e precisi per tale valutazione.
Come al solito - penso - la simpatia e l'arbitrio di qualcuno dichiara volta per volta chi è il prossimo.
Avrei dovuto scegliermi un valido compagno di viaggio e stargli vicino. Forse una persona in vista o forse proprio il sacerdote, ma mi dicono che anche questo sistema non garantisce nulla, neppure la vicinanza fisica ti assicura la "prossimità" evangelica.
Eppure i nuovi banchi della chiesa splendono grazie al mio olio, l'organo suona una musica esaltata dal mio vino e persino la vetrata raffigurante il buon samaritano si è realizzata per il pronto intervento della mia borsa. Dove arrivo io si capovolgono le cose, difatti ho sentito dire con ironia che semmai posso ritenermi prossimo alla canna d'organo, al banco o alla vetrata.
Che disdetta, in una chiesa affollata sono prossimo alla canna dell'organo, equidistante dalle altre, sempre presente e indipendente... Ma io voglio essere prossimo di qualcuno, perché a costui sarà affidata l'ultima arringa in mio favore davanti al trono di Dio!
Ho sbirciato sul foglietto della domenica che bisogna prendersi cura, portare a cuore una persona, se vuoi essere prossimo.
Mi sono girato intorno per vedere se ci fosse qualcuno che ho preso a cuore. Ho scrutato tutti i volti presenti, ma, tranne qualche simpatia, non ne ho trovato uno del quale mi sarei preso cura.
Con la mente ho vagato all'esterno della Chiesa, sono entrato nelle case di persone amiche e non ho trovato uno per il quale fossi disposto a pagare di persona. Ho fatto restaurare le canne dell'organo, ma non ho trovato una persona alla quale avrei restaurato la vita.
In verità occasioni non sono mancate, ma sinceramente... una volta ho ritenuto non fosse mia competenza, un'altra non ne valeva la pena, un'altra ancora non era il momento, e poi... non se lo meritava, pensavo che mentisse, se fosse stato un altro... e così ho dribblato coraggiosamente fino ad oggi.
Ora bisogna che mi dia da fare, - mi sono detto - e ho scelto un gruppo di volontari che non restaurano chiese, ma persone. Anche tra questi è stata forte la tentazione di farlo per vantarmene con gli amici, con i colleghi e qualche volta mi è sorto il dubbio se lo facessi per me stesso o perché veramente portavo a cuore il bisogno dell'altro.
Ho cominciato ad amarlo disinteressatamente, profondendo non solo le mie energie, ma anche le mie risorse e solo allora ho capito di essere prossimo quando non sono più riuscito a misurare la distanza, perché più che vicino alle mie braccia, era vicino al mio cuore. E' proprio vero che l'unità di misura della vicinanza del prossimo non è il metro: non posso misurare ciò che fa parte della mia vita, ciò che è dentro il mio cuore.
Ho scoperto anche che si può essere prossimo del lontano e senza mai averlo conosciuto: ho seguito un missionario, un seminarista. Se ogni cristiano avesse il suo prossimo staremmo meglio tutti, uniti da una catena di solidarietà.
Voglio farmi prossimo a qualcuno e ciò mi basta, se poi qualcuno vuole avermi a cuore, la cosa non può che farmi piacere.
Ho deciso, non restauro più canne d'organo, è meglio restaurare il mantice che le fa vivere, vibrare e suonare.
inserito il 06/12/2009
ESPERIENZA
111. Consigli per avvicinarsi all'ammalato
Questo non vuole essere un prontuario o delle istruzioni all'uso, ma dei semplici consigli che ognuno deve interiorizzare e portare nel cuore. Per capire gli ammalati bisogna mettersi al loro posto: cosa molto difficile. Se però non ti sforzerai di farlo, sarà inutile tentare di comunicare con loro. Dire che Dio ama gli ammalati è una cosa molto graziosa e anche vera. Non è l'amore di Dio che devi portare al malato ma il tuo e per questo non bastano solo le parole. Dio non è una persona che va o che viene, lui è fedele e resta. Sarà percepito più o meno dalle condizioni in cui si trova l'ammalato e non solo quelle fisiche. Sforzarti di aiutare l'ammalato su un piano umano e in modo umano: Dio si manifesterà a suo tempo, i tempi di Dio non sono i tempi dell'uomo. Riempiti di Dio e poi va' dagli ammalati come se esistessero solo loro, così senza che per te sia uno scopo primario, sarai strumento dell'amore di Dio.
Ama gli ammalati, ma non farlo solo in riferimento a Dio: amali per se stessi, in se stessi. Coloro che si occupano degli ammalati soltanto per amor di Dio e con una certa freddezza professionale nei loro comportamenti, fanno pensare che gli ammalati siano per loro solo dei modi per proseguire la propria santificazione. Il miglior aiuto che puoi dare ad un ammalato è di aiutarli a ritrovare se stessi. Il tuo deve essere un rapporto d'amore su una base reale, non menzognera o fittizia: sarebbe come costruire sulla sabbia. Anche se il malato ha perso molto, gli rimane sempre qualche cosa, su questo qualche cosa si tratta di costruire con la fede e l'esperienza sorretta dall'amore. Il dolore affina la sensibilità e, se loro vedranno in te, la semplicità, la delicatezza dell'amore di Dio, ti racconteranno la loro storia. Non fare domande, non limitarti a sentire, ascolta con il cuore: sarai sempre tu a ricevere qualcosa. Forse ti sentirai impotente a rimuovere il peso che portano, ma nel loro cuore l'avrai alleggerito sicuramente. Il malato. l'handicappato, non vogliono pietismo. Non chiederti: cosa posso dire, ma sorridi, sii sempre ottimista, allegro, non esiste un ponte più sicuro di una bocca sorridente e anche nei momenti di dolore più acuto e di disperazione più profonda ci sarà uno spiraglio per lasciar passare la speranza e un solco per seminare la gioia. Può essere che il dolore unisca a Dio più che la gioia: limitati a suggerirlo, non con le parole, immagini o sentimenti, ma con il tuo esempio. Qualche volta sarà necessario venire incontro alle loro necessità materiali, far loro qualche dono. E Cristo che ha bisogno di te, vuole che tu doni te stesso come lui si è donato a noi e si dona a noi tutti i giorni senza chiedere nulla in cambio: solo Amore.
amoremalattiamalatoassistenzagratuitàamore di Diosolidarietà
inviato da Forner Fortunato Babbo Lupo, inserito il 06/12/2009
RACCONTO
112. Dove finirono l'oro, l'incenso e la mirra? 2
Bruno Ferrero, Storie di Natale
Anche se non lo davano a vedere, i più eccitati erano l'asino e il bue. Non riuscivano ad addormentarsi. Quella notte e quella giornata erano state meravigliosamente caotiche: la nascita del bambino, gli angeli, i pastori, la stella e poi l'arrivo dei tre re con i manti di stoffe ricamate e le pellicce e i loro strani quadrupedi con la gobba. E soprattutto il luccichio degli scrigni che racchiudevano i doni portati dai tre re. Li avevano ammirati tutti e ora stavano là, abbandonati sulla paglia, mentre la donna cullava dolcemente il bambino e l'uomo dalle mani grandi e forti attizzava il fuoco e porgeva un po' di fieno alle due bestie.
Tra le fessure sconnesse della baracca, altri due occhi fissavano eccitati i doni dei re. Erano occhi pieni di ingenua astuzia. Non avevano perso un solo attimo della giornata e ora osservavano con interesse il primo sbadiglio di stanchezza fiorito sulla bocca dell'uomo. Erano gli occhi di Disma, il più bravo dei ladruncoli di Betlemme, agile e svelto come un furetto.
Il bambino si addormentò per primo, poi la madre si assopì sul mucchio di paglia che l'uomo aveva preparato e rassettato. L'uomo aspettò che il fuoco si spegnesse, poi si abbandonò anche lui sulla paglia con un sospiro di stanchezza e si addormentò. L'asino e il bue lo imitarono. Un silenzio profondo avvolse la baracca.
Un fagotto tintinnante
Disma scivolò nell'ombra e si avvicinò alla porta. Era sbarrata da un robusto paletto. Non poteva scardinarla: avrebbe svegliato tutti. Esaminò le pareti, sfiorandole con la mano. Un' assicella si mosse. Disma intuì che poteva allargare la fessura quel tanto che bastava per permettergli di infilarsi dentro la vecchia stalla. Con consumata abilità, il ragazzo spostò l'asse cercando di non farlo cigolare e si infilò nel varco con le movenze sinuose di un gatto.
Si mosse leggero, cercando di abituare gli occhi all'oscurità. I tre scrigni erano sotto la culla improvvisata del bambino, illuminati dall'ultimo bagliore delle braci del fuoco.
Il bue sbuffò nel sonno e l'asino scalciò nella paglia. Sognavano anche loro. Disma trattenne il fiato, immobile. Nella stalla i respiri ripresero regolari.
Il ragazzo si mosse rapidamente. Afferrò i tre scrigni e li infilò nella bisaccia di tela che portava a tracolla. Diede un'occhiata al bambino e gli parve di vedere sul suo piccolo viso un sorriso, scosse le spalle e uscì dalla fessura che aveva aperto. Quando fu fuori della stalla, sorridendo rimise a posto l'assicella che aveva spostato per entrare, poi si allontanò di corsa. Faceva grandi balzi di gioia, tenendo con le due mani il fagotto tintinnante della refurtiva. Ripassava a memoria il contenuto e pensava eccitato alla bella somma che ne avrebbe ricavato. Il più grosso degli scrigni conteneva monili, bracciali e monete d'oro, il secondo era pieno di purissimo incenso e il terzo conteneva una fiala di preziosissima mirra. Un colpo di fortuna incredibile. Doveva solo essere prudente e nascondere tutto bene. Il mondo era pieno di ladri.
La sorpresa
Entrò in casa dal tetto, come faceva di solito. Non aveva né padre né madre e il vecchio parente che lo teneva in casa non si curava di lui.
Nella sua stanzetta, sotto il pavimento ricoperto di paglia, Disma aveva scavato una nicchia in cui nascondeva le sue cose preziose.
«Terrò nascosti per qualche mese l'oro, l'incenso e la mirra. Poi li venderò un poco alla volta, a Gerusalemme o anche a Damasco, dove non desterà sospetti...» pensava.
Accese una lampada ad olio finemente incisa che proveniva dall'atrio della casa del centurione romano, che la stava ancora cercando, ed esaminò il bottino. Aprì con cautela il primo scrigno e non riuscì a trattenere un'imprecazione stizzita: «Ma che diavolo è successo?». Spalancò con furia gli altri due astucci, guardò, annusò e poi imprecò ancora più rabbiosamente. Qualcuno gli aveva giocato uno scherzo terribile. Forse quell'uomo era molto più furbo di quanto desse a vedere. Invece dell'oro, lo scrigno conteneva un grosso martello, al posto dell'incenso c'erano tre grossi chiodi e la bottiglietta, invece della mirra raffinata, conteneva volgare aceto.
«Accidenti, accidenti! Che me ne faccio di questa robaccia? La rifilerò ai soldati romani per qualche moneta...».
Tre croci
Passarono gli anni. Disma era diventato il più ricco e sfrontato predone del deserto. I suoi uomini compivano razzie nelle più ricche città d'Oriente e l'esercito di Roma era stato costretto più volte a scendere a patti con lui. Ma un giorno, arrivò da Roma un governatore ambizioso di nome Ponzio Pilato che, per fare carriera e ingraziarsi i notabili di Gerusalemme, decise di catturare Disma. Ci riuscì con un tranello e Disma fu condannato alla pena più terribile ed infamante: la morte mediante crocifissione.
Erano in tre a salire sul Golgota, il luogo delle condanne, poco fuori Gerusalemme, dove erano state preparate tre croci. Disma conosceva il vecchio brigante legato con lui, ma non riusciva a spiegarsi il terzo condannato. Aveva il volto nobile e pieno di bontà, anche sotto i segni della tortura. Dicevano che era un profeta di Galilea di nome Gesù, che faceva miracoli, che era stato condannato perché si era proclamato Figlio di Dio e Messia.
Gli occhi gelidi e feroci di Disma si incontrarono con quelli del terzo condannato. Per il bandito tutto divenne stranamente diverso: la sua rabbia feroce svanì e si sentì stranamente in pace.
Il boia cominciò il suo miserabile compito con il profeta galileo: impugnò un grosso martello e tre grossi chiodi, mentre un soldato inzuppava una spugna di aceto. Improvvisamente Disma capì: eccoli i doni dei re che lui aveva rubato tanti anni prima in una stalla di Betlemme, dove c'erano un uomo e una madre e un bambino. Quel bambino era il Messia! Quindi anche lui aveva contribuito a crocifiggere il Figlio di Dio... Con le lacrime agli occhi, Disma sentì che Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
Con la solita insensibilità, i soldati si misero a litigare per dividersi le vesti dei condannati. Quando le tre croci furono innalzate con il loro carico di dolore, la gente cominciò a farsi beffe dei condannati. Si accanivano particolarmente contro Gesù. I capi del popolo lo schernivano: «Ha salvato tanti altri, ora salvi se stesso, se egli è veramente il Messia scelto da Dio». Anche i soldati lo schernivano: si avvicinavano a Gesù, gli davano da bere aceto e gli dicevano: «Se tu sei davvero il re dei Giudei salva te stesso!».
L'altro bandito crocifisso si era unito agli schernitori e insultava Gesù: «Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!». Disma lo rimproverò con asprezza: «Tu che stai subendo la stessa condanna non hai proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male».
Poi aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno».
Gli occhi del Messia torturato e morente guardarono Disma con bontà infinita, poi il feroce bandito udì le parole più belle e amorevoli di tutta la sua vita disperata: «Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso».
inviato da Patrizia Traverso, inserito il 24/11/2009
RACCONTO
In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: - La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica! - rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera - rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: «Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me».
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
natalesolidarietàgratuitàriconoscere Dio
inviato da Qumran2, inserito il 24/11/2009
PREGHIERA
Signore,
con questa preghiera vogliamo ringraziarti per il regalo più bello che ci hai fatto.
Dopo le stelle nel cielo di notte, la luce e il calore del sole germe di vita, la profondità degli oceani,
l'armonia del canto degli uccelli, i mille colori del mondo, il profumo dei fiori più rari,
la vastità dell'orizzonte lontano...
dopo tutto questo, hai dato ad ognuno di noi un pezzetto del tuo cuore:
l'amore della mamma.
Lei ci tiene sotto al suo cuore per nove mesi già con tanto amore.
Mamma,
è la prima parola che ogni figlio del cielo pronuncia
e l'ultima che ogni figlio sussurra prima che al cielo torni.
Quando la pronunciamo per la prima volta ancora non ne conosciamo il senso,
ma sorridiamo quando lei si avvicina.
Mamma,
sei l'unica al mondo che dona tutto senza chiedere nulla
come Gesù, sai soltanto amare.
Sei la nostra ancora di salvezza, lo spiraglio di luce in mezzo a un cielo scuro,
un guerriero pieno d'amore che combatte per noi, una dolce melodia che consola il dolore,
la spinta giusta per scavalcare ogni barriera,
sei il riparo dal freddo e dalle tempeste, il camino che nelle notti gelide riscalda il cuore.
Sei l'angelo custode della nostra esistenza.
Un angelo al quale il Signore ha donato un corpo e un anima
e ti ha avvolta nel fuoco dello Spirito Santo per esserne sempre illuminata.
Ci accompagni per le ripide strade della vita,
schiarendoci il cammino col bagliore dei tuoi sorrisi carichi di un amore eterno ed immortale
e ci segui passo dopo passo col tuo cuore,
anche quando cominciamo a volare da soli.
Ci hai dato la luce, tu, che la luce sei.
Ci dai sicurezza con la tua dolcezza, serenità con la tua bontà,
stabilità con il tuo amore per il papà, l'unica che sa adorare i nostri difetti
e il tuo saper perdonare ci insegna ad amare.
Vivi in simbiosi con noi nei pensieri, ci vedi anche se ci nascondiamo,
ci senti anche se stiamo zitti, in segreto asciughi le nostre lacrime,
incoraggi i nostri passi, correggi i nostri errori,
e ci consoli quando siamo inconsolabili.
Sei l'arbitro indiscusso della difficile partita della vita di ogni figlio.
Ci insegni ad essere migliori, non i migliori.
In ogni tuo respiro, sguardo, sorriso, in ogni tuo gesto si legge sempre una grande felicità dell'essere mamma,
la mamma di figli come noi, forti o fragili, belli o brutti, bravi o stolti, sani o malati,
in ogni angolo di te si legge che siamo il tuo bene più prezioso,
pur sapendo che non siamo di tua proprietà.
Mamma,
non ci siamo scelti
ma Dio ti scelse per ognuno di noi perché voleva anticiparci il Paradiso.
Sei il filo sottile dell'immortalità, che lega lo spirito al corpo.
Come il Signore, anche tu operi il mistero della creazione.
Sei la serva fedele al progetto di Dio.
Nel suo progetto d'amore per te c'eravamo noi,
nel suo progetto di vita per noi
c'eri tu.
In questo momento della Santa Comunione vogliamo ringraziare il Signore,
per questo dono inestimabile,
e pregare lo Spirito Santo, che in te li ha risposti tutti i suoi sette doni,
perché ogni figlio sappia sempre curarlo e custodirlo come merita.
Amen
inviato da Liana Paciaroni, inserito il 21/11/2009
RACCONTO
115. La ranocchia che non sapeva di essere cotta 2
Immaginate una pentola piena d'acqua fredda in cui nuota tranquillamente una piccola ranocchia. Un piccolo fuoco è acceso sotto la pentola e l'acqua si riscalda molto lentamente. L'acqua piano piano diventa tiepida e la ranocchia, trovando ciò piuttosto gradevole, continua a nuotare. La temperatura dell'acqua continua a salire. Ora l'acqua è calda, più di quanto la ranocchia possa apprezzare, si sente un po' affaticata, ma ciò nonostante non si spaventa.
Ora l'acqua è veramente calda e la ranocchia comincia a trovare ciò sgradevole, ma è molto indebolita, allora sopporta e non fa nulla. La temperatura continua a salire, fino a quando la ranocchia finisce semplicemente per cuocere e morire.
Se la stessa ranocchia fosse stata buttata direttamente nell'acqua a 50 gradi, con un colpo di zampe sarebbe immediatamente saltata fuori dalla pentola.
Ciò dimostra che, quando un cambiamento avviene in un modo sufficientemente lento, sfugge alla coscienza e non suscita nella maggior parte dei casi alcuna reazione, alcuna opposizione, alcuna rivolta.
Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da qualche decennio possiamo vedere che stiamo subendo una lenta deriva alla quale ci stiamo abituando. Una quantità di cose che avrebbero fatto inorridire 20, 30 o 40 anni fa, sono state poco a poco banalizzate e oggi disturbano appena o lasciano addirittura completamente indifferente la maggior parte delle persone.
Nel nome del progresso, della scienza e del profitto si effettuano continui attacchi alle libertà individuali, alla dignità, all'integrità della natura, alla bellezza e alla gioia di vivere, lentamente ma inesorabilmente, con la costante complicità delle vittime, inconsapevoli o ormai incapaci di difendersi. Le nere previsioni per il nostro futuro, invece di suscitare reazioni e misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente la gente ad accettare delle condizioni di vita decadenti, anzi drammatiche. Il martellamento continuo di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non sono più in grado di distinguere le cose...
Quando ho parlato di queste cose per la prima volta, era per un domani. Ora è per oggi! Coscienza o cottura, bisogna scegliere! Allora se non siete, come la ranocchia, già mezzi cotti, date un salutare colpo di zampe, prima che sia troppo tardi.
coscienzaconsapevolezzacambiamentoconversionevigilanza
inviato da Peppo, inserito il 02/11/2009
RACCONTO
116. Se Gesù bussasse alla porta di casa... 5
C'era una volta un paese qualunque, in un posto qualunque, abitato da gente qualunque, che viveva una vita qualunque. Vi accadevano cose belle e cose brutte, come in tutti i paesi qualunque; era un paese dove la vita scorreva apparentemente tranquilla, presa dalle cose di tutti i giorni.
La gente di quel paese qualunque, però, non era poi tanto "qualunque"; infatti era l'erede nientemeno che di un Regno, annunciato tanti secoli prima da un grande Re, il cui nome era Gesù Cristo, sceso dal suo Regno celeste per insegnare agli uomini il modo per entrarci e diventare, così, suoi coeredi. Egli, nel suo soggiorno terrestre, con i suoi discorsi ed il suo comportamento, aveva stravolto le idee umane di Regno, riferite per lo più alla potenza, alla forza, al dominio, spesso al terrore e alla dominazione; aveva invece parlato di pace, amore, fratellanza, uguaglianza, tolleranza, carità. Per aver parlato di ciò, fu crocifisso dagli uomini e furono perseguitati pure i suoi apostoli e i suoi seguaci, chiamati Cristiani. L'annuncio del suo Regno, però, non si interruppe mai, continuò fino ai giorni nostri, giungendo anche in quel paese qualunque, in cui viveva un apostolo qualunque, responsabile della continuazione dell'annuncio e della vita evangelica dei cristiani.
Da tempo, il pastore di quella comunità si era accorto che qualcosa non andava per il suo verso. I Cristiani che frequentavano la chiesa non erano molti, i bambini addirittura pochissimi, le cose di questo mondo stavano prendendo il posto dell'aspettativa del Regno, anche se, a onor del vero, la gente era buona, faceva i fatti suoi, non faceva parlare di sé. Quel pastore, invece, voleva qualcosa di più: voleva realizzare il Regno già quaggiù, facendo sì che nel suo paese qualunque, con la sua gente qualunque, con un apostolo qualunque si compisse quanto il Re Gesù Cristo aveva chiesto agli uomini per avere la sua eredità eterna:"amatevi l'un l'altro come io ho amato voi!"
Un giorno, nel corso di una funzione religiosa, il pastore iniziò il suo sermone così: "Cari fratelli, care sorelle, questa notte ho avuto una visione...".
Un bisbiglio serpeggiò tra i fedeli. "Ha avuto una visione! Che sarà mai?".
"Una visione bellissima", continuò l'apostolo, "ho visto Gesù in tutto il suo splendore!".
"Ha visto Gesù....ma, sarà vero?". "Il nostro apostolo ha visto Gesù!!!". Il brusio tra i fedeli era ormai incontrollabile, mentre tutti tenevano gli occhi incollati al volto dell'Uomo di Dio, in attesa del seguito del suo discorso.
"E' vero, pare impossibile anche a me, umile apostolo, che Gesù si sia degnato di apparirmi, ma è proprio così: Gesù è venuto da me e mi ha lasciato un messaggio per noi tutti, me compreso".
"Un messaggio, anche per noi? E che sarà mai"? si chiedeva la gente, ormai in preda ad una grande curiosità, mista ad un po' di ansia.
"Gesù mi ha detto che la prossima settimana visiterà tutte le case del nostro paese, compresa la mia naturalmente, senza preavviso, e si nasconderà nelle spoglie delle persone, di qualunque persona, può essere la nonna, il figlio, il marito, la moglie, un forestiero, insomma, può essere proprio qualunque sta intorno a noi, capito? Adesso andatevene, raccontate quanto vi ho detto anche a chi non viene in chiesa e sappiate comportarvi di conseguenza. Ricordatevi che Gesù guarda soprattutto se mettete in pratica il suo insegnamento:"Ama gli altri come te stesso".
Potete immaginare il chiacchiericcio e l'emozione della gente all'uscita dalla chiesa. La voce dell'arrivo di Gesù si sparse in un battibaleno in tutto il paese, ne varcò i confini e arrivò in città, e subito reporter dei più famosi giornali e delle stazioni televisive invasero il paese qualunque, insediandosi nei pochi hotel disponibili ed assediandolo con camper, antenne e quant'altro.
Venne il lunedì, e ogni persona del paese passò la giornata a guardarsi intorno, a fissare gli altri con occhi terribilmente fissi, quasi per scorgere, sotto le loro sembianze, la parvenza della presenza di Gesù. Fu una giornata di nervosismo, di scatti repentini, di risposte poco gentili, insomma, fu una giornata poco... "caritatevole". Durante la notte, però, le persone, in un dormiveglia ansioso, ebbero modo di riflettere sul loro comportamento e capirono che non avevano messo per niente in pratica l'insegnamento di Gesù. "Se per caso era in una delle persone che ho incontrato oggi, mamma mia, che figura ho fatto!!!! Domani starò più attento".
Intanto, i giornalisti, la sera del lunedì fecero sapere a mezzo mondo che la venuta di Gesù tra la gente del paese qualunque aveva fatto schizzare i nervi a tutti e le cose erano peggiorate rispetto a prima, ne sapeva qualcosa uno di loro, che era addirittura stato malmenato per aver calpestato le aiuole di un bel giardino, mentre tentava di riprendere una lite famigliare dietro una finestra.
Venne il martedì e il detto "la notte porta consiglio" fu quanto mai veritiero.
La signora Maria, uscita per fare la spesa di buon mattino, incrociò la signora Bice. Come sempre, le venne istintivo di tirare dritto voltando la faccia dall'altra parte (aveva sparlato di lei con la sua amica più cara, quella strega!), ma le balenò il pensiero: "E se è Gesù? Non posso non salutarlo!", e per la prima volta, dopo dieci mesi, le disse, se pur tra i denti: "Buona giornata, Bice!".
La Bice, che era ben peperina, stava per non rispondere al saluto, ma pensò: "E se è Gesù?". Mai avrebbe rinunciato a salutare Gesù, per cui disse sorridendo: "Cara Maria, buona giornata anche a te!!!". E sentirono tutte e due un gran peso che se ne andava e una gran gioia che le rallegrava.
L'infermiera Tina, raggiunto il suo reparto, ne trovò di tutti i colori: si innervosì, rispose alla caposala, stava per adirarsi con un malato difficile quando un pensiero le balenò improvviso: "E se Gesù si fosse nascosto in qualcuna di queste persone? Ma guarda, non ci avevo pensato!". Immediatamente cambiò il proprio atteggiamento, diventò gentile ed affabile con tutti e, di conseguenza, tutti diventarono gentili con lei.
"Mamma, guarda che disegno ho fatto!". "Piantala, che devo vedere la puntata di Demiful...!", rispose secca la donna. Pian piano, però, affiorò nella sua mente un dubbio: "E se Gesù si è nascosto in mio figlio"?. Immediatamente, spense la televisione, rinunciando per la prima volta alla sua telenovela preferita, e chiamò il figlio.
Di giorno in giorno, nel paese qualunque, tra quella gente qualunque, si diffuse in modo dirompente la consapevolezza che il Cristo Re poteva nascondersi nelle spoglie di qualunque persona, chiunque poteva essere Gesù e, di conseguenza, il comportamento di ognuno cambiò: le parole gentili sostituirono gli improperi, ogni persona fu guardata con occhi nuovi, con amore, con più rispetto, i mariti ebbero più riguardo per le mogli, le mogli si sforzarono di capire più profondamente i mariti, i genitori dedicarono più tempo ai figli, gli anziani furono apprezzati per la loro esperienza, i malati furono accuditi con amore e gentilezza, i forestieri furono accolti con disponibilità.
I giornalisti, come sempre pronti a cogliere le minime manifestazioni che facessero notizia, constatarono un crescendo di atteggiamenti positivi: l'armonia si poteva toccare con mano, gli sforzi per migliorare i rapporti con gli altri erano palpabili, insomma, sembrava un paese nuovo, Regno di pace, d'amore, il Regno in terra del Re Gesù Cristo. La notizia positiva si diffuse in mezzo mondo e ogni paese cercò di copiare la ricetta dell'Amore, con la consapevolezza, finalmente, che Gesù è in ogni uomo ed applicando quanto Egli ci disse: "Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avrete fatto a me".
Ed è così che il pastore qualunque della gente qualunque del paese qualunque riuscì a realizzare sulla terra il Regno di Dio, obbedendo alla richiesta che recitiamo sempre nel Padre Nostro: "Venga il tuo regno!".
E nascendo la PACE in ogni cuore, nacque la pace in tutta la terra!
regno di DiopaceamorefratellanzaGesùCristo Recarità
inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 13/09/2009
ESPERIENZA
Quand'ero al mare, a me piacevano le lunghe passeggiate lungo la spiaggia, particolarmente se in autunno o in primavera.
Spesso incontravo Olindo, detto "il pescatore". Lo ricordo seduto sulla sponda della sua barca, nell'atteggiamento di chi conversa con gli amici, mentre riassetta la sua rete da pesca. Raramente lo vedevo nell'atto di buttare la rete in mare, né in quello di ritirarla in barca. Eppure, nel suo mercatino che teneva in piazza, non mancava mai il pesce che era sempre fresco e abbondante.
Un giorno lo vidi come sempre in atto di cucire le reti. Mi decisi di fargli quella domanda che altre volte passando volevo rivolgergli: "Come mai ti vedo sempre a riassettare le reti? Quando vai a pescare? Quanto tempo dedichi alla pesca e quanto al riassetto della rete?".
"Ovviamente pesco qualche ora e di notte - mi rispose con la pacatezza propria del pescatore - Anni fa', inesperto com'ero, passavo lunghe ore in barca per la pesca... che non mi rendeva come ora. Avevo troppa fretta di prendere il pesce e non mi curavo della rete, né mi concedevo il tempo di aggiustarla. Il pesce era abbondante, entrava in rete, ma mi scappava quasi tutto attraverso le smagliature. Ora l'esperienza mi ha insegnato che ogni giorno, prima di uscire per la pesca, è importante e prezioso il tempo che dedico a cucire gli strappi. Esco in mare con una rete buona e corredata con l'attrazione di una lampara. Bastano poche ore per prendere il pesce che ti è necessario. Ecco perché vedi che la maggior parte del mio tempo la dedico a cucire e a vendere. Proprio questa mattina ho incontrato l'amico Giulio, responsabile d'una comunità. Vedendomi intento a cucire con pazienza, mi disse: Bravo Olindo, il tuo è un lavoro molto prezioso. Sei un bravo pescatore, perché sei un pescatore «sarto»".
Per una pescagione abbondante, è importante saper "cucire", "perdere" il tempo necessario a riassettare le smagliature della propria vita, perdonandosi e perdonando precisamente "settanta volte sette". È la condizione indispensabile per avere Gesù stesso in barca. È lui la luce che attira. Con lui la pesca risulta sicuramente miracolosa.
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inviato da Bianca Biscardi, inserito il 09/08/2009
TESTO
Tonino Bello, Alle porte del regno
Ce l'hanno spiegata con mille sfumature, e vien quasi da pensare che ogni biblista abbia un suo modo di leggere questa pagina delle beatitudini: l'unica che vorremmo salvare, se di tutti i libri della terra si dovesse sottrarre all'incendio solo il Vangelo e di tutto il Vangelo si dovesse preservare dalle fiamme soltanto una sequenza di venti righe.
Si intuisce subito che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse ultraterrene.
Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita, senza essere riusciti mai ad afferrare per intero. Fanno riferimento a quel senso di benessere pieno di gioia totalizzante che esiste solo nei nostri sogni. Traducono, come nessun altro frasario umano, le nostre nostalgie di futuro, e ci proiettano verso quei cieli nuovi e terre nuove in cui la settimana si accorcia a tal punto da conoscere solo il sabato eterno.
Imprigionano il "non ancora" - sempre abbozzato e mai esploso pienamente - di quel "risus paschalis" che ora sperimentiamo solo nella smorfia delle nostre troppo rapide convulsioni di letizia per cedere subito il posto all'amarezza del pianto.
Non ci vuol molto a capire, insomma, che sotto queste sentenze veloci del discorso della montagna c'è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso "regno dei cieli", la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Sì, Gesù vuol dare una risposta all'istanza primordiale che ci assedia l'anima da sempre. Noi siamo fatti per essere felici. La gioia è la nostra vocazione. E' l'unico progetto, dai nettissimi contorni, che Dio ha disegnato per l'uomo. Una gioia raggiungibile, vera, non frutto di fabulazioni fantastiche, e neppure proiezione utopica del nostro decadentismo spirituale.
Beati: provocazione all'impegno
Che cosa significhi il termine "beati" è difficile spiegarlo.
C'è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole del Signore per utilizzarle a scopi di imbonimento sociale. Quasi Gesù avesse inteso dire: state buoni, poveri, perché la misura della vostra felicità futura sarà inversamente proporzionale alla misura della vostra felicità presente. Anzi, quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell'altra.
E' questo un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all'inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe dei beni del cielo, contribuisce a mantenere in vigore un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi dal momento che a costoro, proprio per mezzo delle lacrime, viene offerto il prezzo per potersi pagare, in contanti, il regno di Dio. C'è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati... per sostenerli con la speranza dei beni del cielo. Quasi Gesù avesse inteso dire: se a un certo punto vi sentite sfiniti per le ingiustizie che patite, tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Guardate a quel che vi toccherà un giorno, e questo miraggio di beatitudine vi spronerà a camminare, così come il desiderio del riposo accelera e sostiene i passi di chi, stanchissimo, sta tornando verso casa.
Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma pur sempre alienante e banale. Perché punta sull'idea della compensazione. Perché con la lusinga della meta, non spinge la gente a mutare le condizioni della strada. Perché se non proprio a rassegnarsi, induce a relativizzare la lotta, ad arrendersi senza troppa resistenza, a vedere i segni della ineluttabilità perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana e a leggere i soprusi dell'uomo come causa di forza maggiore.
E c'è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Che consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane, come per dire: complimenti, c'è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano, tant'è che i primi assegnatari delle case del regno siete voi che dormite sui marciapiedi, e i primi a cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi che ora avete fame.
Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti o dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie ma vi assicura i primi posti nella classifica generale dei meriti.
Auguri a tutti voi che state sperimentando l'amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c'è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.
Rallegratevi voi che, in un mondo sporco di doppi sensi e sovraccarico di ambiguità camminate con cuore incontaminato, seguendo una logica che appare spesso in ribasso nella borsa valori della vita terrena ma che sarà un giorno la logica vincente.
Su con la vita voi che, sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile anche sulla terra: non lasciatevi scoraggiare dal sorriso dei benpensanti, perché Dio stesso avalla la vostra testardaggine.
Gioia a voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto!
Perché di essi sarà...
Il significato preciso della parola "beati", comunque, lasciamolo spiegare agli studiosi. Così pure lasciamo agli studiosi la fatica di spiegarci il significato dei destinatari delle beatitudini.
Se i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli oppressi, gli operatori di pace... siano categorie distinte di persone o variabili dell'unica categoria dei "poveri", ci interessa fino a un certo punto.
E neppure ci interessa molto sapere se i poveri "in spirito" siano una sottospecie aristocratica di miserabili o coincidano con quei poveri banalissimi che ci troviamo ogni giorno tra i piedi.
Tre cose, comunque, ci sembra di poter dire con sicurezza.
Anzitutto, che il discorso delle beatitudini ha a che fare col discorso della felicità. Non solo perché sembra quasi che ci presenti le uniche porte attraverso le quali è possibile accedere nello stadio del regno.
Sicché chi vuole entrare nella "gioia" per realizzare l'anelito più profondo che ha sepolto nel cuore, deve necessariamente passare per una di quelle nove porte: non ci sono altri ingressi consentiti nella dimora della felicità Ma anche perché la croce, la sofferenza umana, la sconfitta... vengono presentate come partecipazione all'esperienza pasquale di Cristo che, attraverso la morte, è entrato nella gloria.
E allora; se il primo titolare delle beatitudini è lui, se è il Cristo l'archetipo sul quale si modellano tutti i suoi seguaci, è chiaro che il dolore dei discepoli, come quello del maestro, è già contagiato di gaudio, il limite racchiude in germe i sapori della pienezza, e la morte profuma di risurrezione!
La seconda cosa che ci sembra di poter affermare è che, in fondo, queste porte, pur differenti per forma, sono strutturate sul medesimo telaio architettonico, che è il telaio della povertà biblica. A coloro che fanno affidamento nel Signore, e investono sulla sua volontà tutte le "chances" della loro realizzazione umana, viene garantita la felicità da una cerniera espressiva che non lascia dubbi interpretativi: "...perché di essi sarà..."
Quel "...perché di essi sarà..." rappresenta il titolo giuridico di possesso incontestabile, che garantisce tutti i poveri nel diritto nativo di avere non solo la "legittima" ma l'intero asse patrimoniale del regno. E' un passaggio indicatore di una disposizione testamentaria così chiara che nessuno può avere il coraggio di impugnare. E', insomma, il timbro a secco che autentica in modo indiscutibile il contenuto di uno straordinario rogito notarile.
La terza cosa che possiamo dire è che, se vogliamo avere parte all'eredità del regno, o dobbiamo diventare poveri, o, almeno, i poveri dobbiamo tenerceli buoni, perché un giorno si ricordino di noi.
Insomma, o ci meritiamo l'appellativo di "beati" facendoci poveri, o ci conquistiamo sul campo quello di "benedetti", amando e servendo i poveri.
Ce lo suggerisce il capitolo venticinque di Matteo, con quel "Venite, benedetti dal Padre mio: ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".
E' la scena del giudizio finale, pilastro simmetrico a quello delle beatitudini, che sorregge quell'arcata di impegno che ha la chiave di volta nell'opzione dei poveri.
Beati o benedetti
Veniamo a sapere, dunque, che, come titolo valido per l'usufrutto del regno, esiste un'alternativa al titolo di "povertà": quello della "solidarietà" con i poveri. Diventare, cioè, così solidali con loro da esserne il prolungamento. Fare tutt'uno con loro, così da esserne considerati quasi la protesi.
Se si vuole entrare nel regno della felicità perciò occorre vistare il passaporto o col titolo di "beati" o col titolo di "benedetti".
E' splendida l'esortazione che al termine della messa nuziale viene pronunciata sugli sposi: "Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre".
"Beati... perché di essi sarà...".
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi..."
Non potrà mai dimenticare lo stupore di Mons. Gasparini, vescovo missionario nel Sidamo, quando un giorno, indicandomi un gruppo di bambini etiopi, dagli occhi sgranati per fame, dalle gambe filiformi, devastati dalle mosche sul corpo scheletrito, mi disse quasi sottovoce: "Vedi: che questi bambini siano figli di Dio non mi sorprende più di tanto. E neppure che siano fratelli di Gesù Cristo. Ma ciò che mi sconcerta e mi esalta è che questi poveri siano eredi del paradiso! Sembra un assurdo. Ma è proprio per annunciare quest'assurdo, che sono felice di aver speso tutta la mia vita in mezzo a questa gente". "Beati... perché di essi..."
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi...".
Il Signore ci conceda che, nel mazzo delle carte d'identità racchiuse da quei due pronomi personali, un giorno, col visto d'ingresso, poco importa se con la sigla "beati" o con la sigla "benedetti", egli possa trovare anche la nostra.
E ci riconosca. Alle porte del regno.
beatitudiniregno di Diobeatipovertàsolidarietà
inviato da Qumran2, inserito il 06/08/2009
ESPERIENZA
119. Il sacerdote è il giovane di Dio
Sacerdoti, io non sono prete e non sono stato mai degno di poterlo diventare. Come fate a vivere dopo aver celebrato la Messa?
Ogni giorno avete il Figlio di Dio nelle vostre mani! Ogni giorno avete una potenza che Michele Arcangelo non ha. Con la vostra bocca voi trasformate la sostanza del pane in quella del Corpo di Cristo; voi obbligate il Figlio di Dio a scendere sull'altare. Siete grandi, siete creature immense, le più potenti che possano esistere!!!
Sacerdoti, ve ne scongiuriamo, siate santi. Se siete santi voi, noi saremo salvi, se non siete santi voi, noi saremo perduti. Sì, noi vogliamo il sacerdote santo, il sacerdote saggio, il sacerdote semplice, il sacerdote crocifisso ogni giorno per amore delle anime e per l'ardore dei cuori.
Tu sei la nostra fede, tu sei la nostra luce e guai se la fiaccola si spegne o se il sale della terra perde il suo sapore. Perché il sacerdote è il giovane di Dio, è l'astronauta di Dio.
Ricordati, o servo del Signore, che tu non sei un uomo come gli altri. Il giorno in cui lo Spirito Santo ha inciso sopra di te un carattere eterno, hai cessato di essere un uomo comune! Come quando Amstrong o Collins o White entrano nella capsula e il Saturno 5 li lancia verso la luna, non sono più uomini come gli altri, a loro non è lecito perdere un milionesimo di secondo, sbagliare una manovra, tornare indietro, stancarsi o arrabbiarsi: sono uomini del Cielo.
E tu, o sacerdote di Dio che devi portare il satellite della salvezza, non sulla luna, ma travalicando gli infiniti spazi fin nel cuore del Creatore, pensa alle tue immense e infinite responsabilità.
Se tu, o sacerdote, sei santo, sei grande, sei umile, sacrificato, moribondo di giorno in giorno, consumato dall'amore del Divino Spirito e dall'incanto di Maria, la giovinezza sarà salva, avremo vocazioni, avremo amore di sacrificio e il mondo troverà la strada della luce.
A voi che siete gli atleti di Dio, i difensori di Dio, gli appassionati di Dio, di Colui che è il dolce Padrone dell'essere e il Fremito di tutte le cose, di Colui che non dimentica il volo di una rondine, la lacrima di un uomo, il sorriso di un bimbo, il palpito d'amore di un cuore, a voi è riservato il compito sublime e stupendo di annunciarlo con forza e coraggio perché lui, che è tutto e solo Amore, ha bisogno di voi, ministri prediletti, per donare la sua infinita gioia a tutti e in tutti rinascere ogni giorno, grazie al vostro sì.
inviato da Cosimo Di Lella, inserito il 19/07/2009
TESTO
120. Uno per uno fa sempre uno. Verso la Pasqua, casa della Trinità 1
Tonino Bello, Omelie e scritti quaresimali, vol.II, Ediz. Archivio Diocesano Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e Luce e vita, Molfetta, 1994, pagg.336-338
Carissimi fratelli,
l'espressione me l'ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt'altro che banale.
Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.
Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.
E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l'altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l'altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile...
Colsi l'occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: "Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c'è una Persona che si aggiunge all'altra e poi all'altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l'altra.
E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario' così dominante in ‘casa Trinità' che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l'uomo per gli altri".
Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.
Peccato: perché, tra l'altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l'uomo è icona della Trinità ("facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza") e che pertanto, per quel che riguarda l'amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l'accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.
Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.
Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.
* * *
Cari fratelli, lo so che la Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, e che non è lecito comprimerne la ricchezza alla semplice funzione di analogia. Ma se oggi c'è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali.
Altro che "relazioni". L'acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d'incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio. L'isola sperduta, più dell'arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l'altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente.
Coraggio.
Irrompe la Pasqua!
E' il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri. E' l'intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull'erba. E' l'incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa. E' il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E' la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo. E' la festa degli ex-delusi della vita, nel cui cuore all'improvviso dilaga la speranza.
Che sia anche la festa in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria.
Vostro
+ don Tonino, Vescovo
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inviato da Qumran2, inserito il 18/07/2009
RACCONTO
Bruno Ferrero, Storie belle e buone
Quando mise fuori la testa dall'uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell'Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l'orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito. Tutti i pinguini presenti applaudirono.
"È un ottimo segno!" disse lo zio Fortebecco.
"È impaziente di affrontare la vita".
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.
Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.
Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non potè sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all'enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei "pinguini irsuti", chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l'incontrastato boss.
"Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?", gli chiedeva la mamma, un po' in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
"Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!"
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
"E' tutta colpa tua!".
"No, tua!".
"E' colpa di Filippo!".
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:
"Non ne posso più!".
I colori della vita
Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
"Che barba! Un posto tutto bianco, grigio e nero. Dove nessuno si fa i fatti suoi... Deve pur esserci un paese colorato. Pieno di gente colorata. Potrei diventare anch'io pieno di colori... Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!"
E, impulsivo com'era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall'Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.
Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale. I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
"Adesso sono libero e faccio come mi pare", si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d'ali alle sue spalle lo mise in guardia. Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po', facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia. Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò. Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
"Aah!", fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche. Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:
"Bene! Comincio ad essere colorato".
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
"Ehi, amico!!", Una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
"Ti ho visto sistemare il cormorano", disse il gabbiano. "Sei un duro, tu".
"Certo", rispose Filippo.
"Ti invito a pranzo", insinuò furbescamente il gabbiano.
"Che cosa vuoi dire?".
"Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici? In due non oseranno farci niente".
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi. I due briganti mulinavano ali e becchi.
Alla fine, Filippo si guardò il petto: era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d'uovo.
"Altri colori!", si disse. "Questa è vita".
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutti.
Il grande salto
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un'otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente "Il pinguino colorato". Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c'erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un' epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?
Il pensiero dell'Isola Azzurra prese a torturarlo.
Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po' di nostalgia dell'allegra comunità dei pinguini.
"Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo", si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell'Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
"Un mostro! Un mostro!".
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore. Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
"Ma perché? Idioti, sono io, non mi riconoscete?", brontolava Filippo.
"Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato". La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
"Ma in che stato sei...".
"Bentornato, Filippo", gli disse anche il papà. Ma non lo toccò.
Le comari tutt'intorno borbottavano: "Che disgrazia! Poveri genitori...".
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell'Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
"Papà", chiese.
"Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile".
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
"C'è un mezzo solo: devi tuffarti dalla Grande Cascata. Laggiù l'acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere. Ma è tremendamente rischioso. Ci vorrà il tuo coraggio. Te la senti di farlo?".
"Si, papà".
La voce si sparse in un attimo.
Nel giro di pochi minuti c'erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un "Oh!" sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo. Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice. Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell'acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso: "Urrà!", che coprì perfino il tuonare dell'acqua.
L'esperienza nascosta nel racconto:
Il pinguino Filippo è annoiato dalla vita di tutti i giorni che è soltanto "bianca, grigia e nera". Sono molti i ragazzi di oggi che considerano noioso ciò che è normale.
La cultura in cui sono immersi è sempre alla ricerca di eccitanti per i sensi, per la mente, per lo spirito.
Questa ricerca travolge limiti e regole. Filippo cerca i colori, li trova diventando ingiusto, ladro, cattivo.
Soltanto quando è davvero diventato colorato si accorge del prezzo da pagare: l'insoddisfazione personale e soprattutto l'allontanamento dalla sua famiglia e dalla comunità. È il prezzo del male, del peccato: essere tagliati fuori, perdere l'identità.
Ma nella comunità dell'Isola Azzurra c'è il modo di cancellare tutto, di ricominciare. E' quello che succede nella Chiesa: Dio ci dà la possibilità di cancellare tutti i colori sbagliati.
Bisogna solo avere il coraggio di buttarsi nella Grande Cascata dell'Amore infinito di Dio che è il Sacramento della Riconciliazione.
Per il dialogo:
L'educatore deve aiutare i ragazzi a percepire il significato simbolico della storia del pinguino Filippo e a riflettere contemporaneamente sulla realtà che anche loro stanno vivendo. Lo può fare con alcune domande:
- Perché il pinguino Filippo decide di partire dalla sua isola?
- Vi è mai venuta la voglia di "mollare tutto"? Quando? Perché?
- Secondo voi, che cosa sono i colori che Filippo cerca?
- Di che tipo sono i colori che Filippo trova? Vi ricordano qualcosa?
- Ci sono certe cose che i ragazzi di oggi desiderano ma che, secondo voi, sono un male? Ne sapete ricordare qualcuna?
- Perché Filippo non viene riconosciuto e accettato nella sua comunità?
- Nella nostra comunità parrocchiale c'è qualche modo particolare per riconoscere di aver sbagliato e per riaccettare quelli che riconoscono di aver commesso il male?
Per l'attività:
I ragazzi possono fare l'esame di coscienza con un cartellone sul quale si trovano i "colori sbagliati": (il rosso dell'ira, il giallo dell'invidia, il viola delle parolacce, il rosa della pigrizia, ecc...)
Anche la Bibbia racconta...
L'evangelista Giovanni (13, 21-30), racconta il tradimento di Giuda e lo conclude con queste parole: "Egli subito uscì. Ed era notte". Il peccato è uscire dalla luce della comunità degli amici di Gesù ed entrare nella notte.
riconciliazioneperdonoconfessionediversitàpeccato
inviato da Qumran2, inserito il 17/07/2009
TESTO
Pavel Aleksandrovič Florenskij, Il cuore cherubico, Piemme 1999
In ciascuno di noi c'è qualcosa di simile ad un cherubino, qualcosa di somigliante all'angelo divino dai molti occhi, come una coscienza.
Ma questa somiglianza non è esteriore, né apparente. La somiglianza con il cherubino è interiore, misteriosa e nascosta nel profondo dell'anima.
E' una somiglianza spirituale. C'è un grande cuore cherubico nella nostra anima, un nucleo angelico dell'anima, ma esso è nascosto nel mistero ed è invisibile agli occhi della carne.
Dio ha messo nell'uomo il suo dono più grande: l'immagine di Dio. Ma questo dono, questa perla preziosa, si nasconde negli strati più profondi dell'anima: chiuso in una rozza conchiglia, fangosa, giace sepolto nel limo, negli strati più profondi dell'anima.
Tutti noi siamo come dei vasi di argilla colmi d'oro scintillante. Di fuori siamo anneriti e macchiati, dentro invece siamo risplendenti di una luce radiosa.
Il tesoro di ognuno di noi è sepolto nel campo della nostra anima. E se qualcuno trova il proprio tesoro, allora trattiene il respiro, abbandona tutti i suoi affari per poterlo portare alla luce. In questo sta la più grande felicità, il bene supremo dell'uomo. In questo consiste la sua gioia eterna.
Il regno dei cieli è la parte divina dell'anima umana. Trovarla in se stessi e negli altri, convincersi con i propri occhi della santità della creatura di Dio, della bontà e dell'amore delle persone, in questo sta l'eterna beatitudine e la vita eterna.
Chi l'ha gustata una volta è pronto a scambiare con essa tutti i beni personali. La perla che il mercante cercava non è lontana, l'uomo la porta con sé ovunque, solo che non lo sa.
E ognuno di noi va angosciato per il mondo, pur avendo un tesoro dentro di sé molto spesso crede che una simile perla sia in qualche posto lontano. Beato colui che vede il suo tesoro! Ma chi è in grado di vederlo? Chi vede la sua perla?
Le cose terrene le vede solo colui che ha un occhio corporeo puro; le cose celesti le vede solo colui che ha puro l'occhio celeste, il cuore. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio, lo vedranno nel proprio cuore e in quello altrui; lo vedranno non solo in futuro, ma anche in questa vita, lo vedranno adesso.
Basta solo che purifichino il loro cuore!
vitafelicitàcuoreimmagine di Diosomiglianza con Diotesororicerca di sensoricerca di Diointerioritàesteriorità
inviato da Suor Maria Roberta Tiberio O.S.B., inserito il 16/07/2009
TESTO
123. Confessio Fidei - Narratio amoris 1
Bruno Forte, Confessare la fede narrando l'Amore
Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento trinitario di Pasqua:
Credo in te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell'Amore,
tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l'Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per te,
imprimendo in noi la nostalgia del tuo Amore,
e contagiandoci la tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.
Credo in te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell'Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l'amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell'Amore,
l'Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazareth, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell'amore,
e fanno di noi, nella sequela di te,
coloro che hanno creduto all'Amore,
e vivono nell'attesa della Tua venuta.
Credo in te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l'unità e la pace
dell'Amato e dell'Amante,
nel dialogo eterno dell'Amore.
Tu sei l'estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l'amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l'unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da te suscitata nell'amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
tu che unisci il tempo e l'eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
tu che apri il cuore di Dio
all'accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell'Amore, che non conosce tramonto.
In te ci è data l'acqua della vita,
in te il pane del cielo,
in te il perdono dei peccati
in te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.
Credo in te, unico Dio d'Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell'Amore.
In te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in te
e di abitare in me.
Amen!
credoDioamore di DiofedePadreFiglioSpirito Santo
inviato da Qumran2, inserito il 15/07/2009
TESTO
124. Digiuno, elemosina e preghiera 1
san Giovanni Maria Vianney, Omelia per la VII Domenica dopo Pentecoste
Leggiamo nella Sacra Scrittura che il Signore diceva al suo popolo, parlandogli della necessità di fare delle opere buone per piacergli e per far parte del numero dei santi: «Le cose che vi chiedo non sono al di sopra delle vostre forze; per farle, non è necessario innalzarvi fino alle nubi, né attraversare i mari. Tutto ciò che vi comando è, per così dire, a portata di mano, nel vostro cuore e attorno a voi». Posso ripetere la stessa cosa: è vero, non avremo mai la fortuna di andare in cielo se non facciamo opere buone; ma non ci spaventiamo: ciò che Gesù Cristo ci chiede, non sono cose straordinarie, né al di sopra delle nostre capacità; non chiede a noi di stare tutto il giorno in chiesa, neanche di fare grandi penitenze, cioè fino a rovinare la nostra salute, e neppure di dare tutto il nostro avere ai poveri (benché sia verissimo che siamo obbligati a dare ai poveri quanto possiamo, e che lo dobbiamo fare per piacere a Dio che ce lo comanda e per riscattare i nostri peccati). È pur vero che dobbiamo praticare la mortificazione in molte cose, domare le nostre inclinazioni...
Ma, mi direte voi, ce ne sono più d'uno che non possono digiunare, altri che non possono dare l'elemosina, altri che sono talmente occupati che spesso riescono a stento a fare la loro preghiera al mattino e alla sera; come dunque potranno salvarsi, dal momento che bisogna pregare di continuo e bisogna necessariamente fare opere buone per conquistare il cielo?
Visto che tutte le vostre opere buone si riducono alla preghiera, al digiuno e all'elemosina, potremo fare facilmente tutto questo, come vedrete.
Sì, anche se avessimo una cattiva salute o fossimo addirittura infermi, c'è un digiuno che possiamo facilmente fare. Fossimo pure del tutto poveri, possiamo ancora fare l'elemosina e, per quanto grandi fossero le nostre occupazioni, possiamo pregare il buon Dio senza essere disturbati nei nostri affari, pregare alla sera e al mattino, e persino tutto il giorno. Ed ecco come.
Noi pratichiamo un digiuno che è assai gradito a Dio, ogni volta che ci priviamo di qualche cosa che ci piacerebbe fare, perché il digiuno non consiste tutto nella privazione del bere e del mangiare, ma nella privazione di ciò che riesce gradito al nostro gusto; gli uni possono mortificarsi nel modo di aggiustarsi, gli altri nelle visite che vogliono fare agli amici che hanno piacere di vedere, gli altri, nelle parole e nei discorsi che amano tenere; questi fa un grande digiuno ed è molto gradito a Dio allorché combatte il suo amor proprio, il suo orgoglio, la sua ripugnanza a fare ciò che non ama fare, o stando con persone che contrariano il suo carattere, i suoi modi di agire...
Vi trovate in una occasione nella quale potreste soddisfare la vostra golosità? Invece di farlo, prendete, senza farlo notare, ciò che vi piace di meno... Sì, se volessimo applicarci bene, non soltanto troveremmo di che praticare ogni giorno il digiuno, ma ancora ad ogni momento della giornata.
Ma, ditemi, c'è ancora un digiuno che sia più gradito a Dio del fare e del soffrire con pazienza certe cose che spesso vi sono molto sgradevoli? Senza parlare delle malattie, delle infermità e di tante altre afflizioni che sono inseparabili dalla nostra miserabile vita, quante volte non abbiamo l'occasione di mortificarci, accettando ciò che ci incomoda e ci ripugna? Ora è un lavoro che ci annoia, ora una persona antipatica, altre volte è un'umiliazione che ci costa di sopportare. Ebbene, se accettiamo tutto questo per il buon Dio, e unicamente per piacergli, questi sono i digiuni più graditi a Dio...
Diciamo che c'è una specie d'elemosina che tutti possono fare.
Vedete bene che l'elemosina non consiste soltanto nel nutrire chi ha fame, e nel dare vestiti a chi non ne ha; ma sono tutti i favori che si rendono al prossimo, sia per il corpo, sia per l'anima, quando lo facciamo in spirito di carità. Quando abbiamo poco, ebbene, diamo poco; e quando non abbiamo, diamo in prestito, se lo possiamo. Colui che non può provvedere alle necessità degli ammalati, ebbene, può visitarli, dir loro qualche parola di consolazione, pregare per loro, affinché facciano buon uso della loro malattia. Sì, tutto è grande e prezioso agli occhi di Dio, quando agiamo per un motivo di religione e di carità, perché Gesù Cristo ci dice che un bicchiere d'acqua non rimane senza ricompensa. Vedete dunque che, benché siamo assai poveri, possiamo facilmente fare l'elemosina.
Dico che, per grandi che siano le nostre occupazioni, c'è una specie di preghiera che possiamo fare di continuo, anche senza distoglierci dalle nostre occupazioni, ed ecco come si fa. Consiste, in tutto quello che facciamo, nel non fare altro che la volontà di Dio. Ditemi, vi pare molto difficile lo sforzarsi di fare soltanto la volontà di Dio in tutte le nostre azioni, per quanto piccole esse siano?
digiunaredigiunopreghieraelemosinaquaresima
inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney - Roma, inserito il 26/06/2009
PREGHIERA
Signore Gesù,
come già i primi apostoli,
ai quali dicesti: "Che cercate?",
ed accolsero il tuo invito: "Venite e vedrete",
riconoscendoti come il Figlio di Dio,
l'atteso e promesso Messia per la redenzione del mondo,
anche noi, discepoli tuoi di questo difficile tempo,
vogliamo seguirti ed esserti amici,
attratti dal fulgore del tuo volto desiderato e nascosto.
Mostraci, ti preghiamo, il tuo volto sempre nuovo,
misterioso specchio dell'infinita misericordia di Dio.
Lascia che lo contempliamo
con gli occhi della mente e del cuore:
volto del Figlio, irradiazione della gloria del Padre
e impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3),
volto umano di Dio entrato nella storia
per svelare gli orizzonti dell'eternità.
Volto silenzioso di Gesù sofferente e risorto,
che amato ed accolto cambia il cuore e la vita.
"Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto" (Sal 27,8s).
Nel corso di secoli e millenni quante volte è risuonata
tra i credenti questa struggente invocazione del Salmista!
Signore, anche noi la ripetiamo con fede:
"Uomo dei dolori, davanti a cui ci si copre la faccia"(Is 53,3),
non nasconderci il tuo volto!
Vogliamo attingere dai tuoi occhi,
che ci guardano con tenerezza e compassione,
la forza di amore e di pace che ci indichi la strada della vita,
ed il coraggio di seguirti senza timori e compromessi,
per diventare testimoni del tuo Vangelo,
con gesti concreti di accoglienza, di amore e di perdono.
Volto Santo di Cristo,
luce che rischiara le tenebre del dubbio e della tristezza,
vita che ha sconfitto per sempre il potere del male e della morte,
sguardo misterioso
che non cessa di posarsi sugli uomini e i popoli,
volto celato nei segni eucaristici
e negli sguardi di coloro che ci vivono accanto,
rendici pellegrini di Dio in questo mondo,
assetati d'infinito e pronti all'incontro dell'ultimo giorno,
quando ti vedremo, Signore, "faccia a faccia" (1 Cor 13,12),
e potremo contemplarti in eterno nella gloria del Cielo.
Maria, Madre del Volto Santo,
aiutaci ad avere "mani innocenti e cuore puro",
mani illuminate dalla verità dell'amore
e cuori rapiti dalla bellezza divina,
perché, trasformati dall'incontro con Cristo,
ci doniamo senza riserve ai fratelli,
specialmente ai poveri e ai sofferenti,
nei cui volti riluce l'arcana presenza
del tuo Figlio Gesù,
che vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen!
inviato da Sandra Aral, inserito il 02/06/2009
TESTO
E' arrivata la Primavera ed ogni anno, in natura, si ripete puntuale il miracolo della rinascita, e tutte le creature rinnovano in sé l'energia vitale per dimostrare e donare, ad un mondo distratto ed indifferente, la potenza creatrice e amorosa del Creatore.
Passeggiando in giardino, davanti al mistero di una piccolissima gemma che diventa un turgido bocciolo, quasi geloso di svelare la meraviglia dei suoi petali, mi afferra uno stupore crescente.
C'è un giardino, però, in cui non è necessario aspettare la primavera per vedere realizzati i miracoli della creazione ed è il " cuore dell'uomo".
Dio ha creato l'uomo e la donna per "sete d'amore", perché, essendo lui amore, non poteva fare a meno di amare e di essere amato. Ed ecco il miracolo: uomo e donna, creati a sua immagine, ricevono il suo amore e sono chiamati a diventarne messaggeri e testimoni, per diffonderlo a chi sta loro accanto e al mondo intero.
Le vite che si donano diventano, così, veicolo dell'Amore di Dio e vanno a saziare l'incontenibile e misteriosa sete d'amore delle creature, come un fiore sbocciato e donato sazia la sete di bellezza e di armonia.
L'uomo, però, non ha accolto il dono dell'Amore di Dio, che significa donarsi, perdonarsi, compatirsi, comprendersi, ed ha messo al primo posto l'amore per se stesso e per gli idoli creati dalle sue stesse mani, diventandone schiavo (Salmo 113 B, 4-8). Allora Dio, non potendo fare a meno di amare l'uomo e di essergli fedele, ha giocato l'ultima carta per salvarlo ed è sceso in terra nella Persona del Figlio, Gesù Cristo, facendosi "peccato" ( cfr. 2 Corinzi 5,21 ) lui stesso, Innocente, per liberare l'umanità dal peccato e dalla morte. Gesù, sulla terra, ha camminato con gli uomini ed ha parlato del Padre che è nei Cieli come del "nostro Padre" ( Matteo 6,9 ) che, dalla creazione, non vuole forzare i figli ad amarlo, avendoli resi liberi di accettare o rifiutare il suo amore. Il Padre, però, non smette mai di aspettare che i figli tornino per lasciarsi amare da lui, per poter dire loro parole d'amore e fare festa ( Luca 15, 11-24 )! Gli uomini, ancora una volta, non hanno saputo e voluto rispondere con l'amore alla richiesta d'amore del loro Creatore e così l'hanno ucciso: hanno crocifisso l'amore, pensando di poter togliere di mezzo l'imbarazzante "Rabbì " che parlava di cose troppo scomode per le coscienze: pace, perdono, conversione, riconciliazione, giustizia, dignità umana, strane beatitudini che fanno "vincere" i poveri, gli ultimi, gli affamati, i perseguitati..., amore addirittura per i nemici, misericordia, dono totale di se stessi agli altri fino a perdere la propria vita...
"Il mondo non lo riconobbe" (Giovanni 1,10).
Ognuno di noi c'era, quel venerdì che chiamiamo Santo, sul Calvario, ed ognuno di noi, con la parte del proprio cuore in cui vince l'avidità, la gelosia, l'invidia, la lussuria, il risentimento, la rabbia, ha battuto i chiodi nelle mani e nei piedi dell'Innocente. "Dio è morto", ha scritto qualcuno. Si, Dio è morto facendo suo il peccato e la morte dell'uomo, ma non poteva finire così, con il buio di quel venerdì e col silenzio di quel sabato. Se Dio fosse morto, tutta la creazione sarebbe morta, io sarei morta, la primavera sarebbe morta.
No! Dio ha trascinato in sé la morte e l'ha distrutta, trasformandola in vita, nella sua vita, che è immortale, incorruttibile (Corinzi 15, 20-27, 53-55). Essendo vero uomo, Gesù ha, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, innalzato a sé ogni uomo, ogni vita umana (Giovanni 3,14-17) donando ognuno di noi all'abbraccio misericordioso del Padre, che dalla creazione non aspetta altro che ritorniamo a lui, bisognosi del suo perdono e, a nostra volta, capaci di perdonare.
La sete d'amore di Dio lo ha portato a farsi lui stesso creatura, affinché nel cuore dell'uomo si continuasse a compiere il miracolo per cui era stato creato: l'amore vissuto, rinnovato, donato, gratuito, generoso, spassionato, umile, felice, sofferto, offerto, coraggioso, sorridente, radicale, ingenuo, totale.
La capacità di amarsi viene solo da Dio e se ci allontaniamo da lui, nostra unica fonte del vero amore, perdiamo la capacità di amare e accadono le cose che quotidianamente tutti vediamo e di cui ci lamentiamo. "La società va male", diciamo, "è tutta colpa della società...".
No, sono io, siamo noi che abbiamo perso il contatto con la fonte della vera vita, diventando schiavi dei vitelli d'oro che ci siamo costruiti.
L'uomo, però, ha fame d'amore, continua a cercare qualcuno o qualcosa da amare, perché è Dio stesso che ha posto nel nostro cuore il seme del suo amore.
Che fare? Perché non provare a diventare "distributori" consapevoli di amore? Perché abbiamo così tanta paura di amare? Perché temiamo di assecondare il nostro bisogno di Risurrezione? Perché non ci opponiamo alla tentazione di seguire la corrente, che ci invita a privilegiare i pensieri e le scelte di morte?
Noi cristiani siamo tali perché crediamo in Cristo, il Vivente, il Risorto, Colui grazie al quale siamo destinati, a nostra volta, ad essere eternamente viventi e risorti: perché, allora, non scegliere di vivere secondo la Sua Parola, che è Parola di vita eterna? (Giovanni 6, 67-69)
Se i genitori, ad esempio, avessero il coraggio di raccontare ai loro figli le meraviglie che ogni giorno compie in noi l'Amore di Dio, se vivessero la Risurrezione nelle scelte di vita quotidiane, se trasmettessero loro la Speranza che deriva dalla Risurrezione di Cristo, allora ogni giorno sarebbe Pasqua, ogni giorno l'amore vincerebbe e non saremmo sconvolti da tante notizie che parlano di delitti in famiglia, di ragazzi che filmano violenze sui coetanei più deboli, di famiglie distrutte da odi e rancori, di stragi del sabato sera...L'elenco non finirebbe mai, ma io propongo che ognuno di noi, nel suo piccolo, anziché soffermarsi sulle cose negative, faccia l'elenco di tutte le cose belle che ogni giorno ci vengono donate. Cerchiamo poi di arricchire l'elenco con le cose belle, dettate dall'amore, che nel nostro quotidiano possiamo fare. Facciamo crescere, nel giardino del nostro cuore, la parte divina che Dio ha preso da sé e ci ha donato.
Scegliamo consapevolmente di soddisfare la nostra "sete di Risurrezione", affinché il Signore, nostro Dio, possa dirci parole di bene e d'Amore per l'eternità.
risurrezioneamoreparolafamiglia
inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 02/06/2009
TESTO
card. Joseph Mindszenty, Memorie
Un decennio prima della mia terza prigionia avevo scritto queste parole sull'amore materno: «Sarai dimenticato dai tuoi superiori dopo averli serviti; dai tuoi dipendenti, allorché essi non percepiranno più il tuo potere; i tuoi amici, quando verrai a trovarti in difficoltà... Solo tua madre ti attende davanti al portone della prigione. Nella profondità del carcere possiedi soltanto l'amore della madre. Solo lei scende con te laggiù. E se sarai precipitato ancor più in basso del carcere, nell'abisso del penitenziario, della casa dei condannati a morte, solo lei non avrà paura di varcare quella soglia...».
Quando scrivevo quelle parole non pensavo che la mia vecchia madre sarebbe stata l'unica stella nel cielo oscuro della mia prigionia e che lei sola mi avrebbe visitato e abbracciato durante gli otto anni di segregazione in carcere.
Chi è mia madre? Una donna di ottantacinque anni, madre di sei figli, che viveva nella sua casa di Mindszent circondata dal rispetto e dall'amore di quattordici nipoti e altrettanti pronipoti. Al tempo del mio arresto e quando io finii trascinato nel fango, ella aveva settantaquattro anni ed era rimasta vedova da due anni. Anche se proveniva da un ambiente semplice e paesano, si precipitò per aiutarmi e mi stette a fianco fino alla sua morte con intelligenza e con tatto. Fu capace di rintracciarmi nel mondo disumano delle prigioni comuniste. Prima d'allora non aveva mai varcato la soglia di un ministero. Ora invece abbordava i dirigenti del partito che erano giunti al potere in maniera illegale. Ciò fu per lei una croce pesante. Ma dovunque compariva, nei ministeri, in prigione, nel penitenziario, il suo atteggiamento testimoniava la sua forza d'animo.
Mia madre mi visitò ventidue volte durante la mia prigionia. Dei sette diversi posti in cui fui detenuto ella ne vide solo tre: l'ospedale della prigione, Püspökszentlàsló e Felső; Petény. Non potè vedere gli altri quattro.
Per compiere quei viaggi ella aveva coperto una distanza di dodicimila chilometri. E quando Dio la chiamò da questa vita terrena, suo figlio prigioniero non poté prender parte neppure alla sua sepoltura per ripagarla un po' di tante fatiche e di tanti sacrifici.
Era molto triste per l'imminente nuova collettivizzazione delle vigne, dei campi, dei prati e dei boschi della nostra famiglia. Quello che la faceva soffrire non erano in primo luogo le perdite materiali ma l'attaccamento al proprio pezzo di terra che aveva coltivato per tutta una vita. Ciò rappresentava la fine dell'indipendenza delle famiglie; l'educazione dei figli e la santificazione delle domeniche e dei giorni festivi ne avrebbero sofferto.
Il 5 febbraio 1960 ruppi le lenti degli occhiali e non fui in grado di sostituirle subito in quella clausura. Così mi limitai a recitare il rosario e a leggere il messale con l'aiuto di una lente. Come al solito, al memento dei vivi la ricordai, ma avrei già dovuto includerla nel memento dei morti. Verso le undici dello stesso giorno il segretario dell'ambasciata venne a trovarmi con in mano un telegramma. Non lo aveva ancora deposto sul tavolo che io già lo sapevo: mia madre era morta.
In quel giorno oscuro non toccai cibo e non aprii libro; la sua morte mi aveva sconvolto. Recitai la sua preghiera preferita, il rosario. Piansi la sua perdita e poi mi calmai. La gratitudine per averla avuta durante la vita doveva essere più grande del dolore per la sua dipartita verso la patria.
In quelle ore ripensai ai giorni passati a Ostia e alle lacrime versate su sua madre dall'Agostino ormai convertito al cristianesimo.
Durante la notte mia sorella notò un cambiamento e mandò subito a chiamare il parroco. Mia mamma sapeva che era venuta la sua ora. Nella sua mano teneva accesa la candela dei moribondi.
Negli ultimi quarti d'ora aveva pregato con devozione assieme ai famigliari e si era addormentata nell'eternità senza agonia.
Tutti gli anni mia madre soleva passare in preghiera la notte della vigilia di Pasqua al cimitero, in compagnia delle donne del villaggio sue amiche. Solo quando cominciava ad albeggiare ritornavano a casa per preparare i cibi pasquali per la benedizione. La fede nella risurrezione dei morti era profondamente radicata nel suo cuore. Per lei la risurrezione di Cristo e la risurrezione della carne erano due proposizioni di fede strettamente unite, conforme all'insegnamento dell'apostolo Paolo. Sapeva in chi aveva creduto e perciò non sarà delusa; questa è la mia ferma convinzione.
Quanto spesso ho pensato: "...Solo quando giacerà sotto terra capirò veramente il suo valore e la grazia inestimabile che ho avuto in lei". Oggi mi sento non solo povero ma anche profondamente in colpa di fronte a quella tomba, che non ho mai potuto visitare e che verosimilmente non vedrò mai.
Mia madre è stata una santa. In lei e attorno a lei non ho mai visto alcunché di disdicevole, ma solo cose buone e belle. Sono fermamente convinto che ella è felice nell'eternità e sospiro in questa valle di lacrime di poterla un giorno rivedere nella gioia.
inviato da Cristiano Ballan, inserito il 02/06/2009
TESTO
Farmaco d'immortalità: l'Eucaristia
Composizione JHS non è una formula chimica, ma sigla che marca il Pane Eucaristico, Pane di frumento, consacrato nella Messa, dallo Spirito Santo di Dio, nelle mani del sacerdote e divenuto Corpo e Sangue vivo di Cristo Gesù; destinato ad essere mangiato dai battezzati convocati in Assemblea alla Celebrazione e conservato per gli invitati assenti.
JHS tre lettere dell'alfabeto latino, iniziali di tre parole:
Jesus = Gesù;
Hominum = degli uomini;
Salvator = Salvatore.
Gesù Salvatore degli uomini.
Come si presenta: allo sguardo appare un dischetto bianco di pane e nel calice un po' di vino. In effetti è il corpo e il sangue del Signore Gesù, vivo e presente per noi. Apparenza umile, silenziosa. Solo chi possiede la parola del Signore può capire il silenzio dell'Eucaristia.
Indicazioni: Anemia spirituale, perdita del gusto delle cose di Dio, disorientamento nella guida della propria vita e della propria famiglia, indifferenza, idolatria. Facilità di giudizio di condanna su tutto e su tutti, irascibilità, indebolimento della decisionalità a partire dal Vangelo. Disidratazione, sterilità di opere, causate dal poco bere linfa della Vite di cui si è tralci. Farmaco indicato non appena le conoscenze e le informazioni del proprio credo appaiono dei fantasmi, come numerose piante di un bosco nel quale si esita ad addentrarsi; difficoltà di dialogo, senso di emarginazione, di orfanezza, percezione di isolamento. Nausea per il sacro.
Controindicazioni: Nessuna, per nessuno al mondo, nonostante una Bimillennaria sperimentazione del suo Principio Attivo; l'JHS è risultato l'unico farmaco omopato-compatibile
Posologia: Bambini: ½ ora / 45 minuti alla settimana sotto vigile osservazione e gustosa scorta dei genitori a Messa.
Adulti: la cura va da 1 ora alla settimana (Messa-Domenicale), a un'aggiunta di ½ ora al giorno. Il dosaggio si intensifica con 1 ora al giorno, quando l'attrazione di Gesù interessa le pulsazioni del cuore, si rende sintomatico l'invaghimento per Dio e si sta bene con lui. La frequenza battiti in consonanza a quelli del cuore di Cristo, i pensieri a quelli di lui, e così i sogni e progetti, sono test di dosaggio equo. N.B. Il farmaco agisce solamente se si combina alla volontà di volere guarire.
Effetti indesiderati - Reazioni negative possono apparire non in chi assume il farmaco ma in parenti e amici che possono definire l'assenza (del paziente, di mezz'ora o di un'ora) un danno per la famiglia. Derisioni e insulti, attribuzione di bigottismo e di debolezza. Altri effetti indesiderati da JHS: Assuefazione, indifferenza o nei casi più gravi, acquisizione del magico.
Precauzioni - Non agitarsi prima dell'uso, prima di decidersi a fare questo passo. La notizia che l'assunzione del farmaco fa cambiar vita e può attivare la guarigione della memoria, della volontà, della capacità di giudicare e di progettare, di fraternizzare,... farla circolare nell'ambiente con cautela, ma senza prorogarla. La fede si rafforza donandola. Nel caso di un convincimento debole, frequentare opportune catechesi parrocchiali o gruppi e movimenti ecclesiali. Esporsi al rischio di far parte della comunità di fede a tutti gli effetti. Le forze del male non prevarranno.
Scadenza - Mt 28,20 - Il prodotto, in sé corruttibile, veicola e deposita germi positivi di incorruttibilità e di risurrezione. Viene confezionato ogni giorno e adempie la promessa di Gesù: "Sarò con voi sempre, fino alla fine del mondo".
inviato da Suor M.Gioia Agnetta, inserito il 02/06/2009
RACCONTO
129. Il pane della fratellanza 3
Si racconta di una anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco. Il marito le era morto durante la guerra. I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare. Si volevano bene ma, bastava una parola in più ed erano litigi senza fine. A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace.
La mamma divento vecchia, allora i figli si preoccuparono: "Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché quando litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?". "Ma io dovrò pur morire prima o poi", rispose la mamma. "Allora, chiesero i figli inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene".
Mamma Giulia pensò a lungo alla cosa e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d'accordo. La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e raccomandò: "Mangiate e cercate di volervi bene". I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime. Di lì a pochi giorni Giulia morì.
Roberto, Michele e Francesco si divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il suo. Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro. Ben presto si misero a litigare. Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco. Egli si mise in mezzo a loro: "Non ricordate la mamma? Perché non facciamo come quel giorno che ci ha chiamati al suo capezzale?". Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare. Mentre mangiavano nella mente di Roberto e Michele si riaccese l'immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina.
Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace.
La pace non durava molto, perché occasioni di litigio ne incontravano spesso. Però avevano imparato la soluzione: ogni volta che si creava un'occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno ad un tavolo, prendevano un pane, lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.
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inserito il 20/05/2009
TESTO
130. Lettera sulla preghiera 7
Bruno Forte, Messaggio per la Quaresima 2007
Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.
Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall'amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall'amore. Ora, l'amore nasce dall'incontro e vive dell'incontro con l'amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l'amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all'amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l'eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l'aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.
Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po' del tuo tempo a Dio. All'inizio, l'importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un'icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica...). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te "Abbà, Padre!". Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.
Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre - Madre nell'amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l'anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.
Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l'esperienza della vita vissuta nell'orizzonte dell'alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.
All'inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all'inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.
Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il "Magnificat" di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall'eloquenza silenziosa delle tue opere.
Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo "perso". Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l'unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.
Verrà l'ora della "notte oscura", in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l'ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l'ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d'amore, inondata dalla gioia della presenza dell'Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.
Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d'uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d'acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall'amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l'audacia dell'amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.
Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l'amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l'unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell'amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l'iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.
Pregando, s'impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l'urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell'Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l'eternità.
Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.
inviato da Qumran2, inserito il 30/04/2009
TESTO
Mentre il Natale evoca istintivamente l'immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l'aveva perduta. Perciò se il Natale suscita un po' in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un'atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell'oscuro e del difficile.
Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli». Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello "star bene" come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori.
In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.
Più difficile è però per me l'esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c'è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l'inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.
È così che la risurrezione entra nell'esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
resurrezionepasquarisurrezionedoloresofferenzasperanza
inviato da Qumran2, inserito il 14/04/2009
TESTO
132. Un pieno di gioia (Messaggio in occasione dell'inizio della Quaresima - 22 febbraio 1993) 1
Carissimi,
incomincia il periodo dell'anno più ricco di grazia, che dal Mercoledì delle Ceneri ci porta alla Pasqua della Resurrezione. Dovrebbe essere l'identikit del nostro itinerario cristiano.
Si parte con l'anima piena di rimorsi, di peccati e di stanchezza e si giunge nell'estuario della luce e della speranza. Perché tutti sappiamo che il dolore, la morte, la malattia non sono stagioni permanenti della vita, ma sono passaggi che ci introducono nella gioia che non ha tramonti.
La mia esortazione quindi, di amico e di vescovo, è che affrontiate sin dall'inizio, con animo deciso al cambiamento, questo tempo di salvezza.
Perché non progettate un po' di digiuno, un po' di preghiera in più, semplice e autentica che vi metta in rapporto vero con Dio? Gli altri atteggiamenti penitenziali propri della quaresima potrebbero esprimersi rinnovando i rapporti con le persone, riscoprendone il volto, facendo la pace. Tutto il resto è chiacchiera.
Un capitale grossissimo da investire sul versante della nostra crescita comunitaria è quello che ci viene offerto dai nostri sofferenti.
Sabato prossimo celebreremo la giornata Diocesana dell'ammalato. E io mi rivolgo a voi, protagonisti del mistero della sofferenza, perché facciate un grande offertorio della vostra povertà. Siamo in tanti. Stavolta ci sono in mezzo anch'io e guiderò il popolo della sofferenza davanti al Signore perché egli dia prosperità e pace alla nostra città.
E ora desidero rivolgermi ai giovani. Ogni anno in quaresima abbiamo vissuto nelle nostre cattedrali incontri carichi di forza e di entusiasmo. Anche quest'anno, nonostante la mia non presenza fisica, v'incontrerete ugualmente guidati da persone che hanno fatto esperienza di Cristo. Sono certo che il bisogno di vedere il volto di Dio e ascoltarne il messaggio, prevalga su tutte le altre gratificazioni di amicizia, d'incontro, di tenerezza, di festa che permeano questi nostri raduni settimanali. Comunque, cari giovani, un affettuosissimo saluto ed un augurio per tutte le cose belle, i progetti, gli affetti che coltivate nel cuore.
Per tutti voi, carissimi fedeli, il Signore faccia il pieno già in anticipo della gioia che si sprigionerà dagli otri della Pasqua.
quaresimamercoledì delle cenericonversione
inviato da Sandra Aral, inserito il 12/03/2009
RACCONTO
Aneddoto attribuito ad Albert Einstein
Germania, primi anni del XX secolo.
Durante una conferenza tenuta per gli studenti universitari, un professore ateo dell'Università di Berlino lancia una sfida ai suoi alunni con la seguente domanda:
"Dio ha creato tutto quello che esiste?"
Uno studente diligentemente rispose: "Sì certo!".
"Allora Dio ha creato proprio tutto?" - Replicò il professore.
"Certo!", affermò lo studente.
Il professore rispose: "Se Dio ha creato tutto, allora Dio ha creato il male, poiché il male esiste e, secondo il principio che afferma che noi siamo ciò che produciamo, allora Dio è il Male".
Gli studenti ammutolirono a questa asserzione. Il professore, piuttosto compiaciuto con se stesso, si vantò con gli studenti che aveva provato per l’ennesima volta che la fede religiosa era un mito.
Un altro studente alzò la sua mano e disse: "Posso farle una domanda, professore?".
"Naturalmente!" - Replicò il professore.
Lo studente si alzò e disse: "Professore, il freddo esiste?".
"Che razza di domanda è questa? Naturalmente, esiste! Hai mai avuto freddo?". Gli studenti sghignazzarono alla domanda dello studente.
Il giovane replicò: "Infatti signore, il freddo non esiste. Secondo le leggi della fisica, ciò che noi consideriamo freddo è in realtà assenza di calore. Ogni corpo od oggetto può essere studiato solo quando possiede o trasmette energia ed il calore è proprio la manifestazione di un corpo quando ha o trasmette energia. Lo zero assoluto (-273 °C) è la totale assenza di calore; tutta la materia diventa inerte ed incapace di qualunque reazione a quella temperatura. Il freddo, quindi, non esiste. Noi abbiamo creato questa parola per descrivere come ci sentiamo... se non abbiamo calore".
Lo studente continuò: "Professore, l’oscurità esiste?".
Il professore rispose: "Naturalmente!".
Lo studente replicò: "Ancora una volta signore, è in errore, anche l’oscurità non esiste. L’oscurità è in realtà assenza di luce. Noi possiamo studiare la luce, ma non l’oscurità. Infatti possiamo usare il prisma di Newton per scomporre la luce bianca in tanti colori e studiare le varie lunghezze d’onda di ciascun colore. Ma non possiamo misurare l’oscurità. Un semplice raggio di luce può entrare in una stanza buia ed illuminarla. Ma come possiamo sapere quanto buia è quella stanza?
Noi misuriamo la quantità di luce presente. Giusto? L’oscurità è un termine usato dall’uomo per descrivere ciò che accade quando la luce... non è presente".
Finalmente il giovane chiese al professore: "Signore, il male esiste?".
A questo punto, titubante, il professore rispose, “Naturalmente, come ti ho già spiegato. Noi lo vediamo ogni giorno. E’ nella crudeltà che ogni giorno si manifesta tra gli uomini. Risiede nella moltitudine di crimini e di atti violenti che avvengono ovunque nel mondo. Queste manifestazioni non sono altro che male".
A questo punto lo studente replicò "Il male non esiste, signore, o almeno non esiste in quanto tale. Il male è semplicemente l’assenza di Dio. E’ proprio come l’oscurità o il freddo, è una parola che l’uomo ha creato per descrivere l’assenza di Dio. Dio non ha creato il male. Il male è il risultato di ciò che succede quando l’uomo non ha l’amore di Dio presente nel proprio cuore. E’ come il freddo che si manifesta quando non c’è calore o l’oscurità che arriva quando non c’è luce".
Il giovane fu applaudito da tutti in piedi e il professore, scuotendo la testa, rimase in silenzio.
Il rettore dell'Università si diresse verso il giovane studente e gli domandò: "Qual è il tuo nome?".
"Mi chiamo, Albert Einstein, signore!" - Rispose il ragazzo.
benemaleDiofreddoamoretenebrebuioluceesistenza di Diovitasenso della vita
inviato da Mesiti Pasquale, inserito il 25/01/2009
TESTO
Il prete e la sua gente: una storia piena di "se...se....se.."
Se sta da solo in Chiesa, "si chiude nel suo intimismo".
Se esce, "va sempre in giro, e non si trova mai".
Se va a benedire le case (o meglio, le famiglie), "non è mai in Chiesa".
Se non va, "non fa nulla per conoscere i suoi parrocchiani".
Se qualche volta accetta di andare al bar "è uomo di mondo".
Se non accetta, "vive isolato".
Se si ferma in strada a parlare con la gente, è "pettegolo".
Se non si ferma "è scostante".
Se parla con le vecchiette, "perde il tempo".
Se dialoga con le giovani è "un donnaiolo".
Se sta insieme e gioca con i ragazzi "forse è di tendenze equivoche".
Se non li frequenta, "trascura di compiere il suo principale dovere".
Se accoglie in casa certe persone, "è imprudente".
Se non le accoglie, "non si comporta da cristiano sensibile".
Se in chiesa afferma verità scottanti, "fa politica".
Se tace è "menefreghista".
Se predica un minuto in più diventa "interminabile".
Se parla o predica poco "non ha autorità" o "è impreparato".
Se si occupa dei malati "dimentica i sani".
Se accetta inviti a pranzo o a cena "è un mangione e un beone".
Se rifiuta, "non sa vivere in società".
Se organizza incontri e riunioni "sta sempre a scocciare".
Se tace e ascolta, "si lascia sopraffare da quelli che comandano".
Se cerca di fare qualche aggiornamento, "butta via tutto quello che c'è da conservare".
Se ritiene valide alcune tradizioni, "non capisce i tempi attuali".
Se è d'accordo con il vescovo, "si lascia strumentalizzare e non ha personalità".
Se non condivide tutto quello che il vescovo propone, "è fuori della Chiesa".
Se chiede la collaborazione dei fedeli, "è lui che non vuol far niente".
Se agisce da solo, "non lascia spazio agli altri".
Se si occupa degli immigrati (o extracomunitari) "è imprudente".
Se non si interessa, "è un grande egoista che non vuole rogne".
Se organizza gite, pellegrinaggi, "pensa solo a far soldi".
Se non organizza, "è indolente e non ha iniziative".
Se fa il bollettino parrocchiale, "spreca tempo e soldi".
Se non lo fa', "non informa i fedeli sulle attività della parrocchia".
Se si ferma a casa, "non è mai reperibile in ufficio".
Se inizia la santa Messa in orario, "il suo orologio è sempre avanti".
Se comincia un attimo dopo, "fa quello che vuole e non rispetta gli altri".
Se a tutti ricorda e sottolinea il dovere della partecipazione e della solidarietà, "è sempre arrabbiato e nervoso; e, in ogni occasione, bussa a quattrini".
Se indossa la veste talare "è un sorpassato".
Se veste da borghese, "nasconde la sua identità".
Se... se... se...
Signore, dimmi tu: ma come dovrebbe essere il prete?
Risposta del Capo (alias Gesù Cristo):
"Un innamorato di Dio".
E non dovrebbe dimenticare che: "il discepolo non è da più del maestro
né un apostolo è più grande di chi l'ha mandato...".
Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi;
se hanno osservato la mia Parola, osserveranno anche la vostra" (Gv 15).
"Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28).
pretepresbiterosacerdoteparroco
inviato da Maria Caffagnini, inserito il 07/09/2008
TESTO
Michel Quoist, Parlami d'Amore
Io credo che Dio "è" amore
Io credo che Egli "è'" famiglia
Padre, Figlio, Spirito Santo
tre persone totalmente unite dall'amore
che fanno uno.
Credo che Dio è felicità infinita
perché è amore infinito.
Io credo che la creazione è frutto dell'amore
perché l'amore vuol far partecipare alla sua felicità.
Io credo che ogni uomo, prima ancora di esistere,
è amato personalmente e infinitamente da Dio
e che sarà sempre amato, quali che siano la sua faccia e i cammini della sua vita.
Io credo che l'uomo è pensiero d'amore di Dio, fatto carne,
e che questa immagine di Dio in lui
può essere sfigurata ma non può mai essere distrutta.
Io credo che l'uomo fatto per mezzo dell'amore è stato
creato per l'amore
e dunque libero
e invitato alla felicità infinita dell'amore.
Io credo che Dio ha donato tutta la creazione agli uomini
perché insieme ne prendano possesso, la completino
e la mettano al servizio di tutti.
Io credo che Dio ha creato l'uomo creatore con Lui
per mezzo della famiglia umana, immagine della sua famiglia
e libero di far sgorgare la vita o di rifiutarla.
Io credo che "Dio ha tanto amato il mondo che ha inviato il suo figlio
nel mondo"
e che così l'amore infinito ha preso, in Maria, volto d'uomo, corpo d'uomo
cuore di uomo
Gesù di Nazareth
trentatre anni di vita, che è piantato al centro della storia umana e
la ricopre intera.
Io credo che Gesù,
perché è uomo, è fratello di tutti gli uomini
perché è fratello di tutti gli uomini, è solidale con i loro peccati,
il non-amore,
e soffre delle loro sofferenze così come ha sofferto le proprie.
Io credo che Gesù, dando la sua vita per amore dei suoi fratelli,
ha ridato a ognuno di noi e all'umanità intera
tutto l'amore da noi sprecato
e che, restituendo l'amore, ci ha restituito la vita.
Io credo che Gesù ha traversato la morte, che è vivo
tra noi fino alla fine dei tempi
e che gli uomini, per mezzo di Lui e in Lui,
possono vivere la vita che non finirà.
Io credo che i credenti e amanti di Gesù formano insieme un grande popolo,
una grande comunità: la Chiesa.
Io credo che questa comunità-chiesa, di cui sono membro in Gesù
e con i miei fratelli,
è, per opera nostra, povera e peccatrice
e che non ha saputo conservare la sua unità.
Ma io credo che è chiamata ad essere Santa
una e segno dell'amore.
Io credo che Gesù ha voluto per lei dei responsabili,
e che questi responsabili sono degli uomini e dunque che sono
peccatori e possono sbagliare.
Ma li rispetto e li amo perché Gesù li ha voluti, scelti, chiamati,
e che il suo spirito li accompagna per i lunghi cammini della storia.
Io credo che lo Spirito di Gesù, lo Spirito Santo, è soffio d'amore.
Che viene incontro all'uomo - libero -
libertà che può aprirsi a Lui
per accoglierlo
lasciarsi invadere da Lui, permeare da Lui
ed essere inviato verso gli altri.
Soffio d'amore che unisce l'uomo all'uomo
gli uomini agli uomini e all'universo
e che costituisce il "Regno del Padre".
Regno d'amore radicato nell'oggi della storia umana
per fiorire domani nell'amore trinitario.
Io credo che l'amore non può morire,
perché viene da Dio
e ritorna a Dio,
passando attraverso l'uomo libero
che si apre, riceve e a sua volta ridona.
inviato da Patrizia, inserito il 07/09/2008
RACCONTO
Angiolino era preoccupato. L'Eterno Padre gli aveva assegnato la missione di consolare il suo Figlio agonizzante. "Di che cosa potrà mai aver bisogno il Signore?", pensava tra sé.
In un baleno lasciò la Gloria del Paradiso, raggiunse la Palestina, si diresse verso Gerusalemme e deviò sul Getsemani. Là si arrestò pieno di stupore: lo stesso Dio che aveva contemplato sfolgorante d'infinita gloria, quello stesso Dio davanti al quale stava sempre in adorazione, ora era lì, al buio, prostrato a terra, tutto tremante e angosciato.
«Devo assolutamente trovare qualcuno che lo possa consolare!», si disse dirigendosi verso gli Apostoli. «Sicuramente loro sono disposti ad aiutarmi: hanno ricevuto tanti insegnamenti e hanno visto tanti miracoli!». Ma i discepoli dormivano.
«Che delusione! Forse tra i miracolati troverò qualcuno disposto a consolarlo!». Il povero Angiolino girò tutta la Giudea: visitò ciechi che vedevano, storpi che camminavano, sordi che sentivano, ma tutti erano intenti a festeggiare la Pasqua.
«Tutti pensano a festeggiare e non c'è nessuno che pensi al Signore! Vorrà dire che andrò avanti e indietro nel tempo radunando le anime sante del passato e del futuro!».
Angiolino non ci mise molto: con una velocità supersonica portò un esercito di anime. Tra quelle del passato si distingueva il Re Davide, il profeta Isaia, Mosè, Geremia e tutti gli altri profeti. Brillavano con una luce tutta speciale san Giuseppe e san Giovanni Battista. Tra le anime del futuro c'erano gli Apostoli ormai diventati coraggiosi, schiere sterminate di martiri, di vergini e di confessori. Si vedeva santa Chiara che commossa sussurrava: «Era tutta la vita che chiedevo questa grazia...», accanto a lei c'era san Francesco, sant'Antonio, santa Veronica, poi san Domenico, santa Caterina da Siena, santa Gemma, san Giovanni Bosco, san Massimiliano Maria Kolbe... e San Pio che confuso e profondamente commosso assumeva su di sé la pesantissima Croce, condividendo con Cristo le atroci sofferenze della Passione.
Gesù ne ebbe un gran sollievo, ma la visione delle numerosissime anime che avrebbero disprezzato il suo Sacrificio lo prostrava e addolorava ancora profondamente.
Allora Angiolino come un lampo si diresse verso la casa dell'immacolata. La Signora stava offrendo tutto con Gesù. «Mia dolce Regina, non volevo disturbarti perché so che stai soffrendo molto e avresti bisogno di essere consolata tu stessa, ma sei l'unica che può aiutarmi!».
«Angiolino caro, in questo momento l'unica mia consolazione è proprio quella di poter consolare Gesù! Su, presto! Torna nell'Orto degli Ulivi e portagli il mio Cuore!».
Angiolino tutto tremante prese quel preziosissimo Cuore nelle sue mani di luce e lo portò subito a Gesù.
venerdì santogetsemanidoloreagoniaconsolazionesperanza
inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008
TESTO
137. Il Calvario tre giorni dopo 1
I Vangeli ci raccontano numerose apparizioni del Risorto avvenute nel giorno di Pasqua. Se è lecito esprimere delle preferenze, quella che mi commuove di più è l'apparizione a Maria di Magdala, piangente accanto al sepolcro vuoto.
Le si avvicina Gesù e le dice: "Perché piangi?". Donna, le tue lacrime non hanno più motivo di scorrerti dagli occhi. A meno che tu non pianga per gioia o per amore. Vedi: la collina del Calvario, che l'altro ieri sera era solo un teschio coperto di fango, oggi si è improvvisamente allagata di un mare d'erba. I sassi si sono coperti di velluto. Le chiazze di sangue sono tutte fiorite di anemoni e asfodeli. Il cielo, che venerdì era uno straccio pauroso, oggi è limpido come un sogno di libertà. Siamo appena al terzo giorno, ma sono bastate queste poche ore perché il mondo facesse un balzo di millenni. No, non misurare sui calendari dell'uomo la distanza che separa quest'alba luminosa dal tramonto livido dell'ultimo venerdì. Non è trascorso del tempo: è passata un'eternità. Donna, tu non lo sai: ma oggi è cominciata la nuova creazione.
Cari amici, nel giorno solennissimo di Pasqua anch'io debbo rivolgere a ciascuno di voi la stessa domanda di Gesù: "Perché piangi?". Le tue lacrime non hanno più motivo di scorrerti dagli occhi. A meno che non siano l'ultimo rigagnolo di un pianto antico. O l'ultimo fiotto di una vecchia riserva di dolore da cui ancora la tua anima non è riuscita a liberarsi. Lo so che hai buon gioco a dirmi che sto vaneggiando. Lo so che hai mille ragioni per tacciarmi di follia. Lo so che non ti mancano gli argomenti per puntellare la tua disperazione. Lo so.
Forse rischio di restare in silenzio anch'io, se tu mi parli a lungo dei dolori dell'umanità: della fame, delle torture, della droga, della violenza. Forse non avrò nulla da replicarti se attaccherai il discorso sulla guerra nucleare, sulla corsa alle armi o, per non andare troppo lontano, sul mega poligono di tiro che piazzeranno sulle nostre terre, attentando alla nostra sicurezza, sovvertendo la nostra economia e infischiandosene di tutte le nostre marce della pace.
Forse rimarrò suggestionato anch'io dal fascino sottile del pessimismo, se tu mi racconterai della prostituzione pubblica sulla statale, del dilagare dei furti nelle nostre case, della recrudescienza di barbarie tra i minori della nostra città.
Forse mi arrenderò anch'io alle lusinghe dello scetticismo, se mi attarderò ad ascoltarti sulle manovre dei potenti, sul pianto dei poveri, sulla miseria degli sfrattati, sulle umiliazioni di tanta gente senza lavoro.
Forse vedrai vacillare anche la mia speranza se continuerai a parlarmi di Teresa che, a trentacinque anni, sta morendo di cancro. O di Corrado che, a dieci, è stato inutilmente operato al cervello. O di Lucia che, dopo Pasqua, farà la Prima Comunione in casa perché in chiesa, con gli altri compagni, non potrà andarci più. O di Nicola e Annalisa che, dopo tre anni di matrimonio e dopo aver messo al mondo una creatura, se ne sono andati ognuno per la sua strada, perché non hanno più nulla da dirsi.
Queste cose le so: ma io voglio giocarmi, fino all'ultima, tutte le carte dell'incredibile e dire ugualmente che il nostro pianto non ha più ragione di esistere.
La Resurrezione di Gesù ne ha disseccate le sorgenti. E tutte le lacrime che si trovano in circolazione sono come gli ultimi scoli delle tubature dopo che hanno chiuso l'acquedotto.
Riconciliamoci con la gioia. La Pasqua sconfigga il nostro peccato, frantumi le nostre paure e ci faccia vedere le tristezze, le malattie, i soprusi e perfino la morte, dal versante giusto: quello del "terzo giorno". Da quel versante, il luogo del cranio ci apparirà come il Tabor. Le croci sembreranno antenne, piazzate per farci udire la musica del Cielo. Le sofferenze del mondo non saranno per noi i rantoli dell'agonia, ma i travagli del parto.
E le stigmate lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, saranno le feritoie attraverso le quali scorgeremo fin d'ora le luci di un mondo nuovo!
Buona Pasqua!
pasquarisortoresurrezionevitagioiadoloresofferenzamortecrocesenso della vita
inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008
TESTO
Carissimi, cenere in testa e acqua sui piedi.
Una strada, apparentemente, poco meno di due metri. Ma, in verità, molto più lunga e faticosa. Perché si tratta di partire dalla propria testa per arrivare ai piedi degli altri. A percorrerla non bastano i quaranta giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo. Occorre tutta una vita, di cui il tempo quaresimale vuole essere la riduzione in scala.
Pentimento e servizio. Sono le due grandi prediche che la Chiesa affida alla cenere e all'acqua, più che alle parole. Non c'è credente che non venga sedotto dal fascino di queste due prediche. Le altre, quelle fatte dai pulpiti, forse si dimenticano subito. Queste, invece, no: perché espresse con i simboli, che parlano un "linguaggio a lunga conservazione".
È difficile, per esempio, sottrarsi all'urto di quella cenere. Benché leggerissima, scende sul capo con la violenza della grandine. E trasforma in un'autentica martellata quel richiamo all'unica cosa che conta: "Convertiti e credi al Vangelo". Peccato che non tutti conoscono la rubrica del messale, secondo cui le ceneri debbono essere ricavate dai rami d'ulivo benedetti nell'ultima domenica delle palme. Se no, le allusioni all'impegno per la pace, all'accoglienza del Cristo, al riconoscimento della sua unica signoria, alla speranza di ingressi definitivi nella Gerusalemme del cielo, diverrebbero itinerari ben più concreti di un cammino di conversione. Quello "shampoo alla cenere", comunque, rimane impresso per sempre: ben oltre il tempo in cui, tra i capelli soffici, ti ritrovi detriti terrosi che il mattino seguente, sparsi sul guanciale, fanno pensare per un attimo alle squame già cadute dalle croste del nostro peccato.
Così pure rimane indelebile per sempre quel tintinnare dell'acqua nel catino. È la predica più antica che ognuno di noi ricordi. Da bambini, l'abbiamo "udita con gli occhi", pieni di stupore, dopo aver sgomitato tra cento fianchi, per passare in prima fila e spiare da vicino le emozioni della gente. Una predica, quella del giovedì santo, costruita con dodici identiche frasi: ma senza monotonia. Ricca di tenerezze, benché articolata su un prevedibile copione. Priva di retorica, pur nel ripetersi di passaggi scontati: l'offertorio di un piede, il levarsi di una brocca, il frullare di un asciugatoio, il sigillo di un bacio.
Una predica strana. Perché a pronunciarla senza parole, genuflesso davanti a dodici simboli della povertà umana, è un uomo che la mente ricorda in ginocchio solo davanti alle ostie consacrate.
Miraggio o dissolvenza? Abbaglio provocato dal sonno, o simbolo per chi veglia nell'attesa di Cristo? "Una tantum" per la sera dei paradossi, o prontuario plastico per le nostre scelte quotidiane? Potenza evocatrice dei segni!
Intraprendiamo, allora, il viaggio quaresimale, sospeso tra cenere e acqua.
La cenere ci bruci sul capo, come fosse appena uscita dal cratere di un vulcano. Per spegnerne l'ardore, mettiamoci alla ricerca dell'acqua da versare... sui piedi degli altri.
Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il cammino del nostro ritorno a casa.
Cenere e acqua. Ingredienti primordiali del bucato di un tempo. Ma, soprattutto, simboli di una conversione completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi.
Un grande augurio.
mercoledì delle ceneriquaresimapentimentoserviziopenitenzaGiovedì Santolavanda dei piedi
inviato da Sandra Aral, inserito il 05/02/2008
TESTO
La santa sera tutto era pronto, a Greccio, come frate Francesco aveva desiderato; verso l'ora di mezzanotte, tutto il popolo di quei pressi era convenuto intorno al presepe per festeggiare la nascita del Signore. Come ci racconta Tomaso da Celano: «Greccio era diventata una nuova Betlemme; la foresta risuonava di voci melodiose e le rocce echeggiavano ai canti della folla». Ognuno portava torce accese, mentre, vicino al presepe, stavano i frati coi loro ceri; tanto che i boschi erano rischiarati come fosse pieno giorno. Sulla mangiatoia che serviva d'altare, un prete lesse la messa, perché il divino fanciullo fosse presente, sotto le specie del pane e del vino, al modo stesso che lo era stato corporalmente a Betlemme. Ci fu pure un istante in cui Giovanni Vellita ebbe l'impressione di vedere un vero bambino coricato nella mangiatoia, ma che sembrava morto, o, per lo meno, addormentato. Ed ecco che frate Francesco si avvicina al bambino e lo prende teneramente tra le braccia; ed ecco che anche il bambino si sveglia, sorride a frate Francesco, e, con le sue piccole mani, gli accarezza le guance barbute e la stoffa grigia della sottana! Visione che, del resto, non aveva nulla di stupefacente per messer Vellita: poiché egli conosceva già parecchi cuori, in cui, allo stesso modo, Gesù era stato morto, o per lo meno addormentato, fino al giorno in cui frate Francesco, con la sua parola e il suo esempio, non l'aveva risvegliato e risuscitato.
Dopo la lettura del Vangelo, frate Francesco, in veste di diacono, si avanzò verso la folla. «Sospirando profondamente, ci dice Celano, accasciato sotto la pienezza della sua pietà, e traboccante di meravigliosa gioia, il santo di Dio si drizzò presso la mangiatoia. E la sua voce, la sua voce forte e dolce, la sua voce chiara e sonora, trascinò gli uditori a ricercare il bene supremo».
Frate Francesco predica alla folla. «Con parole d'una dolcezza squisita, parla del povero re nato quella notte che è il Signore Gesù, nella città di David. E, ogni volta che vuole pronunciare il nome di Gesù, ecco che egli è tutto arso dal fuoco del suo amore, e che, invece di dirgli questo nome, lo chiama teneramente il Bambino di Betlemme! E, questa parola Betlemme, la dice col tono d'un agnello belante; e quando ha proferito il nome di Gesù, lascia scivolare la lingua sulle labbra, come per assaporare la dolcezza che quel nome ha sparso dietro di sé, passando su quelle labbra. E non fu che molto tardi che terminò quella santa notte di vigilia, e che ciascuno, con il cuore pieno di gioia, se ne ritornò alla sua casa».
«In seguito, questo luogo, dove era stato piantato il presepe, fu consacrato al Signore con l'erezione di un tempio; e sopra la mangiatoia fu alzato un altare in onore del nostro beato Padre Francesco: così che, là dove poco prima le bestie senza ragione mangiavano il fieno dalla greppia, oggi gli uomini, per la salute delle loro anime e del loro corpo, ricevono l'Agnello immacolato, Nostro Signore Gesù Cristo, che, spinto da ineffabile amore, ha dato la sua carne per la vita del mondo, e che, col Padre e lo Spirito Santo, vive e regna in somma grandezza per tutti i secoli dei secoli. Così sia!».
natalepresepepresepioSan Francesco
inviato da Franco Canzian, inserito il 19/12/2007
RACCONTO
140. Il club del novantanove 6
Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali
C'era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto della tua allegria?».
«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela».
«Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».
«Che cosa significa?».
«Fa' quello che ti dico...».
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d'oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta... novantanove! Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».
Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili... Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d'oro. Soltanto novantanove. «Novantanove monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».
La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l'avrebbe fatta! Il paggio era entrato nel giro del novantanove...
Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.
E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro. E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove. È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere.
Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.
tesorodenarocupidigiaavariziafelicitàinterioritàesterioritàgratitudinesoldibeni materiali
inserito il 25/11/2007
TESTO
Aldo Rabino, Vivere non è un assurdo
Com'è facile parlare dell'oppressione dei popoli, della violenza! Le chiacchiere sono un alibi per nascondere il pensiero; ma, molto più, per seppellire i fatti. Il grido "ho fame", "ho sete", "non ho casa", "sono nudo" ha sempre attraversato la terra e turbato il cuore dei ricchi, ma era un'emozione necessaria per dare uno sfondo alla festa.
Parlare, sentire, commuoversi è facile.
Difficile è scendere nel concreto, lasciare la superficie e calarsi a fondo nella realtà. Cos'è che c'impedisce, ci frena, ci paralizza? Se ci riflettiamo bene è la paura di non poter più - imboccata la strada di una scelta radicale per i poveri - tornare indietro. Eppure la fede senza le opere è morta, non si può dire d'essere cristiano senza una scelta radicale, con tutto ciò che di scomodo questa comporta.
Cristo è stato esplicito - "Andate, predicate, battezzate" - lui ha vissuto nella propria carne il sapore della testimonianza, del logorio, il patimento di dover essere accolti a sassate, di essere derisi e infine di essere messi a Morte. Credere nei poveri è lavorare, è un buttarsi dentro.
Non servono le mie o le tue idee. Serve il mio e il tuo impegno, messi insieme e vissuti in mezzo ai poveri. L'uomo del duemila non ha bisogno di parole ma di fatti, di cose concrete. Il mondo soffre per la guerra e la fame. Ma forse soffre più per la mancanza di gesti vivi, di realtà concrete, di piccole cose e attenzioni. Ma qual è la meta? Aiutare i poveri, quelli che hanno realmente bisogno, coloro che un po' tutti insieme abbiamo emarginato e messi da parte.
L'aiutare i poveri richiede atti di amore continuati, esige un buttarsi via, stando con loro. Non sono cose da dire ma da fare. Troppe volte sono state predicate, dimenticando che la vera sensibilizzazione è cio che Facciamo e cio che siamo. Alla base di questa conversione ci sta il lavoro; il lavoro duro che è fatica, che è sudore. "Lavoro non chiacchiere". Ciò che mette in crisi gli altri è il fare noi le cose, stando nel duro, anziché fare chiacchiere dure o discorsi da duri. Il gioco è questo: "perdere un po' alla volta noi stessi per aiutare poco alla volta gli altri".
È una strada dura, ci parrà di soffocare, ma alla fine saremo contenti di non aver chiuso la vita in passivo. Allora finalmente saremo uomini!
impegnoresponsabilitàamorepoveripovertà
inviato da Anna Lollo, inserito il 21/08/2007
ESPERIENZA
Angelo Comastri, Dio è Amore
Non molto tempo fa ho avuto un incontro indimenticabile. Erano le dieci di sera: avevo appena terminato la preghiera serale e la piazza del Santuario di Loreto si animava di voci, di saluti, di sorrisi e di "buona notte".
Mi accosto ad una culletta sostenuta dalle braccia robuste di un barelliere. Ma non vedo un bambino bensì una donna adulta: un piccolissimo corpo (58 centimetri!) con un volto splendidamente sorridente. Tendo la mano per salutare, ma l'ammalata con gentilezza mi risponde: «Padre non posso darle la mano, perché potrebbe fratturarmi le dita: io soffro di osteogenesi imperfetta e le mie ossa sono fragilissime. Voglia scusarmi». Non c'era nulla da scusare, evidentemente.
Rimasi affascinato dalla serenità e dalla dolcezza dell'ammalata e volevo sapere qualcosa di più della sua vita. Mi prevenne e mi disse: «Padre, sotto il cuscino della mia culletta c'è un piccolo diario. E' la mia storia! Se ha tempo, può leggerla». Presi i fogli e lessi il titolo: Felice di vivere! I miei occhi tornarono a guardare quel mistero di gioia crocifissa e domandai: «Perché sei felice di vivere? Puoi anticiparmi qualcosa di quello che hai scritto?». Ecco la risposta che consegno alla vostra meditazione.
L'ammalata mi disse: «Anticiparmi qualcosa di quello che hai scritto? Padre, lei vede le mie condizioni... ma la cosa più triste è la mia storia! Potrei intitolarla così: abbandono! Eppure sono felice, perché ho capito qual è la mia vocazione. Si, è la mia vocazione! Io, per un disegno d'amore del Signore, esisto per gridare a coloro che hanno la salute: "Non avete il diritto di tenerla per voi, la dovete donare a chi non ce l'ha, altrimenti la salute marcirà nell'egoismo e non vi darà la felicità!". Io esisto per gridare a coloro che si annoiano: "Le ore in cui voi vi annoiate... mancano a qualcuno che ha bisogno di affetto, di cure, di premure, di compagnia; se non regalerete quelle ore, esse marciranno e non vi daranno la felicità". Io esisto per gridare a coloro che vivono di notte e corrono da una discoteca all'altra: "Quelle notti, sappiatelo!, mancano, drammaticamente mancano a tanti ammalati, a tanti anziani, a tante persone sole che aspettano una mano che asciughi una lacrima: quelle lacrime mancano anche a voi, perché esse sono il seme della gioia vera! Se non cambierete vita non sarete mai felici!"».
Io guardavo l'ammalata, che parlava dal suo pulpito autorevole: il pulpito del dolore! Non osavo commentare, perché tutto era stupendamente e drammaticamente vero. L'ammalata aggiunse: «Padre, non è bella la mia vocazione?».
vocazionedoloreesistenzavitasenso della vitasofferenzacroce
inviato da Mario Varano, inserito il 20/08/2007
PREGHIERA
Anna Rita Mazzocco, Cantico di Tommaso
C'ero anch'io quella mattina
sulla via della croce.
Eri a poca distanza da me
mentre fra sputi ed insulti
arrancavi verso il posto
dove avevamo decretato
che Tu morissi.
Attorno a me la folla.
C'era chi voleva solo curiosare
e chi era capitato lì per caso
ma c'era anche chi voleva partecipare
per vendicarsi di Te
almeno solo con lo sguardo.
L'ennesima profanazione di quel corpo
già ridotto ad un'unica piaga:
la miseria umana.
Non so dirti perché accorsi anch'io
a quella sagra dell'ingiustizia
ma, come Zaccheo, mi feci largo tra la folla
per vedere.
Ed ero in prima fila.
Tutto ciò di cui potrei essere capace era lì
davanti ai miei occhi
sprofondati tra quelle piaghe
che invocavano la morte.
Stavi per passarmi davanti
ma io non volevo più vedere oltre.
Avrei voluto essere lontano
il più lontano possibile da quello scempio
ma ormai non potevo più scappare.
Ero imbottigliato tra la folla
che i soldati romani spingevano indietro
per lasciar passare la giustizia dell'uomo.
Ora non eri più una macchia di sangue
sulla via del Calvario.
Ora si riconosceva un volto.
Ed eri ancora umano.
Dicono che tu fossi il più bello fra gli uomini
ma io non ti avevo mai visto prima.
Quella mattina però lo eri davvero
talmente bello da non aver il coraggio di guardarti.
E abbassai lo sguardo
per non correre il rischio d' incontrare il tuo.
Come uno struzzo sperai
d'aver scampato il pericolo di quell'incontro.
E mi passasti davanti
ma io non sollevai gli occhi da terra.
Vidi soltanto i tuoi piedi piagati
che sostarono alcuni secondi davanti a me.
Sicuramente dovevi riprendere fiato.
Ma uno schiocco di frusta
ti richiamò al tuo dovere di vittima...
E così riprendesti sulle spalle il mio peccato
avanzando ancora con fatica.
Ma sui sassi mi lasciasti il tuo ricordo.
Dicono che moristi alle tre
ma io non venni a vedere.
Ero rimasto lungo la via del Calvario
seduto a terra
davanti a quell'impronta di sangue
che mi schiantava il cuore.
preghieravenerdì santopassione
inviato da Anna Rita Mazzocco, inserito il 19/08/2007
TESTO
Rivista Consacrazione e servizio
Sogno una comunità formata da fratelli e sorelle, ma il cui termine «fratello» o «sorella» non venga appiccicato addosso dall'abitudine, ma guadagnato, sudato da tutti, giorno per giorno. Sogno una comunità in cui il «reale» sia la legge fondamentale da cui dipendono tutte le altre leggi. Il reale: ossia queste persone concrete, con questa mentalità, con questa cultura, con questa formazione, con queste doti, con questa età, in questa situazione particolare, in questo ambiente, con questa missione da compiere, in questo tempo.
Sogno una comunità in cui venga riconosciuto il primato della persona. E tutti siano convinti che il «bene comune» non può che coincidere sempre con il bene delle singole persone. Una comunità costruita in rapporto alle persone. Una comunità in cui le strutture e le opere siano in funzione dell'equilibrio, dello sviluppo, della crescita delle persone.
Sogno una comunità nella quale l'uguaglianza fondamentale di tutti i membri venga riconosciuta e accentuata con tutti i mezzi. Sogno una comunità in cui manchino i privilegiati; semmai i privilegiati siano i piccoli, i deboli, gli ultimi, una comunità nella quale domini la «mentalità della catena», secondo cui la forza e la consistenza della catena nel suo insieme viene data dall'anello più debole.
Sogno una comunità in cui non ci sia tempo da perdere per le sciocchezze e i pettegolezzi, per le insinuazioni, i sospetti, le maldicenze, le chiacchiere: dove ci si ama non c'è mai tempo da perdere, perché nulla ci può assorbire come l'amore. Una comunità in cui nessuno si prenda troppo sul serio, ma ognuno si senta preso sul serio dagli altri.
Sogno una comunità in cui venga scoraggiato bruscamente ogni tentativo, da qualunque parte si manifesti, di parlare male di una persona assente. Una comunità in cui tutti si trovino «al sicuro». Ossia ognuno si trovi al sicuro in fatto di libertà, dignità, rispetto e, soprattutto, responsabilità personale.
Sogno una comunità in cui ciascuno abbia il coraggio di esprimere liberamente il proprio pensiero. In cui le opinioni espresse dai singoli vengano prese in considerazione per il peso effettivo degli argomenti portati, e non per le altre valutazioni opportunistiche, autoritarie o emozionali. Una comunità in cui ogni membro venga considerato da tutti gli altri «uno di cui ci si può fidare». E ciascuno si impegni ad esserlo per davvero.
Sogno una comunità nella quale tutti si lascino mettere in discussione e il linguaggio sia schietto, e non si abbia paura della verità; anche perché lo stile abituale è uno stile di verità che penetra, scomoda, ma non umilia nessuno. Una verità che guarisce sia pure dolorosamente, ma non ferisce, perché... felicità è poter dire la verità senza far piangere nessuno.
Sogno una comunità in cui tutti quelli che si «atteggiano» a maestri vengano condannati a vivere le parole; tutti quelli che si atteggiano a «giudici» vengano condannati a sentirsi complici. Una comunità in cui l'unico sospetto valido sia il sospetto che qualche fratello o sorella non ricevano la quota d'amore che spetta loro.
Sogno venti, cinquanta, mille comunità che dimostrino che.. ho sognato la realtà!
inviato da Naldi Franco, inserito il 18/08/2007
PREGHIERA
Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici"
O Vergine santissima,
Madre di Cristo e Madre della Chiesa,
con gioia e con ammirazione,
ci uniamo al tuo Magnificat,
al tuo canto di amore riconoscente.
Con te rendiamo grazie a Dio,
«la cui misericordia si stende
di generazione in generazione»,
per la splendida vocazione
e per la multiforme missione
dei fedeli laici,
chiamati per nome da Dio
a vivere in comunione di amore
e di santità con lui
e ad essere fraternamente uniti
nella grande famiglia dei figli di Dio,
mandati a irradiare la luce di Cristo
e a comunicare il fuoco dello Spirito
per mezzo della loro vita evangelica
in tutto il mondo.
Vergine del Magnificat,
riempi i loro cuori
di riconoscenza e di entusiasmo
per questa vocazione e per questa missione.
Tu che sei stata,
con umiltà e magnanimità,
«la serva del Signore»,
donaci la tua stessa disponibilità
per il servizio di Dio
e per la salvezza del mondo.
Apri i nostri cuori
alle immense prospettive
del Regno di Dio
e dell'annuncio del Vangelo
ad ogni creatura.
Nel tuo cuore di madre
sono sempre presenti i molti pericoli
e i molti mali
che schiacciano gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Ma sono presenti anche
le tante iniziative di bene,
le grandi aspirazioni ai valori,
i progressi compiuti
nel produrre frutti abbondanti di salvezza.
Vergine coraggiosa,
ispiraci forza d'animo
e fiducia in Dio,
perché sappiamo superare
tutti gli ostacoli che incontriamo
nel compimento della nostra missione.
Insegnaci a trattare le realtà del mondo
con vivo senso di responsabilità cristiana
e nella gioiosa speranza
della venuta del Regno di Dio,
dei nuovi cieli e della terra nuova.
Tu che insieme agli Apostoli in preghiera
sei stata nel Cenacolo
in attesa della venuta dello Spirito di Pentecoste,
invoca la sua rinnovata effusione
su tutti i fedeli laici, uomini e donne,
perché corrispondano pienamente
alla loro vocazione e missione,
come tralci della vera vite,
chiamati a portare molto frutto
per la vita del mondo.
Vergine Madre,
guidaci e sostienici perché viviamo sempre
come autentici figli e figlie
della Chiesa di tuo Figlio
e possiamo contribuire a stabilire sulla terra
la civiltà della verità e dell'amore,
secondo il desiderio di Dio
e per la sua gloria.
Amen.
laiciimpegnoresponsabilitàlaicato
inviato da Anna Barbi, inserito il 24/05/2007
TESTO
Tonino Bello, Cirenei della gioia
Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.
Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire, avrà la firma d'autore del Signore. Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.
Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.
Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.
Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare...». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d'amore.
Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».
Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare, chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di AIDS... diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgeranno che non c'è sostanza, che non c'è l'acqua viva, la gente se ne va.
Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.
Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Chiristi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.
La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in modo o nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte» (Gv. 13,30).
Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell'intimismo, ovattato dove le percussioni dei mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l'ordine del giorno che il mondo ci impone.
Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo..
amorecaritàattivitàcontemplazioneservizioeucaristia
inviato da Don Luigi Pisoni, inserito il 17/11/2006
PREGHIERA
147. Il ballo dell'obbedienza 1
"Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato"
E' il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C'è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re.
Ed io, penso
all'altro re.
Al re David che danzava davanti all'Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,
ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,
tanto erano felici di vivere:
Santa Teresa con le sue nacchere,
San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,
e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,
e indovineremmo facilmente
quale danza ti piace farci danzare
facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da
condottiero,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po' voglia d'altro
hai inventato san Francesco,
e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa
per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace di segnare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l'orchestra
scandisce.
Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,
ma accettare di tornare indietro, di andare di fianco.
Bisogna saper fermarsi e saper scivolare invece di
camminare.
Ma non sarebbero che passi da stupidi
se la musica non ne facesse un'armonia.
Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica:
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa Volontà
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c'è monotonia e noia
se non per le anime vecchie,
tappezzeria
nel ballo di gioia che è il tuo amore.
Signore, vieni ad invitarci.
Siamo pronti a danzarti questa corsa che dobbiamo fare,
questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia in
cui avremo sonno.
Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,
quella del caldo, e quella del freddo, più tardi.
Se certe melodie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
Se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno per strada ci urta, gli sorrideremo:
anche questo è danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno
avviato fra te e noi,
il ballo della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni:
in essa, quel che tu permetti
dà suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana
come un vestito da ballo, che ci farà amare di te
tutti i particolari. Come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo,
ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si
rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l'universo d'amore.
Signore, vieni ad invitarci.
obbedienzafedefiduciaabbandonogioiaprovvidenza
inviato da Qumran2, inserito il 02/11/2006
TESTO
Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, Gribaudi ed, Torino, 1990
Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.
Incontrerà
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.
Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gl'inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.
Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.
Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.
missioneresponsabilitàtestimonianzaevangelizzazione
inviato da Anna Barbi, inserito il 25/08/2006
TESTO
Le due vie sono sempre esistite.
Sempre il Signore dirà agli uni: "A causa di me e del mio amore tu avrai una moglie, dei figli, una casa, dei beni da amministrare da parte mia nel mondo".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Tu non avrai che me e io sarò il tuo tutto".
Sempre il Signore dirà agli uni:
"Io so ciò che ti conviene, ti darò ogni giorno la tua pena il tuo pane quotidiano, perché dovunque tu sarai ci sia anche la mia croce".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Prendi la tua croce e seguimi".
Prendila con le tre braccia della povertà, dell'obbedienza e della castità.
Perché? Perché questo io voglio: che tu mi ami e che noi amiamo il mondo insieme.
La maggior parte di coloro ai quali Cristo tiene un tal discorso stanno sotto vesti scure, bianche o nere, discepoli d'un santo che fu attraverso il tempo compagno di strada del Signore.
Altri sono persone come voi e come me, persone affondate il più a fondo possibile nello spessore del mondo, separate da questo mondo da nessuna regola nessun voto nessun abito nessun convento.
Povere, ma simili alle persone d'ogni luogo. Pure, ma simili a persone di qualsiasi ambiente.
Obbedienti, ma simili a persone di qualsiasi paese.
Sono per tutto e per tutti: ne troverete che insegnano, che emanano leggi, che curano e consolano, che lavorano in officina.
Per essi un mondo vale l'altro e un'anima un'altra anima. Ma non tediateli con metodi e tecniche.
Non dite loro: "Qui è meglio aver l'aria un po' ricca: riuscirete meglio"; "Là è meglio sposarvi, sarete un apostolo migliore"; o ancora: "Sappiate ciò che volete, e mirateci".
Essi vi risponderanno:
"Non si possono seguire due strade. Ci date delle ricette che non fanno per noi".
Se noi siamo un po' malconci, se noi facciamo in questo mondo la figura degli accampati, è perché la nostra ricetta è di non possedere altro che il Signore. Se noi non abbiamo focolare, se a casa nostra né marito né moglie né figli ci attendono, è perché il Signore ci possiede e da Lui solo noi vogliamo essere posseduti.
Se noi non abbiamo programma è perché il nostro Padre del Cielo l'ha scritto prima per noi e ci basta ricevere i suoi ordini giorno per giorno.
Non dite loro che la croce è dannosa, un po' morbosa e un po' malsana, che il mondo ha bisogno di ritrovare il volto della gioia e non dei penitenti.
Vi risponderanno:
"Noi vi parleremo della gioia quando l'avremo imparata sulla croce dove ritroviamo il nostro amore.
La nostra gioia è d'un prezzo così esorbitante che è stato necessario per acquistarla vendere ciò che possedevamo e tutto noi stessi".
Quelli della prima chiamata, devono essere numerosi, perché il mondo è grande e il suo battesimo è lungo.
Ma quelli della seconda chiamata, bisogna che ve ne siano almeno alcuni per dare agli uomini, questi adulti fanciulli, l'edizione visiva della vita di Gesù:
Gesù, che è la "Missione" stessa.
missionevocazionelaicitàconsacrazionelaici
inviato da Cristina, inserito il 18/07/2006
TESTO
150. L'uccellino e il sole divino
S. Teresa di Lisieux, Storia di un'anima
Gesù, Gesù, se è tanto delizioso il desiderio di amarti, che sarà possederti, godere del tuo amore?
In qual modo può, un'anima imperfetta quanto la mia, aspirare a possedere la pienezza dell'Amore? Gesù, mio primo, mio solo Amico, tu che amo unicamente, dimmi, quale mistero è questo? Perché non riservi queste aspirazioni immense alle anime grandi, alle aquile che roteano altissime? Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po' di piuma lieve; non sono un'aquila, ho dell'aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fissare il Sole divino, il Sole dell'Amore, e il mio cuore prova tutte le aspirazioni dell'aquila... L'uccellino vorrebbe volare verso quel Sole che affascina gli occhi, vorrebbe imitare le aquile, sue sorelle che vede elevarsi fino alla divina dimora della santissima Trinità... Ahimé! Tutto quello che può fare, è sollevare le sue alucce, ma volar via, questo non è nelle sue piccole possibilità. Che ne sarà di lui? Morirà di dolore vedendosi così impotente? No! L'uccellino non se ne affliggerà nemmeno. Con un abbandono audace vuol fissare ancora il suo Sole divino: niente gli fa paura, né vento, né pioggia, e se le nuvole pesanti nascondono l'Astro d'amore, l'uccellino non cambia posto, sa che di là dalle nubi il Sole splende sempre, che la sua luce non si offuscherà nemmeno per un attimo.
In certi momenti il suo cuore si trova assalito dalla tempesta, gli pare che non esistano altre cose se non le nubi che lo circondano; e allora è il momento della gioia perfetta per il povero esserino debole. Che felicità per lui restare lì ugualmente, e fissare la luce invisibile la quale si nasconde alla sua fede! Gesù, fino da ora capisco il tuo amore per l'uccellino, perché non si allontana da te... Ma io lo so, e tu lo sai, spesso questo cosino minimo e imperfetto, pur rimanendo al suo posto (cioè sotto i raggi del Sole), si lascia distrarre un poco dalla sua occupazione unica, becca un granellino di qua o di là, corre dietro a un vermiciattolo... Poi, trovando una pozzanghera, si bagna le piume appena spuntate, vede un fiore che gli piace, allora la sua piccola testa si occupa di quel fiore... e poi, non potendo planare come le aquile, il povero uccellino s'interessa ancora alle piccolezze della terra. Tuttavia, dopo questi malestri, invece di andare a nascondersi in un angolino per piangere la sua miseria e morir di pentimento, l'uccellino si volge verso il Sole amato, presenta ai raggi benefici le alucce bagnate, geme come la rondine, e con un canto dolce racconta tutti i particolari della sua infedeltà, pensando nel suo abbandono temerario di acquistare così maggior diritto, attirare più pienamente l'amore di Colui che non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.
Se l'Astro adorato rimane sordo al lamento cinguettato della sua creaturina, se rimane velato, ebbene, la creaturina resta bagnata, accetta di essere intirizzita di freddo, e si rallegra ancora di questa sofferenza che ha pur mentata... Gesù, com'è felice il tuo uccellino di essere debole e piccolo. Oh, che sarebbe di lui se fosse grande? Mai avrebbe l'audacia di comparire alla tua presenza, di sonnecchiare dinanzi a te... Si, ecco un'altra debolezza dell'uccellino: quando vuoi fissare il Sole divino e le nuvole gli impediscono di vedere anche un solo raggio, nonostante la sua buona volontà gli occhi gli si chiudono, la testolina si nasconde sotto l'ala, e il povero esserino si addormenta, credendo di fissar sempre il suo Astro amato. Quando si desta, non si cruccia; il suo cuoricino rimane in pace, ricomincia il suo ufficio d'amore, invoca gli Angeli e i Santi i quali s'innalzano come aquile verso il fuoco divorante oggetto della sua brama, e le aquile, impietosite, proteggono il fratellino, e mettono in fuga gli avvoltoi che vorrebbero divorarlo.
Gli avvoltoi, immagini dei demoni, l'uccellino non li teme, non è destinato a diventar la loro preda, bensì sarà preda dell'Aquila che egli contempla nel centro del Sole d'amore. O Verbo divino, tu sei l'Aquila adorata, io ti amo. Tu mi attiri, sei tu che, slanciandoti verso la terra dell'esilio, hai voluto soffrire e morire per attirare le anime fino al seno dell'intimità eterna della Santissima Trinità, sei tu che, risalendo verso la Luce inaccessibile ove soggiornerai sempre, resti pur sempre nella valle delle lacrime, nascosto entro l'aspetto di un'Ostia bianca... Aquila eterna, tu vuoi nutrire della tua sostanza divina me, povero esserino che rientrerei nel nulla se il tuo sguardo divino non mi desse la vita minuto per minuto. Oh, Gesù, lasciami dire, nell'eccesso della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva fino alla follia... Come vuoi che, dinanzi a questa follia, il mio cuore non si slanci verso te? Come potrebbe aver limiti la mia fiducia? Per te, lo so, i Santi hanno fatto anch'essi delle follie, hanno fatto grandi cose perché erano aquile.
Gesù, sono troppo piccola per fare cose grandi, e la follia mia è sperare che il tuo Amore mi accolga come vittima! La mia follia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, perché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell'Amore con le ali stesse dell'Aquila divina... Così, per quanto tempo tu lo vorrai, o mio Amato, il tuo uccellino rimarrà senza forza e senza ali; terrà sempre fissi in te gli occhi; vuole essere affascinato dal tuo sguardo divino, vuol diventare preda del tuo Amore... Un giorno, oso sperare, Aquila adorata, verrai in cerca del tuo uccellino, e risalendo con lui al focolare dell'Amore, lo immergerai per l'eternità nell'abisso ardente di quell'Amore al quale egli si è offerto come vittima...
O Gesù, perché non posso dire a tutte le piccole anime quanto ineffabile è la tua condiscendenza... Sento che se, cosa impossibile, tu trovassi un'anima più debole, più piccola della mia, ti compiaceresti di colmarla con favori anche più grandi, se si abbandonasse con fiducia completa alla tua misericordia infinita. Ma perché desiderare di comunicare i tuoi segreti d'amore, Gesù, non sei tu solo che me li hai insegnati, e non puoi forse rivelarti ad altri? Sì, lo so, e ti scongiuro di farlo, ti supplico di abbassare il tuo sguardo divino sopra un gran numero di piccole anime... Ti supplico di scegliere una Legione di piccole vittime degne del tuo Amore....
abbandono in Diorapporto con Dio
inviato da Debora Cavallone, inserito il 14/07/2006
RACCONTO
Suor Angela Benedetta, clarissa
Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.
Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.
Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.
Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.
Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.
Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.
"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".
Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.
Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.
Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.
Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".
Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".
Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.
Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.
Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".
Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.
Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.
inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006
RACCONTO
Sulla vetta di una montagna, coperta di pascoli e pinete profumate di resina, spuntarono un giorno tre piccoli alberi. Nei primi tempi erano così teneri e verdi che si confondevano con l'erba e i fiori che prosperavano intorno a loro.
Ma, primavera dopo primavera, il loro piccolo tronco si irrobustì. Le sfide autunnali e invernali per fronteggiare i venti e le bufere li riempivano di gioia baldanzosa.
Dall'alto della loro casa verde guardavano il mondo e sognavano.
Come tutti coloro che stanno crescendo, sognavano quello che avrebbero voluto diventare da grandi.
Il primo albero guardava le stelle che brillavano come diamanti trapuntati sul vestito di velluto nero della notte.
"Io sopra ogni cosa vorrei essere bello. Vorrei custodire un tesoro" disse. "Vorrei essere coperto d'oro e contenere pietre preziose. Diventerò il più bello scrigno per tesori del mondo".
Il secondo alberello guardava il torrente che scendeva serpeggiando dalla montagna, aprendosi il cammino verso il mare. L'acqua correva e correva, gorgogliando e scherzando con i sassi, un momento era lì e poco dopo già era scomparsa all'orizzonte. E niente riusciva a fermarla. "Io voglio essere forte. Sarò un grande veliero" disse. "Voglio navigare sugli oceani sconfinati e trasportare capitani e re potenti. Io sarò il galeone più forte del mondo".
Il terzo alberello contemplava la valle che si stendeva ai piedi della montagna e guardava la città che si indovinava nella foschia azzurrina.
Laggiù formicolavano uomini e donne. "Io non voglio lasciare questa montagna" disse. "Voglio crescere tanto che quando la gente si fermerà per guardarmi, dovrà alzare gli occhi al cielo e pensare a Dio. Io diventerò il più grande albero del mondo!".
Gli anni passarono. Caddero le piogge, brillò il sole, e i piccoli alberelli divennero tre alberi alti e imponenti.
Un giorno, tre boscaioli salirono sulla montagna, con le loro scuri a tracolla.
Uno dei boscaioli squadrò ben bene il primo albero e disse: "E' un bell'albero. E' perfetto".
Dopo pochi minuti, stroncato da precisi colpi d'ascia, il primo albero piombò al suolo.
"Ora sto per trasformarmi in un magnifico forziere" pensò l'albero. "Mi affideranno in custodia un tesoro favoloso".
Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "Questo albero è vigoroso e solido. E' proprio quello che ci vuole". Sollevò la scure, che lampeggiò al sole, e abbatté l'albero.
"D'ora in poi, navigherò sui mari infiniti e i vasti oceani" pensò il secondo albero. "Sarò una nave importante, degna dei re".
Il terzo albero si sentì mancare il cuore, quando il boscaiolo lo fissò.
"Per me va bene qualunque albero" pensò il boscaiolo. L'ascia balenò nell'aria e, poco dopo, anche il terzo albero giaceva sul terreno.
I loro bei rami, che fino a poco prima avevano scherzato con il vento e protetto uccelli e scoiattoli, furono stroncati uno a uno.
I tre tronchi furono fatti rotolare lungo il fianco della montagna, fino alla pianura.
Il primo albero esultò quando il boscaiolo lo portò da un falegname. Ma il falegname aveva ben altri pensieri che mettersi a fabbricare forzieri. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per animali. L'albero che era stato un tempo bellissimo non fu ricoperto di lamine d'oro né riempito di tesori. Era coperto di rosicchiature e riempito di fieno per nutrire gli animali affamati della fattoria.
Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò al cantiere navale, ma quel giorno nessuno pensava a costruire un veliero. Con grandi colpi di martello e di sega, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pescatori.
Troppo piccola, troppo fragile per navigare su un oceano o anche solo su un fiume, la barca fu portata in un laghetto. Tutti i giorni, trasportava carichi di pesce, che la impregnavano di odore sgradevole.
Il terzo albero divenne tristissimo quando il boscaiolo lo squadrò per farne rozze travi che accatastò nel cortile della sua casa.
"Perché mi succede questo?" si domandava l'albero, ricordando il tempo in cui lottava con il vento sulla cima della montagna.
"Tutto quello che volevo era svettare sul monte per invitare la gente a pensare a Dio".
Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi quasi dimenticarono i loro sogni.
Ma una notte, la luce dorata di una stella accarezzò con i suoi raggi il primo albero, proprio nel momento in cui una giovane donna con infinita tenerezza sistemava nella mangiatoia il suo bambino appena nato.
"Avrei preferito costruirgli una culla" mormorò suo marito. La giovane mamma gli sorrise, mentre la luce della stella scintillava sulle assi lucide e consunte che un tempo erano state il primo albero.
"Questa mangiatoia è magnifica" rispose la mamma.
In quel momento, il primo albero capì di contenere il tesoro più prezioso del mondo.
Altri giorni e altre notti passarono. Una notte, un viaggiatore stanco e i suoi amici si imbarcarono sul vecchio battello da pesca, che un tempo era stato il secondo albero.
Mentre il secondo albero, diventato barca, scivolava tranquillamente sull'acqua del lago, il viaggiatore si addormentò.
All'improvviso, dopo lo schianto di un tuono, in una ridda di fulmini e violente ondate, scoppiò la tempesta.
Il piccolo albero tremò. Sapeva di non avere la forza di trasportare in salvo tante persone con quel vento e con la violenza di quelle onde. Le sue fiancate scricchiolavano penosamente per lo sforzo.
Preoccupati, gli amici svegliarono il misterioso viaggiatore. L'uomo si alzò, spalancò le braccia, sgridò il vento e disse all'acqua del lago: "Fa' silenzio! Calmati!". La tempesta si quietò immediatamente e si fece una grande calma.
In quel momento, il secondo albero capì che stava trasportando, come desiderava, un re, anzi, il re dei cieli, della Terra e degli infiniti oceani.
Poco tempo dopo, un Venerdì mattino, il terzo albero fu molto sorpreso quando le sue rozze travi furono tolte di malagrazia dalla catasta di legname dimenticato.
Furono trasportate nel mezzo di una folla vociante e irosa, sbattute sulle spalle torturate di un uomo, che poi su di esse fu inchiodato. Il povero albero si sentì orribile e crudele. E piangeva, reggendo quel povero corpo tormentato... lui che voleva che la gente grazie a lui vedesse Dio!
Ma la Domenica mattina, quando il sole si levò alto nel cielo e tutta la Terra vibrò di una gioia immensa, il terzo albero seppe che non aveva trasportato un uomo qualunque, ma aveva trasportato Dio!
In quel mattino seppe e capì che l'amore di Dio aveva trasformato tutto.
Aveva fatto del primo albero il meraviglioso scrigno del più tenero e incredibile dei tesori. Aveva reso il secondo albero forte portatore del Creatore del cielo e della Terra.
E ogni volta che una persona avesse guardato il terzo albero avrebbe visto Dio! Ogni persona, anche noi, non solo i pochi della Valle...
E questo era più che essere solo il più bello, il più forte o il più grande albero del mondo...
Clicca qui per una versione simile.
Il racconto ci è stato inviato nel 2005 indicando come autore Paulo Coelho, nel tempo però abbiamo avuto segnalazioni che lo attribuiscono a Stefano Valeri:
http://www.club.it/autori/sostenitori/stefano.valeri/prefazione2.html
ed Elena Pasquali ne ha fatto una riscrizione definendolo un racconto popolare:
http://www.paolinestore.it/shop/la-leggenda-dei-tre-alberi.html
inviato da Fabio, inserito il 03/05/2006
TESTO
153. Cosa la Chiesa può sopportare e cosa non può sopportare 1
Primo Mazzolari, Risposta ad un aviatore, 1941, ora in La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966
Chi capisce come dev'essere presente la Chiesa in questa svolta della storia capisce anche ciò che la sua carità può sopportare e ciò che non può sopportare proprio in nome della stessa carità. Ripeto: in nome della carità, poiché la rivoluzione cristiana, l'unica che può essere giustificata anche davanti alla storia, più che da diritti conculcati o offesi nasce da doveri suggeriti e imposti al nostro cuore dalla carità che ci lega al nostro prossimo. Chi più ama è potenzialmente l'unico e vero rivoluzionario.
La Chiesa sopporta:
- il male che le fanno i suoi nemici, che, per quanto si allontanino e la rinneghino, portano sempre l'incancellabile volto di figli, e di figli tanto più cari quanto più cresce il loro perdimento;
- di essere spogliata di ogni bene materiale e di ogni privilegio concessole più o meno disinteressatamente dagli uomini;
- di vedere le sue basiliche e le sue chiese distrutte, chiusi i suoi conventi e le sue scuole, poiché è già "l'ora che né in Gerusalemme né su questo monte i veri adoratori adorano il Padre in spirito e in verità";
- le persecuzioni aperte e subdole, le calunnie e le blandizie, i vituperi e i panegirici menzogneri;
- gli erranti e in un certo senso perfino l'errore quando esso non può venire colpito senza offesa mortale all'anima dell'errante;
- di essere misconosciuta nella sua carità, colmata di obbrobrio per colpe non sue;
- il disonore che le viene dalla vita indegna dei suoi figlioli stessi, i loro rinnegamenti e i loro tradimenti;
- d'essere baciata da un Giuda, rinnegata da un Pietro.
La Chiesa non può sopportare:
- che vengano negate o diminuite o falsate le verità che essa ha il dovere di custodire e che costituiscono il patrimonio dell'umanità redenta;
- che sia cancellato dalla storia e dal cuore il senso della giustizia che è il patrimonio di tutti, ma in modo particolare dei poveri;
- la libertà e la dignità della persona e della coscienza, che sono il nostro divino respiro. Mentre sopporta senza aprir bocca di essere spogliata e tiranneggiata in qualsiasi modo, non può sopportare che vengano spogliati, conculcati, manomessi i diritti dei poveri e dei deboli, individui, città, nazioni e popoli, cristiani e non cristiani. E nella sua difesa materna e invitta è tanto più grande quanto più la sua tutela si estende alla plebs infedele, egualmente santa. Alcuni gesti di munifica protezione di Pio XII, in favore di ebrei perseguitati, hanno commosso e sollevato l'ammirazione del mondo;
- il potente che abusa della propria forza per opprimere i deboli;
- il sapiente che abusa della propria intelligenza per circuire e trarre in inganno l'ignorante;
- il ricco che abusa delle proprie ricchezze per angariare e affamare il popolo.
Vi sono quindi dei limiti nella sopportazione della Chiesa, e questi limiti vengono non dai raffreddamenti ma dai colmi della sua carità. Ciò che è abominevole per il Signore lo è pure per la sua Chiesa; la quale, senza parteggiare, non può trattare alla stessa stregua la vittima e il carnefice, l'oppressore e l'oppresso.
Chi fermerebbe la mano del malvagio, chi solleverebbe il cuore abbandonato dell'oppresso se un'egual voce raccogliesse il grido dell'uno e il gemito dell'altro?
Sarebbe un delitto il pensare, per il fatto che la Chiesa predica la pazienza ed esalta l'infinito valore del dolore, specialmente del dolore innocente, ch'essa accettasse le tristezze dei prepotenti come un mezzo provvidenziale per moltiplicare i meriti sovrannaturali dei buoni. Purtroppo il nostro linguaggio ascetico, sprovveduto di ampiezza e d'audacia mistica, può indurre un profano in apprezzamenti non solo sproporzionati ma contrari al buon senso.
La sofferenza ben sopportata mi redime e redime, ma non fa diventar buona l'ingiustizia di chi ha pesato su di me. E una bontà conseguente, che non ha nulla da spartire con la causa ingiusta che ha generato la mia sofferenza. Soffrendo bene l'ingiustizia, creo una corrente di bontà: ma non per questo gli uomini sono dispensati dal fermare con tutte le forze la sorgente di male che continua a generare l'errore.
Perché c'è uno che espia in modo edificante, io non sono scusato di lasciar fare e di lasciar passare. Il soffrire non è un bene in sé e se il Signore ci aiuta a cavare il bene dal male non vuole che noi chiamiamo bene il male, il quale va tolto di mezzo nei limiti della nostra responsabilità e della nostra carità. Il perdono stesso delle offese va all'uomo, non all'azione di lui, la quale rimane giudicata anche dopo il perdono, anzi giudicata veramente e irrevocabilmente solo dopo il perdono.
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inviato da Carlo Maria Cananzi, inserito il 03/05/2006
TESTO
Paolo VI, dall'omelia per il Giovedì Santo, 11 aprile 1974
Dove siamo? perché siamo qui riuniti? che cosa stiamo facendo? La celebrazione di questo rito esige da noi un momento d'intensa concentrazione.
È pur vero: essa non è in sostanza che una Santa Messa, quale noi celebriamo ogni giorno e moltiplichiamo in tanti luoghi diversi. Ma oggi questo rito vuole assumere il suo pieno e originario significato. Esso vuole ricordare, anzi rinnovare le sue ragioni costitutive, e acquista per noi, in ogni suo aspetto, un rilievo particolare; noi vogliamo onorare la sua misteriosa e complessa realtà; la sua origine, ch'è l'ultima Cena del Signore; la sua natura, ch'è il sacrificio eucaristico; i suoi rapporti con la Pasqua giudaica, memoriale della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù e poi segno della promessa messianica circa i futuri destini di quel popolo; il suo aspetto innovatore, ch'è l'inaugurazione d'un nuovo Testamento, d'una nuova alleanza, cioè d'un nuovo piano religioso, eminentemente più elevato e più perfetto, fra Dio e l'umanità, mediante il sacrificio d'una vittima unica e nuova, Gesù Cristo stesso.
Noi siamo collocati all'incrocio delle grandi linee traiettorie dei destini storici, profetici e spirituali dell'umanità: qui si conclude l'Antico Testamento; qui si inaugura il Nuovo; qui l'incontro con Cristo, da evangelico e particolare, si fa sacramentale e universalmente accessibile, qui la intenzione fondamentale della sua presenza nel mondo, con la celebrazione dei due misteri essenziali della sua vita nel tempo e sulla terra, l'Incarnazione e la Redenzione, si svela in gesti ed in parole indimenticabili: «Sapendo Gesù, dice infatti il Vangelo, che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Giovanni 13, 1), cioè fino all'estremo limite, fino al dono supremo di Sé.
Questo è il tema sul quale ora dobbiamo fissare la nostra attenzione. Non ne saremo veramente capaci, come non sono capaci i nostri occhi di sostenere lo sguardo diretto della luce del sole. Ma non dovranno questi nostri occhi umani e fedeli stancarsi di contemplare ciò che il misterioso fulgore dell'ultima Cena fa risplendere davanti a noi: i gesti dell'amore che si offre e si dà, e che assumono l'aspetto e la dimensione d'un amore assoluto, divino; l'amore che si esprime nel sacrificio.
Per la versione completa, clicca qui.
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inviato da Luca, inserito il 01/05/2006
ESPERIENZA
155. Celina: una madre che si è scoperta mamma.
Celina è piccola, ma dall'alto del suo metro e sessanta, sa farsi sentire. Dalle 11.30 alle 13.00 passa quasi ogni dieci minuti alla Casa. A volte per chiedere un sacchetto di the, o per vedere cosa cuciniamo, per aiutarci a tagliare e a mangiare i pomodori.
Celina, la si trova più sovente al Punto Cuore che a casa sua. Il suo compagno o sua madre vengono sempre a cercarla da noi. Anche i suoi quattro monelli: Christian il maggiore, che ha compiuto sette anni, Janet ne ha cinque, Nazareno tre, e la piccola, cioè l'ultima Emiliana ha poco più di un anno. Per quanto riguarda il quinto, Celina è al suo sesto mese di gravidanza e l'impegno per noi è di sostenerla, ma per lei corrisponde a pomodori e cioccolato.
Celina vive in una catapecchia composta da una sola stanza, senza doccia né gabinetto; lì vive da cinque anni, con Carlos, che è cartonero. Entrambi soffrono per dipendenza dalla droga e dall'alcool. Celina riceveva degli uomini a casa per potersi procurare la polvere, delle pastiglie o delle bottiglie che l'aiutavano a dimenticare la monotonia, il sudiciume, e le difficoltà quatidiane.
Fino a quel momento noi vivevamo in grande amicizia con suo figlio, Christian, che passava le sue giornate al Punto-Cuore. Celina vedeva che noi volevamo bene a suo figlio senza comprenderne il motivo poiché a lei rendeva la vita impossibile.
Celina ha cominciato ad essere gelosa di quell'amore che notava, tra Esther e suo figlio. Aiutata da Jacinthe, ha compreso che aveva diritto anche lei a quell'amore. Un amore senza calcolo, che ricomincia ogni giorno. Un amore presente anche quando si è ubriachi o quando non sei riuscita ad alzarti al mattino. Che tu sia bella o sporca.
Tutto ha barcollato nella vita di Celina dal momento che ha capito che noi le vogliamo bene così com'è. Tale e quale è davvero. Senza aspettarci nulla in cambio. Allora, un giorno, quando passeggiava con Jacinthe, un uomo del quartiere l'apostrofò con il nome del suo mestiere. E Jacinthe gli rispose per le rime dicendo: "No, non è ciò che tu dici, né ciò che fa. Lei è una mia amica, lei è Celina". "Ma come? sono la tua amica? Io non sono quello che lui dice?".
Poi venne il giorno in cui la sua vita così agitata la portò all'ospedale. La miscela di pastiglie e vino avevano provocato i loro danni. Operata d'urgenza. Il medico fu chiaro: "A ventiquattro anni, tu hai più di quaranta calcoli tra la cistifellea e il rene. Non durerai a lungo se continui a drogarti e a bere in quel modo". Ci davamo il cambio al suo capezzale, con sua madre e sua sorella, ed ero presente quando si è svegliata dall'operazione. Così tu Celina hai finalmente capito che qualcuno ti voleva bene. Forse, né tua sorella né tua madre non te lo avevano mai detto. Ma là, accanto a te, esse te lo hanno fatto capire.
Oggi Celina conduce i suoi tre piccoli a scuola. Si alza per dare loro il bagno e per prepararli, li porta alla mensa. Alla nascita dell'ultimo, Celina è nata alla sua dignità di donna e alla sua vocazione di madre.
Poco alla volta, si è scoperta capace e felice di fare la mamma. Per amare, bisogna essere stati amati. Celina, per la prima volta in tutte le sue gravidanze, ha accettato di andare da un medico per preparare la nuova nascita.
Grazie Celina, per essere nata all'amore e di farlo nascere in noi. Grazie per la tua fiducia.
amarematernitàcrescitamaturazionefedefiducia
inviato da Luca, inserito il 19/04/2006
PREGHIERA
156. A proposito della pace...
Anno 2000
tempo di paura o primavera d'amore?
Atomo:
trionfo della libertà o patibolo dell'umanità?
Signore, aiutaci!
Detentori ormai di una particella della tua potenza,
eccoci davanti a Te,
deboli, fragili, più poveri che mai,
vergognosi delle nostre coscienze rattoppate e dei nostri cuori a brandelli.
Signore, abbi pietà di noi!
Noi abbiamo costruito chiese,
ma la nostra è una guerra senza fine;
noi abbiamo costruito ospedali,
ma noi, per i nostri fratelli, abbiamo accettato la fame.
Perdono, Signore,
per la natura calpestata, per le foreste assassinate, per i fiumi inquinati...
Perdono per la bomba atomica, il lavoro a catena,
la macchina che divora l'uomo e le bestemmie contro l'Amore.
Noi sappiamo che Tu ci ami,
e che a questo amore noi dobbiamo la vita.
Strappaci dall'asfissia dei cuori e dei corpi.
Che i nostri giorni non siano più deturpati dall'invidia e dall'ingratitudine,
dalle terribili schiavitù del potere.
Donaci la felicità di amare il nostro dovere.
Nel mondo mancano milioni di medici: ispira i tuoi figli a curare;
nel mondo mancano milioni di maestri: ispira i tuoi figli a insegnare;
la fame tormenta i tre quarti della terra: ispira i tuoi figli a seminare;
da cent'anni gli uomini hanno fatto quasi cento guerre: insegna ai tuoi figli ad amarsi.
Perché, Signore,
non vi è amore senza il tuo Amore.
Fa' che ogni giorno, e per tutta la vita,
nella gioia, nel dolore, noi siamo fratelli,
fratelli senza frontiere.
Allora i nostri ospedali saranno anche le tue cattedrali,
e i nostri laboratori i testimoni della tua grandezza.
Nel cuore dei proscritti di un tempo risplenderanno i tuoi tabernacoli.
Allora, non accettando altre tirannie che quella della tua Bontà,
la nostra civiltà martoriata dall'odio, dalla violenza e dal denaro,
rifiorirà nella pace e nella giustizia.
Come l'alba diventa aurora, e poi giorno,
voglia il tuo Amore che i figli del 2000
nascano dalla speranza,
crescano nella pace,
si estinguano infine nella luce,
per ritrovarti, Signore,
tu che sei la Vita.
pacegiustiziaingiustiziadolorecaritàamoresolidarietàimpegnomondialitàfame nel mondo
inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 07/02/2006
TESTO
157. La partenza di Francesco di Assisi
Christian Bobin, Francesco e l'Infinitamente piccolo
Tanta poca immaginazione fa veramente disperare dell'uomo.
Credono di maturare perché hanno dei figli.
Credono di amare perché non osano più tradire la moglie.
Non avranno fatto altro che invecchiare.
Non avranno fatto altro che essere vecchi.
Guardami, me ne vado per i cammini dell'infanzia.
Ti devo un po' di soldi, quelli che ti ho preso per lanciarli a Dio.
Tu che conosci il prezzo delle cose, tu che delle cose non conosci che il prezzo, guarda, mi tolgo i vestiti.
...posso dunque andarmene nudo come una pietra, nudo come un filo d'erba, nudo come la prima stella nel cielo buio.
Abramo si è levato. Gli era stato domandato infinitamente. Gli era stato richiesto di abbandonare la famiglia, il paese, gli amici.
Si domanda sempre infinitamente a chi desidera con un desiderio infinito.
E Abramo si è levato, è partito.
E Mosè, e Davide, e tutti si sono levati, e nel gesto del levarsi han perduto i loro abiti di lingua, i loro abiti d'amicizia, i loro abiti di saggezza, e tutti hanno ricevuto l'infinito nel cuore messo a nudo.
A sua madre che insisteva perché rientrasse a casa, vergognosa di vederlo girovagare con una dozzina di fannulloni, Cristo ha risposto: dov'è la mia vera famiglia, chi sono i miei cari?
E sua madre non ha capito. Allora come potresti capire tu?
Ritorno alla mia vera famiglia.
Ritorno fra quanti son partiti senza più sapere chi fossero, dove andassero.
Oh padre io commerciante, oh padre mio che vorresti impedirmi di crescere, sai quanta violenza occorre per gioire di vera dolcezza?
Non sposo una chimera.
Non è la purezza che voglio. La purezza lascia l'impuro al di fuori di lei, e io non voglio più un di fuori, non voglio più saperne di una chiesa coi suoi angeli nel coro e i suoi diavoli sulla strada, il viso schiacciato contro le vetrate come dei poveri a Natale alle finestre del fornaio.
Voglio solo la vita nuda e fraterna.
Oh padre io ragionevole, padre mio ragionatore, ti hanno insegnato che c'era un posto per ogni cosa, hai dunque creduto che ci fosse anche un rango per ciascuno, e io vengo a dirti che non è così: non saremo in un certo ordine che in paradiso.
Nell'attesa di quel giorno che verrà, che necessariamente verrà, che indubbiamente verrà, nell'attesa di quel giorno in cui saremo pigiati in grembo a Dio come soldi in fondo a una tasca, voglio entrare in tutti i giardini chiusi, scavalcare tutti i muri di pietra, andare ovunque, in disordine.
Ieri sognavo principesse e cavalieri.
Oggi ho trovato qualcosa che è più grande del mio sogno.
L'amore ha risvegliato la mia vita assopita.
Ho trovato la vita e parto incontro a lei, mi batterò per lei e servirò il suo nome.
Parto. Che puoi fare per impedirmelo?
Ti lascio fino all'ultimo dei miei vestiti. Si trattengono le persone con tutto ciò che si dona loro.
Ti ho reso quanto mi hai dato, tranne la vita.
Ma la vita mi viene da qualcosa di superiore a te.
La vita mi viene dalla vita stessa, ed è verso di lei che vado, verso la mia amica dagli occhi di neve, mia piccola fonte, mia sola sposa.
La vita, nient'altro che la vita.
La vita, tutta la vita.
vocazionepartenzastradacoraggiovitachiamata
inviato da Cristina Ardigò, inserito il 06/02/2006
ESPERIENZA
158. "Non ci indurre in tentazione"
Devo premettere che ho scoperto, proprio grazie a quello che ho vissuto e che racconterò, quanto è davvero maestra la Chiesa e quanto poco furba sono io a non aver approfittato in passato dell'insegnamento: "evitare le occasioni prossime di peccato".
Confesso che ho sempre avuto un atteggiamento di sufficienza di fronte a questo ammonimento, poiché confidavo nella mia capacità, alla fine, di fuggire il male ma mi sono sempre sbagliata e stavo per cascarci anche stavolta.
Accendere il televisore nelle sere d'estate talvolta ti mette davanti occasioni prossime di peccato: non c'è niente di interessante ma tu, pur di passare la sera, ti fermi un po' più del necessario davanti al film che è iniziato. Capisci subito che non ha un contenuto di valore, non è bello ma continuerà a proporti una storia strampalata, però densa di scene che offenderanno i tuoi sensi. Aspetti ancora un po' a spegnere, ma poi, finalmente e decisamente lo fai. E magari, come è successo a me, ti accorgi, io credo proprio per aver sfuggito una tentazione prossima di peccato, di quella videocassetta che hai comprato qualche mese prima e che avevi lasciato addirittura in bella vista per ricordarti di guardarla. Sono i due tempi del film che la RAI ha realizzato su papa Giovanni XXIII, che non avevo visto, quando la televisione le aveva programmate, per altri impegni.
Era già tardi per il tempo che avevo sprecato prima con l'inizio di quel film spazzatura, ma sono rimasta alzata fino alla fine del film, presa com'ero dalla bellezza della vita di Papa Giovanni. Che dono quella sera.
Terminato il film mi è venuta subito in mente la Bibbia da Vivere che la nostra comunità parrocchiale vive ogni mese: non l'avevo vissuta direttamente, poiché non era stato per averla ricordata che avevo rifiutato la visione di quel film.
E tuttavia sono stata certa che la Bibbia da Vivere del mese c'entrava in qualche modo con la mia decisione così fruttuosa: ho pensato che la grazia di Dio per me in quel momento mi veniva perché la mia comunità stava vivendo proprio quella frase del Padre Nostro: qualcuno di noi la stava vivendo e per quel qualcuno anch'io ne ho tratto beneficio.
Non dimenticherò questa esperienza e, soprattutto, sono convinta che l'ammonimento "evitare le occasioni prossime di peccato" adesso mi accompagnerà più direttamente di prima e anche che farsi santi insieme, oltre che bello, è davvero un dono inestimabile.
Un grazie a tutti quelli che vivono la Bibbia da Vivere nella nostra comunità.
inviato da Don Ambrogio Villa, inserito il 05/02/2006
RACCONTO
159. Ambra: tra globalizzazione e universalismo
M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare
In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".
Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".
Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.
Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.
Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.
Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.
Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.
Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.
Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».
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inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 05/01/2006
PREGHIERA
160. Signore, perché mi hai detto di amare? 2
Signore, perché mi hai detto di amare tutti gli uomini,
miei fratelli?
Ho cercato, ma torno a te sgomento...
Signore, ero tanto tranquillo a casa mia,
avevo ordinato la mia vita, mi ero sistemato.
La mia casa era arredata e mi ci trovavo bene.
Solo, andavo d'accordo con me stesso.
Al riparo dal vento, dalla pioggia, dal fango.
Sarei rimasto puro, chiuso nella mia torre.
Ma nella mia fortezza, Signore, hai scoperto una falla,
Mi hai costretto a socchiudere la porta,
Come una raffica d'acqua in viso, mi ha destato il grido degli uomini;
Come un vento burrascoso, mi ha scosso un'amicizia;
Come s'infiltra un raggio di sole, la tua grazia mi ha inquietato
...ed imprudentemente ho lasciato socchiusa la porta.
Signore, ora son perduto!
Fuori gli uomini mi spiavano.
Non sapevo che fossero tanto vicini; in questa casa, in questa via, in quest'ufficio;
il vicino, il collega, l'amico.
Non appena ho socchiuso, li ho visti, con la mano tesa, lo sguardo teso, l'anima tesa che
chiedevano come mendicanti alle porte delle chiese.
I primi sono entrati in casa mia, Signore. Vi era pure un po' di posto nel mio cuore.
Li ho accolti, li avrei curati, li avrei accarezzati, le mie pecorelle, il mio piccolo gregge.
Saresti rimasto contento, Signore, ben servito, ben onorato, con decoro, con finezza.
Fin lì, era ragionevole...
Ma quelli che seguivano, Signore, gli altri uomini, non li avevo veduti; i primi li nascondevano.
Erano più numerosi, erano più miserabili, mi hanno aggredito senza dar l'allarme.
È stato necessario restringersi, fare posto in casa mia.
Ora, son venuti da ogni dove, a ondate successive, che si sospingevano l'un l'altra,
si urtavano.
Son venuti da ogni dove, dalla città tutta, dalla nazione, dal mondo;
innumerabili, inesauribili.
Non son più isolati, ma a gruppi, in catena, legati gli uni agli altri, mescolati, saldati,
come pezzi di umanità.
Non son più soli, ma carichi di pesanti bagagli;
bagagli d'ingiustizia, bagagli di rancore e di odio, bagagli di sofferenza e di peccato...
Trascinano il Mondo alla loro sequela, con tutto il suo materiale arrugginito e contorto,
o troppo nuovo e mal messo, mal impiegato.
Signore, mi fanno male! Sono ingombranti, sono invadenti.
Hanno troppa fame, mi divorano!
Non posso più far nulla; quanto più entrano e tanto più
spingono la porta e tanto più la porta si apre... Ah, Signore! La mia porta è spalancata!
Non ne posso più! E' troppo per me! Non è più una vita!
E la mia situazione?
E la mia famiglia?
E la mia tranquillità?
E la mia libertà?
Ed io?
Ah! Signore, ho perso tutto, non sono più mio;
Non c'e più posto per me a casa mia.
Non temere nulla, dice Dio, hai guadagnato tutto,
perché mentre gli uomini entravano in casa tua,
io tuo Padre,
io, tuo Dio,
mi sono infiltrato tra loro.
accoglienzasolidarietàamoreimpegnoresponsabilitàpovertàricchezza
inserito il 31/12/2005
ESPERIENZA
161. Jacques Fesch: la drammatica storia di un giovane moderno 1
Chi è Jacques Fesch? E' un giovane moderno, che a 24 anni commette un terribile delitto, epilogo di una vita vuota e senza ideali, piena di egoismo e di capricci. Ecco una veloce cronaca del delitto. Il 24 febbraio 1954 Jacques entra al mattino nel negozio di un cambiavalute e ordina un quantitativo d'oro. L'uomo si fida perché sa che alle spalle del giovane c'è un opadre facoltoso che può pagare. Nel pomeriggio dello stesso giorno Jacquaes torna per prelevare l'oro e approfittando di un momento di disattenzione del cambiavalute lo colpisce alla testa con il calcio della pistola del padre. Il cambiavalute reagisce urlando. Jacques fugge e si nasconde in un palazzo vicino fino a che è riconosciuto da un polizziotto accorso sul posto. All'ingiunzione di fermarsi Jacques spara e uccide l'agente di polizia. Intervengono poi altri agenti che lo catturano.
Perché questo delitto assurdo? Jacques voleva aprire una propria attività e chiede un grosso prestito al padre che glielo rifiuta. Sa che il figlio ha le mani bucate! Allora Jacques decide di compiere una rapina: di procurarsi i soldi con l'inganno.
Che cosa accade in carcere? Viene raggiunto dal cappellano ma egli lo rifiuta dicendo: "Io non ho la fede e non ho bisogno di lei!". Passano i giorni, chiuso tra quattro pareti, solo con la sua disperazione. Ma una notte: "Era una sera, nella mia cella... Nonostante tutte le catastrofi che da alcuni mesi si erano abbattute sulla mia testa, io restavo ateo. Ora quella sera, ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita per le conseguenze del mio delitto; ed è allora che un grido mi scaturì dal petto, un appello di soccorso: "Mio Dio, Mio Dio aiutami!". E instantaneamente, come un vento violento, che passa senza che si sappia dove viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola! Ho creduto e non capivo più come avessi fatto prima a non credere. La grazia mi ha visitato e una grande gioia s'è impossessata di me e soprattutto una grande pace". Quella notte Jacques udì una voce che gli diceva: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Una frase per lui incomprensibile, il cui senso capirà più tardi.
Inizia una nuova vita in Cristo. Il cambiamento di questo giovane è qualche cosa di straordinario: è una testimonianza di quanto Dio può operare. "Ora veramente ho la certezza di cominciare a vivere per la prima volta. Ho la pace e ho dato un senso alla mia vita, mentre prima non ero che un uomo morto!". Jacques organizza la vita in prigione come la vita in un monastero: si dà un orario per la preghiera, legge libri religiosi e la Bibbia, scrive lettere per dare conforto ai suoi famigliari, che stanno vivendo una grossa crisi, vuole soprattutto poter vivere per riparare il male fatto.
Arriva il giorno del processo: il 3 aprile 1957 si apre il processo che si conclude con la sua condanna a morte. In quel momento capisce la frase: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Jacques dopo un iniziale smarrimento vive la sentenza e la condanna come una vocazione ad amare fino in fondo la croce di Gesù. Egli desidera prepararsi spiritulamente alla sua morte e desidera salutare da vero cristiano tutti coloro che lo hanno amato e coloro a cui ha fatto del male. Scrive alla moglie e alla sua piccola figlia di 6 anni, si mette in contatto, tramite il suo avvocato anche con la famiglia del gendarme che lui ha ucciso per chiedere il perdono. Nonostante il grande cambiamento di vita che stupisce lo stesso presidente della Repubblica a cui era stata inoltrata la domanda di grazia, la sentenza viene confermata per il 30 settembre.
Le ultime ore: l'attesa dell'incontro con Gesù. "Ancora soltanto qualche ora di lotta, prima di conoscere Colui che è l'Amore. Oggi sarò in cielo. Cara mamma, innanzi tutto ti devo dire un grosso grazie per tutto l'amore di cui mi hai circondato in questi ultimi mesi... Tu sai che Gesù ha detto nel suo vangelo: Ero carcerato e siete venuti a visitarmi. Con queste righe io ti affido la mia bambina e mia moglie. Proteggile assiduamente. Amale in Dio e sii certa che di lassù io vi proteggerò e veglierò su di voi...". Alle 5,30 del mattino del 30 settembre le guardie carcerarie che sono veute a prenderlo per l'esecuzione capitale, lo trovano in ginocchio e in preghiera accanto al letto rifatto. Si confessa e riceve l'Eucarestia. Abbraccia il crocefisso e si avvia verso la ghigliottina... Le ultime sue parole: "Signore non abbandonarmi, io confido in te!".
confessioneconversionecambiare vitapeccatomisericordia di Dio
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 13/12/2005
TESTO
A te che in questo momento stai soffrendo: ti chiedo di essere forte, di scoprire la luce che brilla nella tua anima. Sentiti avvolto dalla mia grazia che mai ti abbandona, il mio sguardo è su di te e ti amo infinitamente. Dalla croce pesante del tuo dolore grida il tuo amore verso di me, non perderti d'animo, colora la tua esistenza con i pastelli più incisivi, sappi scoprire la bellezza di essere un vero prodigio e non temere mai nulla, Io ti sono sempre vicino, ti sostengo e guido i tuoi passi dovunque tu andrai... a volte comprendo che ti senti solo e perso tra le mura di un ospedale o della tua casa, ma sappi che io sono seduto accanto a te, ti sussurro all'orecchio dolci parole, ti parlo come ad un amico, a un fratello, a un bimbo... sei una persona splendida per me e mai ti dimenticherò... sei nel mio cuore, ricco di amore e di tenerezza, a volte pensi che sia io a farti soffrire ma come potrei? ti ho fatto di poco inferiore agli angeli, di gloria e di onore ti ho coronato, come potrei farti tutto questo e come mi potrei dimenticare di te?
Figlio mio carissimo, da tempo ho fissato i miei occhi su di te, sei amabile e ricco di tenerezza, soffro con te e per te, vivo con te il dolore che ti consuma e ti stringe dentro l'anima, ma tu sii forte, sii tenace nella tua impresa e a tutti devi saper donare un sorriso, anche quando ti costa... vedo anche come vivi la terapia, il disagio per le tante prestazioni che devi subire, ma abbandonati a me e non temere mai nulla, come un bimbo stretto tra le braccia della sua tenerissima madre, tale sei tu, stretto nell'abbraccio del mio amore e mai ti abbandonerò, perché so che tu mi sai ascoltare, mi sai amare...figlio mio tenerissimo, ho un amore speciale per te, credimi, come la pupilla dei miei occhi, così voglio proteggerti e stringerti a me...
Consegnami il tuo cuore, la tua anima, la tua persona e lasciati abitare dalla mia grazia, solo così potrai essere la mia dimora, abiterò in te e farò di te un raggio della mia presenza..
Grazie di quanto ogni giorno mi regali, grazie di ogni sorriso nella sofferenza e grazie perché nonostante tanto dolore, sai guardare a me con grande amore e speranza...
Tuo Padre Dio
sofferenzaabbandono in Diodolorecroce
inviato da Don Gianni Mattia, inserito il 08/12/2005
RACCONTO
Un giorno, un anziano professore della "Scuola Nazionale di Amministrazione Pubblica" (ENAP) fu assunto per tenere un corso sulla Pianificazione efficace del proprio tempo a un gruppo di una quindicina di dirigenti di grandi compagnie nordamericane.
Il corso costituiva una delle 5 materie della loro giornata di formazione. Il vecchio professore disponeva solo di un'ora per il suo corso. Stando in piedi, davanti a quest'elite (pronta a prender nota di tutto quello che l'esperto avrebbe insegnato) l'anziano insegnante li guardò uno ad uno, lentamente, poi disse:
"Oggi faremo un'esperienza".
E tirò fuori da sotto la cattedra che li separava un grosso recipiente (che conteneva più di 4 litri) che posò delicatamente davanti a sé. Subito dopo tirò fuori una dozzina di sassi, grandi come una palla da tennis, e li pose con delicatezza, uno per uno, dentro al grande vaso. Quando fu pieno, di modo che non era più possibile aggiungerci un altro sasso, domandò ai suoi allievi: "Secondo voi, il vaso è pieno?".
Essi risposero in coro: "Sì".
Il vecchio attese qualche secondo e poi domandò: "Veramente?". Allora si piegò e tirò fuori da sotto il tavolo un recipiente contenente del granigliato di marmo. Con minuzia, versò il granigliato nel vaso e i pezzettini andarono ad infilarsi fra un sasso e l'altro... fino alla base.
Sollevando lo sguardo verso il suo uditorio, domandò di nuovo: "E adesso è pieno?". Questa volta i suoi brillanti allievi cominciarono a comprendere, e uno di essi disse:
"Probabilmente, no".
"Bene" - riprese l'insegnante. Si piegò di nuovo, e questa volta tirò fuori un sacchetto di sabbia. Con precisione, versò la sabbia nel vaso. La sabbia riempì gli interstizi lasciati liberi dai sassi e dal granigliato.
Ancora una volta, domandò: "E adesso, il vaso è pieno?".
E questa volta, senza esitare, tutti gli allievi risposero in coro: "No!".
"Bene!", disse il vecchio. E come i suoi prestigiosi allievi si attendevano, prese la caraffa d'acqua che era sulla cattedra e riempì il vaso fino al bordo. Sollevando lo sguardo verso il gruppo, l'insegnante domandò: "Qual è la grande verità che ci dimostra questo esperimento?".
Il più audace degli allievi, riflettendo sul soggetto della materia, disse con orgoglio: "Questo dimostra che, anche quando crediamo che la nostra agenda sia completamente piena, se lo si vuole veramente, possiamo aggiungere ancora qualche appuntamento, qualcosa da fare".
"No - rispose il vecchio prof. - non si tratta di questo. La grande verità che ci dimostra quest'esperienza è la seguente: Se noi non infiliamo i sassi per primi nel vaso, non potremo mai farceli stare tutti, dopo!".
Ci fu un profondo silenzio. Ciascuno prendeva coscienza dell'evidenza di questa verità.
Il vecchio prof., allora, aggiunse: "Quali sono i grandi sassi nella vostra vita? La salute? La Famiglia? Gli amici? Realizzare i vostri sogni? Fare quello che vi piace? Imparare? Difendere una causa? Riposarsi? Dare ad ogni cosa il suo tempo? O... qualsiasi altra cosa? Quello che dovete imparare, è l'importanza di mettere i GROSSI SASSI in primo piano, nella vostra vita, se no rischierete di fallire! Se darete la precedenza alle quisquiglie (il granigliato, la sabbia) riempirete la vita di stupidaggini e non avrete abbastanza tempo da consacrare agli elementi importanti della vostra vita. Allora, non dimenticate di porvi la domanda: Quali sono le grosse pietre della mia vita? E in seguito, mettetele nel vaso!".
Con un gesto amicale della mano, il professore salutò il suo auditorio e abbandonò lentamente l'aula.
tempoessenzialitàessenzialeprogrammazioneprioritàsuperfluo
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/11/2005
PREGHIERA
Parla all'io cuore, Signore.
"Ti sto parlando. Ma perché hai paura?
Eppure non avevi paura di incontrare illustri sconosciuti
che potevano portarti a sfiorare i pantani della vita!
E hai paura di me, l'unico che hai conosciuto meglio di tutti?
Mi hai conosciuto. Non è forse vero?
Puoi forse dire che conosci i pensieri, i sogni e i palpiti di qualcun altro, come conosci i miei?
Sono tanti anni che li racconto personalmente a te.
Quali sogni conosci meglio dei miei?
Ti ho conosciuto, chi ti conosce meglio di me?
Forse qualcuno ha saputo intravedere i tuoi talenti anche quando non si vedevano,
soffocati com'erano da mille croste?
Forse qualcuno ha puntato su di te come ho fatto io, con determinazione e sicurezza?
Io sapevo di te quando tu neanche ti supponevi.
E allora, se io conosco così bene te e tu così bene me, perché hai paura?
Sono forse un fantasma?
Ti ha fatto compagnia un fantasma durante le notti di paura e solitudine?
E' forse un fantasma quello che, con le mani della provvidenza, ti ha mandato cibo, casa e vestiti per te e i tuoi figli?
Tu dici: - Può essere fantasia, autosuggestione tutto ciò?
E se fosse tutto una follia? -
Io ti rispondo: E' forse una follia andare insieme sul monte della felicità,
o era una follia affidarsi ciecamente a gente più cieca di te?
E' forse una follia la dimensione dello spirito sulla quale voglio farti volare,
o non è forse più follia restare terra terra quando invece il Padre nostro
ci ha fatto giganti spirituali con ali per volare?
Non aver paura, non è una follia. Solo resta tranquillo, seguimi, attaccati alle mie ali
e comincia a volare con me.
Quando ti vedrò sicuro nel volo, solo allora ti lascerò volare da solo!
Ma dovrai volare da solo, perché non posso fare la balia per sempre.
Devi diventare adulto e aiutarmi perché è per diffondere l'amore
che mi sono fatto conoscere da te, è per essere amato e per far conoscere agli altri,
attraverso il rapporto d'amore mio e tuo, che l'amore di Dio è una seria e concreta.
Perché vedano e, vedendo, ne abbiano voglia anche loro.
Per questo mi sono fatto conoscere da te".
rapporto con Dioconversioneevangelizzazionetestimonianzamissionecrescitainteriorità
inviato da Leo, inserito il 10/10/2005
TESTO
165. Un decalogo per il papà 4
Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano, marzo 2005
1°. Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull'amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori "per dovere". E l'educazione è sempre un "gioco di squadra". Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un'intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in "cambio", il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po' di spazio per sé.
2°. Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa "voi siete il primo interesse della mia vita". Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l'assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l'aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E' anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.
3°. Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa', alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo "coscienza" ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.
4°. Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto "no", che è il modo migliore per comunicare: "ho cura di te".
5°. Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l'ascolto, l'accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: "Qualunque cosa capiti, sono qui per te!". Di qui nasce nei figli quell'atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.
6°. Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l'isola accogliente per i "naufraghi della giornata". E' fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d'incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell'affetto. Nel passato il padre era il portatore dei "valori", e per trasmettere i valori ai figli basta imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?
7°. Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo " di fuori". Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l'attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.
8°. Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: "Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand'ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L'amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni... Mi ha tolto l'affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo".
9°. Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati, trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.
10°. Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l'immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un'impronta indelebile.
papàpadregenitorifamigliafiglieducazioneeducare
inviato da Gianni Andrea Granzotto, inserito il 29/09/2005
PREGHIERA
Si sente spesso parlare di obbedienza cieca. Mai di obbedienza sorda. Sapete perché? Per spiegarvelo devo ricorrere all'etimologia, che, qualche volta, può dare una mano d'aiuto anche all'ascetica.
Obbedire deriva dal latino "ob-audire". Che significa: ascoltare stando di fronte. Quando ho scoperto questa origine del vocabolo, anch'io mi sono progressivamente liberato dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia volontà, e ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari.
Chi ubbidisce non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica nella logica della domanda e dell'offerta. Non si avvilisce all'umiliante ruolo dell'automa, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo.
C'è una splendida frase che fino a qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della contestazione: "obbedire in piedi". Sembra una frase sospetta, da prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell'autentica natura dell'obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e l'altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l'altro che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra di violenza, e l'altro che con gioia ne interiorizzi l'indicazione.
In effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace, non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si collabora.
Teresa, per esempio, che è costretta a dire sì a tutte le voglie del marito e non può uscire mai di casa perché lui è geloso, e la sera, quando torna ubriaco e i figli piangono, lei si prende un sacco di botte senza reagire, è una donna repressa, non è una donna obbediente. Il Signore un giorno certamente la compenserà: ma non per la sua virtù, bensì per i patimenti sofferti.
L'obbedienza, insomma, non è inghiottire un sopruso, ma è fare un'esperienza di libertà. Non è silenzio di fronte alle vessazioni, ma è accoglimento gaudioso di un piano superiore. Non è il gesto dimissionario di chi rimane solo con i suoi rimpianti, ma una risposta d'amore che richiede per altro, in chi fa la domanda, signorilità più che signoria.
Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuol bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà. Ecco l'analisi logica e grammaticale dell'obbedienza di Maria.
Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo "Sì", si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell'orbita della storia della salvezza con tale coscienza responsabile che l'angelo Gabriele ha fatto ritorno in cielo, recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio di andata.
Forse non sarebbe sbagliato intitolare il primo capitolo di Luca come l'annuncio dell'angelo al Signore, più che l'annuncio dell'angelo a Maria.
Santa Maria, donna obbediente, tu che hai avuto la grazia di "camminare al cospetto di Dio", fa' che anche noi, come te, possiamo essere capaci di "cercare il suo volto".
Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E anche quando egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia.
Santa Maria, donna obbediente, tu sai bene che il volto di Dio, finché cammineremo quaggiù, possiamo solo trovarlo nelle numerose mediazioni dei volti umani, e che le sue parole ci giungono solo nei riverberi poveri dei nostri vocabolari terreni. Donaci, perciò, gli occhi della fede perché la nostra obbedienza si storicizzi nel quotidiano, dialogando con gli interlocutori effimeri che egli ha scelto come segno della sua sempiterna volontà.
Ma preservaci anche dagli appagamenti facili e dalle acquiescenze comode sui gradini intermedi che ci impediscono di risalire fino a te. Non è raro, infatti, che gli istinti idolatrici, non ancora spenti nel nostro cuore, ci facciano scambiare per obbedienza evangelica ciò che è solo cortigianeria, e per raffinata virtù ciò che è solo squallido tornaconto.
Santa Maria, donna obbediente, tu che per salvare la vita di tuo figlio hai eluso gli ordini dei tiranni e, fuggendo in Egitto, sei divenuta per noi l'icona della resistenza passiva e della disobbedienza civile, donaci la fierezza dell'obiezione, ogni volta che la coscienza ci suggerisce che "si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini".
E perché in questo discernimento difficile non ci manchi la tua ispirazione, permettici che, almeno allora, possiamo invocarti così: "Santa Maria, donna disobbediente, prega per noi".
inviato da Giulio Bianchi, inserito il 23/09/2005
TESTO
San Luigi Orione, Nel nome della Divina Provvidenza, Ed.Piemme
L'Opera della Divina Provvidenza è cominciata sette anni fa in un giorno di quaresima, e propriamente con un po' di Catechismo ad un ragazzo che piangeva, fuggito d'in chiesa.
Quel figliolo divenne poi buono e più cristiano, ed ora, benché soldato, ricorda ancora con piacere quel giorno tempestoso e felice per li.
Ma e dopo lui quanti figliuoli col Catechismo e colla grazia del Signore divennero più buoni e più cristiani!
Ah l'efficacia del Catechismo! Sapete o figliuoli, che cosa sia e che cosa importi il Catechismo?
Gesù trasformò da capo a fondo la società: la trasformò nelle idee, nei costumi, nelle leggi, in tutto.
E con qual mezzo visibile? Con un mezzo semplicissimo. Udite. Chiamò intorno a sé dodici poveri pescatori e, dopo avere per tre anni scritto il Catechismo nella loro mente e nel loro cuore, disse: "Andate, ammaestrate tutti i popoli: insegnate loro ciò che io ho insegnato a voi, e i vostri successori proseguano l'opera vostra fino al termine de' tempi".
E così fecero, e il mondo divenne cristiano. (...)
Volete forse il segreto per guadagnarvi l'affetto e trascinarvi dietro le turbe dei ragazzi? Eccovelo, il grande segreto: vestite la carità di Gesù Cristo!
Per piantare e tenere viva l'opera del Catechismo una cosa sola basta: la carità viva di Gesù! Tutti gli ostacoli cadono, tutto si ottiene, quando chi fa il Catechismo ha la carità di Gesù Cristo.
Se sarete scelti dall'alto privilegio di aiutare il vostro parroco a fare il Catechismo, domandate al Signore che vi dia carità grande.
Quella carità paziente e benigna, umile, garbata, che tutto soffre, tutto spera, tutto sostiene, e non viene mai meno.
Ripieni di questa carità, andate in cerca dei fanciulli che la domenica specialmente vanno errando per le vie e per le piazze, guadagnateli con questa carità: non stancatevi mai, dissimulate i difetti, sappiate soffrire e compatire tanto.
Abbiate un sorriso, una parola soave, amabile per tutti, senza differenze, o figli miei, fatevi tutti a tutti per portare tutte le anime a Gesù. Siate pronti per un'anima a dare la vita e a dare mille vite per un'anima! Colla dolcezza di Gesù voi, o cari figliuoli, vincerete e guadagnerete tutti i fanciulli del vostro paese.
La carità del Signore Nostro Crocifisso, ecco il segreto, anime dei miei figli e de' miei fratelli, ecco l'arte di tirare a noi, di toccare i cuori, di convertire, di illuminare e di educare i fanciulli, speranza dell'avvenire e delizia del Cuore di Dio!
Carità viva! Carità grande! Carità sempre! E rinnoveremo la gioventù! Oh quanti poveri figliuoli ho conosciuto sviati, disonesti, arrabbiati contro noi preti... che ci odiavano senza conoscerci,... giovani creduti incorreggibili..., eppure non avevano bisogno che d'una buona parola, d'una parola santa di carità, di uno sguardo dolce per essere vinti!
Carità viva! Carità grande! Carità sempre! Colla carità faremo tutto, senza la carità faremo niente!
Oh vieni! O carità santa e ineffabile di Gesù e vinci e guadagna il cuore i tutti e vivi grande e affocata nella povera anima mia!
caritàcatechismoragazzigioventùeducareeducatori
inviato da Sabrina Murzi, inserito il 19/06/2005
RACCONTO
Bruno Ferrero, 40 Storie nel deserto
Il buon Dio aveva deciso di creare... la mamma. Ci si arrabattava intorno già da sei giorni, quand'ecco comparire un angelo che gli fa: "Questa qui te ne fa perdere di tempo, eh?". E Lui: "Sì, ma hai letto i requisiti dell'ordinazione? Dev'essere completamente lavabile, ma non di plastica... avere 180 parti mobili tutte sostituibili... funzionare a caffè e avanzi del giorno prima... avere un bacio capace di guarire tutto, da una sbucciatura ad una delusione d'amore... e sei paia di mani". L'angelo scosse la testa e ribatté incredulo: "Sei paia?!". "Il difficile non sono le mani - disse il buon Dio - ma le tre paia di occhi che una mamma deve avere". "Così tanti?". Dio annuì. "Un paio per vedere attraverso le porte chiuse quando domanda "che state combinando lì dentro, bambini?", anche se lo sa già; un altro paio dietro la testa, per vedere quello che non dovrebbe vedere, ma che deve sapere; un altro paio ancora per dire tacitamente al figlio che si è messo in un guaio "capisco e ti voglio bene lo stesso".
"Signore - fece l'angelo sfiorandogli gentilmente un braccio - va' a dormire. Domani è un altro...". "Non posso - ripose il Signore - ho quasi finito ormai. Ne ho già una che guarisce da sola se è malata, che può lavorare 18 ore di seguito, preparare un pranzo per sei con mezzo chilo di carne tritata e che riesce a tenere sotto la doccia un bambino di nove anni". L'angelo girò lentamente intorno al modello di madre, esaminandolo con curiosità: "E' troppo tenera", disse poi con un sospiro. "Ma resistente - ribatté il Signore con foga - tu non hai idea di quello che può sopportare una mamma!". "Sa pensare?". "Non solo, ma sa anche fare un ottimo uso della ragione e venire a compromessi", ribatté il Creatore. A quel punto l'angelo si chinò sul modello della madre e le passò un dito su una guancia: "Qui c'è una perdita", dichiarò. "Non è una perdita - lo corresse il Signore - è una lacrima". "E a che serve?". "Esprime gioia, tristezza, delusione, dolore, solitudine, orgoglio". "Ma sei un genio!", esclamò l'angelo. Con sottile malinconia Dio aggiunse: "A dire il vero, non sono stato io a mettercela quella cosa lì...".
inviato da Silvia Ongaro, inserito il 21/04/2005
TESTO
169. La prova necessaria per volare! 1
"Dio non ci manda mai prove senza darci insieme la forza necessaria per sopportarle"
(Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce)
Non vi sembri questa frase il pagliativo di una disperata che non riesce a dare un senso alla propria sofferenza; certo Edith nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, non poteva che chiedersi il perché di quella prova.
Ebbene, a me questa sua frase ha cambiato la vita; non fraintendetemi, non c'è nessuno a cui la vita sorrida sempre, ma, può accadere che, ad un certo punto, si decida di sorridere alla vita, comunque, dovunque e con chiunque essa scorra. Penso sia stata la scelta di Santa Teresa Benedetta della Croce.
Perché dunque la prova? Perché la sofferenza? Incredibile ma vero: per scoprire le forze che Dio stesso ci ha dato. Essa invero è strumento tramite cui conoscere se stessi, prendere soprattutto coscienza dei propri limiti, in modo da imparare a confidare in Colui che solo può intervenire in nostro aiuto. Gesù per primo "pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì"(Eb.5,8).
D'altronde, un padre che vuole insegnare al figlio a camminare, prima o poi, dovrà lasciargli le manine, per fargli sperimentare l'equilibrio. Questo non significa che lo abbandoni: quello stesso padre non starà lì, proprio dietro il figlioletto, con le braccia aperte, pronto a prevenire le cadute, o, se del caso, a rialzarlo? Dal dolore di quelle prime cadute il figlio potrà, in compenso, apprendere l'arte del camminare, indispensabile per affrontare la vita.
Allo stesso modo, Dio, nostro Padre, ci lascia pian piano le mani, perché, anche provando a volte dolore, possiamo prender coscienza della natura divina che è in noi. Dunque, la prova, la sofferenza, che poi, almeno per quel che mi riguarda, si traduce spesso in un senso di abbandono, non è che quel lasciarci le mani, da parte di Dio, che ci porta ad imparare a camminare verso la Vita Vera in un fiducioso abbandono.
Passare per lo stretto buco del bozzolo è lo sforzo necessario affinché la farfalla possa trasmettere il fluido del suo corpo alle sue ali, così che possa volare.
Se Dio ci permettesse di vivere la nostra vita senza mai incontrare ostacoli, saremmo limitati. Non potremmo essere forti come siamo. Non potremmo mai volare!
provasofferenzadolorecrocecrescitarapporto con Dio
inviato da Fabio Scattarella, inserito il 21/02/2005
ESPERIENZA
Chi è che ci prepara l'Eucaristia e ci dona Gesù?
E' il Sacerdote.
Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebberero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli.
E chi è il Sacerdote?
E' l'"Uomo di Dio". Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima ("Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio": Eb 5,4), lo separa da tutti gli altri ("segregato per il Vangelo": Rm 1,1), lo segna con un carattere sacro che durerà in eternamente ("Sacerdote in eterno": Eb 5,6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote "scelto fra gli uomini è costituito a prò degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1-2).
Vergine, povero, crocifisso
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell'anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l'intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. E' per questa conformità a Gesù che egli è "Ministro di Cristo fra genti" (Rm 15, 16), guida e maestro delle anime (Mt 28, 20).
Lo Spirito Santo configura l'anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che "il Sacerdote all'altare opera nella stessa Persona di Gesù" (S. Cipriano), ed "è il padrone di tutto Dio" (S. Giovanni Crisostomo).
Rispetto e venerazione
Sappiamo che S. Francesco d'Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi "Signori", poiché in essi vedeva solamente "il Figlio di Dio"; in particolare venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote.
Il S. Curato d'Ars diceva: "Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?".
Sappiamo, del resto, che l'atto di venerazione di baciare le mani del Sacerdote è stato premiato da Dio con veri miracoli. Nella vita di S.Ambrogio, si legge che un giorno, appena celebrata la S. Messa, il Santo fu avvicinato da una donna paralitica che volle baciargli le mani. La poveretta riponeva grande fede in quelle mani che avevano consacrato l'Eucaristia: e fu guarita all'istante. Lo stesso, a Benevento, una donna paralitica da quindici anni, chiese al Papa Leone IX di poter bere l'acqua da lui adoperata durante la S. Messa per l'abluzione delle dita. Il Santo Papa accontentò l'inferma in questa richiesta umile come quella della Cananea che chiese a Gesù "le briciole che cadono dalla mensa dei padroni" (Mt 15, 27). E fu subito guarita anche lei.
"Se io incontrassi - diceva il S. Curato d'Ars - un Sacerdote e un Angelo, saluterei prima il Sacerdote, poi l'Angelo... Se non ci fosse il Sacerdote, a nulla gioverebbe la Passione e la Morte di Gesù... A che servirebbe uno scrigno ricolmo d'oro, quando non vi fosse chi lo apre? Il Sacerdote ha le chiavi dei tesori celesti..."
Ma questa sublimità di grandezza comporta responsabilità enormi che pesano sulla povera umanità del Sacerdote; umanità in tutto identica a quella di ogni altro uomo. "Il Sacerdote - diceva S. Bernardo - per natura è come tutti gli altri uomini, per dignità è superiore a qualsiasi altro uomo della terra, per condotta deve essere emulo degli Angeli".
Per questo Padre Pio diceva: "Il Sacerdote o è un santo o è un demonio". O santifica, o rovina. San Giovanni Bosco diceva che "un prete o in paradiso o in inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero o col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio".
Veneriamo il Sacerdote e siamogli grati perché ci dona Gesù; ma soprattutto preghiemo per la sua altissima missione, che è la missione stessa di Gesù: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Missione divina che fa girar la testa e impazzire di amore, a rifletterci fino in fondo. Il Sacerdote è assimilato al Figlio di Dio, e il Santo Curato d'Ars diceva che "solo in cielo misurerà tutta la sua grandezza. Se già sulla terra lo intendesse, morrebbe non di spavento, ma di amore... Dopo Dio, il Sacerdote è tutto".
inviato da Anna Lollo, inserito il 07/01/2005
ESPERIENZA
171. L'esperienza che si fa messaggio
Carissimi catechisti,
è autentica. Ieri sera stavo amministrando l'eucarestia, durante la messa solenne, quando si è presentato un papà con la figlioletta in braccio. Il Corpo di Cristo. Amen. E gli ho fatto la comunione.
La bambina allora, che osservava con occhi colmi di stupore, si è rivolta a suo padre e gli ha chiesto: «È buona?». Sono rimasto letteralmente bruciato da quell'interrogativo. A tal punto, che mi son dovuto fermare. Poi, con la pisside in mano, mi son fatto largo fra la gente, ho raggiunto quel signore che si era già allontanato, e ho sentito il bisogno di dare un bacio alla sua bambina.
Quella domanda mi è parsa splendida. E siccome nell'omelia avevo detto che in fatto di fede possiamo trasmettere agli altri solo ciò che sperimentiamo noi stessi, ho pensato che il Signore, con la battuta ingenua di una bambina e nel linguaggio spontaneo dei semplici, avesse voluto restituirmi la sintesi del mio lungo discorso.
In effetti, ciò che rende credibili sulle nostre labbra di annunciatori la trasmissione del messaggio di Gesù è soltanto l'esperienza che noi per primi facciamo della sua verità. Una verità che non passa, se chi la trasmette non ne pregusta un assaggio e non se ne nutre in abbondanza.
La domanda di quella bambina, perciò, ci stringe d'assedio, perché chiama in causa non tanto il nostro sapere religioso, quanto lo spessore del nostro vissuto concreto.
«È buona?». Perché, se la mensa di cui tu parli ti riempie di forze, desidero sedermi anch'io alla tua tavola. Spezzane un po' anche per me di quel pane che tu gusti avidamente. Fammi bere alla stessa brocca, se è vero che quell'acqua toglie la sete e ti placa l'arsura dell'anima.
«È buona?». Perché se l'hai già provato tu che la legge del Signore è perfetta e rinfranca l'anima, come dicono i salmi, o che gli ordini del Signore fanno gioire il cuore, e le sue parole sono più dolci del miele e di un favo stillante... fa' assaporare pure a me queste delizie del palato e non escludermi da condivisioni di così squisita bontà.
Carissimi catechisti, io non so bene cosa ieri sera, a messa, avesse voluto da me il Signore, il quale per dirla ancora con le Scritture, si esprime spesso con la bocca dei bimbi e dei lattanti.
Ha voluto provocarmi a uscire dall'assuefazione ad un cibo troppo distrattamente consumato? Ha inteso rimproverarmi la sistematica assenza di gratitudine per il Suo Pane disceso dal cielo? Ha voluto farmi prendere coscienza con quanto poco stupore accolgo la ricchezza dei suoi doni?
Non lo so.
Certo è che, se quella bambina avesse potuto capirmi e io mi fossi sentito meno indegno di accreditarmi certi meriti, avrei risposto per conto del suo papà, rimasto muto, e avrei voluto dirle: «Sì che è buona l'eucarestia. Così come è buona la sua Parola. Così come è buona la sua amicizia. Così come è buona la sua croce. Te lo dico io che non posso più resistere senza quell'ostia. Che non so più fare a meno della sua Parola di vita eterna. Che sperimento la sua amicizia, sia nel gaudio di quando Lui mi è accanto, come nella nostalgia quando mi manca. Te lo dico io che ho una croce leggera sul petto, e una pesante sulle spalle. Quest'ultima, però, da quando ho capito che è una scheggia di quella portata da Lui, da simbolo delle mie sconfitte, si è tramutata in fontana di speranza. Per me e per gli altri. Parola di uomo!».
eucaristiatestimonianzacristianesimo
inviato da Michelangelo Dessì Sdb, inserito il 08/12/2004
TESTO
Ai tiepidi raggi del sole pomeridiano trionfavano per tutto il bosco i colori dell'autunno e Mirella, una giovanissima castagna ancora ben chiusa nel suo riccio, se li godeva compiaciuta, dondolandosi con sicurezza in cima al ramo più alto del Castagno Valerio.
«Che vista fantastica!», pensava tra sé, contemplando le pendici del monte e l'intera vallata baciata dal sole autunnale; «Un panorama meraviglioso, davvero meraviglioso...», sussurrava estasiata.
- Mai quanto te! - mormorò una voce suadente che proveniva dal basso; Mirella si chinò per vedere chi avesse parlato e scorse la Vespa Rachele, che con il suo inconfondibile ronzio le fu rapidamente accanto.
- Guarda che spine, che magnifiche spine! Mai visto un riccio come il tuo! Spine aguzze come punte di lancia, affilate come spade, fitte come un esercito schierato a battaglia! Altro che il mio pungiglione! La tua sì che è una bella difesa, una vera corazza! Abbine sempre cura e tientela cara: sia questo il tuo tesoro e il tuo vanto! - e con la stessa fulminea rapidità con cui era comparsa, sfrecciò via ronzando.
Mirella rimase un po' perplessa: da quando era nata non aveva fatto altro che guardarsi attorno, ammirando una dopo l'altra le infinite meraviglie di cui di giorno in giorno si scopriva circondata. Non aveva mai badato al suo riccio, né si preoccupava di come fossero le sue spine. Ora però, lusingata dai complimenti di Rachele, cominciò a farci caso e nel giro di breve tempo si convinse di essere effettivamente una gran bella castagna, anzi, forse proprio la più bella tra tutte quelle che Valerio poteva contare sui suoi rami.
«Non a caso abito sui ramo più alto e ricevo per prima il bacio del sole!» - ripeteva tra sé - «Perfino le foglie, per farmi spazio; si stanno ritirando una alla volta, volando via silenziose... certo per permettere a tutti di ammirare meglio me!», concludeva convinta.
- Attenta, figlia mia! - la riprese un giorno babbo Valerio - Bada bene di non montare in superbia! Non sei nata per essere ammirata, ma per...
- Ci mancavano solo le prediche del vecchio padre! - lo interruppe brontolando Mirella - Sei proprio incontentabile, papà! Anziché andare orgoglioso di una figlia così bella, ti metti a fare critiche e osservazioni!
Babbo Valerio rimase in silenzio; «Capirà a sue spese quello che non vuole ascoltare da me», pensò addolorato, e con un profondo sospiro rivolse lo sguardo al cielo: fosche nubi si stavano addensando e già oscuravano le cime dei monti vicini. Raffiche di vento gelido si abbatterono ben presto sul bosco, che per tutta la notte fu flagellato da un violento temporale.
Il mattino seguente, Mirella si svegliò contusa e indolenzita. «Dove sono?», si chiese stupefatta guardandosi attorno: si trovava infatti malamente adagiata tra vecchie foglie fradice di pioggia, in mezzo ad una vasta pozzanghera che lambiva le radici del Castagno Valerio.
- Benvenuta tra noi, Mirella! - le disse amichevolmente il Fungo Tebaldo, un porcino grassoccio dall'aria assai cordiale, circondato da una nidiata di figlioletti di varia statura. - Dopo aver sperimentato l'ebbrezza dei rami più alti, era conoscerai anche gli amici della terra!
Mirella si guardò intorno con aria schifiltosa: non era per niente contenta di trovarsi tutta inzaccherata in mezzo al fango e soprattutto temeva per la salute e la bellezza del suo riccio. Senza curarsi di rispondere al fungo Tebaldo si specchiò preoccupata nell'acqua melmosa della pozzanghera. «Ahimè!» - esclamò rabbrividendo - «Cosa mi è successo?». Una profonda ferita aveva spaccato la buccia verdastra del suo amato riccio, lasciando intravedere il guscio d'un bel marrone lucido.
- Niente di grave, piccola! - cercò di rassicurarla il Lombrico Gustavo - È assolutamente normale che una castagna prima o poi esca dal riccio! Non vorrai per caso startene rinchiusa lì dentro per sempre?
- Viscido e molle come sei, ti conviene startene alla larga senza ironizzare sulle mie sventure - ribatté con asprezza Mirella - Altrimenti assaggerai le mie spine e ti passerà la voglia di fare lo spiritoso!
- Via, via. Gustavo non intendeva offenderti - soggiunse la Lumaca Giannina - ma solo tranquillizzarti. E poi, permettimi di dirti con tutta franchezza che saresti molto più bella senza quell'enorme casco spinoso.
- Vuoi dire che quaggiù non vanno di moda le spine? - chiese con interesse Mirella.
- Assolutamente no! Apprezziamo molto di più tutto ciò che è morbido e tenero - intervenne gentilmente Luciana, la moglie del Fungo Tebaldo - e se vuoi un consiglio schiettamente femminile il colore del tuo guscio è così lucido e bello che ci guadagneresti soltanto a metterlo in mostra anziché tenerlo nascosto!
Mirella si lasciò persuadere e pian piano uscì spontaneamente dal riccio, abbandonandolo per sempre. Nel giro di pochi giorni fece amicizia con tutti gli abitanti del Sottobosco ed era certa che la simpatia che le dimostravano fosse dovuta in massima parte alla splendente lucentezza del suo guscio, di cui era assai fiera. Un mattino, però, quando il sole era da poco spuntato e i suoi raggi cominciavano a filtrare tra i rami degli alberi, il silenzio del bosco fu rotto da un insolito calpestio e dal vociare confuso di un gruppo di ragazzi. Erano degli scout e portavano in spalla pesanti zaini, tra le mani invece sporte e cestini. Avanzavano allegramente, cantando e fischiettando e in breve furono nei pressi del Castagno Valerio.
- Alt! Fermi tutti! - gridò il capo scout, poi si curvò ed esclamò compiaciuto: - Che meraviglia, ragazzi! Venite a vedere!
Mirella pensò subito che si trattasse di lei, dell'eccezionale splendore del suo guscio castano, e cominciò a gongolare, immaginandosi già di essere portata a valle ed esposta nella vetrina di qualche prestigiosa boutique di città. «Speriamo che si tratti di una gioielleria...», fantasticava tra sé, ma i suoi sogni di gloria furono drasticamente interrotti quando si accorse che tutti gli scout non si stavano minimamente curando né di lei né del suo guscio, ma unicamente del Fungo Tebaldo.
- È un porcino! - dichiarò con sicurezza il capo e dopo averlo colto delicatamente lo mostrò a tutti i ragazzi, che si affollarono intorno a lui per guardarlo da vicino.
- Avanti, ora! Continuiamo la raccolta! - E subito gli scout si sparpagliarono tra gli alberi facendo a gara a chi raccoglieva più castagne: fu così che anche Mirella finì senza tanti complimenti dentro un canestro di vimini insieme a numerose compagne.
Quella sera, mentre il falò rischiarava coi suoi bagliori la radura dove si erano accampati gli scout, Mirella domandò preoccupata: - Che ne sarà di noi, amiche mie?
- Saremo finalmente liberate! - rispose con gioia Donatella, l'anziana del gruppo.
- Liberate? E da che? Vuoi forse dire che ci lasceranno andare?
- Ma no! Ciascuna di noi sarà finalmente liberata da questo odioso guscio che ci tiene prigioniere impedendoci di essere veramente noi stesse!
- Ma io non mi sento affatto prigioniera! - esclamò inorridita Mirella - E poi non ho nessuna intenzione di perdere il mio guscio: è così bello! Non sono affatto disposta a lasciarlo!
Mentre ancora stava parlando, una ruvida mano raccolse dal canestro una manciata di castagne, tra cui anche lei, e dopo aver aperto un coltellino a serramanico cominciò ad inciderle ad una ad una.
- Ahi! - strillò disperata la povera Mirella, mentre una profonda ferita solcava irrimediabilmente il suo amato guscio. «Sono perduta...» pensava tristemente - «E il peggio è che le mie compagne non mi capiscono! Ci fosse almeno papà Valerio o il Fungo Tebaldo a consolarmi... e invece mi sento così sola».
In quel momento, però, a piangere di malinconia sulla propria solitudine non era solo Mirella: anche Martino, un lupetto di otto anni alle prese con la sua prima uscita di branco, non aveva nessuna voglia di cantare con i compagni seduti attorno al falò e pensava con tanta nostalgia alla sua mamma. Guardava fisso a terra e non alzò gli occhi nemmeno quando si levò un coro di applausi e di gioiose esclamazioni: una padella forata era stata posta sul fuoco con la prima razione di castagne, e tra queste c'era anche Mirella. Alla vista del fuoco e delle scintille, la poveretta rabbrividì di terrore, dicendo per sempre addio al suo caro guscio che nel giro di breve tempo rimase secco e mezzo carbonizzato.
- Coraggio, Martino! - disse amorevolmente Silvana, una dei capi, vedendo la tristezza del suo lupetto e prendendolo in braccio.
- Voglio la mia mamma... singhiozzò lui imbronciato.
- La mamma è contentissima che tu sia qui, Martino! E domani sera, quando la rivedrai, avrai molte cose belle da raccontarle. Per esempio, adesso c'è una sorpresa che ti aspetta.
- Che cos'è? chiese incuriosito Martino.
- Si chiamano caldarroste e sono proprio le castagne che abbiamo raccolto insieme stamattina. Prova ad assaggiarne una!
Il bimbo stese la mano e la prima che gli capitò fu proprio Mirella, che aveva sentito tutto ed era piena di compassione per il povero lupetto. «Come vorrei consolarlo! So benissimo anch'io cosa vuol dire sentirsi soli e tristi!». Così pensando non si accorse nemmeno che Silvana le aveva completamente spaccato e tolto il guscio: non rimaneva altro che la polpa, calda, dorata e fragrante.
- Assaggia, Martino! Sentirai com'è dolce e tenera! Ti piacerà molto più delle palatine e dei pop-corn che ti dà la mamma quando guardi i cartoni animati alla televisione!
Martino non si fece pregare: era la prima castagna che assaporava e gli parve così dolce e gustosa che dimenticò in un baleno tutte le sue malinconie.
- Che buona! - esclamò sorridendo, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. Poi, con gli occhi che scintillavano di gioia al riverbero del falò, si mise a cantare all'unisono con gli altri ragazzi.
E Mirella? Si era ormai completamente dissolta, ma aveva l'impressione che le si fosse sciolto anche quel carico di tristezza che la opprimeva. «Avevi ragione, papà Valerio!» - pensò. - «Non sono nata per essere ammirata, ma... per lasciarmi mangiare!».
E per la prima volta nella sua vita si sentì felice. Veramente felice.
Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29)
consegnarsidono di séamoresacrificio
inviato da Don Silvano Zanella, inserito il 05/10/2004
PREGHIERA
173. Invocazione allo Spirito (versione lunga)
Tonino Bello, Parole d'amore
Spirito di Dio che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell'universo, e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l'ala della tua gloria.
Dissipa le rughe. Fascia le ferite che l'egoismo sfrenato degli uomini ha tracciato sulla sua pelle. Mitiga con l'olio della tenerezza le arsure della sua crosta. Restituiscile il manto dell'antico splendore, che le nostre violenze le hanno strappato, e riversale sulle carni inaridite anfore di profumi.
Permea tutte le cose, e possiedine il cuore.
Facci percepire la tua dolente presenza nel gemito delle foreste divelte, nell'urlo dei mari inquinati, nel pianto dei torrenti inariditi, nella viscida desolazione delle spiagge di bitume.
Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura sulle nostre afflizioni.
Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino, e nel giardino fiorirà l'albero della giustizia, e frutto della giustizia sarà la pace.
Spirito Santo che riempivi di luce i Profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all'esilio.
Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.
Dissipa le nostre paure. Scuotici dall'omertà.
Liberaci dalla tristezza di non saperci più indignare per i soprusi consumati sui poveri.
E preservaci dalla tragedia di dover riconoscere che le prime officine della violenza e della ingiustizia sono ospitate nei nostri cuori.
Donaci la gioia di capire che tu non parli solo ai microfoni delle nostre Chiese.
Che nessuno può menar vanto di possederti. E che, se i semi del Verbo sono diffusi in tutte le aiuole, è anche vero che i tuoi gemiti si esprimono nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù e nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone dei pagani e nella rettitudine degli atei.
Spirito Santo che hai invaso l'anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza.
Donaci il gusto di sentirci "estroversi". Rivolti, cioè, verso il mondo, che non è una specie di chiesa mancata, ma l'oggetto ultimo di quell'incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.
Se dobbiamo attraversare i mari che ci distanziano dalle altre culture, soffia nelle vele perché, sciolte le gomene che ci legano agli ormeggi del nostro piccolo mondo antico, un più generoso impegno missionario ci solleciti a partire.
Se dobbiamo camminare sull'asciutto, mettici le ali ai piedi perché, come Maria, raggiungiamo in fretta la città. La città terrena. Che tu ami appassionatamente. Che non è il ripostiglio dei rifiuti, ma il partner con cui dobbiamo "agonizzare" perché giunga a compimento l'opera della Redenzione.
Spirito di Dio che presso le rive del giordano sei sceso con pienezza sul capo di Gesù e l'hai proclamato Messia, dilaga su questo corpo sacerdotale raccolto davanti a te.
Adornalo di una veste di Grazia. Consacralo con l'unzione, e invitalo a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l'anno di misericordia del Signore.
Se Gesù ha usato queste parole di Isaia per la sua autoproclamazione nella sinagoga di Nazareth e per la stesura del suo manifesto programmatico, vuole dire che anche la Chiesa oggi deve farsi solidale con i sofferenti, con i poveri, con gli oppressi, con i deboli, con gli affamati e con tutte le vittime della violenza.
Facci capire che i poveri sono i "punti di entrata" attraverso i quali tu, Spirito di Dio, irrompi in tutte le realtà umane e le ricrei. Preserva, perciò, la tua sposa dal sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia il sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia l'indulgenza alle mode di turno, e non invece la feritoia attraverso la quale la forza di Dio penetra nel mondo e comincia la sua opera di salvezza.
Spirito Santo dono del Cristo morente, fa' che la Chiesa dimostri di aver ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci. Quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale, parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto e ripeta con il salmo "le mie lacrime, Signore, nell'otre tuo raccogli".
Rendila protagonista infaticabile di deposizione del patibolo, perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di Madre. In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce, ma di guardare ad essa come all'antenna della sua nave, le cui vele tu colmi di brezza e spingi con fiducia lontano.
Spirito di Pentecoste ridestaci all'antico mandato di profeti, dissigilla le nostre labbra, contratte dalle prudenze carnali. Introduci nelle nostre vene il rigetto per ogni compromesso. E donaci la nausea di lusingare i detentori del potere per trarne vantaggio.
Trattienici dalle ambiguità. Facci la grazia del voltastomaco per i nostri peccati. Poni il tuo marchio di origine controllata sulle nostre testimonianze.
E facci aborrire dalle parole, quando esse non trovino puntuale verifica nei fatti.
Spalanca i cancelletti dei nostri cenacoli. Aiutaci a vedere i riverberi delle tue fiamme nei processi di purificazione che avvengono in tutti gli angoli della terra. Aprici a fiducie ecumeniche. E in ogni uomo di buona volontà facci scorgere le orme del tuo passaggio.
Spirito del Signore dono del Risorto agli apostoli del cenacolo,
gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l'olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa' risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce.
Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.
inviato da Marco V. Stocchi, inserito il 29/07/2004
RACCONTO
Quando il Signore fece la donna era il suo sesto giorno di lavoro, facendo straordinari. Apparve un angelo e disse: «Perché usi tanto tempo nel fare questo?»
E il Signore rispose: «Hai visto il formulario delle specifiche che possiede? Deve essere completamente lavabile ma non di plastica, ha duecento parti mobili e tutte sostituibili, funziona a caffè e resti di pranzo, ha un grembo nel quale stanno due bambini allo stesso tempo, possiede un bacio che può curare qualsiasi cosa, da un ginocchio sbucciato ad un cuore rotto ed ha sei paia di mani».
L'angelo era sorpreso da tutti i requisiti che la donna possedeva. «Sei paia di mani! Non è possibile!»
«Il problema non sono le mani, sono i tre paia di occhi che le madri devono avere», rispose il Signore.
«Tutto questo nel modello standard?», chiese l'Angelo.
Il Signore assentì con il capo. «Sì, un paio d'occhi servono affinché possa vedere attraverso una porta chiusa chiedendo ai figli cosa stanno facendo, nonostante lo sappia. Un altro paio sono nella parte posteriore della testa per vedere cose che ha bisogno di conoscere nonostante nessuno pensi che sia necessario.Il terzo paio sono nella parte anteriore della testa. Questi servono quando vede i figli smarriti e guardandoli dice loro che li capisce e li ama comunque senza bisogno di dire una parola».
L'Angelo cercò di fermare il Signore: «Questo è un carico troppo grande per la donna!».
«Ascolta il resto delle specifiche!», protestò il Signore. «Si cura da sola quando è ammalata, può alimentare una famiglia con qualsiasi cosa e può far sì che un bambino di nove anni resti sotto la doccia».
L'Angelo si avvicinò e toccò la donna: «Però, l'hai fatta tanto morbida, Signore!».
«Lei è morbida e dolce» disse il Signore, «però allo stesso tempo l'ho fatta forte. Non hai alcuna idea di quanto possa essere resistente e di quanto possa sopportare».
«Potrà pensare?» chiese l'Angelo.
Il Signore rispose: «Non solo sarà capace di pensare ma anche di ragionare e di negoziare».
L'Angelo notò qualcosa, si stirò e toccò la guancia della donna.
«Oh! Sembra che questo modello abbia una perdita. Gliel'ho detto che stava cercando di metterci troppe cose!».
«Questa non è una perdita, obiettò il Signore, questa è una lacrima!».
«E a cosa servono le lacrime?» chiese l'Angelo.
Il Signore disse: «Le lacrime sono la forma nella quale esprime la sua allegria, il suo dolore, il disincanto, la solarità, il suo orgoglio».
L'Angelo era impressionato. «Sei un genio Signore! Hai davvero pensato a tutto, visto che le donne sono veramente meravigliose!».
E il Signore aggiunse: «Le donne hanno una forza che meraviglia gli uomini. Crescono i figli, sopportano le difficoltà, portano carichi pesanti, tacciono quando vorrebbero gridare. Cantano quando vorrebbero piangere. Piangono quando sono felici e ridono quando sono nervose. Litigano per ciò in cui credono. Si sollevano contro le ingiustizie. Non accettano un NO come risposta quando credono che esista una soluzione migliore. Se sono in ristrettezze comprano le scarpe nuove per i figli e non per se stesse. Accompagnano dal medico un amico spaventato. Amano incondizionatamente. Trionfano. Hanno il cuore rotto quando muore un amico. Soffrono quando perdono un membro della famiglia ma riescono ad essere forti quando non c'è più nulla da cui trarre energia. Sanno che un abbraccio ad un bacio possono aggiustare un cuore rotto. Le donne sono fatte di tutte le misure, le forme ed i colori. Amministrano, volano, camminano o ti mandano e-mail per dirti quanto ti amano. Le donne fanno più che trasmettere luce, portano allegria e speranza, compassione ed ideali. Le donne hanno infinite cose da dire e da dare. Sì, il cuore delle donne è meraviglioso».
inviato da Giovanna Carosini, inserito il 29/07/2004
TESTO
175. Lucciole d'amore, scarafaggi di rabbia 1
"L'uomo è stato creato da Dio perché ami". Questa affermazione riassume in sé tutto quanto sia necessario dire. Certo, poi si possono dare spiegazioni, si può approfondire e discutere. Ma in ogni caso quella frase contiene tutto il necessario. Capita a volte di stupirsi per la gratuità dell'amore che riceviamo. Capita a volte che una persona abbia una semplice gentilezza verso un altro individuo, che dica una parola buona, che abbia anche solo uno sguardo di dolcezza o risponda un "grazie" di cuore, anche quando esso non sia dovuto. Queste sono piccolezze, ma ciascuna è una piccola gemma d'amore, una piccola luce... una lucciola d'amore. Ciò che le caratterizza è la loro semplicità da una parte e la loro assoluta, completa gratuità dall'altra. È un'esperienza bellissima accorgersi poi di come a volte possa instaurasi un vero e proprio circolo virtuoso grazie alla presenza di queste piccole, semplici lucciole d'amore. Se qualcuno lancia a un altro una piccola lucciola d'amore, chi la riceve ne sarà felice. Non è davvero la felicità entusiasta e sfrenata che si può provare nel vedere, per esempio, realizzato un proprio grande desiderio... è tuttavia pur sempre una piccola felicità, un senso di benessere, una piccola lucciola che, a volte, è sufficiente ad illuminare quella che altrimenti sarebbe stata solo una grigia e fredda giornata di noie, di malumori e di preoccupazioni. Forse, allora, capiterà che chi riceve una piccola lucciola d'amore si accorga della sua gratuità e del benessere che gli deriva dal ricevere questo piccolo gesto. Forse capiterà anche che si fermi un momento a riflettere e a gustare quel piccolo benessere. E forse, a questo punto, gli sorgerà il desiderio di fare altrettanto verso altre persone: donare piccole e gratuite lucciole d'amore. Se, poi, questo individuo davvero proverà a donarne alcune, allora si accorgerà con grande, meraviglioso stupore di quanto sia facile lanciare agli altri lucciole d'amore, di quanta poca fatica costi, e di quanta gioia porti non solo agli altri ma anche a lui per primo! Già, perché la fatica che occorre per lanciare piccole lucciole d'amore è davvero poca: un sorriso, una parola gentile, un gesto semplice, una cortesia da nulla, una risposta garbata ad una do-manda... sono molti gli esempi, le occasioni capitano mille volte al giorno! Chi riceve una lucciola d'amore sa quanto essa possa far bene, quanto scaldi il cuore!
Esistono a volte, invece, situazioni opposte: malumori e grattacapi possono chiudere il cuore degli uomini, e questi si riducono allora a scortesie, a risposte sgarbate, a dimenticare un "grazie" o un saluto... e questi comportamenti sono gratuiti e inaspettati, altrettanto quanto le lucciole d'amore. Sono scarafaggi di rabbia, che intristiscono il cuore, oscurano la giornata e rischiano, a volte, di innescare veri e propri circoli viziosi, in cui chi riceve uno scarafaggio di rabbia si incupisce al punto da lanciarne a sua volta ad altre persone, e così via...
Ma talvolta accade qualcosa di meraviglioso: capita infatti che qualcuno riceva uno di questi scarafaggi di rabbia e risponda ad esso con una piccola lucciola d'amore, diretta proprio verso chi gli aveva mandato la scortesia. Forse una sola lucciola in quel momento non basterà a rischiarare un cuore incupito, forse neppure due o tre... ma a volte capita di vedere persone che non si scoraggiano, e che portano dentro sé una luce tanto grande da potersi permettere di intestardirsi nel "bombardare" quel cuore cupo con lucciole d'amore. Oggi una, domani un'altra, dopodomani ancora... e dai e dai, a un certo punto anche nel cuore cupo compare un raggio di luce. E questa persona, che fino ad ieri era cupa, accenna timidamente a lanciare a sua volta a un'altra persona una piccola, minuscola, timidissima lucciola d'amore. Che gioia, che stupore, che meraviglia quando questo accade! Che meraviglia scoprire che c'è un altro cuore che si è rischiarato, e quanta gioia c'è nel vedere che questo cuore ci prende gusto, che assapora la felicità di donare lucciole d'amore, ancora e ancora... diventa quasi una droga!
A volte capita però che le persone siano esauste, che rientrino a casa sfinite da una giornata di duro lavoro, di impegni, di scadenze, di fatiche... è come se, a volte, nel rientrare a casa venisse lasciata fuori dalla porta tutta la luce che avevano albergato in cuore fino a quel momento. Si comportano con le persone più care, con i famigliari, con la moglie, con il marito come se, adesso che sono finalmente a casa, "pretendessero" di ricevere a tutti i costi qualche lucciola d'amore da essi. Se è vero che le lucciole d'amore donate dalle persone più care e dalla persona amata sono le più luminose e le più lenitive nei confronti di un animo stanco ed esausto, è anche vero purtroppo che la pretesa che lucciole ci vengano donate è in se stessa un vero e proprio scarafaggio di rabbia. E uno scarafaggio di rabbia diretto verso la persona amata morde e graffia molto di più che non uno scarafaggio lanciato da un semplice conoscente o addirittura da uno sconosciuto! Le lucciole d'amore non devono essere mai pretese: altrimenti, si spengono. L'unico modo per mantenerle sempre luminose e vive è donarle, e le più preziose sono quelle che rispondono ad un piccolo scarafaggio di rabbia, perché a volte hanno il potere di tramutarlo in una bellissima lucciola!
generositàamoregratuitàdono di séamare i nemici
inviato da Isabella, inserito il 29/07/2004
TESTO
Siamo convinti che la nostra vita sarà migliore quando saremo sposati, quando avremo un primo figlio o un secondo. Poi ci sentiamo frustrati perché i nostri figli sono troppo piccoli per questo o per quello e pensiamo che le cose andranno meglio quando saranno cresciuti.
In seguito siamo esasperati per il loro comportamento da adolescenti.
Siamo convinti che saremo più felici quando avranno superato quest'età.
Pensiamo di sentirci meglio quando il nostro partner avrà risolto i suoi problemi, quando cambieremo l'auto, quando faremo delle vacanze meravigliose, quando non saremo più costretti a lavorare.
Ma se non cominciamo una vita piena e felice ora, quando lo faremo?
Dovremo sempre affrontare delle difficoltà di qualsiasi genere.
Tanto vale accettare questa realtà e decidere d'essere felici, qualunque cosa accada.
Alfied Souza diceva: "Per tanto tempo ho avuto la sensazione che la mia vita sarebbe presto cominciata, la vera vita! Ma c'erano sempre ostacoli da superare strada facendo, qualcosa d'irrisolto, un affare che richiedeva ancora tempo, dei debiti che non erano stati ancora regolati. In seguito la vita sarebbe cominciata. Finalmente ho capito che questi ostacoli: erano la vita."
Questo modo di percepire le cose ci aiuta a capire che non c'è un mezzo per essere felici ma la felicità è il mezzo.
Di conseguenza gustate ogni istante della vostra vita e gustatelo ancora di più quando potete dividerlo con una persona cara, una persona molto cara per passare insieme dei momenti preziosi della vita.
Ricordatevi che il tempo non aspetta nessuno.
Allora smettete di aspettare di finire la scuola, di tornare da scuola, di perdere 5 kg, di avere dei figli, di vederli andare via di casa.
Smettete di aspettare di cominciare a lavorare, di andare in pensione, di sposarvi.
Smettete di aspettare il venerdì sera, la domenica mattina, di avere una nuova macchina o una casa nuova.
Smettete di aspettare la primavera, l'estate, l'autunno o l'inverno.
Smettete di aspettare di lasciare questa vita, e decidete che non c'è momento migliore per essere felici che il momento presente. Quello donato da Dio.
La felicità e le gioie della vita non sono delle mete, ma un viaggio.
Un pensiero per oggi:
Lavorate, come se non aveste bisogno di soldi.
Amate, come se non doveste soffrire mai.
Ballate, come se nessuno vi guardasse.
Ora rifletti bene e cerca di rispondere a queste domande:
Nomina le 5 persone più ricche del mondo.
Nomina le 5 ultime vincitrici del concorso Miss Universo.
Nomina 10 vincitori del premio Nobel.
Nomina i 5 ultimi vincitori del premio Oscar come migliore attore od attrice.
Come va? Male? Non preoccuparti.
Nessuno di noi ricorda i migliori di ieri.
E gli applausi se ne vanno! E i trofei si impolverano!
I vincitori sì dimenticano!
Adesso rispondi a queste altre:
Nomina 3 professori che ti hanno aiutato nella tua formazione.
Nomina 3 amici che ti hanno aiutato in tempi difficili.
Pensa ad alcune persone che ti hanno fatto sentire speciale.
Nomina 5 persone con cui passi volentieri il tuo tempo.
Come va? Meglio? Le persone che segnano la differenza nella tua vita non sono quelle con le migliori credenziali, con molti soldi, o i migliori premi... sono quelle che si preoccupano per te, che si prendono cura di te, quelle che ad ogni modo stanno con te.
Rifletti un momento. La vita è molto corta!
Tu, in che lista sei? Non lo sai?... Permettimi di darti un aiuto...
Non sei tra i famosi,... però sei tra quelli perché il Signore ha voluto che tu fossi mio fratello o mia sorella.
vitaviveresenso della vitaaccettazioneaccettazione di sépositivitàottimismo
inviato da Claudio Fiorini, inserito il 28/07/2004
PREGHIERA
177. Preghiera del sacerdote la domenica sera 3
Michel Quoist, Preghiere
Signore, stasera, sono solo.
A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa,
le persone se ne sono andate,
ed io sono rientrato in casa,
solo.
Ho incontrato la gente che tornava da passeggio.
Sono passato davanti al cinema che sfornava la sua porzione di folla.
Ho costeggiato le terrazze dei caffè, in cui i passanti,
stanchi, cercavano di prolungare la gioia di vivere una domenica di festa.
Ho urtato i bambini che giocavano sul marciapiede,
i bambini o Signore,
i bambini degli altri, che non saranno mai i miei.
Eccomi, Signore
solo.
Il silenzio mi incomoda,
la solitudine mi opprime.
Signore, ho 35 anni,
un corpo fatto come gli altri,
braccia nuove per il lavoro,
un cuore riservato all'amore,
ma ti ho donato tutto.
È vero, tu ne avevi bisogno.
Io ti ho dato tutto ma è duro, o Signore.
È duro dare il proprio corpo: vorrebbe darsi ad altri.
È duro amare tutti e non serbare alcuno.
È duro stringere una mano senza volerla trattenere.
È duro far nascere un'affetto, ma per donarlo a Te.
È duro non essere niente per sé per esser tutto per loro.
È duro essere come gli altri, fra gli altri, ed esser un'altra.
È duro dare sempre senza cercare di ricevere.
È duro andare incontro agli altri, senza che mai qualcuno ti venga incontro.
È duro soffrire per i peccati degli altri, senza poter rifiutare di accoglierli e portarli.
È duro ricevere i segreti, senza poterli condividere.
È duro sempre trascinare gli altri e non mai potere, anche solo un'istante, farsi trascinare.
È duro sostenere i deboli senza potersi appoggiare ad uno forte
È duro essere solo,
solo davanti a tutti,
Solo davanti al Mondo.
Solo davanti alla sofferenza,
alla morte,
al peccato.
Figlio, non sei solo,
io sono con te,
Sono te.
Perché avevo bisgono di un'umanità in più
per continuare la Mia Incarnazione e la Mia Redenzione.
Dall'eternità Io ti ho scelto,
ho bisogno di te.
Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire,
Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare,
Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire,
Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare,
Ho bisogno di te per continuare a salvare,
Resta con Me, Figlio mio.
Eccomi, Signore;
ecco il mio corpo,
ecco il mio cuore,
ecco la mia anima.
Concedimi d'essere tanto grande da raggiungere il Mondo,
tanto forte da poterlo portare,
tanto puro da abbracciarlo senza volerlo tenere.
Concedimi d'essere terreno d'incontro,
ma terreno di passaggio,
strada che non ferma a sé,
perché non vi è nulla di umano da cogliervi
che non conduca a te.
Signore, stasera, mentre tutto tace e nel mio cuore sento
duramente questo morso della solitudine,
mentre il mio corpo urla a lungo la sua fame di piacere,
mentre gli uomini mi divorano l'anima ed io mi sento incapace di saziarli,
mentre sulle mie spalle il mondo intero pesa con tutto il suo peso di miseria e di peccato,
io ti ripeto il mio sì, non in una risata, ma lentamente, lucidamente, umilmente.
Solo, o Signore davanti a te,
nella pace della sera.
I fedeli sono esigenti verso il loro prete. Hanno ragione. Ma devono sapere che è duro essere prete. Chi si è donato nella piena generosità della sua giovinezza rimane un uomo, ed ogni giorno in lui l'uomo cerca di riprendere quel che ha donato. È una lotta continua per restare totalmente disponibile al Cristo e agli altri.
Il prete non ha bisogno di complimenti o di regali imbarazzanti: ha bisogno che i cristiani, di cui ha in modo speciale la cura, amando sempre più i loro fratelli, gli provino che non ha dato invano la sua vita. E poiché rimane un uomo, può aver bisogno una volta d'un gesto delicato di amicizia disinteressata... una domenica sera in cui è solo.
Seguitemi ed io vi farò pescatori di uomini. (Mc 1,17)
Non voi avete scelto me, ma io ho sceto voi e vi ho destinati ada ndare a portare frutto, un frutto che rimanga. (Gv 15,16)
Dimentico del cammino percorso, mi protendo in avanti, corro verso la meta, per conseguire lassù il premio della vocazione di Dio nel Cristo Gesù. (Fil 3,13-14)
sacerdoziopretesacerdotesolitudineoffertà di sédonazione
inviato da Anna Barbi, inserito il 27/07/2004
PREGHIERA
178. Santa Maria, donna del vino nuovo (versione lunga)
Santa Maria, donna del vino nuovo, quante volte sperimentiamo pure noi che il banchetto della vita languisce e la felicità si spegne sul volto dei commensali! E' il vino della festa che vien meno.
Sulla tavola non ci manca nulla: ma, senza il succo della vite, abbiamo perso il gusto del pane che sa di grano. Mastichiamo annoiati i prodotti dell'opulenza: ma con l'ingordigia degli epuloni e con la rabbia di chi non ha fame. Le pietanze della cucina nostrana hanno smarrito gli antichi sapori: ma anche i frutti esotici hanno ormai poco da dirci.
Tu lo sai bene da che cosa deriva questa inflazione di tedio. Le scorte di senso si sono esaurite.
Non abbiamo più vino. Gli odori asprigni del mosto non ci deliziano l'anima da tempo. Le vecchie cantine non fermentano più. E le botti vuote danno solo spurghi d'aceto.
Muoviti, allora, a compassione di noi, e ridonaci il gusto delle cose. Solo così, le giare della nostra esistenza si riempiranno fino all'orlo di significati ultimi. E l'ebbrezza di vivere e di far vivere ci farà finalmente provare le vertigini.
Santa Maria, donna del vino nuovo, fautrice così impaziente del cambio, che a Cana di Galilea provocasti anzitempo il più grandioso esodo della storia, obbligando Gesù alle prove generali della Pasqua definitiva (cfr. Gv 2,1-11), tu resti per noi il simbolo imperituro della giovinezza.
Perché è proprio dei giovani percepire l'usura dei moduli che non reggono più, e invocare rinascite che si ottengono solo con radicali rovesciamenti di fronte, e non con impercettibili restauri di laboratorio.
Liberaci, ti preghiamo, dagli appagamenti facili. Dalle piccole conversioni sottocosto. Dai rattoppi di comodo.
Preservaci dalle false sicurezze del recinto, dalla noia della ripetitività rituale, dalla fiducia incondizionata negli schemi, dall'uso idolatrico della tradizione.
Quando ci coglie il sospetto che il vino nuovo rompa gli otri vecchi, donaci l'avvedutezza di sostituire i contenitori. Quando prevale in noi il fascino dello status quo, rendici tanto risoluti da abbandonare gli accampamenti. Se accusiamo cadute di tensione, accendi nel nostro cuore il coraggio dei passi. E facci comprendere che la chiusura alla novità dello Spirito e l'adattamento agli orizzonti dai bassi profili ci offrono solo la malinconia della senescienza precoce.
Santa Maria, donna del vino nuovo, noi ti ringraziamo, infine, perché con le parole: Fate tutto quello che egli vi dirà tu ci sveli il misterioso segreto della giovinezza.
E ci affidi il potere di svegliare l'aurora anche nel cuore della notte.
Mariasenso della vitanozze di cananovità di vitanon accontentarsi
inviato da Antonio Pinizzotto, inserito il 27/07/2004
TESTO
Melinda Tamàs-Tarr, Osservatorio Letterario, Ferrara e l'Altrove
Le melodie delle voci angeliche
risuonan ancora nel mio cuore
come un dolce accordo finale
a mezzanotte della masse di Natale.
Nel mio povero animo festoso
nasce un inspiegabile sentimento
come se fosse un sussurro del Cielo
per gridar fortemente al Mondo intero:
«È nato il piccolo Bambino Santo
il Salvatore nostro: Gesù Cristo...»
Come da piccola, anche adesso
L'aspetto con gran raccoglimento
calcolando le ore ed ogni minuto
che mi separano dal grande evento.
In tutti gli anni nel periodo d'Avvento
i miei genitori raccontavan col mistero
la storia della nascita di Gesù Bambino
che venne al nostro mondo cattivo
a liberarci e portarci un giorno
dal Buon Padre Eterno nel Suo Impero...
Alla notte della Vigilia in ogni anno
festeggiamo il Suo compleanno
con lo stesso spirito dei Re Magi
ed anche noi riceviamo alcuni doni.
Quando si sente il melodico tintinnio
s'entra nella stanza in cui splende l'albero
ch'è pieno di luci e tante decorazioni,
sotto c'è il Presepe con i nostri regali.
Che magia si sente nel nostro animo
davanti a questo splendido albero
ed i nostri occhi si fermano sul viso
dell'unico festeggiato: Bambin Divino...
Tutto questo è un bel mondo fatato:
s'ha paura anche a prender un respiro
per non rompere quest'incantesimo
che ha assediato il nostro spirito,
si ha l'impressione del Gran Paradiso
d'esser circondati d'un coro angelico...
È arrivato il momento della preghiera
poi recitare una sacra canzoncina
in cui lodiamo il piccolo Bimbo Santo...
«È arrivata finalmente l'aspettata notte,
ed in alto splendono le luci delle stelle,
l'albero del nostro Gesù bambino
l'hanno portato gli Angeli del Cielo.
Ti ringraziamo Bambino di Betlemme
per il grand'amore del Tuo Cuore
e con il coro d'Angeli del Cielo
il Tuo Santo Nome oggi lodiamo.
Anche se passerà questo natale
Resta sempre con noi, per favore,
Ti ringraziamo d'amare ancora
questa nostra piccola famiglia!...»
II^ classificata al Concorso «Natale a Vada 1995» dell'Accademia Italiana «Gli Etruschi», 1995. Dalla p. 233 dell'Antologia «La gatta sul divano», Edizione Lisi, 1996. e dall'Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove.
inviato da Melinda TamàS-Tarr, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
Tetro e ogivale è l'antico palazzo dei vescovi, stillante salnitro dai muri, rimanerci è un supplizio nelle notti d'inverno. E l'adiacente cattedrale è immensa, a girarla tutta non basta una vita, e c'è un tale intrico di cappelle e sacrestie che, dopo secoli di abbandono, ne sono rimaste alcune pressoché inesplorate. Che farà la sera di Natale - ci si domanda - lo scarno arcivescovo tutto solo, mentre la città è in festa? Come potrà vincere la malinconia? Tutti hanno una consolazione: il bimbo ha il treno e pinocchio, la sorellina ha la bambola, la mamma ha i figli intorno a sé, il malato una nuova speranza, il vecchio scapolo il compagno di dissipazioni, i1 carcerato la voce di un altro dalla cella vicina. Come farà l'arcivescovo? Sorrideva lo zelante don Valentino, segretario di sua eccellenza, udendo la gente parlare così. L'arcivescovo ha Dio, la sera di Natale. Inginocchiato solo soletto nel mezzo della cattedrale gelida e deserta a prima vista potrebbe quasi far pena, e invece se si sapesse! Solo soletto non è, non ha neanche freddo, né si sente abbandonato. Nella sera di Natale Dio dilaga nel tempio, per l'arcivescovo, le navate ne rigurgitano letteralmente, al punto che le porte stentano a chiudersi; e, pur mancando le stufe, fa così caldo che le vecchie bisce bianche si risvegliano nei sepolcri degli storici abati e salgono dagli sfiatatoi dei sotterranei sporgendo gentilmente la testa dalle balaustre dei confessionali.
Così, quella sera il Duomo; traboccante di Dio. E benché sapesse che non gli competeva, don Valentino si tratteneva perfino troppo volentieri a disporre l'inginocchiatoio del presule. Altro che alberi, tacchini e vino spumante. Questa, una serata di Natale. Senonché in mezzo a questi pensieri, udì battere a una porta. "Chi bussa alle porte del Duomo" si chiese don Valentino "la sera di Natale? Non hanno ancora pregato abbastanza? Che smania li ha presi?" Pur dicendosi così andò ad aprire e con una folata divento entrò un poverello in cenci.
"Che quantità di Dio!" esclamò sorridendo costui guardandosi intorno, "Che bellezza! Lo si sente perfino di fuori. Monsignore, non me ne potrebbe lasciare un pochino? Pensi, è la sera di Natale".
"E' di sua eccellenza l'arcivescovo" rispose il prete. "Serve a lui, fra un paio d'ore. Sua eccellenza fa già la vita di un santo, non pretenderai mica che adesso rinunci anche a Dio! E poi io non sono mai stato monsignore."
"Neanche un pochino, reverendo? Ce n'è tanto! Sua eccellenza non se ne accorgerebbe nemmeno!"
"Ti ho detto di no... Puoi andare... Il Duomo è chiuso al pubblico" e congedò il poverello con un biglietto da cinque lire.
Ma come il disgraziato uscì dalla chiesa, nello stesso istante Dio disparve. Sgomento, don Valentino si guardava intorno, scrutando le volte tenebrose: Dio non c'era neppure lassù. Lo spettacoloso apparato di colonne, statue, baldacchini, altari, catafalchi, candelabri, panneggi, di solito così misterioso e potente, era diventato all'improvviso inospitale e sinistro. E tra un paio d'ore l'arcivescovo sarebbe disceso.
Con orgasmo don Valentino socchiuse una delle porte esterne, guardò nella piazza. Niente. Anche fuori, benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e perfino bestemmie. Non campane, non canti.
Don Valentino uscì nella notte, se n'andò per le strade profane, tra fragore di scatenati banchetti. Lui però sapeva l'indirizzo giusto. Quando entrò nella casa, la famiglia amica stava sedendosi a tavola. Tutti si guardavano benevolmente l'un l'altro e intorno ad essi c'era un poco di Dio.
"Buon Natale, reverendo" disse il capofamiglia. "Vuol favorire?"
"Ho fretta, amici" rispose lui. "Per una mia sbadataggine Iddio ha abbandonato il Duomo e sua eccellenza tra poco va a pregare. Non mi potete dare il vostro? Tanto, voi siete in compagnia, non ne avete un assoluto bisogno."
"Caro il mio don Valentino" fece il capofamiglia. "Lei dimentica, direi, che oggi è Natale. Proprio oggi i miei figli dovrebbero far a meno di Dio? Mi meraviglio, don Valentino."
E nell'attimo stesso che l'uomo diceva così Iddio sgusciò fuori dalla stanza, i sorrisi giocondi si spensero e il cappone arrosto sembrò sabbia tra i denti.
Via di nuovo allora, nella notte, lungo le strade deserte. Cammina cammina, don Valentino infine lo rivide. Era giunto alle porte della città e dinanzi a lui si stendeva nel buio, biancheggiando un poco per la neve, la grande campagna. Sopra i prati e i filari di gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.
"Ma che cosa fa', reverendo?" gli domandò un contadino. "Vuoi prendersi un malanno con questo freddo?"
"Guarda laggiù figliolo. Non vedi?"
Il contadino guardò senza stupore. "È nostro" disse. "Ogni Natale viene a benedire i nostri campi."
" Senti " disse il prete. "Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote. Lasciamene un pochino che l'arcivescovo possa almeno fare un Natale decente."
"Ma neanche per idea, caro il mio reverendo! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella vostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi."
"Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì."
"Ne ho abbastanza di salvare la mia!" ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai suoi campi e scomparve nel buio.
Andò ancora più lontano, cercando. Dio pareva farsi sempre più raro e chi ne possedeva un poco non voleva cederlo (ma nell'atto stesso che lui rispondeva di no, Dio scompariva, allontanandosi progressivamente).
Ecco quindi don Valentino ai limiti di una vastissima landa, e in fondo, proprio all'orizzonte, risplendeva dolcemente Dio come una nube oblunga. Il pretino si gettò in ginocchio nella neve. "Aspettami, o Signore " supplicava "per colpa mia l'arcivescovo è rimasto solo, e stasera è Natale!"
Aveva i piedi gelati, si incamminò nella nebbia, affondava fino al ginocchio, ogni tanto stramazzava lungo disteso. Quanto avrebbe resistito?
Finché udì un coro disteso e patetico, voci d'angelo, un raggio di luce filtrava nella nebbia. Aprì una porticina di legno: era una grandissima chiesa e nel mezzo, tra pochi lumini, un prete stava pregando. E la chiesa era piena di paradiso.
"Fratello" gemette don Valentino, al limite delle forze, irto di ghiaccioli "abbi pietà di me. Il mio arcivescovo per colpa mia è rimasto solo e ha bisogno di Dio. Dammene un poco, ti prego."
Lentamente si voltò colui che stava pregando. E don Valentino, riconoscendolo, si fece, se era possibile, ancora più pallido.
"Buon Natale a te, don Valentino" esclamò l'arcivescovo facendosi incontro, tutto recinto di Dio. "Benedetto ragazzo, ma dove ti eri cacciato? Si può sapere che cosa sei andato a cercar fuori in questa notte da lupi?"
inviato da Manuel Toniato, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
181. Antonio, mister D.I.O. per gli amici, e Camilla 1
Antonio aveva finalmente realizzato il suo progetto, lo scopo della sua esistenza, realizzare una via che unisse tutti i popoli del mondo e per questo venne nominato Dottore In Onniscienza, per gli amici Mr. D.I.O.. Per celebrare l'avvenimento venne realizzato un grandissimo museo, un museo particolare a dire la verità, sempre aperto, 24 ore su 24 e 365 giorni all'anno, un museo dove non si paga il biglietto d' ingresso e tutti coloro che lo visitano non vogliono più andare via e, nonostante tutto, più gente entra e più cresce lo spazio disponibile per altra gente ancora.
Il pezzo forte di questo museo, illuminato da una luce particolare, che lo rende ancora più affascinante, è Camilla, una vecchia e assai malandata Jeep. Camilla era la macchina con cui Mr. D.I.O si spostava in giro per il mondo per studiare, progettare e realizzare il suo disegno. A dire il vero Mr. D.I.O. aveva in testa anche come doveva essere Camilla, innanzitutto il colore della carrozzeria, bianco o nero, rosso, giallo, o quel verde olivastro tanto esotico per lui non facevano alcuna differenza, anche la forma esterna non era di grande importanza, tozza o filante, alta o bassa per lui era la stessa cosa. Le cose veramente importanti per lui erano altre, ad esempio dei buoni fari per poter vedere nell'oscurità, una buona radio per captare anche le voci più lontane, delle ruote sempre capaci di sorreggerne il peso e un cuore, pardon, un motore che non si stancasse mai di farla andare avanti, anche piano, ma sempre avanti, e dei finestrini ampi, per poter vedere bene all'esterno, non solo le bellezze di questo mondo, ma anche e soprattutto per non perdere mai la direzione giusta in cui procedere e riuscire a vedere e interpretare i segnali che Mr. D.I.O., man mano che costruiva la via metteva per evitare che altri si perdessero.
Anche se può sembrare strano fin dai primi tempi in cui i due si trovarono a lavorare insieme capirono entrambi che l'altro aveva qualcosa di speciale, Antonio era convinto che Camilla lo potesse in qualche modo sentire, e Camilla, dal canto suo, sembrava intuirne i pensieri. Anzi, da quella volta che Antonio mise mano al suo computer di bordo aveva maturato una specie di autocoscienza e spesso si chiedeva se i segnali erano abbastanza chiari, se, per esempio, su una strada apparentemente facile anziché un semplice limite di velocità era il caso di mettere anche un avviso del tipo "attento alla curva puoi ucciderti o uccidere qualcun altro", o mettere nei posteggi dei cartelli con la scritta "non rubare il posteggio a chi sta aspettando da prima di te"oppure decorare le macchine nuove con scritte del tipo "non desiderarmi solo perché sono più nuova della tua", o altri ancora che potessero in qualche modo essere di maggior aiuto alle persone intente a raggiungere la propria meta.
Con il passare del tempo l'intesa cresceva sempre di più, tanto che Camilla ogni tanto si permetteva di agire come di testa sua e Mr. D.I.O. la lasciava fare, anche se ogni tanto non rispettava le regole, tagliare per i prati per accorciare la strada o passare con il semaforo arancione per la fretta in fin dei conti erano delle infrazioni venali e comunque lui era sempre lì, pronto a riportarla in carreggiata. I due andarono avanti così per moltissimi anni, Camilla di tanto in tanto usciva di strada, Antonio la riprendeva e se restava qualche piccolo segno sulla carrozzeria non importava, importante era andare avanti, sempre e insieme. Tutto sembrava procedere per il meglio fino a quando Camilla in qualche modo intuì che per lei Mr. D.I.O. aveva in mente qualcosa di speciale, da quel momento fu presa da una strana smania di correre e fare di testa sua. Antonio faceva ricorso a tutta la sua pazienza e abilità per tenere Camilla in strada e ci riuscì sempre fino a quando, ormai vicinissimi al museo dove Camilla avrebbe trovato il suo posto d'onore, Camilla per la smania di arrivare prima uscì dalla strada segnata e, incurante dei cartelli di attenzione, imboccò quella che sembrava una bellissima scorciatoia, una strada larga, ben asfaltata e leggermente in discesa. Viaggiare su quella strada era bellissimo e non si faceva neanche fatica ma inesorabilmente la discesa si faceva sempre più ripida e la strada più stretta e tortuosa, Camilla provò a frenare ma ormai era troppo tardi e i freni non ressero allo sforzo, provò allora ad uscire dalla strada, sperando di riuscire a fermarsi strisciando contro gli alberi che la fiancheggiavano.
Dopo aver strisciato su molti alberi, sobbalzato su innumerevoli sassi Camilla finalmente terminò la sua corsa dentro un fosso, era veramente malridotta, il suo desiderio in quel momento era di farsi rottamare quando si accorse che Antonio non c' era, probabilmente era stato sbalzato fuori durante la sua folle corsa, in quel momento fu presa dal panico, si rese conto di essere veramente sola, capì che anche quando faceva di testa sua Mr. D.I.O. le era comunque vicino, pronto a correggerla e perdonare gli sbagli. Fu questo a farle trovare la forza di rimettersi in moto, in fondo il motore era forte e lentamente e con fatica riuscì a riportarla sulla giusta via anche se la carrozzeria era ammaccata, le ruote non perfettamente allineate e i fari, già appannati dagli anni, sembravano sul punto di piangere (era solo il lavafari rotto che perdeva acqua).
Quando si fermò un attimo per raffreddare l'acqua del radiatore Camilla si accorse che Antonio, Mr. D.I.O. per gli amici, era lì seduto su un paracarro che la guardava ammirato, appena l'acqua nel radiatore si raffreddò Antonio si rimise al volante e portò Camilla nel suo museo e la sistemò al posto che si meritava, il migliore. Ai visitatori che gli chiedevano come mai Camilla, così malridotta era al posto d' onore Mr. D.I.O. dava questa risposta, Avevo un progetto, ma da solo non lo potevo realizzare, avevo bisogno di qualcuno che mi portasse per il mondo, avevo bisogno di qualcuno su cui poter contare, avevo bisogno di qualcuno a cui dare fiducia nella certezza che, anche se talvolta per fare di testa sua sorvola su alcune regole, trova poi il coraggio di ammettere i propri sbagli e la forza per tornare sulla strada segnata, perché è solo nella luce che la illumina che Camilla mette in risalto le sue doti, quelle che le hanno permesso di riuscire a fare tutto questo.
regolepeccatopentimentoperdonouomorapporto con Dio
inviato da Mauro Bianchi, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
182. Il piccolo re solitario 1
Bruno Ferrero, Nuove Storie, Ed. Elle Di Ci
Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c'era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi. Sull'isola c'era un castello e nel castello viveva un piccolo re. Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi. Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata. Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport. Era un grande sportivo. Deteneva infatti tutti i record del regno: da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo. E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d'oro. Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo: "Grazie, maestà!".
Nel castello c'era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri. Al re piacevano molto i fumetti d'avventure. Un po' meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi. "E io neanche uno!" si diceva il re. "Ma come dice il proverbio: è meglio essere soli che male accompagnati".
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti. "Con i complimenti di sua maestà", si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava: "Se solo avessi cento sudditi".
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
"Se solo avessi cinquanta sudditi", disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta. Il re si sedette su uno scoglio ed era un po' triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c'era un magnifico tramonto.
"Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice".
Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
"Sudditi", gridò il re; "sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!".
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re. Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano "urrà" nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo. Un vociare forte e disordinato lo svegliò. Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti. Erano i pirati del terribile Barbarossa.
Sembravano sbucare dall'orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
"All'arrembaggio!", gridava Barbarossa, il più feroce di tutti. E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano. A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l'abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava: "Se prendo il re, lo appendo all'albero della nave!".
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati. Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone. "Se avessi un esercito", pensava, "Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia".
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo. Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile. "Forse sono arrivati i miei sudditi", pensò il re, e andò ad aprire la porta. Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono il gatto", disse il gatto.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il gatto; "ho fame e ho freddo".
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole.
"Che bellissima casa hai".
"Sì, non è male", disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
"E' perché io sono il re", disse il re; ed era molto soddisfatto.
"Io resterò qui", decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
"Dammi del cibo", disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
"Fammi un letto", disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
"Ho freddo", disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.
"Ecco fatto, signor Suddito", disse il re al gatto.
E il gatto rispose: "Grazie, signor Re".
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare: il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva: "Il re, urrà". E si salutava. Non era più il campione assoluto dell'isola. Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell'arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello. Corse ad aprire, pensando: "Arrivano i sudditi". Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra. Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono un pinguino", disse il pinguino.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il pinguino; "ho fame e ho i piedi congelati. Sono stufo di abitare su un iceberg".
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
"Penso che mi fermerò qui con voi", disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo. Adesso aveva due sudditi. Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
"Io farò il maggiordomo. Mi ci sento portato", dichiarò il pinguino. "Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza".
Così furono in tre a guardare i tramonti. Ed era ancora meglio che in due. Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva a nuoto e nei tuffi. Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all'orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
"Presto scappiamo a nasconderci", gridò il re.
"Neanche per sogno", disse il gatto. "Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti".
"Certo", ribatté il pinguino. "Basta avere un piano".
"Nell'armeria del castello c'è l'armatura del gigante Latus", disse il re.
"Bene", disse il gatto. "Ci infileremo nell'armatura e affronteremo i pirati".
"Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada", continuò il pinguino.
"Approvo il piano", concluse il re.
Così fecero. Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa. Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone. "E' tornato il gigante Latus!", gridarono. "Si salvi chi può!". E si buttarono in acqua per raggiungere la nave. Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell'isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo. Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando: "Re è il migliore amico che c'è, urrà!".
inviato da Suor Lucia Brasca FMA, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
Storie di Natale
«Mi raccomando, non stropicciateli subito!», Gabriella, la catechista, cominciò a distribuire i fogli e le buste ad ogni bambino. Fogli e buste avevano dei simpatici fregi dorati sull'angolo destro e un grazioso Bambin Gesù nella mangiatoia in quello sinistro. Fabio prese il suo foglio con un attimo di esitazione. Non aveva voglia di scrivere la lettera a Gesù Bambino, questa volta.
«Scrivete bene... e soprattutto, per una volta, siate sinceri! Quando avete finito piegate il foglio, infilatela nella busta e sigillate. Avete capito?», diceva Gabriella, che sparava le parole come una mitragliatrice. «Poi mettete le buste in questo cestino che porteremo insieme nel presepio grande della scuola. Avete capito?»
I bambini cominciarono a cinguettare.
«Io chiedo i pattini con le rotelle in linea», diceva Rosalba. «lo l'abbonamento all'antenna parabolica», annunciava Michael, che aveva il padre ingegnere.
«Io invece voglio la tuta della Juventus», proclamava Marco, lo sportivo del gruppo.
«E tu Fabio?», chiese Gabriella, arruffandogli affettuosamente i capelli.
«Adesso ci penso», rispose sottovoce il bambino.
Stringeva le labbra come se stesse per scoppiare a piangere. Si chinò sul foglio e con la sua grossa calligrafia infantile scrisse una frase. Una soltanto, breve, ma che gli veniva proprio dal cuore. Firmò: «Il tuo amico Fabio» e cominciò l'operazione di piegatura del foglio, con la solita diligenza, e la lingua che gli spuntava appena tra le labbra, a indicare tutto l'impegno che ci metteva.
Gabriella gli stava alle spalle e aveva potuto leggere la richiesta di Fabio. Tossì, perché le venivano le lacrime agli occhi. Lei intuiva la sofferenza che Fabio cercava di dissimulare, quel velo di malinconia che lo prendeva all'ora di andare a casa. Il papà di Fabio non c'era più. Se n'era andato. E il bambino ne soffriva tanto, come di una ferita che non si rimargina. La sua lettera a Gesù Bambino diceva così: «Caro Gesù Bambino, per Natale mandami un papà buono. Grazie. Il tuo amico Fabio».
«Credo sia la lettera più difficile che riceverai, caro Gesù», pensò Gabriella.
Le letterine furono raccolte, tra le proteste dei bambini che erano arrivati solo ad elencare una dozzina di richieste. Prima di collocarle nel presepio, con un gesto rapido, Gabriella mise la lettera di Fabio davanti a tutte le altre. «Comincia da questa, per favore», mormorò rivolta al Bambino di gesso, che se ne stava con le braccine spalancate sulla paglia finta della mangiatoia di plastica.
Venne il giorno di Natale. Fabio si svegliò presto, con l'eccitazione delle grandi giornate. Girandosi nel letto sentiva il fruscio della carta dei regali vicino ai piedi. Se ne stette un bel po' ad occhi chiusi, per godersi l'attesa della sorpresa. Era pur sempre Natale!
Aprì i pacchetti avvolti in carta colorata e dorata, lentamente. Riconobbe i regali dei nonni, quelli della mamma, la tuta da sci che di certo era un regalo dello zio Luigi. «Poi, ci sono anch'io!».
La voce, pacata e profonda, lo fece trasalire. C'era un uomo accanto al suo letto. Aveva i capelli scuri e ricciuti, una folta barba nera sul volto abbronzato, e un sorriso dolce come lo sguardo. Indossava una morbida felpa azzurra e pantaloni di fustagno. Fabio era soprattutto meravigliato dal fatto di non provare paura. Non era proprio un fifone, ma pauroso sì. E trovarsi uno sconosciuto improvvisamente accanto al letto, in condizioni normali, gli avrebbe provocato per lo meno una serie di urla terrificanti. Invece quell'uomo gli dava soltanto una serena sicurezza. Come se lo conoscesse da sempre.
In quel momento entrò la mamma: «Tanti auguri, tesoro!». Lo abbracciò. «Ti piacciono i regali?». Fabio ricambiò l'abbraccio. «Sì, grazie», mormorò.
«È presto ancora. Ti preparerò una buona colazione. Ma ora stai qui al caldo a pigrottare un po'». La mamma gli accarezzò i capelli e uscì.
«Ma... ma... non l'ha visto!», disse Fabio rivolto all'uomo misterioso.
«No. Io sono il tuo regalo, non il suo», sorrise l'uomo.
Cominciò così una giornata memorabile della vita di Fabio. Si alzò e si lavò a tempo di record. Nell'attesa, l'uomo aveva preso i quaderni di Fabio e li esaminava con interesse.
«Bravo!», disse alla fine. «Hai fatto dei bei progressi, ultimamente» .
Fabio annuì con fierezza. «Ho ancora qualche problema con le doppie...», aggiunse virtuosamente. «Ma ce la farai, ne sono certo», aggiunse l'uomo e gli mise una mano sulla spalla. Una sensazione bellissima per Fabio.
«Tu hai dei figli?», chiese, esitando ancora. «Ho un figlio, sì», rispose l'uomo. «Ma oggi, sei tu mio figlio». La mamma spuntò improvvisamente sulla porta. «Cosa fai? Parli da solo?».
«No... Dicevo una poesia ad alta voce». «Per favore, vai in cantina a prendere un barattolo di marmellata... Se vuoi la crostata a mezzogiorno!», continuò la mamma. Scendere in cantina per Fabio era una tortura. Tutte quelle ombre polverose lo riempivano di angoscia. Di solito faceva mille storie o fingeva di dimenticarsi.
Come se avesse capito tutto, l'uomo si alzò e disse: «Andiamo!», e lo prese per mano. Era una manona energica, tiepida, protettiva, che infondeva una tranquilla sicurezza.
Il cigolio della porta della cantina, che quando scendeva da solo gli ricordava lo stridio dei denti di un mostro nascosto nell'ombra, adesso gli sembrò comico. «Ci vorrebbe un po' d'olio sui cardini», disse.
La pacata presenza dell'uomo accanto a lui, trasformò la cantina, da antro polveroso disseminato di oscure insidie e misteriose presenze, in una stanza qualunque, zeppa di mobili vecchi, giochi rotti, qualche bottiglia e barattoli di pomodori pelati.
Prese un barattolo di marmellata e si girò per uscire. Ma l'uomo lo fermò.
«Perché non fai un giro con quella?», disse indicando una bicicletta nuova appoggiata al muro. Fabio arrossì. «Non ci so andare... Nessuno ha tempo per insegnarmi».
«Magnifico, infilati una giacca a vento e andiamo. Il viale è deserto».
Incredulo, il bambino portò la bicicletta sulla strada. L'uomo lo aiutò a salire in sella e gli disse di incominciare a pedalare. Fabio incominciò traballando, ma l'uomo reggeva saldamente la bicicletta e gli camminava accanto. Provarono e riprovarono. A tratti, l'uomo lasciava la presa e il bambino pedalava da solo, finché riuscì a trovare il punto di equilibrio e partì in una lunga felice pedalata. Aveva imparato.
«Grazie!», ansimò all'uomo che lo accolse fingendo di applaudire.
«Rientriamo, ora. Sei sudato e fa freddo». «Solo più un giro», supplicò il bambino. «D'accordo. Ma uno solo!».
Rientrò in casa gridando: «Ho imparato, mamma, ho imparato ad andare in bicicletta!».
«Da solo?», chiese la mamma.
«Beh... veramente...». L'uomo si portò l'indice sulle labbra e fece segno al bambino di tacere.
«Stai tranquillo un attimo che devo preparare il pranzo», continuò la mamma. «Fra un po' arrivano i nonni».
L'uomo aiutò il bambino a riporre la bicicletta e l'accompagnò nella sua cameretta. «Come farai per il pranzo?»
«Ti aspetterò qui. Ne approfitterò per rimettere in sesto il tuo armadio».
Infatti, quando tornò nella sua cameretta, Fabio vide che le ante dell'armadio chiudevano perfettamente e che i piani erano ben diritti. Sembrava un armadio nuovo.
«Ci sai fare», disse.
«È il mio mestiere», bisbigliò l'uomo, poi aggiunse: «Potresti insegnarmi questo gioco, intanto».
Giocarono una serie memorabile di partite a Scarabeo. Poi fecero una lunga passeggiata insieme (Fabio disse alla mamma che andava all'oratorio). A cena gli occhi del bambino brillavano di stanchezza e di felicità. La mamma lo fissava con qualche perplessità: non riusciva a capire perché il bambino continuasse a rivolgere lo sguardo verso il lato vuoto della tavola. Una volta lo sorprese addirittura a sorridere.
Fabio andò a letto prima del solito. Si infilò sotto le coperte e l'uomo gli sistemò la trapunta a scacchi bianchi e neri e si sedette sul letto accanto a lui.
«Diciamo le preghiere insieme, prima che arrivi la mamma?»
«Certo», disse l'uomo e sorrise.
Dopo le preghiere, l'uomo strinse la mano del bambino.
«Devi andartene, vero?», sussurrò Fabio.
«Eh sì!».
«Una giornata passa in fretta», ammise malinconicamente il bambino.
«Sei un bravo ragazzo e tutti ti vogliono bene. Devi voler bene alla mamma e anche al tuo papà. Dovunque sia, rimane il tuo papà».
«Io quando sarò grande e avrò dei bambini li amerò sempre e starò sempre con loro», promise Fabio. «Sì. È così che devi fare. E io, in qualche modo, ti sarò accanto e ti aiuterò».
«Non mi hai neanche detto come ti chiami». «Giuseppe».
L'uomo lo accarezzò. Le sue grosse mani da operaio sprigionavano un'infinita tenerezza.
«Sei stato il più bel regalo di Natale», bisbigliò Fabio prima di addormentarsi.
inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004
RACCONTO
184. Perché suonano le campane
C'era una volta, in una grande città, una chiesa davvero splendida. Dall'ingresso principale si riusciva a malapena a scorgere l'altare di pietra che si trovava all'altro capo. Di fianco alla chiesa si levava un campanile, simile a una torre, così alto nel cielo che la punta si distingueva soltanto quando il tempo era molto limpido.
Lassù nella torre vi erano delle campane che si diceva fossero le più belle e le più sonore del mondo, ma nessun essere vivente le aveva mai sentite!
Erano le campane speciali di Natale: potevano far udire i loro rintocchi solo la notte di Natale e, per di più, soltanto quando fosse stato deposto sull'altare il più grande e il più bel dono al Bambino Gesù. Purtroppo, da molti anni non si era avuta un' offerta così splendida da meritare il suono delle grandi campane.
Tuttavia, ogni vigilia di Natale, la gente si affollava davanti all'altare portando doni, cercando di superarsi gli uni con gli altri, gareggiando nell'escogitare offerte sempre più straordinarie. Nonostante la chiesa fosse affollata e la funzione splendida, lassù nella torre di pietra si udiva soltanto fischiare il vento.
In un villaggio abbastanza lontano dalla città viveva un ragazzo di nome Pedro, insieme al suo fratellino. Essi avevano sentito parlare delle famose offerte della vigilia di Natale, e per tutto l'anno avevano fatto progetti per assistere alla grande e sfarzosa cerimonia, e per la Messa di mezzanotte.
Il mattino precedente il giorno di Natale, all'alba, mentre cadevano i primi fiocchi di neve, Pedro e il fratellino si misero in cammino. Al calar della notte, avevano già quasi raggiunto la porta della città quando, per terra davanti a loro, scorsero una povera donna che era caduta nella neve, troppo stanca e malata per cercare rifugio da qualche parte. Pedro si inginocchiò cercando di alzarla, ma non vi riuscì.
«Non ce la faccio, fratellino» disse Pedro. «È troppo pesante. Devi proseguire da solo».
«lo? Da solo?» esclamò il fratellino. «Ma allora tu non ci sarai alla funzione di Natale».
«Non posso fare altrimenti» disse Pedro. «Guarda questa povera donna. Il suo viso è simile a quello della Madonna nella finestra della cappella. Morirà di freddo se l'abbandoniamo. Sono andati tutti in chiesa, ma io starò qui e mi prenderò cura di lei fino alla fine della Messa. Allora tu potrai condurre qui qualcuno che l'aiuti. Ah, fratellino, prendi questa monetina d'argento e deponila sull'altare: è la mia offerta per il Bambino Gesù. Su, ora, corri!».
E mentre il bambino si avviava verso la chiesa, Pedro sbatté gli occhi per trattenere le lacrime di delusione che gli rigavano le guance. Poi passò un braccio dietro al capo della povera donna che si lamentava debolmente e cercò di sorriderle.
«Coraggio, signora», le disse, «tra poco arriverà qualcuno».
Nella grande chiesa, la funzione di quella vigilia di Natale fu più splendida che mai! L'organo suonò e i fedeli cantarono e, alla fine della funzione, poveri e ricchi avanzarono orgogliosamente verso l'altare per offrire i loro doni. A poco a poco, sull'altare, si accumularono oggetti splendidi d'oro, d'argento e d'avorio intarsiato; dolci elaborati nei modi più impensati; stoffe dipinte e broccati.
Ultimo, in un gran fruscio di seta e tintinnar di spade, il re del paese percorse la navata. Portava in mano la corona regale, tempestata di pietre preziose che mandavano barbagli di luce tutt'intorno.
Un fremito di eccitazione scosse la folla.
«Senza dubbio questa volta si sentiranno suonare le campane a festa!» mormoravano tutti.
Il re depose sull'altare la splendida corona. La chiesa piombò in un silenzio profondo. Tutti trattennero il respiro, con le orecchie tese per ascoltare il suono delle campane.
Ma soltanto il solito freddo vento sibilò sul campanile.
I fedeli scossero la testa increduli. Qualcuno cominciò a dubitare che quelle strane campane avessero mai potuto suonare. «Forse si sono bloccate per sempre!» sosteneva qualche altro.
La processione era terminata e il coro stava per iniziare l'inno di chiusura, quando all'improvviso l'organista smise di suonare paralizzato. Perché d'un tratto dalla cima della torre si era levato il dolce suono delle campane. Un suono ora alto ora basso, che fluttuava nell'aria riempiendola di festosa sonorità.
Era il suono più angelico e piacevole che mai si fosse udito.
La folla restò un attimo eccitata e silenziosa. Poi, tutti insieme, si alzarono volgendo gli occhi all'altare per vedere quale meraviglioso dono aveva finalmente risvegliato le campane dal loro lungo silenzio. Ma non videro altro che la figura di Fratellino che silenziosamente era scivolato lungo la navata per deporre sull'altare la monetina d'argento di Pedro.
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inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004
RACCONTO
185. Il prezzo della libertà 3
Segno nel mondo, Soci, Anno V n. 2 del 31/01/1995
C'era una volta un aquilone. Era legato ad un filo sottile e si librava nell'aria, come danzando, pilotato dolcemente dalle mani esperte di un piccolo uomo, il suo creatore.
L'aquilone gioiva nel vederlo sorridere mentre lui danzava, ma un giorno sentì il desiderio di andare più in alto, di volare da solo e si accorse che quel filo, quel filo sottile glielo impediva.
D'un tratto quell'esile filo che era stato l'unione col suo creatore divenne per lui come una catena opprimente. L'aquilone cominciò a dimenarsi, a dare strattoni, ad imprecare contro quel piccolo uomo che lo teneva prigioniero. Tanto si agitò che ad un certo punto il filo si spezzò.
L'aquilone cominciò a volare da solo, finalmente libero, felice di danzare nel vento senza catene. Il piccolo uomo lo chiamava, supplicandolo di non andare troppo in alto, ma egli, ormai libero, non ascoltava le sue parole.
Improvvisamente il vento divenne più forte e cominciò a sbatterlo da ogni parte, a trascinarlo in una folle corsa. Avrebbe voluto rallentare, fermarsi per un attimo, ma non poteva. Il vento lo feriva con le sue raffiche mortali, lo mandava a sbattere contro le cime degli alberi e non poteva scansarle. I rami aguzzi gli strappavano brandelli di carta, mettevano a dura prova il suo esile scheletro.
L'aquilone cominciò ad aver paura, a pensare che presto il suo volo sarebbe finito per sempre. Guardò giù e, sotto di sé, vide il piccolo uomo che correva affannosamente, cercando di non perderlo di vista. Provò nostalgia per quel viso sorridente, ma il vento non gli dava tregua, sembrava divertirsi a tormentarlo.
All'improvviso il vento cominciò a scemare e l'aquilone pensò che presto si sarebbe finalmente fermato. Guardò diritto davanti a sé e vide una grossa pozzanghera che sì faceva sempre più vicina. Provò un brivido di terrore, ma non poteva cambiare strada. L'acqua lo accolse in un abbraccio mortale e sentì la carta rammollirsi, disfarsi lentamente.
E' la fine, - pensò - ma poi, improvvisamente si sentì sollevato delicatamente da una mano familiare. Il piccolo uomo, tutto sporco di fango, lo asciugò pazientemente, curò le sue ferite, sistemò il suo esile scheletro e lo legò di nuovo con quel piccolo filo.
Passarono i giorni e l'aquilone tornò a volare legato a quel filo sottile, tra le mani del piccolo uomo. Capì che era bello volare insieme a lui, danzare per lui e quel filo sottile non gli sembrò più una catena crudele, ma un appiglio sicuro, un rifugio contro le avversità.
Aveva capito, finalmente, che la libertà è bella, ma ha un prezzo, che occorre pagare.
libertàautonomiaindipendenzarapporto con Dio
inviato da Giovanni Capotorto, inserito il 31/01/2004
TESTO
Màrai Sàndor, Mennybõl az angyal, 1956, New York, tradotta da Agnes Preszler © 2003
Angelo, scendi dalle stelle, va' a Budapest,
va' veloce, tra rovine bruciate e fredde,
dove tra i carri armati russi tacciono le campane.
Dove non brilla Natale,
non ci sono addobbi sugli alberi,
non c'è altro che freddo, gelo e fame.
Di' a loro che lo sappiano,
parla ad alta voce nella notte,
angelo, porta loro il mistero di Natale.
Sbatti veloce le ali, vola veloce
perché ti aspettano tanto.
Non parlare a loro del mondo,
dove ora a lume di candela
in stanze calde si apparecchia.
Il prete in chiesa usa un linguaggio solenne,
fruscia la carta da regalo,
buoni intenzioni, parole sagge.
Sugli alberi candele romane.
Angelo, parlaci tu di Natale.
Racconta, perché è un miracolo,
che nella notte placida l'albero di natale
di un popolo povero si è acceso
e sono molti a fare il segno della croce.
Il popolo dei continenti lo guarda,
uno lo capisce, l'altro non l'afferra.
Scuotono il capo, è troppo per molti.
Pregano o si inorridiscono:
perché sull'albero non ci sono dolci,
ma l'Ungheria, il Cristo dei popoli.
E le passano tanti davanti;
il soldato che l'ha trafitta;
il fariseo che l'ha venduta;
chi l'ha negata tre volte;
chi, dopo che intinse con lei nel piatto,
l'ha offerta per trenta monete d'argento,
e mentre la insultava e la picchiava,
le beveva sangue e mangiava il corpo.
Ora stanno là tutti a guardare,
ma nessun di loro osa parlarle.
Perché lei non parla più, non accusa,
guarda solo giù dalla croce, come Cristo.
E' strano questo albero di Natale,
chi l'ha portato, l'angelo o il diavolo?
Quelli che tirano a sorte la sua veste,
non sanno quello che fanno,
solo fiutano, sospettano
il mistero di questa notte,
perché questo è un strano Natale,
sull'albero c'è il popolo ungherese.
E il mondo parla di miracolo,
preti predicano coraggio,
l'uomo di stato lo commenta,
lo benedice anche il santo papa.
E gente di ogni tipo e rango,
chiede: a che cosa è servito?
Perché non aspettava in silenzio la fine,
e si estinse come la Sorte volle?
Perché si squarciò il cielo?
Perché un popolo ha detto: Ora basta!
Sono in molti a non capire
che cosa è questa inondazione,
perché si è mosso l'ordine del mondo?
Un popolo ha urlato. Poi fu il silenzio.
Ma ora tanti stanno a chiedere:
di carne ed ossa chi ha fatto legge?
E lo chiedono molti, sempre di più,
perché non lo afferrano proprio
loro che l'hanno avuto in eredità,
ma allora vale tanto la Libertà?
Angelo, porta loro la notizia,
che dal sangue sorge sempre nuova vita.
Si sono già incontrati diverse volte:
il Bambino, l'asino, il pastore.
Nel presepe, nel sogno
quando la Vita ha partorito,
a salvaguardare il miracolo
sono loro con il respiro.
Perché è accesa la Stella, spunta l'aurora
angelo del cielo, porta la notizia.
inviato da Agnes Preszler, inserito il 20/12/2003
TESTO
187. Una giornata del silenzio contro rumori e parole gridate
Vittorino Andreoli, Avvenire, 2 aprile 2002
Il silenzio nel tempo presente è morto, e nessuno sembra disperarsene, avvertirne la perdita. Il silenzio anzi spaventa e lo si cancella al solo pensiero che possa avvolgerci.
Si sente invece il fascino del rumore, di quella presenza continua che forma lo scenario, vero habitat dell'uomo del terzo millennio. La scelta allora non è tra rumore e silenzio, ma tra i mille rumori possibili. Svariate persone ricercano combinazioni multiple: i rumori impuri o la ridda di questi al cui confronto un terremoto apocalittico appare quasi un suono d'arpa.
Nelle discoteche non si ascolta musica, ma il baccano ed inutile è mettere in guardia dai decibel o dal rischio di lesione all'orecchio: il rumore piace. È uno stimolante come una pozione magica. Le spiagge dell'Adriatico gremite d'estate come un formicaio, non rappresentano una condizione del destino, ma una scelta piacevole: uno vicino all'altro, ciascuno dentro i rumori dell'altro: uno scambio di rumori che uniscono gli ombrelloni e fa sentire un'unica famiglia di urlanti.
La montagna era luogo di silenzio con gli spazi infiniti, con la roccia che si continua con il cielo e con l'eterno, ora è un folle concentrarsi di macchine e di corpi lungo le strade, vicino alle auto parcheggiate con le radio accese, le bocche che urlano. A pochi passi di distanza dalla strada non c'è nessuno e quel silenzio sembra sprecato. Si cerca il rumore. L'identità di questa civiltà è il rumore. La civiltà del rumore. Il televisore in casa è sempre acceso. Ci sono persone che non lo spengono nemmeno la notte. Hanno bisogno di quel sottofondo rassicurante e il video ha sostituito persino il sogno, che ormai è fuori di noi e parla degli altri.
Non è più specchio dei nostri segreti interiori, del mistero che bolle in noi. È stato svelato, sostituito meglio, da un rumore.
Gli studenti leggono Aristotele con il rock, per la matematica è preferibile la musica metal. La sinfonica è troppo dolce, occorrerebbe riscriverla sostituendo ai violini i fiati, i tromboni in particolare, e i timpani.
Nelle case ci sono tanti rumori, poche parole e - comunque - silenzio mai. E l'accenno vale per il silenzio fisico, dato dalla mancanza di suoni o rumori che si può rilevare con l'orecchio umano, ma obiettivamente pure con un fonografo. Eppure c'è anche un silenzio interiore, che coincide con il senso di svuotamento del mondo esterno che penetra dentro di noi, e che ci consente di cogliere meglio cosa c'è in noi.
Il silenzio della meditazione: è morto anch'esso. Basta vedere la funzione di un telefono portatile. Uno strumento della sopravvivenza, un oggetto della follia. In treno uno è obbligato a stare fermo, potrebbe pensare, percepirsi, ma non ce la fa e allora chiama qualcuno, non importa chi e perché, importa rompere il silenzio e fare un po' di rumore di cui tutti sono alla fine felici.
Insomma c'è un silenzio fuori di noi, quello del deserto, quando il vento è immobile, o di un canyon sperduto. E c'è un silenzio dentro di noi, che si lega alla pace interiore. L'uno è certamente condizionato dall'altro, ma non in maniera proporzionale: c'è chi sa astrarsi dal mondo, fuggirlo.
Dell'Africa ricordo il silenzio e il buio che non esistono più nella civiltà tecnologica. Anche il buio è parte dell'archeologia: ora c'è sempre una lampadina che illumina. E le stelle hanno perso il proprio fascino. I suoni che rompono il silenzio in Africa sembrano voci del mistero. E anche un coyote parla degli dei che così abitano dentro la testa dell'uomo. Ricordo certe notti nei villaggi d'Africa quando un uomo nella notte si riduceva a due occhi appesi al nulla.
Si è riempiti di rumore fino a non sentire che quel rumore e perdere se stessi, il proprio silenzio. Il mondo dentro di me può esser sopraffatto da quello attorno a me, e il mio silenzio espropriato e ciascun uomo è anche silenzio, forse è soprattutto silenzio.
Io me li ricordo gli esercizi spirituali d'un tempo e li ricordo come silenzio esteriore per sentire qualche voce bambina e qualche balbettio dentro di me. Ma ricordo, più tardi, anche il bisogno di silenzio per pensare, per seguire un percorso di idee, per entrare nel profondo di una meditazione concentrata. Ricordo le passeggiate in montagna, ricordo i monasteri che regalavano silenzio.
Ma c'è - attenzione - una grande differenza tra silenzio e mutismo. Chi è muto non parla all'altro, chi è silenzioso parla a se stesso. Senza silenzio l'uomo è un folle che gira per la strada senza sapere dove va e perché mai si muove. Ha perduto ogni direzione e segue le tracce dei rumori senza sapere da dove provengono, un rumore non ha nulla dentro, è solo rumore, segnale di qualche cosa, ma non di che cosa.
L'uomo del tempo presente è perso dentro i rumori che cerca di tradurre in parole che non hanno più senso. La parola nelle civiltà antiche e nelle culture animiste è forza vitale: dà la forza. È mistero. La parola nella magia agisce: "male dicere" provoca disgrazia, "bene dicere" dà coraggio e felicità. La parola non va mai sprecata. E l'uomo saggio parla poco e vive di silenzio.
Nel cristianesimo la Parola irrompe nella storia e diventa liturgia, quindi crea un contesto sacro. Mentre il mondo lancia raffiche di parole, senza senso, che feriscono o uccidono come obici d'artiglieria pesante.
Si crede che le parole abbiano significato, mentre sono flatus vocis senza una combinazione, che non è quella della sintassi, ma del senso dell'uomo, della esistenza.
La parola come senso, non come rumore. Una parola oggi non ha più storia, non si lega ad un prima, e non è l'incipit per un poi. Si usa la parola che nel momento appare più rumorosa, e può essere antitetica a quella appena usata: si può sempre dire di essere stati fraintesi, così la parola non ha senso o ha tutti i sensi possibili. La parola è rumore. La parola gridata è più efficace. L'oratore è colui che dice tante parole fino a comporre un suono senza senso, ammaliare senza trasmettere nulla.
Il senso dell'uomo e del mondo è nel silenzio che non è vuoto, ma la condizione per un lungo viaggio dentro il proprio esistere e la propria angoscia di esistere, avendo un senso e una coerenza. Il silenzio genera anche la parola che è però pensiero, è intuizione non spot, è colloquio con sé o con il mistero, non un quiz né un quizzone.
Ci sono le malattie del parlare. Da un lato il maniacale che parla continuamente e non sa che cosa dice. Parla a una velocità che è propria dell'articolazione della gola, ma non della mente. Parla a prescindere dalla testa, senza pensare. Dall'altra parte, il depresso, non fa parola perché teme che ogni espressione sia un errore.
Ma c'è anche il silenzio della normalità, di colui che sa quanto sia difficile pronunciare frasi sensate, e quanto sia facile offendere con parole che si penserebbero invece neutre, e allora medita e prende tempo prima di pronunciarsi.
"Non ha la parola pronta": è considerato un difetto mentre può essere il segno della prudenza che è una grandissima virtù.
"È di poche parole": e si crede che abbia bisogno di uno psicologo o di uno psichiatra, mentre si muove dentro i sensi del proprio io, dentro la propria "anima".
L'importante è parlare. Il politico deve parlare e magari non dire niente: fa l'ostruzionismo della parola. Il presentatore deve parlare sempre, per dire semplicemente buona sera e nessuno finisce per coglierlo. Ormai ad abbaiare è l'uomo.
I condomini sono permeabili ai rumori, a quelli del water ma anche alle parole. Le strade sono un massacro di auto e di parole. Le orecchie sono piene di auricolari che portano i rumori del mondo intero, non bastano più quelli della propria dimora o paese: la globalizzazione del rumore e la follia delle parole. Un manicomio assordante.
Arrivo a proporre una giornata del silenzio. Ma forse la specie si estinguerebbe. In una occasione in cui una grande città è stata senza corrente elettrica per due giorni, e quindi hanno perso la parola i televisori e le radio, la gente è impazzita, è entrata in una crisi di astinenza da parole e rumore che aveva espressioni e sintomi peggiori di quella da eroina.
Questa settimana ho preso in mano un settimanale femminile: di 623 pagine. Parole e parole. I giornali ordinano parole senza pensare al senso. Ore di televisione, parole su mille canali. Una follia vociante, parlante. Moriremmo di parole.
Una infinità di parole, senza un pensiero, senza nemmeno l'ombra di un'idea. Il comando è rumore come quei potenti che credono di essere forti se lanciano bombe o missili che distruggono. O come quei gaudenti che si riempiono il ventre di piacere e scoprono di essere vivi solo dalle flatulenze: flatus vocis. Anche le preghiere sono troppo rumorose e troppo vocianti: penso a san Francesco che, alla Porziuncola, dice: Signore non so dire nulla se non ba ba ba. Il mio silenzio - a questo punto lo ammetto - è ancora più confuso perché non ho ancora trovato il mio interlocutore nel cielo. Forse è tempo di cercarlo nel silenzio e forse nel silenzio si sentono parole di "vita eterna". Il dolore parla solo nel silenzio il resto è telenovela. La fatica non ha parole. Ho bisogno di silenzio per sentire quel vuoto che si può riempire di quiete.
Così terminano, almeno per un po', anche le mie parole su "Avvenire". Ho iniziato dicendo che scrivevo per cercare, ora ho voglia di silenzio, devo cercare ancora ma senza fare rumore. Voglio dare ai miei lettori un po' di silenzio che auguro sia silenzio di pace.
silenziointerioritàrumoredeserto
inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003
TESTO
Desmond Tutu, traduzione Guiomar Parada
Oggi la maggior parte del Terzo Mondo è tenuta in ostaggio da una schiavitù altrettanto orribile, nelle sue conseguenze devastanti, di quella del passato. La maggior parte del Terzo Mondo è stremato sotto il peso del più invalidante e stremante debito internazionale. Le statistiche sono impressionanti: in Etiopia 100.000 bambini muoiono ogni anno di malattie facili da prevenire, mentre il governo spende per ripagare il debito quattro volte quello che spende per la spesa sanitaria.
Spesso ci è difficile capire le statistiche e gli giriamo le spalle. E' tutto così impersonale. Proviamo a personalizzarlo un poco. Immaginate il vostro piccolo, non vaccinato contro il morbillo o la difterite, che lentamente si spegne davanti ai vostri occhi senza che voi possiate fare alcunché, perché non ci sono medicinali a disposizione.
I paesi poveri sono costretti alla povertà, all'ignoranza, alla malattia, alla fame e alla morte. Le risorse che dovrebbero essere impegnate per costruire strade e dighe, per le scuole e per pagare i maestri, per comperare libri e per l'assistenza sanitaria, sono deviate, con conseguenze disastrose, per ripagare debiti che non diminuiscono, ma anzi aumentano per via dei crescenti tassi d'interesse e della svalutazione delle valute di questi paesi poveri. Anche se economicamente fosse una cosa logica, e non lo è, certamente non è logico dal punto di vista morale.
I paesi poveri non sono in grado di spezzare le catene che li hanno schiavizzati in maniera così rovinosa. Noi che seguiamo il Falegname di Nazareth sappiamo che quando si dà da mangiare agli affamati e da vestire ai poveri, lo si fa per Lui ed Egli ci ha esortato a perdonare i nostri debitori per essere perdonati dal nostro Padre in cielo. Ma più chiaramente siamo vincolati dalla lezione del Capitolo 25 del Levitico, che decreta che ogni 50 anni gli schiavi siano messi in libertà, che i debiti siano cancellati e che la proprietà ipotecata ritorni ai proprietari legittimi senza vincoli, per dare una opportunità alle persone di ricominciare da capo, di iniziare nuovamente, nello spirito della nostra fede che è la fede di sempre nuovi inizi quando si è perdonati. Le cancellazioni del debito si sono già verificate nel passato; nei confronti della Germania dopo la guerra, e gli Usa hanno cancellato 7 miliardi di dollari all'Egitto a seguito dell'operazione Desert Storm.
I paesi poveri, sollevati dal vincolo del debito, potrebbero sviluppare economie robuste che potrebbero diventare anche vigorosi mercati di consumo. Siamo fatti per essere uniti. In Africa diciamo che "una persona è una persona attraverso altre persone". Siamo legati da una delicata rete di interdipendenza. Crediamo nell'ubuntu, la mia umanità è dentro alla tua umanità. Ubuntu parla di generosità, di compassione, di ospitalità, di condivisione. Io sono perché voi siete. Se io vi disumanizzo, allora, che lo voglia o no, mi disumanizzo anch'io. Liberare il Terzo Mondo da questa nuova forma di schiavitù vi permetterà di rendere migliore la vostra propria umanità e camminerete a testa alta, anche voi liberati.
(l'autore è premio Nobel per la pace)
povertàricchezzagiustiziaingiustiziafame nel mondomondialitàcaritàamoredebitosfruttamentoschiavitùlibertà
inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003
TESTO
189. Stola e grembiule (versione lunga)
Tonino Bello, Stola e grembiule, Ed. Insieme, Terlizzi, 1993
Forse a qualcuno può sembrare un'espressione irriverente, e l'accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.
Si, perché di solito la stola richiama l'armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d'incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami. Non c'è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.
Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla né di casule, né di amitti, né di stole, né di piviali.
Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.
Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento!
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il "grembiule" nell'armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l'altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile...
Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.
Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.
serviziogiovedì santocaritàlavanda dei piedisacerdozio
inviato da Anna Barbi, inserito il 27/08/2003
RACCONTO
Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d'ospedale.
A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un'ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo.
Il suo letto era vicino all'unica finestra della stanza. L'altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto.
Ogni pomeriggio l'uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L'uomo nell'altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell'acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c'era una bella vista della città in lontananza. Mentre l'uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l'uomo dall'altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena. In un caldo pomeriggio l'uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l'altro uomo non potesse vedere la banda, poteva sentirla. Con gli occhi della sua mente così come l'uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane.
Un mattino l'infermiera del turno di giorno portò loro l'acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell'uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L'infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo.
Non appena gli sembrò appropriato, l'altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L'infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo.
Lentamente, dolorosamente, l'uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto. Essa si affacciava su un muro bianco. L'uomo chiese all'infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra. L'infermiera rispose che l'uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. ''Forse, voleva farle coraggio.'' disse.
Vi è una straordinaria felicità nel rendere felici gli altri, anche a dispetto della nostra situazione. Un dolore diviso è dimezzato, ma la felicità divisa è raddoppiata.
Se vuoi sentirti ricco conta le cose che possiedi che il denaro non può comprare.
L'oggi è un dono, è per questo motivo che si chiama presente.
dono di séfelicitàgioiadonaresacrificio
inviato da Anna Barbi, inserito il 27/08/2003
TESTO
Nella preghiera eucaristica ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell'uso corrente, come ad esempio l'espressione "nuove povertà".
La frase è questa: "Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli...". Essa ci suggerisce tre cose.
Anzitutto che, a fare problema, più che le "nuove povertà", sono gli "occhi nuovi" che ci mancano. Molte povertà sono "provocate" proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall'egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che "rende" in termini di produttività. Sono così vittime di quel male oscuro dell'accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell'interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità di implorare "occhi nuovi". Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all'improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d'attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre.
Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa. Oltre alle miserie nuove "provocate" dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono "tollerate". Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch'esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l'uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione.
E infine ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono "rimosse". Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: "Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di aggredirle". Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l'olocausto dei valori ambientali, sull'altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari.
Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I popoli della fame uccisi dai detentori dell'opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell'essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi. Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott'acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema. Occorre chiedere "occhi nuovi".
"Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli". Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia. Donaci occhi nuovi, Signore.
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inviato da Don Giosuè Lombardo, inserito il 12/08/2003
PREGHIERA
192. Ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno 1
Eccoci, Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato .Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. E' perché, purtroppo, molti passi, li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue: seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: "Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla".
Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.
Grazie, perché obbligandoci a prendere atto Dei nostri bilanci deficitari, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore, come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento. Ma bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma assolutamente sterili sul piano spirituale.
Grazie, Signore, perché, se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere con dolore il tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni corrose dal tarlo dell'efficientismo, raffreni i nostri desideri di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia: anzi, di fronte alla cronaca.
Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno, esigono il nostro rendimento di grazie. Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie, perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi. Perché ci infondi il coraggio di celebrare i santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna. Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori, la fiducia dei poveri. Grazie, perché continui a custodirci gelosamente, anzi, a nasconderci, come fa la madre con i figli più discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato così sedurre dall'amore che ci porti, che non ti regge l'animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, continuiamo a essere reverendi. Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c'è bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi, ci metti nell'anima un così vivo desiderio di ricupero, che già vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio per sanare i nostri dissesti. Spogliaci, Signore, d'ogni ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza. Donaci un futuro gravido di grazia e di luce e di incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto quello che abbiamo e che siamo. E la Vergine tua madre ci intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.
preghierarapporto con Diomisericordia di Diomagnanimitàfine annonuovo annocapodannoapostolato
inviato da Don Giosuè Lombardo, inserito il 28/06/2003
TESTO
Dio ha creato l'acqua
la terra e il cielo,
e li ha adornati
con una creatura
che gli assomigliava.
La pace invece
l'ha affidata al Vento
e il Vento l'ha deposta fra gli alberi,
ed era un libro,
fatto di Parole,
ed era la Parola.
Passò una donna
e lo vide fra le margherite,
sospinta dal Vento
se lo strinse al seno
e abbracciò un bambino,
un libro di Parole,
un bimbo di colori.
E sfogliò quel libro
quella donna,
ogni pagina un colore.
La prima pagina è bianca,
come le nevi eterne delle cime,
perché la pace è in alto,
è pura e immacolata,
perché la pace è Dio.
Rossa è la seconda pagina
come la fiamma del roveto ardente,
perché la pace è fuoco,
brucia, riscalda e fonde,
perché la pace è Dio.
La terza pagina ha il color del prato,
verde come una gemma preziosa,
perché la pace è fatta di speranze,
è ornata da piccoli gesti d'amore,
è come un vasto campo d'erba,
ricamato dai fiori dai mille colori,
perché la pace è Dio.
Azzurra è la quarta pagina del libro,
chiara come l'acqua di sorgente,
serena come un cielo di maggio,
profonda come l'acqua dell'Oceano,
perché la pace sfonda gli abissi
e solca l'infinito,
perché la pace è Dio.
Gialla è la quinta pagina,
come un ricamo d'oro fino,
perché la pace è dono,
è preziosa e vale molto,
è uno scrigno di valori ,
perché la pace è Dio.
La pace è arancione,
un colore vivo,
perché la pace è vita,
acceso, perché la pace è forza,
solare, perché la pace è luce,
perché la pace è Dio.
Di color violetto è la settima pagina,
un colore tra il rosso ed il turchino
tra l'indaco e l'arancio,
perché la pace è festa di colori,
è gioco di luce, è comunione di valori,
perché la pace è Dio.
Chiude il libro la donna
e tra le dita si ritrova
un bimbo di colori,
fiorisce fra le sue mani
la pace vera,
perché è l'Emmanuele,
il Dio con noi.
inviato da Padre Gianni Fanzolato, inserito il 15/04/2003
RACCONTO
Bruno Ferrero, Nuove storie
Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra. Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero "ridente". Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano "toc toc, toc toc, toc toc...", accompagnato da un ansimare cupo e raschiante. Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane.
"E' un forestiero".
"Un gigante...".
"Mamma mia, quant'è brutto!".
"Ha l'aria feroce...".
"E' un mostro! Divorerà i bambini".
Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco. Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve. Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso: doveva avere un terribile raffreddore. Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C'era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera. Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell'osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
"Io l'ho visto bene e da vicino: è terribile".
"L'ho guardato negli occhi: fanno paura".
"Sputa fiamme dalle narici!".
"Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta" gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese. Tutti i giovanotti sospirarono.
"E' il diavolo" disse una nonna.
"Ma che diavolo! E' un orco mangia-uomini... poveri noi!", singhiozzò una vecchietta.
"Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!" sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
"Io l'ho visto da vicino vicino" disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
"Anch'io, ero con lui" gli fece eco la sorellina Liliana.
"Ecco, anche i bambini" brontolò Sebastiano, il sindaco. "E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?".
"No" disse Simone.
"Non faceva paura" disse Liliana. E aggiunse: "Era solo diverso da noi".
Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro. Sbirciavano in su, verso il bosco. Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall'eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
"E' il mostro! Aiuto!", e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini.
"Non abbiate paura, qui siamo al sicuro". I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
"Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi".
Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente. I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano. I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno. Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva; "Tò, il mostro starnuta, S'è di nuovo raffreddato", e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni. Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno. Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide. "Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?".
"Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera. Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
Samuele replicò ridendo: "Scommettiamo che non hai il coraggio?".
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l'altro mattone: "E' vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui. Aspettami, Tom, vengo con te".
Tommaso disse: "D'accordo, ma l'idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!".
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare: "Dove andate?".
Tommaso spiegò: "Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera".
Il contadino disse: "Per me non avrete il coraggio. E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna? E' sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta".
"Griderò: 'Vieni fuori, mostro!'. Dovrà ben uscire", dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò: "Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui".
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all'orto della signora Zucchini.
"Dove andate?" chiese la signora Zucchini quando li vide.
"Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera" rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò: "Non ne avrete il coraggio. Dicono che sia orribile e peloso. E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno".
Tommaso e Samuele protestarono: "Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui".
"Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese" aggiunse il contadino.
"Vengo anch'io" decise la signora Zucchini. "Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli: voglio che anche loro siano degli eroi".
Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò: "Non c'è nessuno che voglia abitare nella caverna nera: perché non la lasciamo al mostro?".
La madre gli rispose: "Perché è un mostro, tutto qui. Allora taci, prendi un mattone e seguici".
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano. Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola. Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
"Lo faremo scappare nel paese vicino" gridò la signora Zucchini. "L'abbiamo tenuto abbastanza, noi! Che vada a disturbare gli altri, adesso!".
Tutti gridarono: "Urrà, bene! Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
E si misero in marcia verso la caverna nera.
Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po' di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d'arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: "Finalmente una visita! E' tanto tempo che sono solo!".
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio. Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso. Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti: Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola. Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò: "Entrate, entrate. Ho appena fatto il caffè". Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti. Il mostro insisteva: "Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!".
Ma nessuno capiva la lingua del mostro. Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle. Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo "Ahia!". Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po' imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso. In quattro e quattr'otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata "Baciodimamma" che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale. Non ebbero tempo di riprendere fiato. Una voce gridò: "Il mostro ha preso Liliana!".
"Se la mangerà" strillò la signora Zucchini.
"Corriamo a liberarla" disse un coraggioso. Ripresero tutti la strada della caverna nera. Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana. Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
"Ooooh" dissero tutti insieme.
"Ah! Siete tornati, meno male", disse il mostro. "Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo. La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato. Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta. Grazie, davvero, di cuore".
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse: "Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?".
amiciziapregiudizidiversitàconvivenzarazzismodiscriminazionemulticulturalità
inviato da Simone Ferretti, inserito il 02/04/2003
TESTO
195. Il fascino sinistro della guerra
L'Azione, Settimanale della Diocesi di Vittorio Veneto
Re, imperatori e principi hanno sempre preferito mostrarsi in pubblico in divisa militare con relative medaglie. La divisa militare ha sempre esercitato una grande attrattiva su chi ha in mano il potere. È sempre stata presentata come simbolo di coraggio, eroismo e grandezza. Un'ininterrotta tradizione ha esaltato la guerra come il luogo privilegiato dell'eroismo. La nostra psicologia, in primo luogo la psicologia maschile, è stata plasmata da una martellante retorica di esaltazione della guerra. Dobbiamo riconoscere: la guerra ci affascina. Ci fa paura, ma anche ci attrae.
Rimaniamo incollati sulle pagine di un libro o davanti ad uno schermo che narri imprese belliche o comunque azioni nelle quali si usino armi, ci sia violenza, sangue. Fin da bambini, il gioco preferito dai maschi è stata la guerra.
In realtà la guerra è l'azione più disumana che possa esistere, nonostante abbia accompagnato tutta la storia dell'umanità. Bisogna togliere lo splendore di gloria che la circonda. È vero, in guerra ci giochiamo la vita, che è tutto quello che abbiamo, ma la mettiamo in gioco contro un'altra vita uguale alla nostra. Allora il coraggio perde la sua aureola di virtù e diventa l'atto più brutto che una persona possa compiere. La virtù della fortezza è una delle virtù fondamentali (cardinali), ma è virtù solamente se è per la vita, per superare gli ostacoli che impediscono la vita, quando invece è usata per togliere la vita, non può più essere chiamata virtù.
Ma, si dice, la guerra non è solo violenza, può essere fatta per grandi ideali, come la difesa del suolo patrio, la conquista della libertà, la salvezza del proprio popolo, la salvaguardia dei diritti e via declamando.
Il guaio è che tutte le guerre sono sempre state dichiarate in nome di grandi ideali. Non c'è guerra che non sia stata dichiarata giusta, e doppiamente giusta: da una parte e dall'altra dei due schieramenti che si stanno sgozzando. Chi va ad uccidere o a morire in guerra, va convinto o è incitato a convincersi, che sta facendo la cosa più giusta e nobile del mondo. Anche i soldati di Hitler erano sicuri di battersi per una grande
causa.
Questa costante giustificazione di ogni guerra rende dubbio il fatto che ci siano guerre degne e nobili; è invece il segno che lo scatenamento di una guerra è sempre accompagnato da un'opera di mistificazione, di inganno più o meno consapevole. Perciò la cosa più sicura è opporsi ad essa con tutti i mezzi. E poi, qualunque sia la causa per cui ci si batte, la guerra resta sempre morte inflitta ad altre persone, sofferenza indicibile, sangue versato come quello che pulsa nelle mie vene.
E se guardiamo alle guerre moderne, quelle combattute con armi tecnologicamente perfette e di potere distruttivo immane, allora anche le più alte ragioni scompaiono del tutto. Questa guerra non è più l'uccisione del nemico che mi sta davanti e che tenta in tutti i modi di eliminarmi. Non c'è più l'alternativa: uccido per primo altrimenti lui uccide me. Le guerre combattute con queste armi comportano prevalentemente l'uccisione di civili, gente innocua, indifesa, in preda al terrore, mentre chi compie queste azioni corre di solito minimi pericoli. I bombardamenti a tappeto delle grandi città, compiuti nell'ambito della Seconda Guerra mondiale che più giusta di così non si poteva pensare, dove tutto veniva distrutto, sistematicamente, senza distinzione; peggio ancora, lo sganciamento della bomba atomica sopra città, che in un batter d'occhio, senza lasciar scampo, spazza via tutto, queste azioni mai sono giustificabili.
Anche la guerra incombente sull'Iraq sarà di questo tipo. Ci vengono mostrate armi bellissime, gioielli di tecnologia, perfette nel loro funzionamento, perfino intelligenti: non lasciamoci incantare, sono semplicemente strumenti di morte; servono per straziare corpi, provocare urla di dolore in persone come noi. Se scoppia la guerra, ci mostreranno le meraviglie di queste macchine in azione, parleranno di obiettivi raggiunti, missione compiute con successo. Non lasciamoci ammaliare dallo spettacolo esaltante. È tutt'altra cosa: è morte, dolore, sofferenza.
Quanto sarebbe salutare se ciascuno di noi facesse questo esercizio di purificazione psicologica strappando via i paludamenti gloriosi con cui siamo stati abituati a rivestire la guerra per guardarla nella sua orrenda realtà. Il mostro così privato dei suoi galloni, delle sue medaglie luccicanti, delle sue armature splendenti, dei suoi stendardi, si mostrerebbe in tutta la sua ripugnante bruttezza e ci riuscirebbe così più facile tenerlo lontano da noi.
guerrapaceviolenzaforzaconflittimorteeroismofortezzacoraggio
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 07/03/2003
RACCONTO
Bruno Ferrero, A volte basta un raggio di sole
In una notte gelida d'inverno, un lama buddhista trovò sulla soglia della porta un topolino intirizzito e quasi morto di freddo. Il lama raccolse il topolino, lo ristorò e gli chiese di restare a fargli compagnia. Da quel momento la vita del topolino fu piacevole. Ma nonostante questo, la bestiola non aveva l'aria felice. Il lama si preoccupò: "Che hai, piccolo amico?", gli chiese.
"Tu sei molto buono con me. E tutto nella tua casa è molto buono con me. Ma c'è il gatto...".
Il lama sorrise. Non aveva pensato al gatto di casa, un animale troppo saggio e troppo ben pasciuto per degnarsi di dare la caccia ai topi.
Il lama esclamò: "Ma quel bel micione non ti vuole certo male, amico mio! Non farebbe mai male a un topolino! Non hai niente da temere, te lo assicuro".
"Ti credo, ma è più forte di me" piagnucolò il topolino. "Ho tanta paura del gatto. Il tuo potere è grande. Trasformami in gatto! Cosi non avrei più paura di quella bestia orribile".
Il lama scosse la testa. Non gli sembrava una buona idea... Ma il topolino lo supplicava e allora disse: "Sia fatto come desideri, piccolo amico!".
E di colpo il topolino fu trasformato in un grosso gatto.
Quando morì la notte e nacque il giorno, un bel gattone uscì dalla camera del lama. Ma appena vide il gatto di casa, il gatto-topolino corse a rifugiarsi nella camera del lama e si infilò sotto il letto.
"Che ti succede, piccolo amico?" chiese il lama, sorpreso. "Avrai mica ancora paura del gatto?".
Il topolino-gatto si vergognò moltissimo. E implorò: "Ti prego trasformami in un cane, un grosso cane dalle zanne taglienti, che abbaia forte...".
"Dal momento che lo desideri ti accontento e così sia!".
Quando il giorno morì e si accesero le lampade a olio, un grosso cane nero uscì dalla camera del lama. Il cane andò fin sulla soglia della casa e incontrò il gatto di casa che usciva dalla cucina. Il gattone quasi svenne per la paura alla vista del cane. Ma il cane ebbe ancora più paura. Guaì penosamente e corse a rifugiarsi nella camera del lama. Il saggio guardò il povero cane tremante e disse: "Che ti succede? Hai incontrato un altro cane?".
Il cane-topolino si vergognò da morire. E chiese: "Trasformami in una tigre, ti prego, in una grossa terribile tigre!".
Il lama lo accontentò e, il giorno dopo, una enorme tigre dagli occhi feroci uscì dalla camera del lama. La tigre passeggiò per tutta la casa spaventando tutti, poi uscì nel giardino e là incontrò il gatto che usciva dalla cucina. Appena vide la tigre, il gatto fece un balzo terrorizzato, si arrampicò su un albero e poi chiuse gli occhi, dicendo: "Sono un gatto morto!".
Ma la tigre, vedendo il gatto, miagolò lamentosamente e fuggì ancora più veloce del gatto e corse a rifugiarsi in un angolo della stanza del lama.
"Che bestia spaventosa hai incontrato?", gli chiese il lama.
"Io... io ho paura... del... gatto!", balbettò la tigre, che tremava ancora.
Il lama scoppiò in una gran risata. "Adesso capisci, piccolo amico" spiegò. "L'apparenza non è niente! Di fuori hai l'aspetto terribile di una tigre, ma hai paura del gatto perché il tuo cuore è rimasto quello di un topolino".
Bisogna sempre incominciare dal cuore.
inviato da Patrizia Traverso, inserito il 27/02/2003
RACCONTO
Josè Real Navarro e Maria Carla Mantovani, C'era una volta... al catechismo, Elledici
Durante una forte nevicata, un viandante arrivò a un piccolo villaggio. Stavano tutti tappati in casa, per passare quel difficile inverno. Tutti i raccolti erano andati perduti e il bestiame era morto per una malattia. La fame stava per uccidere tutti. Nessuno sarebbe sopravvissuto a quell'inverno.
Il viandante bussò a una porta per chiedere ospitalità e passare la notte. Lo fecero entrare e gli offrirono un posto per dormire. Il mattino seguente, prima di riprendere il cammino, il viandante volle ringraziare. Cercò nel suo zainetto, ne estrasse una borsetta di tela e la consegnò a loro dicendo:
- Qui dentro c'è un seme. Cresce solo d'inverno e porta molti frutti. Se dividerete questi frutti con tutti gli abitanti del villaggio, non patirete mai più la fame. Se non farete così, i frutti diventeranno acidi e morirete di fame.
Il viandante partì. Aprirono la borsetta e vi trovarono un seme piccolissimo. Sorrisero al vederlo e, pensando che quell'uomo fosse pazzo, lo gettarono nella spazzatura. Ma la figlia più piccola della famiglia lo raccolse, uscì di casa, fece un buco nella neve e lo piantò.
Durante la notte, da quel seme spuntò una pianta che cominciò a crescere, a crescere. Diventò un albero grandissimo, più alto di tutte le case del villaggio. E i suoi rami erano carichi di frutti di diversi colori, grandezza e forma.
Il giorno dopo, quando videro quell'albero enorme davanti a casa, non potevano credere ai loro occhi. La bambina raccontò quello che aveva fatto, ma non le credettero. Colsero uno dei frutti e lo assaggiarono. In vita loro non avevano mai assaggiato niente di simile. Era un cibo degno di un re. Raccolsero rapidamente tutti i frutti perché nessuno li rubasse. Con essi non sarebbero morti di fame durante l'inverno.
Però la bambina ricordò quello che aveva detto il viandante. Dapprima non vi fecero caso, ma poi pensarono che, fosse vero o no quello che aveva detto, non era bello che i vicini morissero di fame mentre loro avevano da mangiare. E senza esitare, condivisero i frutti tra gli abitanti del villaggio.
Quando li mangiarono, videro che ogni frutto aveva un seme piccolissimo. Tutti lo piantarono davanti alla propria casa. E il giorno dopo il villaggio era pieno di enormi alberi fruttiferi. Passata la sorpresa, tutti furono molto riconoscenti verso quella famiglia che aveva condiviso con loro quei frutti. Grazie a loro, non morirono di fame quell'inverno, e da allora non cessarono di condividere i frutti che avevano. E proprio come aveva detto il viandante, non soffrirono mai più la fame.
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inviato da Patrizia Traverso, inserito il 09/02/2003
RACCONTO
Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
- Quanto siamo felici qui! - si dicevano.
Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni. Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino.
- Che fate voi qui? - esclamò con voce berbera, e i bambini scapparono.
- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante - lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro.
Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso: GLI INTRUSI SARANNO PUNITI.
Era un gigante molto egoista.
I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
- Com'eravamo felici! - dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini. Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimenticarono di fiorire. Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
- La primavera ha dimenticato questo giardino - esclamarono - perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
- E' un posto delizioso - disse - dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino. Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
- Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire - disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco: - Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante. Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.
Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo. La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
- Credo che finalmente la primavera sia venuta - disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi, felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline. Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena.
Solo in un angolo regnava ancora l'inverno. Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato. Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
- Arrampicati piccolo - disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino. A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
- Come sono stato egoista! - disse. - Ora so perché la primavera non voleva venire. Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini.
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto. Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. - Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.
A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
- Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: - Il bambino che io ho messo sull'albero?.
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
- Non lo sappiamo - risposero i bambini - se n'è andato.
- Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire - disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste. Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più. Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
- Quanto mi piacerebbe vederlo - diceva sovente.
Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare; sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.
- Ho molti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli.
Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.
Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente. Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato.
Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino. Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
- Chi ha osato ferirti? - perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
- Chi ha osato ferirti? - esclamò il gigante - dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
- No - rispose il bambino - queste sono soltanto le ferite dell'amore.
- Chi sei? - chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino. Il bambino gli sorrise e disse:
- Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.
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inviato da Anna Lianza, inserito il 29/01/2003
TESTO
199. Hanno rubato Gesù bambino 1
Laura De Luca, Bingo Davvero, ed. Paoline
Gli altri ci sono tutti.
I pastori, le pecore.
L'acquaiola, il pescatore,
l'angelo sopra la grotta.
Ma hanno rubato Gesù bambino.
C'è la stalla, tutta in ordine,
ci sono l'asino e il bue,
c'è Maria e naturalmente Giuseppe.
Ci sono le case, le palme,
la fontanella e il cielo stellato.
Ma hanno rubato Gesù bambino.
Guardate meglio,
guardate dentro la grotta,
la mangiatoia è vuota,
dove sarà scivolato?
Se l'hanno rubato
forse gli avranno fatto male.
Maria sorride. Ma a chi,
se sulla paglia non c'è nessuno?
E Giuseppe è chinato.
Ma su cosa? lo sa soltanto lui.
Hanno rubato Gesù bambino.
A chi rivolgono l'asino e il bue
i loro fiati di gesso?
Non c'è nessuno lì dentro,
da riscaldare.
Magi, avete fatto un viaggio inutile,
tornatevene a casa,
perché Gesù Bambino lo hanno rubato.
La stella non ha nessuna strada da indicare,
la grotta nessun segreto da proteggere,
e l'angelo
nessuna buona notizia da annunciare.
Hanno rubato Gesù Bambino.
Forse lo ha preso un profugo
prima di lasciare casa sua,
prima di salire su una di quelle navi
cariche di tanti profughi come lui.
Forse è finito nella tasca del giubbotto
di un condannato a morte,
e ora dorme beato accanto a quel cuore
che tra poco non batterà più.
Dormi, bimbo rubato,
dormi nella sacca del povero monaco perseguitato.
È lui che ti ha portato via?
Oppure sei finito nella capanna di paglia
del povero missionario?
Cosa ci fai, così bianco e rosa
in un paese dove i bambini sono tutti neri?
Hanno rubato Gesù Bambino.
Forse l'ha preso il bimbo soldato
per farsi passare la paura,
quando imbraccia il fucile,
e t'ha confuso per giocattolo.
Gioca, Gesù bambino,
tu e il fucile, due giocattoli come altri,
nelle mani del bimbo soldato.
Hanno rubato Gesù Bambino.
nessuno sa dove è finito.
Forse sul comodino
di quel vecchio signore solo,
accanto alle medicine,
e alle foto dei figli,
che lo hanno abbandonato.
Forse lo stringe nel pugno un torturato,
per aggrapparsi a una cosa qualunque,
una cosa che lo leghi alla vita.
Hanno rubato Gesù Bambino.
Cercatelo attentamente:
nei ripostigli, nei cuori,
tra le carte degli uomini d'affari
che andavano quella mattina
dentro le Twin Towers,
nelle tasche dei vigili del fuoco,
tra le pieghe dei caffettani, dei beduini,
nelle sacche degli extracomunitari,
e fra le pagine dei libri di scuola...
Cercate,
cercate attentamente,
perché hanno rubato Gesù bambino
perché Gesù bambino
appartiene al mondo
perché il mondo è davvero
il suo presepe più grande.
Gesù bambinoCristoGesùpresepeNataleincarnazionesolidarietà
inviato da Anna Barbi, inserito il 29/01/2003
TESTO
200. Vuoi onorare il corpo di Cristo? 2
Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".
Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.
Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?
Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.
caritàamoresolidarietàgiustiziaricchezzapovertàcultoeucaristia
inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002
TESTO
Kahlil Gibran, Il profeta
Allora un contadino disse: Parlaci del Lavoro.
E lui rispose dicendo:
Voi lavorate per assecondare il ritmo della terra e l'anima della terra.
Poiché oziare è estraniarsi dalle stagioni e uscire dal corso della vita, che avanza in solenne e fiera sottomissione verso l'infinito.
Quando lavorate siete un flauto attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica.
Chi di voi vorrebbe essere una canna silenziosa e muta quando tutte le altre cantano all'unisono?
Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.
Ma se nella vostra pena voi dite che nascere è dolore e il peso della carne una maledizione scritta sulla fronte, allora vi rispondo: tranne il sudore della fronte niente laverà ciò che vi è stato scritto.
Vi è stato detto che la vita è tenebre e nella vostra stanchezza voi fate eco a ciò che è stato detto dagli esausti.
E io vi dico che in verità la vita è tenebre fuorché quando è slancio,
E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere,
E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro,
E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore;
E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio.
E cos'è lavorare con amore?
E' tessere un abito con i fili del cuore, come se dovesse indossarlo il vostro amato.
E' costruire una casa con dedizione come se dovesse abitarla il vostro amato.
E' spargere teneramente i semi e mietere il raccolto con gioia, come se dovesse goderne il frutto il vostro amato.
E' diffondere in tutto ciò che fate il soffio del vostro spirito,
E sapere che tutti i venerati morti stanno vigili intorno a voi.
Spesso vi ho udito dire, come se parlaste nel sonno:
"Chi lavora il marmo e scopre la propria anima configurata nella pietra, è più nobile di chi ara la terra.
E chi afferra l'arcobaleno e lo stende sulla tela in immagine umana, è più di chi fabbrica sandali per i nostri piedi".
Ma io vi dico, non nel sonno ma nel vigile e pieno mezzogiorno, il vento parla dolcemente alla quercia gigante come al più piccolo filo d'erba;
E che è grande soltanto chi trasforma la voce del vento in un canto reso più dolce dal proprio amore.
Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l'uomo del tutto.
E se spremete l'uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l'uomo sordo alle voci del giorno e della notte.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 11/12/2002
TESTO
202. Lettera al "fratello marocchino" 1
Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di marocchino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!
La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell'Eritrea, dell'Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.
Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un'anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tempo i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri risparmi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? E' viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormentato? Scrivi anche tu lettere d'amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della brugheria?
Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili. Sfruttati, sottopagati, ricattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scattare il "foglio di via" obbligatorio.
Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l'ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere della tua miseria.
Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.
extracomunitaristranieriaccoglienzacaritàsolidarietàamore
inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002
TESTO
Giovanni Paolo II, Lettera a tutti i Capi di Stato e di Governo del mondo e Decalogo di Assisi per la Pace (24 gennaio 2002)
1. Noi ci impegniamo a proclamare la nostra ferma convinzione che violenza e terrorismo s'oppongono al vero spirito religioso, condannando ogni ricorso alla guerra e alla violenza in nome di Dio o della religione; noi ci impegniamo a fare tutto il possibile per sradicare le cause del terrorismo.
2. Noi ci impegniamo ad educare le persone al rispetto e alla stima reciproca, affinché si possa giungere ad una coesistenza pacifica e solidale tra membri d'etnie, culture e religioni diverse.
3. Noi ci impegniamo a promuovere la cultura del dialogo, in modo da sviluppare la comprensione e la fiducia reciproche tra gli individui e tra i popoli, perché queste sono le condizioni di una pace autentica.
4. Noi ci impegniamo a difendere il diritto di ogni persona umana ad una esistenza degna, conforme alla sua identità culturale e a costituire liberamente una famiglia che le sia propria.
5. Noi ci impegniamo a dialogare con sincerità e pazienza, non considerando come un muro invalicabile ciò che ci separa ma, al contrario, riconoscendo che il confronto con la diversità degli altri può divenire occasione di una più grande comprensione reciproca.
6. Noi ci impegniamo a perdonarci reciprocamente gli errori e i pregiudizi passati e presenti e sostenerci nello sforzo comune per vincere l'egoismo e l'abuso, l'odio e la violenza, e per imparare dal passato che la pace senza giustizia non è una pace autentica.
7. Noi ci impegniamo ad essere dalla parte di coloro che soffrono la miseria e l'abbandono facendoci voce dei senza voce e lavorando concretamente per superare tali situazioni, convinti che nessuno può essere felice da solo.
8. Noi ci impegniamo a far nostro il grido di chi non si rassegna alla violenza e al male e desideriamo contribuire con tutte le nostre forze a dare all'umanità del nostro tempo una reale speranza di giustizia e di pace.
9. Noi ci impegniamo ad incoraggiare ogni iniziativa per l'amicizia tra i popoli, convinti che se manca una solida intesa tra i popoli, il progresso tecnologico espone il mondo a dei rischi crescenti di distruzione e di morte.
10. Noi ci impegniamo a chiedere ai responsabili delle nazioni di fare tutti gli sforzi possibili perché, a livello nazionale e internazionale, sia costruito e consolidato un mondo di solidarietà e di pace fondata sulla giustizia.
pacetolleranzadialogomulticulturalitàgiustiziaingiustiziacomunione tra i popoli
inviato da Don Lorenzo Corradini, inserito il 11/12/2002
RACCONTO
204. Alla ricerca dell'amore perduto di mamma e papà
Mamma e papà di Paola non si amavano più. Paola buona e mite, capiva tutto. Papà e mamma erano pieni d'ira e si voltavano la schiena. Papà, una volta, aveva rotto un bicchiere dando un pugno sulla tavola e mamma aveva schiaffeggiato Paola, perché non osava ancora schiaffeggiare papà.
Paola andava dall'uno all'altra, e diceva delle parole piacevoli per farli ridere, raccontava tutte le cose buffe che le erano capitate e quello che era successo a scuola, tentava di riconciliarli.
Un giorno, che la cosa sembrava particolarmente grave, Paola aveva addirittura finto di essersi avvelenata con la benzina per smacchiare. Voleva che i genitori facessero la pace al suo capezzale.
Tre mesi dopo, tutto era ricominciato. Paola continuava il suo lavoro di formica. E non disperava. Di notte, nel suo lettino, stringeva forte forte al cuore il suo tigrotto di stoffa', che si chiama Titì, e che era spelacchiato e malconcio per i tanti abbracci, baci, Nutella e lacrime che in nove anni Paola gli aveva rovesciato addosso. Dalla camera di papà e mamma filtravano spesso strilli e imprecazioni soffocate, e il rumore degli attaccapanni sbattuti di malagrazia. Paola si premeva forte le mani sulle orecchie e pregava: «Signore, per piacere, falli smettere!».
Quando arrivava un estraneo e osservava gli occhi gonfi di mamma, e papà afono per aver troppo gridato, Paola preveniva le critiche e diceva: «Vedi, è colpa delle cipolle». Oppure: «Non conosce una medicina per papà? Ha il mal di gola e non può più parlare».
Una strana voce nella notte
Una notte, Paola fu svegliata dalla solita baruffa. Dormiva abbracciata a Titì e sentì chiaramente: «Basta! Non possiamo continuare così!», diceva mamma.
«Sei tu che vuoi sempre avere ragione!» ribatté papà.
«Che cosa suggerisci, sapientona?».
«Ci... dividiamo. Ognuno per conto suo e... non se ne parli più!».
La casa si riempì di silenzio.
Ma qualcuno con un buon udito avrebbe potuto sentire il piccolo cuore di Paola che batteva all'impazzata: «Tum... tum... tum...», mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. «Non voglio! Non voglio!». Mormorava piano piano.
«E allora parti!», disse una voce.
Paola trattenne il fiato per la sorpresa.
«Chi ha parlato? Chi c'è qui?», domandò un tantino inquieta.
«Sono io. Titì», riprese fiera la vocina.
Paola accese la luce del comodino ed esaminò il tigrotto di stoffa.
«Tu, parli?».
Gli occhi di vetro di Titì brillarono come fossero veri.
«Quando ci vuole, ci vuole», bofonchiò. «Chi ama tanto, può far parlare anche le pietre, se è solo per questo. Ora ascoltami bene: posso parlare solo una volta nella vita, anche se la vita di un animale di stoffa è piuttosto lunga e non mi posso lamentare. E certo che la vita con te è piuttosto... umida».
«Scusami», sussurrò Paola.
«Non c'è di che. Quando avevi tre mesi mi inondavi con ben altro... Ecco quello che devi fare: vai a riprendere l'amore perduto di mamma e papà».
«Dove?».
«C'è un posto dove si trovano tutti gli amori perduti.
Non perdere tempo; bisogna riportarli finché sono ancora vivi, caldi e luminosi; altrimenti non c'è niente da fare... Puoi andare soltanto tu. Prenditi lo zainetto: l'amore di un papà e una mamma è pesante».
«Ma non conosco la strada». Protestò Paola mentre si vestiva e indossava il fedele zainetto scolastico.
«La troverai. Parti diritto avanti a te».
«Ma c'è il muro!».
«Fidati di me. Tira diritto!».
Paola chiuse gli occhi e... passò attraverso il muro.
La polvere luccicante
Si trovò in un giardino intersecato da molti sentieri. Ne imboccò uno. Dopo un po', scorse su una panchina qualcosa che brillava. Si avvicinò e vide che era un pezzettino dell'amore di mamma e papà. Naturalmente lo riconobbe subito, perché i figli sono fatti con l'amore di mamma e papà. Poco più in là, vicino a una grande quercia, vide un altro pezzettino, appena uno spolverio, dell'amore di mamma e papà. Si avvicinò e vide che, in un angolino del tronco rugoso, erano incise alcune parole: «Riccardo e Ornella, per sempre».
«Sono mamma e papà», mormorò Paola. Raccolse la polvere luccicante e la infilò nello zainetto con il pezzetto che aveva già trovato. «Di questo passo, ci metterò un sacco di tempo» si disse.
Proprio in quel momento alzò gli occhi e vide il cartello indicatore: «Deposito amori perduti. Di qua».
«Grazie», sussurrò e cominciò a camminare. Il paesaggio cominciò a cambiare e prese a soffiare un vento gelido e, tagliente. Paola si strinse rabbrividendo dentro il «pile». Solo la polvere d'amore che aveva trovato mandava un lieve tepore. La pista ghiaiosa finiva stroncata in una palude triste e minacciosa. Un cartello festonato di ragnatele polverose indicava: «Palude del Mio-mio».
«Sempre diritto!», fece Paola ad alta voce. Strinse i pugni e si incamminò nel fango.
Ogni passo le costò fatica e lacrime. Il fango della palude era vischioso e cercava di trattenerla. Ma Paola arrivò dall'altra parte. La strada riprendeva con una ripida salita e dopo alcuni tornanti si interrompeva bruscamente.
Paola era stanca e quando scorse che cosa l'attendeva, si accasciò avvilita.
«Oh, no!». Quello che aveva davanti era il peggiore dei precipizi che avesse mai visto. E per di più lei pativa le vertigini. Incastrato sull'orlo del dirupo faceva capolino il solito cartello scheggiato: «Salto della fiducia».
La parola «salto» non diceva niente di buono a Paola, ma la prospettiva di tornare ad affrontare la palude era altrettanto tremenda. Si affacciò sul ciglio del precipizio, chiuse gli occhi, strinse i pugni e saltò.
Il sentiero di rose
Atterrò sul soffice. Si trovò su uno strato di rose enormi, profumate, colorate, morbide come seta. Si rialzò e ricominciò a camminare con decisione. Troppa decisione. Le sue gambe affondarono e le spine, spine enormi come le rose, la ferirono.
«Ahi!», gridò Paola.
Un'ape che ronzava come un elicottero con il suo canestrino per raccogliere nettare, la rimbrottò severamente.
«Devi essere delicata, se vuoi camminare sulle rose. Non lo sai?».
«Grazie, signora ape. È che sto cercando l'amore perduto di mamma e papà».
«Sei quasi arrivata. Vai sempre diritto. E mi raccomando... Delicatezza e rispetto!».
Paola riprese a camminare, facendo molta attenzione a dove poggiava i piedi. Il sentiero di rose si fece sempre più solido e sicuro. Finalmente, dopo una collinetta color tramonto, Paola arrivò a una strana costruzione. Il cartello non lasciava dubbi: «Deposito degli amori perduti. Fare lo scontrino alla cassa».
La gioia di Paola si velò di preoccupazione. Aveva esattamente cinquecento e cinquanta lire in una tasca dello zainetto. Quanto poteva costare lo scontrino per ritirare un amore perduto?
C'erano altre persone che facevano la coda davanti a un burbero cassiere, che teneva in mano una bilancia a due piatti: su uno poneva l'amore perduto richiesto, sull'altro il prezzo che il richiedente era disposto a pagare.
A quanto pareva nessuno riusciva a pagare la somma richiesta. E il cassiere, inflessibile, li rimandava indietro.
Davanti a Paola c'era un uomo triste e grigio. Mise sul piatto della bilancia un miliardo. Mille milioni uno sull'altro. Ma il piatto della bilancia non si mosse neanche un po'. L'amore perduto pesava molto, molto di più. L'uomo se ne andò, più triste e più grigio di prima.
Paola era davvero preoccupata. Stringendo in pugno le sue due monete, guardò il cassiere e disse con la sua voce da passerotto: «Vorrei l'amore perduto di mamma e papà».
Il cassiere aprì un armadio e ne tirò fuori un grosso amore che sistemò sul piatto della bilancia.
«È ancora caldo e luminoso, meno male», pensò Paola.
«Come paghi?», chiese severo il cassiere.
Paola allungò esitante la mano con le monete, poi con un'improvvisa ispirazione, si sedette sull'altro piatto della bilancia. I due piatti scattarono e si fermarono in perfetta parità.
«O.K. Il prezzo è giusto!», disse il cassiere.
Paola lo abbracciò felice. Prese l'amore di mamma e papà e... si trovò a casa.
«Anche noi dobbiamo fare un viaggio»
Quando mamma e papà furono seduti a tavola per fare colazione, Paola arrivò in pigiama e senza parlare posò in mezzo al tavolo l'amore che aveva ritrovato. Un'ondata di calore e di felicità, di baci e di voglia di cantare, invase la casa. Mamma e papà guardarono la loro bambina con occhi che brillavano di una luce tenera. Paola aspettava.
Mamma e papà sorrisero. Per le sue misteriose vie, l'amore era tornato al suo posto.
«Grazie, Paoletta», disse mamma. «Abbiamo capito».
«E ora dobbiamo fare un viaggio. Anche noi...», continuò papà.
Paola li abbracciò tutti e due con un lungo e riconoscente sospiro di sollievo.
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inviato da Sergio B., inserito il 11/12/2002
ESPERIENZA
205. Il mio inno d'amore per un fratello "speciale"
Rivista Dimensioni Nuove, Elledici
Sono una quattordicenne di Brescia e vi scrivo per raccontarvi la mia bellissima esperienza che fin da piccola mi ha aiutata a crescere con sentimenti forti e profondi.
Ho un fratellino e una sorella e due genitori che ci amano e ci hanno cresciuto con valori che ci hanno formato e che cerchiamo di trasmettere a quelli che ci stanno vicino. Mio fratello ha vent'anni. È rimasto celebroleso a causa di un parto difficile nel quale è mancata l'assistenza del ginecologo. Per l'asfissia di mio fratello rischiò di morire anche mia madre. Nonostante la nostra fede in Dio, non abbiamo mai perdonato quel medico che ci ha lasciato una piccola creatura sofferente che, a detta dei medici, non sarebbe vissuta più di quattro anni.
Davide (è questo il suo nome) è cresciuto circondato dal nostro amore e adesso come adesso non conosco al mondo un ragazzo più indispensabile di lui! Sarà sempre il ragazzo più importante della mia vita che, oltre ai miei genitori, mi ha trasmesso quei sentimenti che caratterizzano il mio stile di vita. In questi quattordici anni io e Davide siamo sempre stati in simbiosi perfetta: un equilibrio che col tempo si è radicato fino a diventare qualcosa di indistruttibile.
Mi ha sempre insegnato ad amare e a donare la mia vita agli altri. Lui l'ha data a tutti noi, ha dato il suo amore, la sua serenità e anche il suo corpicino debole che, nonostante la malattia l'abbia deformato e irrigidito, è di una dolcezza unica. Fra lui e me il dialogo è continuo. È il dialogo più bello, più ricco, più gratificante che esista; non ci sono parole ma soltanto amore! Quando ero piccola giocavo con lui, ridevo con lui, ma non capivo ancora chi fosse e che cosa mi donasse. Oltretutto non ha mai parlato e non si è mai mosso. Io ero piccola e per la sua immobilità era la mia bambola preferita. Ora invece sono cresciuta: amo con lui, rido ancora con lui, piango insieme a lui, soffro quando soffre lui e finalmente so chi è e che cosa continuamente ci dona. È terribile vederlo soffrire, seguire il suo respiro affannoso che scuote violentemente il suo piccolo e fragile torace. Ma il suo cuore, che oltre a farlo vivere l'ha fatto amare, è forte e anche quando cesserà di battere, il suo ritmo irregolare e debole continuerà in un'eco perfetto nella mia vita. L'amore che Davide mi regala è qualcosa di irresistibile...
È splendido osservare quanta vitalità abbia il suo bellissimo viso e quanta dolcezza vi sia nel suo sguardo a volte debole, ma comunque sempre vicino a noi. I suoi occhi scuri e profondi sono ovunque, anche quando lui non c'è e il suo sguardo andrà oltre la morte. Davide è il mio angelo, il nostro angelo, una piccola creatura mandata da Dio per portarci tanto conforto. Ma è in queste poche parole di un amico che sta l'essenza di Davide: «Ogni giorno il suo sorriso sconfigge la morte. Un prezioso diamante custodito gelosamente nelle vostre mani. Un candido fiore del paradiso disceso per donare amore!».
E questo è ciò che Davide è per noi. Questa è la mia vita.
Tanto felice e serena, qualche volta alternata a momenti difficili e tristi.
Qualcosa di veramente vero: io amo la vita, amo Dio, amo l'amore!
La strada che devo percorrere è ancora molto lunga, ma vorrei augurare a tutti i ragazzi che sono alla ricerca di qualcosa di importante, di guardarsi continuamente intorno e di capire che l'amore è possibile trovarlo!
È molto vicino e basta cercarlo nelle cose più semplici: l'amore c'è e la vita stessa è amore. Dio è amore, amore unico e inconfondibile, amore vero e continuo.
È compito nostro renderci portatori instancabili. Basta guardare gli occhi tristi di una persona che soffre, un bambino che canta, un piccolo fiore che appare, il tramonto nel silenzio di una montagna...
Tutto è amore, bisogna soltanto vederlo.
Buona fortuna a tutti!
amoresofferenzacrocedolorefelicitàgioiacomprensionesolidarietàaffettosenso della vita
inviato da Sergio, inserito il 11/12/2002
TESTO
Solo lo sciocco percorre correndo il cammino della vita,
senza soffermarsi ad osservare le bellezze del creato.
Senza soffermarsi a gustare la grandezza del creato.
Sto cercando Dio,
e non lo riesco a trovare in chiese o moschee;
in libri scritti da uomini;
in religioni codificate e, pertanto, mediate da uomini.
Come posso accettare di credere
nella maniera in cui qualcuno mi sta dicendo,
se quel qualcuno è indeciso come me,
è un essere finito come me?
Come può un essere finito come me
pretendere d'aver capito l'infinità di Dio
cercando di spiegarmela in modo finito?
Dio si manifesta nell'infinità di ciò che ha creato.
infinità che ha poi farcito con cose ed esseri finiti.
Ed è così per l'uccello.
Per tutta la lunghezza della sua vita
potrà cercare di volare sempre più in alto,
ma non troverà mai il tetto .
Potrà spingersi sempre più in là,
ma non troverà mai il muro della fine.
Potrà trovare un ostacolo nell'alta montagna,
ma se riesce ad alzarsi di più,
potrà continuare a volare libero fino alla fine dei suoi giorni.
Ed è così per il pesce.
Per tutta la durata della sua vita
potrà continuare a nuotare senza trovare la secca .
Potrà finire nella secca, ma non è il limite del mondo.
E' solo il limite della sua vita.
Potrà trovare acque a lui meno congeniali.
Più calde, più fredde, più dolci, più salate,
ma, se riesce ad adattarsi,
potrà nuotare libero fino alla fine dei suoi giorni.
potrà nuotare libero fino alla fine dei suoi giorni.
Ed è così per qualsiasi altro animale della terra.
Se non viene costretto dall'uomo in recinti o steccati,
può scorrazzare in lungo ed in largo
per tutta la durata della sua vita. Senza limiti.
Ma il pesce, l'uccello e gli altri animali,
non si pongono il problema dell'infinità di Dio.
Non cercano di capirla.
Non cercano di spiegarla.
L'accettano naturalmente.
E questo è il loro modo di ringraziare Dio.
L'uomo no!
L'uomo, a cui è stata data intelligenza
per conservare e sviluppare in modo finito
le bellezze dell'infinità create,
non si adatta.
Pretende di capire e spiegare l'infinità
attraverso la sua intelligenza limitata, finita.
E allora ha cominciato a cercare dove il mondo finisce.
Ma, pur continuando a camminare,
vedeva sempre davanti a sé la stessa distanza
che il suo occhio gli consentiva di vedere.
E ha trovato l'acqua.
Ma, pur accorgendosi di poter galleggiare,
non riusciva ad andare troppo lontano.
E si convinse che la fine era dove finiva l'acqua.
E costruì zattere, piroghe, barche, navi.
Ma, per quanto costruisse imbarcazioni sempre più attrezzate,
sempre più adatte ad affrontare ogni insidia e difficoltà,
si accorse che alla fine del fiume c'era il mare.
E poi l'oceano immenso.
Ma, per quanto navigasse,
riusciva a vedere intorno a sé solo acqua.
E poi qualcuno trovò terre lontanissime.
Ma l'uomo scoprì amaramente che non erano la fine del mondo.
Il mondo continuava ancora.
E l'uomo vedeva sempre davanti a sé la stessa distanza
che i suoi occhi gli consentivano di vedere.
E allora l'uomo disse:
E' chiaro che la fine del mondo non può essere sulla terra dove vivo.
Certamente Dio l'ha messa dove io non posso arrivare. In alto! "
E allora si ingegnò.
Studiò gli uccelli
e cominciò a costruire qualcosa che si alzasse da terra.
E lo continuò a perfezionare.
Volò sempre più velocemente,
sempre più lontano, sempre più alto.
Raggiunse altri mondi e tanti altri ne raggiungerà.
Ma ogni volta s'accorgerà che, per quanto voli alto e lontano,
vedrà sempre davanti a sé la stessa distanza
che i suoi occhi gli consentiranno di vedere.
Ed ogni volta che costruirà qualcosa per guardare sempre più lontano,
s'accorgerà che, dietro, c'è un'immensità sempre più grande.
E per quanto cercherà di conoscere cose,
si renderà conto di quante altre non conosce.
Perché qualsiasi cosa l'uomo costruisca,
case, strade, macchine,
sono sempre cose finite, con confini ben precisi.
E qualsiasi tipo di computer riuscirà a costruire,
e di qualsiasi sofisticata memoria riuscirà a dotarlo
per scoprire ed immagazzinare notizie e conoscenze
che la mente umana, da sola, mai sarebbe in grado di fare,
s'accorgerà di quante ne esistano ancora.
Perché, per quanto sofisticato, quel computer avrà sempre dei limiti.
E così facendo,
utilizzando la sua intelligenza
nella sciocca ed inutile corsa verso la conoscenza dell'infinito ,
l'uomo avrà solo accelerato
la distruzione della sua vita terrena.
Se solo si soffermasse a pensare
che solo un essere infinito
poteva creare l'infinità dell'universo;
per andarci, magari, a passeggiare.
Se solo si soffermasse a godere
delle bellezze che lo circondano:
un prato, un fiore, il mare, l'oceano, una montagna,
il deserto, il cielo, le stelle,
gli occhi di un bambino...
Ma l'uomo corre, corre, corre sempre più forte
per tentare di raggiungere i confini del mondo.
Per tentare di spiegare l'infinità di Dio.
Sto cercando Dio.
Ma non lo riesco a trovare in chiese, moschee, libri,
ed in ciò che l'uomo mi dice.
Sto cercando Dio.
E lo ritrovo in ogni istante.
In ogni cosa che mi circonda.
Dionaturaricercafedecreatocreazioneinfinitouomomondoricerca di senso
inviato da Barbara, inserito il 11/12/2002
TESTO
Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il cruciava, chiamò frate Leone il quale andava un poco innanzi, e disse così: "Frate Leone, avvegnadio ch'e frati minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e buona edificazione, nondimeno scrivi, e nota diligentemente, che non è ivi perfetta letizia".
E andando più oltre, santo Francesco il chiamò la seconda volta: "O frate Leone, benché 'l frate minore illumini i ciechi, distenda gli attratti, cacci i demoni, renda l'udire a' sordi, l'andare a' zoppi, il parlare a' mutoli e (maggior cosa è) risusciti il morto di quattro dì, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".
E andando un poco, santo Francesco grida forte: "O frate Leone, se 'l frate minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienzie e tutte le scritture, sì ch'e sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio i segreti delle coscienzie e degli animi, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".
Andando un poco più oltre, santo Francesco ancora chiamò forte: "O frate Leone, pecorella di Dio, benché 'l frate minore parli con lingua d'angeli e sappi i corsi delle stelle e le virtù dell'erbe e fossongli rivelati tutti i tesori della terra e cognoscesse le nature degli uccelli e de' pesci e di tutti gli animali e degli uomini e degli arbori e delle pietre e delle radici e dell'acque, scrivi che non ci è perfetta letizia".
E andando anche un pezzo, santo Francesco chiama forte: "O frate Leone, benché 'l frate minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gl'infedeli alla fede di Cristo, scrivi che non è ivi perfetta letizia".
E durando questo modo di parlare bene due
...E durando questo modo di parlare ben di due miglia, Frate Lione con grande ammirazione il domandò: «Padre, io ti prego dalla parte di Dio, che tu mi dica dov'è perfetta letizia».
E Santo Francesco sì gli rispose: «Quando noi saremo a Santa Maria degli Angeli, cosi bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo, e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo alla porta; e il portinaio verrà adirato e dirà: "Chi siete voi?", e noi diremo: "Noi siamo due de' vostri Frati". E colui dirà: "Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de' poveri; andate via"; e non ci aprirà, e faracci star di fuori alla neve e all'acqua, col freddo e con la fame insino alla notte; allora se noi tanta ingiura e tanta crudeltate sosterremo pazientemente senza turbarsene e senza mormorare di lui; e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci cognosca, e che Iddio il fa parlare contra a noi: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi perseveriamo picchiando, e egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate, dicendo: "Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, che qui non mangerete né albergherete". Se noi questo sosterremo con pazienza e con allegrezza e con amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi, pur costretti dalla fame e dal freddo, più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l'amore di Dio con grande pianto, che ci apra e mettaci dentro; e quello più scandalizzato dirà: "Costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come sono degni"; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto e piglieracci per lo cappuccio e getteracci in terra e involgeracci nella neve, e batteracci nodo a nodo con quello bastone: se noi tutto questo sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E però odi la conclusione: sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e disagi. Imperocché in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, perché non sono nostri, ma di Dio; onde dice l'Apostolo: "Che hai tu, che tu non abbi da Dio?"... Ma nella croce della tribolazione ben ci possiamo gloriare, perocché questo è nostro; e perciò dice l'Apostolo: "Io non mi voglio gloriare, se non nella croce del Nostro Signor Gesù Cristo"».
letiziacrocesofferenzaumiltàgioialibertà
inviato da Emilio Centomo, inserito il 11/12/2002
TESTO
208. Cari uomini... lettera da Gesù Bambino!
Cari uomini, beh! Non state a sgranare gli occhi. Sono io, e non è proprio il caso di fare tante storie.
Siete cosi abituati a tenermi imprigionato nei vostri schemi e, fra poco, nei vostri presepi, che non vi rendete conto che sono diverso dai vostri schemi, che non sono un bambino di gesso, innocuo, ma sono in carne ed ossa, capace di parlare, o addirittura, come in questo caso, di strillare. Ho deciso di invertire le parti.
Siete sempre voi a domandarmi qualcosa, e visto che si avvicina il Natale, sarete voi a scrivermi delle lettere. La lettera questa volta, se non vi dispiace, la scrivo io. E, a scanso di equivoci, vi anticipo che non sarà affatto una letterina gentile.
Ho ascoltato milioni e milioni di vostre richieste, ho letto milioni e milioni di vostre lettere. Per una volta, almeno, voglio essere io a dirvi qualcosa, a esprimere desideri, a formulare precise richieste.
E pretendo naturalmente la vostra attenzione.
Pochi di voi, a quanto mi risulta, e credo di essere ben informato, si sono preoccupati di sapere quali sono i miei progetti su di loro, se lo hanno fatto, lo hanno fatto un po' per retorica; pochi si sono preoccupati di sapere quale speranza ho nutrito e nutro, facendomi uomo, venendo ad abitare in mezzo a voi; pochi si sono preoccupati di sapere se il mio "sogno" realizzabile; sì confessatelo, piuttosto avete pensato che sono sogni, che sono "cose" campate in aria.
Vi devo dire che siete molto abili a "trasformare", ma con quella trasformazione che mi esclude. Volete un esempio?!
lo sono nato per portare la salvezza, sono nato per portare la speranza, sono nato in povertà. E voi la salvezza, la speranza, la povertà le avete "trasformate" in una faccenda dove io sono stato messo da parte, in feste dove io non c'entro e con me non entra la speranza, la salvezza, la povertà, il "sogno" che Dio mio Padre ha per voi uomini.
Non è attraverso l'uso del mio nome che si realizza il "sogno" di Dio per voi, non attraverso i bei canti, i "formalismi", i "bei discorsi" attraverso le cose sporadiche, che la speranza del Dio-con-noi si vive e si realizza.
E cosi, cari uomini, la storia si ripete. Ed è sempre la triste storia che mi fa trovare porte chiuse. Quando sono venuto in mezzo a voi per condividere la vostra situazione, per partecipare alle vostre vicende, per essere insomma uno di voi, per me non c'era posto nelle vostre abitazioni, perché erano già piene.
Allora come oggi, dopo duemila anni, devo constatare che non c'è posto per me nel vostro cuore: è già pieno di altri affetti, è occupato da molti idoli, è distratto dai molteplici impegni; e ciò che più mi dispiace è che non c'è posto nemmeno là dove si pronuncia con frequenza e disinvoltura il mio nome.
La mia presenza è gradita, a patto che venga circoscritta, limitata nel tempo e nello spazio, relegata ad alcuni istanti, soprattutto neutralizzata nei suoi elementi più impegnativi.
Non sono venuto sulla terra come occasione per la vostra vanità, superficialità, gusto del chiasso; o soprattutto, visto che si avvicina il Natale, perché vi poteste "abbuffare", oppure vi sentite, almeno una volta l'anno, buoni e generosi, non era proprio il caso che mi scomodessi per così poco, non vi pare?...
Sia ben chiaro: O mi accettate come Protagonista e quindi subordinate tutto il resto al mio "sogno", oppure vi diffido formalmente dall'usare ancora il mio nome. Sulla terra ci sono venuto e ci vengo, ci rimango volentieri. In mezzo a voi mi ci trovo benissimo, sono uno dei vostri ormai. Desidero camminare con voi, condividere pene e gioie, portare pesi, successi e fallimenti. L'unica cosa che non ammetto è di diventare pretesto per un gioco di vanità che finirebbe per lasciarvi ancora più soli, più poveri, più insoddisfatti, più disperati.
Quindi d'ora innanzi sapete a quali condizioni potete contare su di me. Vi ho parlato con chiarezza, forse vi ho ferito. Ma dopo, ne sono sicuro, le cose andranno molto meglio, con comune soddisfazione. E non si ripeteranno certi equivoci...
Comunque statene certi: per un "sogno" vero e autentico, per un "sogno" di porte e cuori spalancati, per un "sogno" di pace, per un "sogno" che frantumi le barriere, per un "sogno" di gioia, desiderato e costruito da tutti gli uomini di buona volontà, per un "sogno" di perdono per individui che si riconoscono peccatori, per un "sogno" di salvezza, per un "sogno" di speranza, è sempre disponibile il vostro
Gesù Bambino
Nataleincarnazioneprogetto di Dio
inviato da Eleonora Polo, inserito il 06/12/2002
TESTO
209. San Paolo, non un pazzo qualsiasi
Scout d'Europa, Foggia 2
Vi sono solo due notizie di dominio pubblico su san Paolo.
Uno: è caduto da cavallo.
Due: le sue lettere (tre volte su quattro la seconda lettura domenicale) sono incomprensibili. Beh, almeno difficili.
Fino a poco tempo fa anch'io la pensavo così: Paolo di Tarso? Pessimo cavallerizzo e criptico scrittore. Ora ho qualche notizia in più su costui. Per esempio so che era pazzo.
Non una comune follia, ma una follia lucida, rigorosamente logica e metodica. Era un ebreo. Colto. Ricco. Rispettato. Discendeva dall'elite d'Israele, aveva cultura e autorità: tutte le carte in regola per fare carriera. In effetti, la stava facendo. Stava sterminando una setta giudaica per conto della gerarchia di Gerusalemme, e questo era un ottimo trampolino di lancio. Poi Paolo di Tarso impazzisce. Molla tutto e si mette con quelli che stava catturando. Matto. Completamente andato.
Eppure Paolo ci credeva a quello che faceva. Ci credeva più di tutti gli altri ebrei. Forse ci credeva troppo. Insomma, non è molto simpatico quando inizi a incatenare tutti quelli che la pensano un po' diversamente da te. Il fatto che Paolo sia passato proprio alla fazione opposta ci dice una cosa importante: e cioè che Paolo non era un fossile. Certo, aveva delle idee, e ci teneva parecchio. Ma si lasciava interrogare dai fatti. E, a costo di venire apostrofato "traditore" e "voltabandiera" sapeva cambiare. Anche se questo andava contro il sistema. Era un tipo dinamico, e quando qualcuno gli ha aperto gli occhi sulla realtà non ha avuto paura di dire: "Ok, ragazzi, si cambia registro. Ho fatto qualche errore, ma non rinnego il mio passato. Io sono io, ma adesso che so ho il dovere di agire di conseguenza". Detto fatto.
Paolo ha o non ha avuto una visione sulla strada di Damasco? E' caduto da cavallo? Ha davvero sentito la voce di Gesù che gli parlava? O è solo un genere letterario, una metafora per dire che Paolo ha fatto il salto di qualità?
A dire il vero, non è molto importante.
L'importante sono i fatti.
Quali sono i fatti? Il primo fatto è la pazzia di Paolo: abbia visto o meno il Signore, è fuori discussione che con lui aveva un rapporto intimissimo. I loro pensieri coincidevano, e poiché Dio la pensa un po' diversamente dall'uomo, Paolo parve un pazzo agli occhi di moltissimi.
Paolo si faceva dei grandi viaggi. Materialmente, intendo dire. Per portare quell'annuncio sconvolgente che gli aveva scardinato la vita girò tutto il mondo conosciuto allora. Dall'Oriente all'Occidente, mai stanco, sempre avanti, sempre, attraverso tutte le difficoltà. Viaggiare non era una cosa di piacere, allora. Significava muoversi per lo più a piedi, a cavallo, con carovane, navi. Itinerari lunghi, difficili, sotto un cielo straniero, ma sempre con un motore spirituale a farlo andare avanti. "Non sono ancora giunto abbastanza lontano. C'è ancora gente afflitta ed oppressa che attende una parola di liberazione". San Paolo non va in vacanza, non si prende periodi di riposi, perché se lo facesse... ah! Guai a lui! Sa qual è il compito della sua vita.
Predica in tutti i modi possibili. Non si accontenta di andare di persona nelle città, come gli altri apostoli, ma scrive. Scrive lettere per le comunità che ha cresciuto, aiutato. Sono lettere bellissime, piene di fuoco, di passione, di fervore. Paolo si tiene sempre informato di come stanno i suoi, li sorregge, li conforta. Chiarisce i loro dubbi, li guida con dolcezza. Ma se c'è qualcosa che non funziona, va giù dritto. Ha le idee chiare. Dice sempre quello che pensa, senza guardare in faccia nessuno. Non si lascia zittire dalle minacce. Oh, perché di minacce ne ha avute: dava fastidio a troppa gente in alto. Ma la sua testardaggine non si piegava alle bastonate, ed il suo ardore non si spegneva nemmeno nelle carceri. Non scendeva a compromessi neppure a costo della propria vita.
Paolo è pazzo.
E' pazzo perché è un innovatore.
E' pazzo perché sfida tutte le mentalità del tempo. Paolo ha una mentalità aperta, ha viaggiato, conosce gli uomini. In un mondo di discriminazioni razziali e tra i sessi annuncia che non c'è differenza tra uomo e donna, tra schiavo e padrone, tra ebrei e pagani, che tutti sono uguali, tutti figli di Dio, tutti amati. Paolo fa saltare tutte le caste ed i sistemi di catalogazione degli uomini. Porta un messaggio di tolleranza, anzi di più: un messaggio di amore per tutti gli uomini. "Se non ho l'Amore non sono nulla". Avanti, sempre. Farsi tutto a tutti. Tendere la mano. Proporre e non imporre.
San Paolo è pazzo. Vive di ideali grandi, che sembrano quasi utopie. Sono utopie? Chissà. Ma sempre meglio che razzolare nella mediocrità. Le persone con la vista corta non arrivano lontano. Sopravvivono, ma non Vivono veramente.
Paolo è pazzo.
Ma sono questi pazzi che costruiscono il mondo nuovo.
San Paoloconversionecoerenzamissioneevangelizzazioneapostoli
inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/11/2002
ESPERIENZA
Silvia Pillin, SCF Caritas Concordia-Pordenone
Faith ha 17 anni. È una bella ragazza. Alta. Occhi scuri. Fisico tonico e proporzionato messo in evidenza da vestiti attillati e scarpe col tacco alto.
Faith parla inglese. È qui in Italia da poche settimane. È venuta per studiare. A casa ha lasciato sua madre e i fratelli. Il padre è morto. E lo dice con un tale distacco che sembra che parli del padre di qualcun altro.
Faith ha passato le sue prime settimane a Torino. Poi ha preso un treno. Ha aspettato cinque o sei ore ed è arrivata qui, in questa stazione ferroviaria. Stanca, spaventata, affamata.
Faith è nigeriana. Ha lasciato il suo paese insieme ad altre ragazze perché le avevano promesso l'Italia.
Le avevano promesso che avrebbe terminato gli studi, affinato le sue doti atletiche e guadagnato molti soldi.
Faith ha lasciato la Nigeria con un futuro migliore negli occhi. Faith ha lasciato la Nigeria per venire a prendere il suo sogno nel Paese dei Balocchi.
E mentre parla attraversiamo la città in autobus.
Faith è invitata a pranzo a casa mia. Saliamo. La faccio accomodare in cucina. Mi chiede se si può togliere le scarpe col tacco. Evidentemente le stanno strette. Le porgo le mie ciabatte. Le infila, poi appoggia lo zaino accanto a sé. Non se ne vuole separare.
Probabilmente lì dentro c'è tutta la sua vita, penso.
Le offro dell'acqua. Beve.
Poi inizia a raccontare davvero.
"A Torino hanno portato me e delle altre ragazze in un appartamento. Qui, la prima sera, le stesse persone che ci avevano regalato il sogno di un futuro migliore ci hanno fatto cambiare d'abito e ci hanno obbligato ad andare in strada. Mi sono prostituita per due settimane. Venivo picchiata ogni sera. Sostenevano che non guadagnavo abbastanza. Io stavo male. Avevo dei forti mal di pancia. Loro mi obbligavano a prostituirmi. Poi mi picchiavano. Mi picchiavano. Mi picchiavano. Alla fine sono scappata, ma non potevo certo rimanere a Torino. Se mi avessero trovato sarebbero stati capaci di uccidermi".
Si interrompe per qualche secondo. Si guarda attorno. Non sta piangendo. Le chiedo se è stanca. Accenna un sì con la testa. La porto sul divano. Le offro una coperta. Le prometto che tra una mezzora sarà pronto il pranzo. E mentre lei si avvolge nella coperta io torno in cucina. Metto a bollire dell'acqua per la pasta e apparecchio la tavola e mi chiedo com'è possibile che una ragazza di soli diciassette anni possa essere trattata come un oggetto, venduta e barattata e sfruttata e picchiata. Mi chiedo chi può commettere un'azione del genere e chi con il silenzio asseconda quell'orrore. E nel frattempo due bei piatti fumanti di spaghetti con il pomodoro aspettano le nostre bocche affamate.
Così vado da Faith, le dico di venire in cucina. La osservo, cercando di essere il più discreta possibile, mentre mangia avidamente. Poi alza la testa. Mi sorride. Le sorrido. Riprende a raccontare.
"A Torino, mentre stavo piangendo seduta su una panchina, un uomo mi ha chiesto il perché. Ho cercato di spiegarglielo. Mi ha dato un numero di telefono".
Le chiedo se ha provato a chiamarlo. Dice di no. Poi infila la mano in tasca e ne estrae un libricino. Lo sfoglia fino a trovare un pezzo di carta ripiegato che mi porge. Guardo il numero, secondo quello che leggo sul foglietto si riferisce ad un organismo ministeriale che si occupa delle donne vittime della tratta. Le restituisco quel piccolo ritaglio di speranza e mentre chiamo l'assistente sociale mi accorgo che il libricino è un Vangelo.
prostituzionesfruttamentosperanza
inviato da Federico Bernardi, inserito il 25/11/2002
TESTO
211. Quel catino di acqua sporca 1
Accanto al fonte della vita nuova, la Pasqua ci consegna anche un catino d'acqua sporca. ne ha fatto uso il maestro e nessuno ancora lo ha tolto dalla a tavola curandosi di svuotarlo. I discepoli intimoriti, tornando al cenacolo, si sono abbracciati attorno a questa icona del servizio lasciandola lì nel bel mezzo delle loro incerte discussioni.
Anche noi potremmo immaginare quel recipiente sul nostro altare tra le tovaglie ben stirate, i fiori freschi e il cero pasquale: è la memoria dell'ultimo gesto stravagante del nostro giovane Rabbi.
Quando mi domando come sia possibile far innamorare un giovane a Gesù Cristo mi viene in mente la reliquia del catino...
Quel catino è la freschezza di un uomo che quando è a tavola non ce lo si può trattenere seduto a lungo. L'ultima cena non si è risolta nell'ultima abbuffata: quell'Eucarestia ha nutrito i cuori ma non ha appesantito i corpi perché Gesù si è alzato per lavare i piedi come un servo. Il catino con l'acqua sporca ci invita chiaramente a metterci scomodi prendendoci cura degli altri senza indugiare alla "tavola delle lunghe discussioni", senza intrattenerci in quei festeggiamenti dello "stiamo bene tra noi" che odorano di tradimento.
Solo chi è scattante e sa alzarsi da tavola impara a lasciare il posto ad altri, ai più giovani perché è convinto che di pane ce n'è per tutti.
Quel catino è la scioltezza e l'equilibrio di mani allenate ad accarezzare. Ad uno ad uno tutti i piedi dei discepoli hanno provato il ristoro di quel tratto di cui solo l'artista che li ha plasmati è capace. Un corpo agile e disinvolto quello del maestro abituato a nutrire di intelligenza le sue parole ma anche di armoniosa sapienza i suoi movimenti.
Questo equilibrio ci vuole nel chinarsi e rialzarsi senza rovesciare a terra il contenuto di quella bacinella. Il catino con l'acqua sporca ci racconta di poche parole e di tanti piccoli gesti precisi e geniali... insomma un bene fatto bene senza le lentezze e gli appesantimenti delle abitudini. Solo chi è allenato alla scioltezza e alla fermezza dell'amore incondizionato impara ad accarezzare senza trattenere, a ristorare senza possedere... in una danza gioiosa fatta di genuflessioni e umili abbracci.
Quel catino è il coraggio di smascherare la propria bellezza. Sotto la crosta polverosa della sporcizia Gesù ha ridato vigore e candore ai piedi dei suoi messaggeri. Il Cristo ha confermato ad uno ad uno i suoi lavandone i piedi. Il catino con l'acqua sporca ci risveglia alla straordinaria potenza del perdono che non fa conto dell'inadeguatezza ma riporta il cuore allo splendore originario.
Solo chi guarda in faccia all'acqua sporca smette di giudicare e ritrova quel coraggio che non confonde. Solo chi vede il maestro piegato sui propri piedi non ha più dubbi.
La paura di sbagliare non è l'ultima parola, perché ciò che da bellezza è il perdono e l'accoglienza.
Spesso i ragazzi che crescono accanto a noi mettono a fuoco domande, slanci, dubbi, provocazioni... forse ci invitano ad essere una comunità di discepoli che va per il mondo col catino in mano.
serviziocaritàamoremaestrogiovedì santolavanda dei piedi
inviato da Mariangela Molari, inserito il 25/11/2002
RACCONTO
212. Ciò che il mare racconta di Dio
Dio è un mistero. Noi possiamo solo cercare di farcene un'immagine. Giovanni di Ruysbroek, quando pensava a Dio, pensava al mare.
Giovanni vive in Olanda, un paese piatto, piatto. Uomini pacifici coltivano i campi. Giovanni, però, vuole vivere solo per Dio e perciò abbandona la compagnia degli uomini e cerca la solitudine.
Per essere soli bisogna abitare vicino al mare, perché nessuno vuole vivere accanto alle dighe. Lì soffia sempre un forte vento e a volte onde alte scavalcano le barriere delle dighe. Proprio lì Giovanni si è ritirato per abitare in una semplicissima capanna.
La gente si meraviglia. A volte qualcuno viene a visitarlo e gli chiede: "Giovanni, ma che cosa fai da queste parti?". "Io cerco Dio e qui gli sono molto vicino, qui mi riesce facile pensare a lui" risponde.
"Noi pensiamo a Dio quando siamo in chiesa, lì abbiamo delle immagini di lui".
"Anch'io ho un'immagine di lui" dice Giovanni.
"Dov'è? Faccela vedere!".
Giovanni li conduce sulla diga. Il mare è calmo e si stende senza confine.
"Guardate, questa è la mia immagine di Dio: così è il Padre, infinitamente grande come questo mare!".
La gente rimane per molto tempo in silenzio. "Certo, lo vediamo - dice uno -, ma noi abbiamo anche immagini di Gesù; un artista le ha dipinte da poco sulla parete della nostra chiesa". "Se vi fermate fino a stasera, vi farò vedere la mia immagine di Gesù".
Dopo queste parole Giovanni si ritira nella sua capanna. I bambini giocano sulla spiaggia, gli adulti chiacchierano tra di loro. Però i loro sguardi si rivolgono continuamente verso il mare, verso il grande oceano.
La sera tutti vogliono entrare nella capanna di Giovanni. "Dov'è l'immagine di Gesù?".
Giovanni li porta di nuovo con sé allo stesso posto. Il mare è cambiato, è diventato irrequieto. È l'ora dell'alta marea e le onde salgono sempre di più. Una dopo l'altra, battono contro la diga, si accavallano, si infrangono e ritornano formando una bianca schiuma. Le dighe non sono chiuse completamente e l'acqua può entrare dappertutto e inondare la terra. Presto all'intorno tutto è coperto d'acqua.
Giovanni dice: "Adesso il mare non è più lontano. L'immenso oceano ha mandato le sue onde e l'acqua è entrata dappertutto. Anche Dio è così. Il Padre manda il Figlio. Questi bussa dappertutto e va alla ricerca di tutti".
Questa è un'immagine che la gente capisce. Sì, è proprio così; Gesù ha trovato la strada per venire incontro a ciascuno. Un grande silenzio si diffonde tra la folla.
Solo uno vuole porre un'ultima domanda: "Giovanni, possiedi anche un'immagine dello Spirito Santo?".
Giovanni sorride, perché proprio in quel momento l'acqua ha cominciato a muoversi di nuovo. I flutti che inondano la spiaggia cominciano a ritirarsi pian piano.
"Guardate che cosa succede adesso! Il mare torna indietro. E guardate, esso porta con sé foglie, legna, erba. Tutto viene afferrato dal mare e portato via, riportato nell'immenso mare. E questa è l'opera dello Spirito Santo. Ci afferra, ci porta con sé, ci riporta al Padre".
Tutto ritorna a Dio. Anche le persone che sono morte sono con lui.
inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
213. La meravigliosa storia dell'elefante 1
Un tempo antico in un paese dell'Arabia regnava il califfo Omar, ricco e benvoluto perché era saggio. Era di larghe vedute e non si arrestava all'apparenza delle cose. Prima di esprimere dei giudizi si sforzava sempre di comprendere le relazioni e i legami che ci sono tra i fatti anche se a prima vista potevano apparire isolati e diversi. Egli era perciò rattristato per la grettezza di spirito dei suoi ministri che non vedevano più in là del loro naso.
"Va in giro per il mio regno" disse un giorno il califfo ad un servo fidato "e trova, se ti riesce, tutti gli uomini sfortunati dalla nascita che non hanno mai potuto vedere e che non hanno mai sentito parlare degli elefanti".
Il servo fedele eseguì l'ordine e dopo qualche tempo ritornò con alcuni ciechi fin dalla nascita. Essi erano cresciuti sperduti in piccoli villaggi tra le montagne perciò degli elefanti non avevano mai sentito parlare e non ne supponevano nemmeno l'esistenza. Il califfo fece un gran ricevimento con tutti i suoi ministri e alla fine del banchetto fece entrare un grosso elefante da una porta di bronzo e i ciechi da un'altra porta più piccola.
"Mi sapreste dire che cosa è un elefante?" chiese il califfo ai ciechi.
"No, mai sentita questa parola", risposero i ciechi.
"Ebbene, davanti a voi c'è un elefante: toccatelo, cercate di comprendere di che cosa si tratta. Colui che darà la risposta esatta riceverà in premio 100 monete d'oro".
I ciechi si affollarono intorno all'animale e cominciarono a toccarlo con attenzione soffermandosi sulle sensazioni che ricevevano. Un cieco stava lisciando da cima a fondo una zampa, la pelle dura e rugosa gli sembrava pietra e la forma era di un lungo e grosso cilindro. "L'elefante è una colonna!" esclamò soddisfatto.
"No, è una tromba!" disse il cieco che aveva toccato solo la proboscide.
"Niente affatto, è una corda!" esclamò il cieco che aveva toccato la coda.
"Ma no, è un grosso ventaglio" ribattè chi aveva toccato l'orecchio.
"Vi sbagliate tutti: è un grosso pallone gonfiato!" urlò il cieco che aveva toccato la pancia.
Tra loro c'era il più grande scompiglio e disaccordo perché ciascuno, pur toccando soltanto una parte credeva di conoscere l'intero elefante.
Il califfo, soddisfatto, si rivolse ai suoi ministri: "Chi non si sforza di avere della realtà una visione più ampia possibile, ma si accontenta degli aspetti separati e parziali senza metterli in relazione tra loro, si comporta come questi ciechi. Egli potrà conoscere a fondo tutte le righe della zampa dell'elefante, ma non vedrà mai l'animale intero, anzi, non saprà mai che esiste un siffatto animale".
apparenzalarghezza di vedutenon giudicaregiudizio
inviato da Furetto, inserito il 23/11/2002
TESTO
Centro di Orientamento Pastorale [COP], a conclusione della 52ma Settimana di aggiornamento pastorale a Bergamo; Settimana, luglio 2002
Cara parrocchia,
sappiamo che più o meno consapevolmente molti, anche tra i cristiani, non ti ritengono oggi un riferimento necessario per la loro vita e che in certe zone d'Italia non sei più il centro dell'esperienza di un popolo.
Sappiamo che, per molti, rischi di essere soltanto una stazione di servizio distributrice di sacramenti e di elemosine e che, per alcuni gruppi, sei poco più di una base logistica.
Sappiamo tuttavia che molte associazioni, gruppi e movimenti trovano in te non solo un luogo di accoglienza e di ospitalità, ma la casa e la scuola dove crescere nella fede, per essere missionari nella città degli uomini.
Sappiamo che la fatica del rinnovamento nella fedeltà al Vangelo può togliere anche a te un po' di respiro ed entusiasmo.
Sappiamo che vorresti essere una comunità di celebrazione, di carità e di annuncio, ma che, a volte, ti mancano persone, parole di incoraggiamento e gesti di sostegno.
Sappiamo, infine, che potresti essere una delle molte comunità che sono senza pastore, ma noi non ti molliamo, anzi scommettiamo sulla tua grande capacità di rigenerarti, come hai fatto tante volte nella storia.
Non siamo nostalgici, vogliamo - con te e per te - essere creativi.
Non possiamo fare a meno di te, perché è nel tuo essere Chiesa tra le case, porzione di quella grande comunità che è la Chiesa universale, che noi apprendiamo a fare comunione; è tra le tue mura, chiese, cappelle, tessuti di relazione che incontriamo la comunità, sacramento cui è affidata la Parola che genera per tutti salvezza.
Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo compiere oggi il percorso necessario di Parola, rito e carità che ci unisce a Cristo.
Non possiamo fare a meno di te, perché è nella celebrazione eucaristica che troviamo il sostegno decisivo per la nostra fede, la sorgente per la nostra sete di senso, la forza per una convivenza nella giustizia e nella pace.
Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo imparare, da laici, consacrati e da preti, come si fa a essere laici, consacrati e preti in mezzo alla gente.
Siamo convinti che ancora molte persone si accostano a te con domande semplici di umana comprensione, di pietà e di condivisione e tu hai ancora per ciascuno parole e gesti di speranza e di fiducia.
Siamo convinti che con te si viene ancora a misurare l'incredulità fragile di molti uomini e donne, la loro nostalgia di Dio, il loro stesso rancore per l'inganno e le trappole in cui sono caduti e tu hai sempre un percorso di fede da ricominciare.
Siamo convinti che il Vangelo che proponi (e come lo proponi) in fedeltà allo Spirito che guida la Chiesa è la risposta ultima alle grandi domande dell'uomo.
Ti vogliamo aiutare a farti cantiere di formazione nei tuoi gesti solenni e quotidiani, nella tua assemblea domenicale, nell'accompagnare con il sacramento la vita che nasce, muore, esplode nella gioia, si affatica nel lavoro, si misura nella malattia.
Ti vogliamo aiutare a farti scuola di comunione anche nelle varie forme associative (pensiamo ad esempio, all'Azione Cattolica) generate da quella fantasia cristiana che tanta ricchezza di crescita spirituale, di fede e di apostolato ha portato alla vita delle nostre comunità. Ti vogliamo aiutare a farti punto di speranza nella capacità di incontrarti con le domande anche più petulanti e disperate, perché le sappia far diventare percorsi di vita e di fede.
Ti vogliamo aiutare a farti segno di quel "totalmente altro" che chiede di mescolarci nella società e di essere presenti nelle istituzioni abitandole da cristiani capaci di mostrare il Volto di Cristo, crocifisso e risorto, figlio dell'uomo e figlio di Dio, che tu ci aiuti a contemplare.
Ti vogliamo aiutare a vivere pienamente, con responsabilità e con gioia la dimensione Diocesana, ad aprirti alla collaborazione con tutte le altre parrocchie, superando ogni autosufficienza.
Ti vogliamo aiutare a confrontarti con un territorio che cambia per l'arrivo di altre culture e altre religioni, a portare al tuo interno per offrirla sull'altare dell'Eucaristia la vita quotidiana dei tuoi fedeli vita di famiglia, vita di lavoro e di disoccupazione, vita di italiani e di stranieri, vita culturale, politica, apertura al mondo intero.
Ti vogliamo aiutare a osare nella verità il dialogo con ogni ricerca di Dio e per questo ti chiediamo di essere esigente con noi stessi perché l'accoglienza e l'ascolto siano il frutto di una fede pensata. Cara parrocchia chiedici di più, sapremo darti anche di più e soprattutto lascia sempre trasparire sul tuo volto l'immagine beatificante del Volto di Dio.
parrocchialaicicollaborazioneresponsabilitàcorresponsabilitànuova evangelizzazione
inviato da Anna Barbi, inserito il 24/09/2002
RACCONTO
Tanto tempo fa, quando il mondo era nuovo, una certa aragosta decise che il Creatore aveva fatto un errore.
Così fissò un appuntamento per discutere con Lui la questione.
"Con tutto il dovuto rispetto" disse l'aragosta, "Vorrei protestare per il modo in cui ha disegnato il mio guscio. Vedi, appena mi abituo al mio rivestimento esterno, ecco che devo abbandonarlo per un altro molto scomodo. Oltretutto è una perdita di tempo!".
Il Creatore replicò: "Capisco, ma ti rendi conto che è proprio il lasciare un guscio che ti permette di andare a crescere dentro un altro?".
"Ma io mi piaccio così come sono", disse l'aragosta.
"Hai proprio deciso così?" chiese il Creatore. "Certo!" rispose l'aragosta.
"Molto bene" sorrise il Creatore "D'ora in poi il tuo guscio non cambierà e tu continuerai ad essere così come sei ora"... "Molto gentile da parte tua" disse l'aragosta, e se ne andò.
L'aragosta era molto contenta di poter indossare lo stesso vecchio guscio, ma giorno dopo giorno quel che era prima una leggera e confortevole protezione cominciò a diventare ingombrante e scomodo. Alla fine l'animale non riusciva più a respirare. Con grosso sforzo tornò a parlare con il Creatore.
"Con tutto il rispetto" sospirò l'aragosta, "contrariamente a quello che mi avevi promesso, il mio guscio non è rimasto lo stesso. Continua a restringersi sempre di più!".
"No di certo" sorrise il Creatore. "Il tuo guscio è rimasto della stessa misura. Quello che è successo è che TU sei cambiata all'interno del guscio!".
Il Creatore continuò: "Vedi, tutto cambia, continuamente. Nessuno resta lo stesso. E' così che ho creato le cose. La possibilità più interessante che tu hai è quella di poter lasciare il tuo vecchio guscio, quando cresci."
"Aaah, capisco!" disse l'aragosta. "Ma devi ammettere che ciò è abbastanza scomodo!".
"Sì" rispose il Creatore. "Ma ricorda: ogni crescita porta con sé la possibilità di un disagio, insieme alla grande gioia di scoprire nuovi aspetti di se stesso. Dopo tutto, non si può avere l'uno senza l'altro!".
"Tutto ciò è molto saggio!" rispose l'aragosta.
"Ogni volta che lascerai il tuo vecchio guscio" continuò il Creatore "e sceglierai di crescere, costruirai una forza nuova in te. E in questa forza troverai nuove capacità di amare te stessa e di amare coloro che ti sono accanto... di amare la vita stessa! E' questo il mio progetto per ognuno di voi".
crescitacambiamentoconversionematuritàsacrificiorinuncia
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 24/09/2002
TESTO
216. Ho vissuto una intensa esperienza di Dio 2
Note di Pastorale Giovanile, n. 1/ gennaio 1999
Carissimo amico o amica,
Voglio farti qualche confidenza sulla mia relazione con Dio. Dio occupò il centro della mia vita. Per arrivare a quest'esperienza dovetti fare un notevole sforzo di personalizzazione e di interiorizzazione e mettere in gioco tutte le dimensioni della mia persona: intelligenza, sentimenti, atteggiamenti. E ti posso assicurare che sempre mi sentii pienamente me stesso.
Dio occupò il centro della mia vita come un Padre che mi amava intensamente, con un amore somigliante a quello che sente una madre quando il suo figlio sta per nascere, per questo osai chiamarlo "papà"; Questo amore di Dio - Padre fu la roccia ferma su cui appoggiai sempre la mia vita.
Mi costò molto far capire alla gente che Dio ama gratuitamente, cioè, senza che in noi ci siano motivi speciali perché lui ci ami: essere buoni, bravi, intelligenti, ecc. Per questo narrai le parabole, come quella del padre che accoglie il suo figlio che se n'era andato da casa o quella dei lavoratori della vigna che ricevono lo stesso stipendio anche se non hanno lavorato tutti le stesse ore.
Non è stato facile convincere quella donna samaritana a cui chiesi di darmi un po' d'acqua, che Dio è come una fonte d'acqua che toglie la sete per sempre. Basta relazionarsi con lui in Spirito e verità. Per questo, sentii una grande necessità di lodarlo, di rendergli grazie, soprattutto, quando vidi che le mie parole sul Regno di Dio arrivavano al cuore della gente semplice.
Riconosco che davanti ai grandi avvenimenti - la chiamata degli apostoli, il discorso sul monte, ecc. - mi piaceva passare la notte pregando da solo con Lui, ascoltavo il suo filo di voce dentro di me, vedevo una presenza amorosa nelle persone a cui dovevo parlare e guarire il giorno dopo. Il cielo pieno di stelle della Palestina faceva più maestosa e bella la sua presenza.
Arrivai addirittura a dire, non senza un po' di paura di non essere capito e di scandalizzare i farisei e gli scribi di Israele, che il mio cibo era fare la volontà del Padre mio, anzi che Dio e io eravamo la stessa cosa.
Non credere che questo fare la volontà di Dio fosse, qualcosa di facile. L'ansia di potere e di fama bussavano continuamente alla mia porta, soprattutto quando la gente mi perseguitava per farmi re. Molte volte, ho avuto la sensazione di usare Dio, di fare di Lui un idolo secondo la mia misura e convenienza.
Ci sono stati dei momenti in cui il cammino è diventato più duro. Ci sono stati momenti di solitudine e di sconfitta a causa dell'incomprensione e dell'abbandono dei miei amici. Vivere la relazione con Dio come Padre fu allora un'esperienza dolorosa, soprattutto nel momento della verità, quando la mia vita scorreva inesorabilmente verso la morte.
Nell'orto degli ulivi, il sudore e il sangue inzupparono la mia tunica. Dio rimaneva muto di fronte alla mia passione e alla mia morte. La gente ai piedi della croce mi ricordava con ironia che sempre avevo chiamato Dio Padre e sulla croce arrivai a dubitare di Lui. Però finalmente vinsi la tentazione. Mi misi nel buio tunnel della morte convinto di una cosa sola: Dio era mio Padre e Lui sapeva cosa farsene della mia vita.
Il giorno di Pasqua fu, e continua ad essere, la prova che lui non era nel torto. Quel giorno Dio gridò all'umanità intera e continua a farlo fino ad oggi, che la Croce è la fonte da dove sgorga la vita; che il chicco di grano, se non muore, non produce frutto; che una candela deve consumarsi pian piano se vuole illuminare; che il sale per dare sapore deve sciogliersi; che il lievito deve mescolarsi con la massa fino a scomparire per fare un buon pane per tutti, soprattutto per i più poveri ed emarginati.
Gesù di Nazareth
Gesù CristoDiorapporto con Dio
inviato da Don Giovanni Cuccu, inserito il 22/08/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù
Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina. In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevuto il significativo titolo di «Cristo delle grazie». Arrivava gente da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.
Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiedere anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all'immagine, pregò: «Signore, voglio soffrire con te. Lasciami prendere il tuo posto. Voglio stare io sulla croce».
Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.
Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse: «Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione: qualunque cosa succeda, qualunque cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio».
«Te lo prometto, Signore».
Avvenne lo scambio.
Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c'era Sebastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell'eremita. I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva. Finché un giorno...
Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenticò sul gradino la sua borsa piena di monete d'oro. Sebastiano vide, ma conservò il silenzio. Non parlò neppure un'ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne andò. Né aprì bocca quando davanti a lui si inginocchiò un giovane che chiedeva la sua protezione prima di intraprendere un lungo viaggio per mare. Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l'uomo ricco che, credendo che fosse stato il giovane a derubarlo della borsa di monete d'oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.
Si udì allora un grido: «Fermi!».
Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare. Sebastiano spiegò come erano andate le cose. Il ricco corse allora a cercare il povero. Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio. Quando nel santuario non rimase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò.
«Scendi dalla croce. Non sei degno di occupare il mio posto. Non hai saputo stare zitto».
«Ma, Signore» protestò, confuso, Sebastiano. «Dovevo permettere quell'ingiustizia?».
«Tu non sai» rispose il Signore, «che al ricco conveniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un'ingiustizia. Il povero, al contrario, aveva un gran bisogno di quel denaro. Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l'imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare».
Lo scrittore Piero Chiara, poco religioso, era molto amico dello scultore Francesco Messina, che era invece profondamente credente.
Quando Chiara era prossimo alla morte, Messina si recò al suo capezzale e, prendendogli la mano, gli chiese: «Dimmi, Piero, come stai a fede?».
Chiara lo fissò con gli occhi dolenti e rispose: «lo mi fido di te».
Sono le parole più belle che possiamo dire ad un amico: «lo mi fido di te».
È la preghiera più bella che possiamo rivolgere a Dio: «lo mi fido di Te».
provvidenzafiduciafedeabbandonovolontà di Dioprogetto di Dio
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 14/06/2002
RACCONTO
C'era una volta un bramino, un sacerdote dell'India, un po' ingenuo e molto buono. Il religioso si muoveva spesso per andare a celebrare cerimonie religiose in luoghi lontani e isolati.
Un giorno decise di andare a predicare in un villaggio lontano, per raggiungerlo dovette passare attraverso una foresta.
Lungo il cammino incontrò un leone rinchiuso in una gabbia.
Il bramino provò pietà per l'animale e decise di liberarlo, nonostante sapesse che i leoni potevano mangiare gli uomini.
Il leone gli disse: "Ti giuro che non mangerei mai il mio benefattore!" Così il buon bramino lo liberò.
A quel punto l'animale disse: "Come hai potuto pensare che dicessi la verità? Ho fame e ti mangerò!".
Allora il bramino gli chiese: "Prima di mangiarmi, sentiamo cosa ne pensa questo albero!".
L'albero rispose: "Gli uomini sono cattivi. Io offro loro riparo e refrigerio, e loro per tutta ricompensa mi tagliano e mi uccidono. Per me lo puoi
mangiare!".
Il bramino decise di chiedere un altro parere: poco lontano, in una radura, c'era un asino che stava brucando... gli fecero la stessa domanda e l'asino rispose: "Gli uomini? Creature perfide!
Ci sfruttano tutta la vita, e quando siamo vecchi ci abbandonano. Mangialo pure!".
In quell'istante, videro che stava arrivando una volpe: "Chiediamo anche a lei, disse il bramino, e se anche lei dirà di mangiarmi, potrai mangiarmi!".
La volpe guardò i due e disse:
"Voi mi state prendendo in giro: ma come faceva un leone così ciccione a stare in una gabbia così piccola?".
Il leone, un po' alterato, rispose che invece era possibile, e la volpe continuo': "Sì, e io vi credo!
Figuriamoci un po'..., per me mi state prendendo in giro!".
Arrabbiato, il leone entrò nella gabbia e immediatamente la volpe chiuse la porta di ferro e l'assicurò con la sbarra; poi si rivolse al bramino e disse: "Nella vita non basta essere buoni e bravi, ci vuole sempre un po' d'astuzia!".
Quel giorno il bramino non andò al villaggio, ma ritornò a casa a meditare su quello che aveva imparato dall'astuta
volpe.
inviato da Luca Peyron, inserito il 13/06/2002
RACCONTO
C'era una volta, e c'è ancora adesso, un angelo custode.
Era un angelo come tanti altri, ma era molto triste perché era custode e protettore di un bambino così discolo che non si era mai visto. Si chiamava Pino, ma ogni volta che lo chiamavano lui rispondeva: "Chi? Io?", e così tutti iniziarono a chiamarlo Pinocchio.
Pinocchio era svogliato, disubbidiente, qualche volta cattivo e tutte le volte il suo angioletto si disperava e non sapeva più come fare per trattenerlo.
Finché un giorno ebbe un'idea grandiosa. Chiese un colloquio con Dio e quando si trovò alla sua presenza espose la sua proposta. Chiese il permesso di scendere sulla terra e di parlare con Pinocchio sicuro in questo modo di riuscire a convincerlo a cambiare vita. Dio ci pensò un po' su' ed infine accordò all'angioletto il permesso di fare quest'ultimo tentativo, ma con la promessa di non toccare la terra con i piedi, altrimenti non avrebbe più potuto risalire in cielo. L'angioletto allora chiese timidamente come avrebbe fatto a non poggiare i piedi per terra, ma Dio non fece altro che sorridere facendo gli auguri di buona fortuna.
L'angioletto cominciò a girovagare per il cielo volando da una nuvola all'altra pensando a come poter scendere sulla terra mantenendo i piedi separati da essa.
Ad un tratto fu attirato dal vociare di alcuni angeli che stavano giocando su di una nuvola attrezzata con un'altalena. Immediatamente capì che aveva trovato lo strumento adatto per la sua missione.Aiutato dagli altri angioletti riuscì a costruire una altalena con le corde lunghe dal cielo alla terra. L'angioletto si accomodò sul sedile e si raccomandò con gli amici di farlo scendere lentamente e poi di trattenere le corde fino al suo segnale di risalita. Per l'occasione aveva vestito il suo abito migliore, quello delle grandi occasioni, un frac tinta nuvola completo di bastone e cappello.
Cominciò la discesa finché non si trovò sospeso a mezz'aria in attesa di Pinocchio.
E Pinocchio non si fece attendere; incuriosito dal personaggio così strano subito si avvicinò domandando chi fosse e come mai avesse la faccia così triste.
L'angioletto iniziò la sua storia da quando era stato assegnato come suo custode elencando tutti i dispiaceri che aveva passato per colpa sua, e ad ogni nuova avventura aggiungeva un granellino di sabbia sulla piccola bilancia che teneva in mano, la quale pendeva inesorabilmente in un solo senso.
Pinocchio lo ascoltò con attenzione; ma lui era furbo; non era mica un bambino che credeva agli angioletti, e così con una alzata di spalle fece per andarsene. L'angioletto disperato vedendo sfuggire il suo protetto cominciò a chiamarlo dicendo che non poteva scendere dall'altalena in quanto non sarebbe più potuto risalire.
Pinocchio si fermò; tornò indietro, guardò l'angioletto in lacrime e gli disse che gli avrebbe creduto se gli avesse fatto vedere il cielo sopra le nuvole. L'angioletto ci pensò un poco su', poi decise che una vita salvata valeva pure una sgridata del "Capo".
Fece salire Pinocchio sull'altalena e diede ordine ai suoi amici di tirare su. L'altalena non si mosse. L'angioletto gridò più forte; niente; come prima.
Pinocchio stava per prendersi la sua rivincita quando l'angelo cominciò ad arrampicarsi su una delle corde. Svelto come un gatto anche lui lo seguì dall'altra corda ed insieme salirono fino alle nuvole. Quando arrivarono su, videro che gli amici erano tutti addormentati e quindi non avevano udito il comando di risalita.
Ma se loro avevano lasciato le corde dell'altalena, come mai non era caduta sulla terra?
I due si accorsero allora che le corde proseguivano in alto, su un'altra nuvola. Ripresero a salire, arrampicandosi finché non spuntarono dall'altra parte.
Si trovarono di fronte al "Capo" che aveva le corde dell'altalena legate ad un dito e li guardava sorridendo. Pinocchio che era davanti si voltò indietro in direzione dell'angioletto per chiedere spiegazioni e con immenso stupore si accorse che il viso dell'angelo era diventato uguale al suo, come una goccia d'acqua.
A quel punto capì tutto, capì che era tutto vero quello che aveva ascoltato dalla bocca dell'angelo, capì che era di fronte a Dio e capì che di fronte a Dio tutti gli angeli custodi sono visti con lo stesso volto degli uomini di cui sono custodi sulla terra.
Ridiscese trasformato, e cominciò a mettere in pratica quello che tutti gli avevano insegnato e lui non aveva mai seguito.
Un giorno ripassò nel luogo in cui aveva incontrato l'angelo e ci trovò ancora l'altalena. Si sedette e cominciò a dondolarsi, felice di sentirsi cullato dalla mano di Dio. Guardò in alto e vide sopra la nuvola il "suo" angioletto sorridente con in mano la stessa bilancia del primo incontro; questi cominciò a versare la sabbia del piatto su Pinocchio trasformandola in una pioggia di polvere dorata che ricoprì il suo cuore e lo riempì di felicità.
Oggi Pinocchio non ha più bisogno di andare a dondolarsi sull'altalena per sentirsi vicino al Padre che è nei cieli, ma ancora oggi i suoi bambini prima di addormentarsi alla sera vogliono ascoltare la stupenda avventura del loro papà e del "suo" angioletto.
inviato da Luca Peyron, inserito il 11/06/2002
PREGHIERA
La vita è bella Signore,
e voglio coglierla
come si colgono i fiori in un mattino di primavera.
Ma so, mio Signore,
che il fiore nasce
solo alla fine di un lungo inverno,
in cui la morte ha infierito.
Perdonami Signore, se a volte,
non credo abbastanza nella primavera della vita,
perché, troppo spesso,
mi sembra un lungo inverno
che non finisce mai di rimpiangere
le sue foglie morte
o i suoi fiori scomparsi.
Eppure con tutte le mie forze
credo in Te, Signore,
ma urto contro il tuo sepolcro e lo scorgo vuoto.
E quando gli apostoli d'oggi mi dicono
che ti hanno visto vivente
sono come San Tommaso,
ho bisogno di vedere e di toccare.
Dammi abbastanza fede,
ti supplico, Signore,
per aspettare la Primavera,
e nel momento più duro dell'inverno,
per credere alla Pasqua trionfante
oltre il Venerdì di passione. (...)
Signore tu sei risorto!
Dal sepolcro, grazie a Te,
la Vita è uscita trionfante.
La sorgente d'ora in poi non si prosciugherà mai,
Vita nuova, offerta a tutti,
per ricrearci per sempre
figli di un Dio che ci attende,
per le Pasque di ogni giorno
e di una gioia eterna.
Era Pasqua ieri, Signore,
ma è Pasqua anche oggi
ogni volta che accettando di morire in noi stessi,
con Te apriamo una breccia
nella tomba dei nostri cuori,
perché zampilli la Fonte
e scorra la Tua Vita.
E se tanti uomini,
nel loro sforzo umano
purtroppo, non sanno che sei già lì,
lo scopriranno più tardi
alla tua luce.
Era Pasqua ieri,
ma è Pasqua anche oggi,
quando un bambino divide le sue caramelle,
dopo avere in segreto lottato
per non tenersele tutte lui.
Quando marito e moglie si abbracciano di nuovo
dopo una discussione o una penosa rottura.
Quando i ricercatori scoprono
il rimedio che guarisce
e il medico riaccende la vita
che senza di lui si spegneva.
Quando la porte della prigione si aprono,
perché la pena è terminata,
e quando già nella sua cella
il carcerato divide le sigarette con i compagni.
Quando l'uomo dopo un lungo sforzo
trova lavoro
e porta a casa un po' di denaro guadagnato. (...)
Sì, Signore, la vita è bella,
poiché è tuo Padre che l'ha donata.
La vita è bella,
poiché sei Tu che ce l'hai ridata
quando l'avevamo perduta.
La vita è bella,
perché è la tua stessa Vita offerta per noi...
ma dobbiamo farla fiorire.
E per offrirtela ogni sera
devo raccoglierla
sulle strade degli uomini
come quel bimbo che passeggiando,
raccoglie i fiori dei campi
per farne un mazzo
da offrire ai suoi genitori.
Oh sì Signore,
fammi scoprire ogni giorno, sempre di più,
che la vita è bella!
vitapasquarisurrezionesperanzaaltruismodonare
inviato da Mariangela Molari, inserito il 11/06/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù
Il padrone di una grossa fattoria aveva bisogno di un aiutante che badasse alle stalle e al fienile. Come voleva la tradizione, il giorno della festa del paese, cominciò a cercare. Scorse un ragazzo di 16-17 anni che si aggirava tra i baracconi. Era un tipo alto e magro, che non sembrava molto forte.
«Come ti chiami giovanotto?».
«Alfredo, signore».
«Sto cercando qualcuno che voglia lavorare nella mia fattoria.. Ti intendi di lavori agricoli?».
«Sissignore. Io so dormire in una notte ventosa!».
«Che cosa?» chiese il contadino sorpreso.
«Io so dormire in una notte ventosa».
Il contadino scosse la testa e se ne andò.
Nel tardo pomeriggio, incontrò nuovamente Alfredo e gli rifece la proposta. La risposta di Alfredo fu la medesima: «Io so dormire in una notte ventosa!».
Al contadino serviva un aiutante non un giovanotto che si vantava di dormire nelle notti ventose.
Provò ancora a cercare, ma non trovò nessuno disposto a lavorare nella sua fattoria. Così decise di assumere Alfredo che gli ripeté: «Stia tranquillo, padrone, io so dormire in una notte ventosa».
«D'accordo. Vedremo quello che sai fare».
Alfredo lavorò nella fattoria per diverse settimane. Il padrone era molto occupato e non faceva molta attenzione a quello che faceva il giovane.
Poi una notte fu svegliato dal vento. Il vento ululava tra gli alberi, ruggiva giù per i camini, scuoteva le finestre.Il contadino saltò giù dal letto. La bufera avrebbe potuto spalancare le porte della stalla, spaventare cavalli e mucche, sparpagliare il fieno e la paglia, combinare ogni sorta di guai.
Corse a bussare alla porta di Alfredo, ma non ebbe risposta. Bussò più forte.
«Alfredo, alzati! Vieni a darmi una mano, prima che il vento distrugga tutto!».
Ma Alfredo continuò a dormire.
Il contadino non aveva tempo da perdere. Si precipitò giù per le scale, attraversò di corsa l'aia e raggiunse la cascina.
Ed ebbe una bella sorpresa.
Le porte delle stalle erano saldamente chiuse e le finestre erano bloccate. Il fieno e la paglia erano coperti e legati in modo tale da non poter essere soffiati via. I cavalli erano al sicuro, e i maiali e le galline erano quieti. All'esterno il vento soffiava con impeto. Dentro la cascina, gli animali erano calmi e tutto era al sicuro.
D'improvviso il contadino scoppiò in una sonora risata. Aveva capito che cosa intendeva dire Alfredo quando affermava di saper dormire in una notte ventosa.
Il giovane faceva bene il suo lavoro ogni giorno. Si assicurava che tutto fosse a posto. Chiudeva accuratamente porte e finestre e si prendeva cura degli animali. Si preparava alla bufera ogni giorno. Per questo non la temeva più.
Tu, riesci a dormire in questa lunga notte di vento che è la tua vita?
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Quando sei preparato spiritualmente, mentalmente e fisicamente, non hai niente da temere.
Puoi dormire quando il vento soffia per la tua vita?
Il bracciante agricolo nella storia è capace di dormire perché ha messo al sicuro la fattoria contro la tempesta.
Assicuriamoci contro le tempeste della nostra vita trovando equilibrio e sicurezza nella Parola di Dio.
Non c'e bisogno di capire, dobbiamo solo stringere le sue mani per avere pace anche in mezzo alla tempesta.
previdenzaresponsabilitàimpegnoquotidianitàattenzione alle piccole cose
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 11/06/2002
ESPERIENZA
Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione
Venceslaa è ora un'anziana missionaria in Colombia. L'ho conosciuta quand'era una giovane suora e dirigeva alcune opere di una grande comunità. E' stato allora che mi ha insegnato una cosa bellissima sulla messa.
Io la osservavo con ammirazione: aveva molto da fare, ma si muoveva tutto il giorno con uno splendido sorriso e una fine disponibilità. Le cose non andavano sempre bene; anzi, si verificò nella comunità un tristissimo episodio, fortunatamente rimasto a conoscenza di pochi. Essa ne era al corrente, eppure continuava a sorridere e a servire come se nulla fosse. Gliene volli parlare: "Come fa a mantenersi sempre serena, anche nei momenti difficili?". Mi rispose: "E' la Messa, Padre!".
E mi raccontò: "Quando avevo dodici anni, in parrocchia si tenne un ritiro. Il predicatore parlò della messa, spiegò il rito delle gocce d'acqua nel calice, all'offertorio. Le gocce d'acqua sono così insignificanti che si perdono nel vino. Possiamo dire che diventano vino. Quando il sacerdote offre il calice non le menziona più: 'Benedetto sei tu, Signore, per questo vino'... Ora, l'evangelista Giovanni fa capire che il vino ricorda la natura divina e l'acqua la natura umana. Sulla scia di Giovanni, i Padri della Chiesa hanno ricalcato questo simbolismo: il vino ricorda il Verbo Eterno, l'acqua l'umanità assunta - il vino il Redentore, l'acqua l'umanità redenta; il vino Gesù capo, l'acqua gli uomini membra del suo corpo; il vino Gesù, l'acqua l'assemblea e ognuno dei partecipanti. Questa dottrina mi folgorò. Da quel giorno non ho più potuto perdere una sola messa. Abitavo a tre chilometri dalla chiesa, nella campagna. La strada non era asfaltata e a volte poteva essere fangosa. La celebrazione avveniva all'alba, perché contadini e operai potessero parteciparvi prima di andare al lavoro. Ma ogni mattino, col buio, sulla mia bicicletta, dovevo recarmi là: ero troppo interessata ad essere una delle piccole gocce d'acqua. Mi capitava a volte di essere distratta prima o dopo, ma mai durante quel momento. E tutto questo mi sostiene. Le gioie e le difficoltà non mi appartengono e vengono prese da Gesù".
inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002
RACCONTO
T.Spidlìk, Il professore Ulipispirus e altre storie
In mezzo alle montagne coperte di neve c'era una verde vallata con giardini, campi fertili, casette di artigiani. Sulla collina più alta c'era un castello dove abitava il vecchio principe con l'unica figlia, di nome Anima. Il principe e la principessa erano tutti e due buoni e la gente della valle li amava. Perciò tutti diventarono tristi quando si sparse la notizia che la principessa Anima era gravemente malata e non poteva uscire dal castello. Molti diedero consigli e portarono erbe medicinali. I medici arrivarono da paesi lontani. Ma nessun rimedio servì a niente. La principessa Anima peggiorava di giorno in giorno e la gente era sempre più triste.
Un giorno arrivò alla porta del castello una vecchietta sconosciuta. La presero per una mendicante e le diedero del pane in elemosina. Ma la vecchietta disse che voleva vedere la principessa malata. I servi non volevano lasciarla entrare e stavano a discutere con lei sul portone del castello finché il vecchio principe fu attirato dalle voci e uscì a vedere la strana vecchietta. Gli sembrò una buona donna e non trovò nessun motivo per non farla salire nella camera dove la figlia giaceva malata. "Dio mio, com'è dimagrita e com'è triste!", sospirò la vecchietta. "Purtroppo - gemette il principe - sembra che non vi sia più speranza". "Vi lamentate inutilmente - gli sussurrò all'orecchio la vecchietta - la principessa guarirà. Ha una malattia particolare. Non è nel corpo, è nell'anima. Per guarire ha bisogno di vedere il volto più bello che esiste sulla terra". Detto questo, la vecchietta improvvisamente sparì.
Al principe sembrava assai strano questo consiglio. Ma quando l'uomo è nella miseria si attacca a tutto. Così invitò pubblicamente tutte le più belle ragazze e i più bei giovani della sua terra a venire al castello. Il bel viso che guarirà la principessa, diceva il bando dei principe, riceverà una lauta ricompensa. Se si tratterà di un giovane, Anima diventerà sua moglie, nel caso di una ragazza, riceverà in dote la metà dell'eredità. Appena il bando fu pubblicato, tutta la più bella gioventù accorse al castello. I giovani sono tutti belli, e ognuno cercava di persuadersi di essere più bello degli altri. Ma tutto fu inutile. Anima peggiorava di giorno in giorno e diventava l'ombra di se stessa. Il principe piangeva, e nessuno riusciva a consolarlo.
Un pomeriggio la vecchietta sconosciuta comparve di nuovo al portone del castello. Di nuovo i servi non volevano lasciarla entrare e la prendevano in giro chiedendole se per caso credesse d'essere lei la più bella del mondo. Ma il principe anche stavolta fu attirato dal trambusto, accorse all'ingresso e condusse subito la vecchietta al capezzale della principessa. «Dio mio, com'è dimagrita e com'è debole!», esclamò la vecchietta. Il principe scoppiò a piangere. Ma la vecchietta aggiunse: " E' un bene che sia qui, sta morendo". Tutto il castello si riempì del pianto disperato del principe, a cui s'unì quello di tutti i servi e di tutte le guardie. Ma la vecchietta non badò affatto alla gran confusione che le sue parole avevano provocato. Corse al muro della stanza, tolse lo specchio che vi era appeso, s'avvicinò al letto e mise lo specchio davanti al volto agonizzante della principessa Anima. Successe il miracolo. La principessa vide il più bel volto dei mondo: era lei la più bella giovane della terra. Lo sguardo su se stessa la guarì all'istante e il pianto del castello si trasformò in grida di esultanza e di gioia.
Ora domanderete come finisce questa favola. Le favole non sono tutte uguali, e questa è una favola vera. La principessa Anima è l'anima umana, la più bella fra tutte le cose che esistono sulla terra. Purtroppo però non lo sa. Cerca la bellezza fuori di sé e non riesce a trovarla, perciò s'ammala e s'indebolisce. Solo quando riesce a conoscere se stessa e la sua bellezza interiore, allora guarisce e la sua gioia è senza fine. Per questo anche questa favola è senza il solito finale.
inviato da Giuliana Babini, inserito il 01/06/2002
RACCONTO
In principio i colori non esistevano, Dio aveva già creato il mondo, il cielo, il mare, le, montagne, le piante, i fiori e gli animali. Era tutto a posto, ma tutto in bianco e nero. La fantasia del Creatore però non poteva accontentarsi di un mondo così monotono e triste, e dal suo Amore fece esplodere la brillantezza del verde, lo splendore del giallo, la profondità del blu, il calore del rosso e tutti gli altri colori così belli e diversi che è impossibile descriverli.
Appena nati i colori erano pieni di entusiasmo e scorrazzavano felici a prendere posesso del creato, ma le cose non erano per niente semplici: l'azzurro riempì subito il cielo e il giallo colorò il sole, ma presto arrivò il grigio e li scacciò, portando un sacco di nuvole, poi cadde la notte e venne il blu e poi il nero. Il verde andò sulle foglie e sulle piante ma quando arrivò l'autunno dovette cedere il posto al giallo, al marrone, al rosso...
I colori cominciarono a litigare tra di loro, perché non erano capaci di stare insieme, ognuno voleva tutto per sé e non accettava le presenza degli altri: anche gli animali si trovavano a cambiare il colore della pelliccia o delle piume, con strani accostamenti oppure macchie e striature a causa della guerra tra i colori.
Poco alla volta la situazione peggiorò fino a diventare insostenibile: tutto cambiava di colore vorticosamente e non si poteva fissare gli occhi un attimo su qualcosa che subito cambiava di colore. I colori stessi, in origine così vivi e brillanti, avevano perso la loro bellezza e procuravano nausea.
"Ora basta! - disse il Padreterno - non posso lasciare il mondo in questo stato!", e con tutto l'impegno di cui era capace creò l'arcobaleno. Era più bello di qualunque cosa si potesse mai immaginare, e subito i colori smisero la loro folle giostra per fermarsi a contemplare la nuova creatura... poi tutti vollero farne parte, e con immensa meraviglia scoprirono che c'era un posto preciso per ciascuno: il rosso accanto al giallo, in mezzo l'arancione, poi il verde, l'azzurro il blu... con mille altre nuove sfumature una più bella dell'altra!
Era incredibile, ma i colori avevano fatto pace. Dopo la tempesta che aveva sconvolto il creato ora andavano tutti d'accordo, con gioia si cedevano il passo l'un l'altro, si prendevano per mano in accostamenti da sogno, si abbracciavano contenti per creare nuove tinte; il mondo era colorato dall'armonia dell'Amore.
Anche oggi i colori vivono in pace ed armonia; talvolta per ricordare l'origine della loro concordia (o per insegnarla ad altri) si riuniscono festanti nell'arcobaleno: la gioia dei nostri occhi e del nostro cuore, magico ponte che unisce il cielo e la terra, l'anima e il corpo, il passato e il futuro.
armoniapaceconviverecomunitàmulticulturalità
inviato da Mariangela Molari, inserito il 28/05/2002
RACCONTO
Jules Beaulac, (liberamente tradotto)
Arrivava da non si sa dove; lui stesso non se lo ricordava. Aveva camminato tanto e per tanto tempo, a giudicare dal suo sguardo fisso, dalle sue labbra secche e dalla sua barba lunga di più giorni. I suoi vestiti erano neri di polvere e la sua pelle ancor più sporca. Non camminava più, ma ondeggiava di qua e di là. Non aveva più sembianze. Solo lui conosceva il bruciore che gli torceva lo stomaco, tanto aveva fame... i crampi che gli mordevano i polpacci, tanto aveva camminato... il dolore che gli rompeva la testa, tanto il sole gliela aveva picchiata. Non aveva dormito da giorni e notti ormai, aveva mangiato qualcosa a malapena, bevuto un po'...
Ora, davanti a lui un paese: si augurava di trovare un cuore compassionevole. Entrò nel negozio di un fruttivendolo e domandò la "carità" di una arancia o di una mela.
- Hai i soldi?
- No, signore, ma sto morendo di fame...
- Niente soldi, niente frutta! Qui, non si fa credito. Vai a cercare altrove!
Bussò alla porta di una casa privata. La proprietaria, vedendo quella specie di accattone, non aprì la porta... tantomeno il cuore!
Si stava facendo notte, anche per la sua speranza. Come ultimo tentativo andò a suonare all'ufficio parrocchiale... più e più volte. Finalmente, una donna aprì prudentemente la porta e, senza lasciar tempo a parole, gli disse:
- Mi dispiace, signore, non riceviamo più nessuno, l'ora d'ufficio è passata. Se volete qualcosa ripassate domani all'ora indicata sulla targhetta.
Non ebbe il tempo di rispondere che la porta era di già sbarrata.
- Possibile che la carità sia programmata?... - si disse tra sé e sé.
Proprio vicino alla casa parrocchiale c'era una villa con un grande portico ombreggiato e una signora che si dondolava beatamente al fresco:
- Signora, avreste qualcosa da mangiare e un angolo in casa vostra per dormire?
Non aveva ancora finito di domandare, che si sentì folgorare dallo sguardo:
- Sappiate, signore, che io non faccio la carità a tipi come voi! Andate via a lavarvi! E poi andate a lavorare come fan tutti! A parte questo, io ho già le mie buone opere da fare, i miei poveri. Sono una donna buona, io, e una buona cristiana!
Capì che anche lì non avrebbe ottenuto niente. Ma il cervello si arrovellava: ma che razza di cristiani fabbrica questo paese...
Riprese la sua strada trascinando i piedi: era troppo affaticato e... scoraggiato. Non ci sarebbe stato proprio nessuno su questa terra a dargli vitto e alloggio?
Avanzava lentamente, sentiva il cuore stringersi, e le lacrime tiepide rigargli le gote...
All'improvviso si sentì chiamare:
- Ehi, tu! Come sei conciato! Si direbbe che hai camminato per tutta la terra, senza mangiare, senza lavarti e senza riposarti! Mi fai un po' pena! Dai, fermati, entra da me e lasciati vedere!
Non credeva alle sue orecchie. La speranza gli diede la forza di alzare gli occhi e guardare chi lo aveva apostrofato: Dio mio, chi poteva essere? E adesso, che fare?...
Capelli neri, ricci come il mantello di un montone, maschera di cipria, trucco pesante, mascara agli occhi... labbra laccate di rosso, una camicetta abbondantemente scollata e una mini-minigonna!
Capì subito che aveva a che fare con la "maddalena" del villaggio. Senza nemmeno rendersi conto, si ritrovò a tavola, davanti ad una minestra e ad una bistecca saporita mentre dalla stanza gli arrivavano effluvi di incenso e chissà quanti altri profumi e unguenti: come era bello mangiare dopo così tanto tempo! Appena finito, si ritrovò sapone e asciugamano in mano e sentì gorgogliare l'acqua tiepida nella vasca da bagno. Ah! che bello sentirsi finalmente pulito!
Lei gli infilò una camiciola uscita da chissà dove e lo mandò a dormire dopo avergli preparato una tisana. Sprofondò in un sonno di piombo.
Mentre dormiva, la "Maddalena" si accese la ventesima sigaretta e vuotò il sesto bicchiere di cognac... In lei, pensieri diversi la paralizzavano per la sorpresa:
- Poveretto, faceva davvero pena! Non lo potevo lasciar passare, bisognava che facessi qualcosa... Ho dato quello che potevo. Tu, Gesù, che dall'alto del tuo paradiso sai tutto, hai visto quello che è successo questa sera. Spero che te lo ricorderai quando alla fine della vita, sarò davanti a te... Certo, io non vado alla Messa: i devoti si scandalizzerebbero. Le mie "buone opere" non sono nel catalogo delle "signore perbene"! I benpensanti non passano davanti alla mia casa, molti entrano da dietro! Però tu sai che in fondo in fondo ti voglio bene, e io so che tu mi ami, come hai amato una come me che ti ha asciugato i piedi tanto tempo fa. So che un giorno tu mi cambierai cuore e vita. Questa sera ho fatto solo della carità ad un poveruomo: l'ho nutrito, lavato, ospitato ed ascoltato; ebbene, buon Gesù è a te e per te che l'ho fatto!
Tirò l'ultimo sbuffo di fumo di sigaretta dalle narici, scolò il bicchiere già vuoto e si alzò per andare a letto: l'animo era tranquillo come non mai. Si addormentò del sonno dei giusti.
La sua era stata veramente una buona giornata!
Mt 25,35: "Ero forestiero e mi avete ospitato".
Eb 13,2: "Non chiudere la tua porta allo straniero perché rischi di chiuderla all'Angelo del Signore".
Gv 21,7: "Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «E' il Signore!»".
caritàtestimonianzaessere cristiani
inviato da Rovaris Pinuccio, inserito il 28/05/2002
RACCONTO
Mark Eklund era in terza elementare e io insegnavo al Saint Mary's School a Morris, Minnesota. Ero affezionata a tutti e 34 i miei studenti, ma Mark era uno su un milione. Molto ordinato e preciso in apparenza, ma aveva quell'atteggiamento di essere-felice-di-vivere (happy-to-be-alive attitude) che faceva perfino la sua occasionale birbanteria deliziosa.
Mark parlava incessantemente. Dovevo ricordargli sempre che parlare senza permesso non era accettabile. Ciò che mi impressionava tanto, però, era la sua sincera risposta ogni volta che io dovevo correggerlo per cattivo comportamento: "Grazie per avermi corretto, Sorella!". All'inizio non sapevo cosa fare, ma dopo poco mi abituai a sentirlo molte volte al giorno.
Una mattina la mia pazienza era diventata sottile quando Mark parlò una volta di troppo, ed io commisi un errore da insegnante principiante. Guardai Mark e dissi, "Se dici ancora una parola, ti chiuderò le labbra con il nastro"! Passarono dieci secondi quando Chuck rivelò: "Mark sta parlando ancora." Io non avevo chiesto a nessuno degli studenti di aiutarmi a guardare Mark, ma dovetti punirlo davanti alla classe.
Ricordo la scena come se fosse successa questa mattina. Camminai verso la mia scrivania, aprii intenzionalmente il mio cassetto e tirai fuori un rotolo di nastro adesivo. Senza dire una parola, mi avvicinai al banco di Mark, strappai due pezzi di nastro e feci con essi una grande X sulle sue labbra. Poi tornai all'inizio della stanza. Mentre lanciai un'occhiata per vedere cosa stava facendo, lui mi strizzò l'occhio. Ciò fece! Io iniziai a ridere. La classe si rallegrò e applaudì. Tornai al banco di Mark, tolsi il nastro, e feci spallucce. Le sue prime parole furono: "Grazie per avermi corretto, Sorella."
Alla fine dell'anno, fui richiesta per insegnare alla classe di matematica della scuola media. Gli anni volarono, e presto seppi che Mark era ancora nella mia classe. Era più carino che mai e cosi educato. Poiché lui doveva mettere in lista attentamente le mie istruzioni sulla "nuova matematica", non parlò cosi tanto come aveva fatto in terza. Un venerdì le cose non andavano molto bene. Avevamo lavorato duramente su un nuovo concetto tutta la settimana e avevo la sensazione che gli studenti fossero accigliati, frustrati con se stessi e nervosi gli uni con gli altri. Dovevo fermare questo prima che mi sfuggisse di mano.
Così chiesi a loro di fare una lista con i nomi degli altri studenti nella stanza su due fogli di carta, lasciando uno spazio tra ogni nome. Poi dissi loro di pensare alla cosa più simpatica che potessero dire riguardo ad ognuno dei loro compagni di classe e di scriverla. Per finire il compito, la classe prese il resto del tempo e quando gli studenti lasciarono la stanza, ognuno mi passò il foglio. Charlie sorrise. Mark disse: "Grazie per avermi insegnato, Sorella. Buon fine settimana". Quel sabato annotai il nome di ogni studente su un foglio di carta separato, e misi in lista ciò che ognuno aveva detto di quella persona. Il lunedì diedi ad ogni studente il suo o la sua lista.
Dopo poco, l'intera classe stava sorridendo.
"Davvero?", sentii bisbigliato.
"Non sapevo di significare qualcosa per qualcuno!".
"Non sapevo di piacere cosi tanto agli altri".
Nessuno menzionò mai quei fogli ancora in classe.
Non sapevo se loro li avessero discussi dopo la classe o con i loro genitori, ma ciò non importava.
L'esercizio aveva raggiunto il suo scopo. Gli studenti erano ancora felici con se stessi e gli uni con gli altri. Il gruppo di studenti si era rimesso in marcia.
Diversi anni più tardi, dopo che tornai dalle mie vacanze, i miei genitori mi vennero incontro all'aeroporto. Quando stavamo guidando verso casa, mia Madre mi chiese le solite domande sulla gita, sul tempo, le mie esperienze in generale. Ci fu una pausa nella conversazione. Mia madre diede a mio padre un'occhiata di lato e disse semplicemente: "Papà?". Mio padre si schiarì la gola come faceva di solito prima di qualcosa importante. "Gli Eklunds hanno chiamato la notte scorsa", iniziò. "Davvero?" dissi. "Non li avevo sentiti per anni. Mark come sta?". Mio Padre rispose in modo sommesso: "Mark è stato ucciso in Vietnam", disse. "I funerali sono domani, e i suoi genitori vorrebbero che tu fossi presente". Da quel giorno posso ancora indicare il punto esatto sulla I-494 dove mio Padre mi disse di Mark.
Non avevo mai visto prima un militare in una bara militare. Mark appariva così carino, così maturo. Tutto ciò che potevo pensare in quel momento era: "Mark, darei tutto il nastro adesivo del mondo se solo tu potessi parlarmi". La chiesa era affollata di amici di Mark. La sorella di Chuck canto "L'inno di Guerra della Repubblica". Perché doveva piovere nel giorno dei funerali? Era già difficile così! Il pastore disse le solite preghiere e il trombettiere suonò i colpi. Uno dopo l'altro quelli che amavano Mark si misero in cammino verso la bara e la bagnarono con l'acqua santa. Io fui l'ultima a benedire la bara.
Mentre stavo in piedi, uno dei soldati che avevano portato la bara salì verso di me.
"Era lei l'insegnante di matematica di Mark?" mi chiese.
Io feci cenno di sì con il capo mentre continuavo a fissare la bara.
"Mark ha parlato molto di lei", lui disse.
Dopo il funerale, quasi tutti i vecchi compagni di classe di Mark si diressero alla fattoria di Chuck per il pranzo. La madre e il padre di Mark erano lì; ovviamente mi aspettavano.
"Vogliamo mostrarle qualcosa", suo padre disse, estraendo un portafoglio dalla sua tasca. "Hanno trovato questo su Mark quando fu ucciso. Pensiamo che lei possa riconoscerlo".
Aprendo il portafoglio, con attenzione tolse due pezzi logori di carta di taccuini che erano stati evidentemente legati, piegati e ripiegati molte volte. Sapevo senza guardare che i fogli erano quelli sui quali avevo messo in lista tutte le cose buone che ogni compagno di classe di Mark aveva detto su di lui.
"Grazie tanto per aver fatto ciò", disse la madre di Mark. "Come può vedere, Mark lo ha apprezzato molto".
I compagni di classe di Mark iniziarono a radunarsi intorno a noi.
Charlie sorrise in modo piuttosto imbarazzato e disse: "Io ho ancora la mia lista. E' nel primo cassetto della mia scrivania a casa".
La moglie di Chuck disse: "Chuck mi ha chiesto di mettere la sua nell'album del matrimonio".
"Anch'io ho la mia", disse Marilyn. "E' nel mio diario."
Poi Vicki, un'altra compagna di classe, raggiunse la sua borsetta, prese il suo portafogli e mostrò la sua consumata e logora lista del gruppo. "Io porto questa con me sempre", disse Vicki senza battere ciglio.
"Penso che tutti noi abbiamo salvato la nostra lista".
Qui fu quando alla fine mi sedetti e piansi.
Piansi per Mark e per tutti i suoi amici che non lo avrebbero mai più visto.
La densità delle persone nella società è cosi spessa che dimentichiamo che la vita finirà un giorno. E non sappiamo quando quel giorno sarà. Così per favore, dì alle persone che ami e a cui vuoi bene che sono molto speciali ed importanti. Diglielo, prima che sia troppo tardi.
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La storia dà anche l'idea per un'attività molto carina che si può fare con ragazzi ed adolescenti: come ha fatto l'insegnante di Mark, fate scrivere ad ognuno qualcosa di simpatico o di bello su ognuno degli altri componenti del gruppo, e poi date ad ognuno i suoi foglietti, oppure fateli leggere tutti ad alta voce.
E' un'attività che può andare molto bene sopratutto con gli adolescenti (ma può andare anche con i ragazzi) in quanto spesso hanno "crisi d'identità", o comunque non hanno una sufficiente autostima: il sentirsi dire cose simpatiche o comunque belle sul proprio conto può essere una buona iniezione di fiducia ed autostima.
Inoltre, aiuta tutti a guardare ad ognuno degli altri componenti del gruppo in modo positivo, e questo è ottimo per due motivi: innanzitutto fa fare lo sforzo di pensare a tutti gli altri, quando invece spesso qualcuno è messo da parte e non lo si considera mai; in secondo luogo, fa pensare agli altri in modo positivo, e anche questa è una cosa molto buona.
amiciziaamoreimportanza del singolocomplimentibontàconoscenzapositivopositività
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 24/05/2002
RACCONTO
C'era una volta un piccolo baco, appoggiato ad un ramo che viveva una vita tranquilla, chiuso nel suo piccolo mondo di seta, sempre al caldo. Il baco guardava con ammirazione il mondo esterno, la luce del giorno e i bagliori delle stelle di notte e avrebbe voluto sapere cosa c'era là, fuori dal suo piccolo mondo; ma non riusciva ad oltrepassare la barriera dei fili di seta e così era costretto a vivere lì, con tutti i comfort che desiderava ma anche con una voglia incredibile di scoprire cosa c'era oltre. Ciò che il baco non poteva sapere era che un giorno avrebbe avuto quella possibilità ma solo quando sarebbe stato pronto per coglierla. Ogni giorno si sforzava immensamente per rompere la seta e sentire l'aria fresca sul suo volto ma ogni sera si rimetteva a letto esausto per lo sforzo. Non vedeva la tela rompersi e scioccamente pensava che tutti i suoi sforzi fossero inutili. Poi un giorno a poco a poco riuscì a fare un primo buchino nella tela dei fili di seta. Il cuore gli si riempì di emozione e gioia. E quel piccolo risultato lo portò a incrementare ancora di più i suoi sforzi. Ormai sentiva che era pronto, sentiva che in lui qualcosa era cambiato ma soprattutto avvertiva ancora di più il desiderio di scoprire il mondo.
La mattina dopo completò la sua opera: riuscì ad allargare il buco e ad uscire dalla sua casetta. Si appoggiò delicatamente sul ramo e rimase per qualche secondo ad ammirare il paesaggio attorno a sé, a sentire l'aria fresca nei suoi polmoni e il tepore del sole sul suo viso. Iniziò a muovere qualche passo per sgranchirsi dopo la fatica ma sentiva un peso enorme dietro la schiena e non capiva cosa fosse. Tutto d'un tratto arrivò un improvvisa folata di vento che gli fece perdere l'equilibrio e inesorabilmente scivolare dal ramo verso il vuoto. Credeva che ormai fosse la fine: ciò che non sapeva era che il peso sulla schiena erano le sue stupende ali e che tutti gli sforzi compiuti per rompere la tela non erano stati inutili bensì necessari a irrobustirle e permettergli di volare verso il suo obiettivo, sostenendolo sempre, sia nel vento, che nella tempesta che con il sole.
Il baco era diventato una stupenda farfalla.
crocesofferenzasacrificioimpegno
inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002
TESTO
Solo chi perdona può parlare di pace e teorizzare sulla non violenza.
Non vorrei essere frainteso.
E' vero: la pace è conquista, cammino, impegno. Ma sarebbe un brutto guaio se qualcuno pensasse che essa sia semplicemente il frutto dei nostri sforzi umani o il risultato del nostro volontarismo titanico o una merce elaborata nelle nostre cancellerie diplomatiche o un prodotto costruito nei nostri cantieri popolari.
La pace è soprattutto dono che viene dall'alto. E' la strenna pasquale che Gesù ha fatto alla terra. È il regalo di nozze che ha preparato per la sua sposa. Con tanto di marchio di fabbrica: "Made in Cielo".
Qual è allora il ruolo degli operatori di pace? Quello di non respingere il dono al mittente. E' in particolare, quello di rendere attuale e fruibile per tutti questo regalo di Dio. Mi spiego con immagini. Gesù è sceso sulla terra tormentata dalla sete. Con la sua croce, piantata sul Calvario come una trivella, ha scavato un pozzo d'acqua freschissima. Una volta risorto, ha consegnato questo pozzo agli uomini dicendo: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace". Ora tocca a noi
attingere l'acqua della pace per dissetare la terra. A noi, il compito di farla venire in superficie, di canalizzarla, di proteggerla dagli inquinamenti, di farla giungere a tutti.
La pace, dunque, è dono. Anzi, è " per-dono". Un dono "per". Un dono moltiplicato. Un dono di Dio che, quando giunge al destinatario, deve portare anche il "con-dono" del fratello.
E qui il discorso si fa concreto. Come possiamo dire parole di pace, se non sappiamo perdonare? Con quale coraggio pretendiamo che siano credibili le nostre scelte di pace a livello di massimi sistemi, quando nel nostro entroterra personale prevale la legge del taglione? Come possiamo rifiutare la "deterrenza" e respingere la logica del missile per missile, se nella nostra vita pratichiamo gli schemi dell'"occhio per occhio e dente per dente"? Quali liberazioni pasquali vogliamo annunciare, se siamo protagonisti di stupide smanie di rivincita, di deprimenti vendette familiari, di squallide faide di Comune? Chi volete che ci ascolti quando facciamo comizi sulla pace, se nel nostro piccolo guscio domestico siamo schiavi dell'ideologia del nemico?
Solo chi perdona può parlare di pace. E a nessuno è lecito teorizzare sulla non violenza o ragionare di dialogo tra popoli o maledire sinceramente la guerra, se non è disposto a quel disarmo unilaterale e incondizionato che si chiama "perdono".
perdonoamare i nemicipaceconflitti
inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002
TESTO
229. Le cose che ho imparato nella vita 1
Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:
Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. E per questo, bisognerà che tu la perdoni.
Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
Che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
Che la pazienza richiede molta pratica.
Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.
Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.
Forse Dio vuole che incontriamo un po' di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così quando finalmente la incontriamo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
La miglior specie d'amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire un parola, e quando vai via senti come se è stata la miglior conversazione mai avuta.
E' vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un'ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole un vita per dimenticarlo.
Non cercare le apparenze, possono ingannare.
Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante un giornataccia.
Trova quello che fa sorridere il tuo cuore. Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
La felicità è ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l'importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.
L'amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un thé.
Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride e ognuno intorno a te pianga.
inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002
TESTO
Credo nell'amore perché in sé racchiude tutto il significato della nostra vita: nasciamo per amore, cresciamo nell'amore e siamo chiamati ad amare, in condivisione e comunione completa con i nostri fratelli, perché elevato fino a Dio l'amore può andare oltre i limiti dell'uomo.
Credo nell'altro perché è in chi mi sta accanto che ritrovo il tuo volto.
Credo nell'amicizia perché riconosco in essa un importante punto di riferimento che mi dà sicurezza, fiducia in me e negli altri, insegnandomi a crescere e a maturare.
Credo nella vita come grande dono che Dio ci ha concesso e con il quale possiamo realizzare quel progetto che lui ha posto in noi.
Credo nella preghiera perché ci permette di entrare in intimità con un amico sempre disponibile ad ascoltarci e confortarci; perché ci consente di elevarci fino a lui dimenticando tutto ciò che ci preoccupa ed affanna e perché in essa ritroviamo la forza per fare della nostra vita una grande esperienza d'amore.
Credo nell'intelligenza perché ci permette di affrontare con consapevolezza e responsabilità le scelte della vita.
Credo nella sincerità perché rende più puri e veri i nostri sentimenti.
Credo nella fiducia perché ci consente di non rimanere mai soli.
Credo nella felicità perché ci rende vivi e capaci di donare con spontaneità e senza pretese.
Credo nel rispetto poiché non siamo nati per giudicare o condannare, ma per imparare a crescere nella scoperta del grande valore che l'altro rappresenta per noi.
Credo nella vita eterna perché consente di superare il limite umano, la materialità, dando un senso ancora più profondo alla vita terrena.
Credo nella semplicità perché Dio ha scelto la semplicità del pane e del vino per essere sempre presente e vivo in mezzo a noi.
Credo nella conversione perché solo attraverso essa posso liberare la mia anima ed avvicinarmi a Dio privo di condizionamenti e nel totale appagamento.
Credo nel silenzio perché ci consente di superare la confusione delle parole, di riflettere, di capire, ascoltare e confortare meglio di quanto possa fare qualunque parola o qualunque orecchio.
Credo nella musica come modo di comunicare universale, diretto, spontaneo; la musica ci parla della nostra vita e ci dà l'opportunità di riflettere.
Credo nella volontà perché è grazie al desiderio e allo stimolo che Dio suscita nel cuore dell'uomo che egli riesce ad affrontare di tutto per poter, alla fine, raggiungere il suo scopo e trovare la piena felicità in esso.
Credo nella Verità poiché tutti noi abbiamo bisogno di sapere la verità; l'uomo ha sete di verità.
Credo nella gratuità perché nessuna ricompensa è più grande della gioia che sa donarci la felicità espressa dal sorriso di un volto amico.
Credo nella Provvidenza perché con essa in noi nulla ci può mancare anche quando non abbiamo niente.
Credo nel camposcuola come stimolo, spinta verso un cammino di crescita che ci fa forti nella fede e ci rende testimoni della Tua misteriosa e preziosa presenza.
Credo nella perfetta letizia, nel dono di Dio di perdonare e sentirsi perdonati. Un amore senza misura che riempie il cuore di gioia e dà il coraggio di affrontare la vita.
Credo nella libertà di essere se stessi perché ci rende unici, veri, autentici e liberi.
Credo nella pace perché è nella pace che si costruisce un mondo fatto d'amore, di felicità e di quella serenità che ci rende liberi pellegrini verso te, Signore.
Credo nel creato perché ovunque Lo sento: nelle montagne, nel cielo, nelle nuvole, nelle stelle, nel sole, nel vento... Tutto ci parla di Lui.
Credo in tutto questo perché credo in te.
inviato da Francesco G., inserito il 21/05/2002
TESTO
"Mi ami tu?": è l'ultima domanda di Gesù a Pietro, Pietro era triste al pensiero di aver rinnegato tre volte Gesù, prima della sua crocifissione. Ed ecco il Risorto sta dinanzi a lui. Gesù non lo condanna per il suo rinnegamento. Non prende l'atteggiamento del forte. Non tira sulla corda della cattiva coscienza già attaccata al collo di Pietro.
Nel Cristo vi sono viscere d'umanità: Lui pure durante la sua vita terrena ha percorso cammini d'oscurità.
A Pietro, Cristo dice solo queste tre parole: "Mi ami tu?" e Pietro risponde: "Signore, tu sai che ti amo". Una seconda volta Gesù riprende: "MI ami tu?". E Pietro di nuovo: "Ma lo sai che ti amo". Una terza volta Gesù insiste: "Mi ami più di tutti costoro?" E Pietro scosso: "Signore, tu conosci ogni cosa, tu sai che ti amo":
Da quel giorno ad ogni essere umano sulla terra, il Cristo instancabilmente domanda: "Mi ami tu?".
Vi sono giorno in cui ci turiamo le orecchie: la domanda ci è insopportabile. Essa è intollerabile per colui che non ha mai sperimentato l'amore umano, per chi esperimenta solo l'abbandono, o la ferita ricevuta nell'innocenza della sua infanzia.
Essa è intollerabile per noi tutti quando ci rivela quella parte di solitudine che nessuna intimità umana può colmare, quella parte di solitudine nella quale Dio ci aspetta. E quando la rivolta si esaspera, la domanda ci appare come una condanna poiché per amare non basta un atto della volontà.
Lo sappiamo abbastanza? Il Cristo non obbliga mai ad amarlo. Ma Lui, il Vivente, rimane al fianco di ciascuno, come un povero, come un oscuro. E' presente anche negli eventi più squallidi, nella fragilità dell'esistenza. Il suo amore è presenza non d'un solo istante ma di sempre. Quell'amore d'eternità apre un aldilà al nostro vivere. Senza quell'altrove, senza quell'aldilà, l'uomo non ha più speranza... e svanisce il gusto di procedere. Di fronte a quell'amore d'eternità, lo sentiamo, la nostra risposta concreta non può essere fuggitiva, per un periodo soltanto, con la possibilità di ritornare sulle nostre decisioni in seguito. La nostra risposta non può neppure essere uno sforzo della volontà; taluni vi si infrangerebbero. Essa è innanzitutto un abbandonarsi.
Rimanere dinanzi a Lui, con o senza parole, significa sapere dove riposare il nostro cuore, significa rispondergli da poveri. In questo consiste la molla segreta dell'esistenza, il rischio del Vangelo.
"Anche se talvolta io non so più se ti amo o no, o Cristo, tu sai tutto, tu sai che ti amo".
Grandi felicità sono offerte a colui che corre il rischio di un tale amore, senza calcolarne troppo le conseguenze. Quando ricerchiamo in primo luogo la felicità per noi stessi, essa a breve o lunga scadenza ci abbandona. Quanto più ardentemente la inseguiamo, tanto più lontano se ne fugge da noi.
Cercatore appassionato del suo amore d'eternità, chiunque tu sia saprai dove riposare il tuo cuore? Attraverso le tue stesse ferite, egli apre la porta della pienezza: la lode del suo amore. Abbandonati, donati. In questo consiste la guarigione delle ferite, e non solo delle tue: già, in Lui, ci guariamo reciprocamente.
felicitàgioiapeccatoconversioneamore di Dio
inviato da Mariangela Molari, inserito il 10/05/2002
RACCONTO
dagli Apoftegmi dei Padri del deserto
C'era un monaco che viveva da parecchi anni in un monastero: giovane esuberante e facoltoso, aveva lasciato ogni cosa per diventare santo.
Prima aveva le mani come l'avorio, ora incallite come le squame dei coccodrilli; prima il suo volto era liscio e rasato, la sua capigliatura lucida di unguenti, la sua toga adorna di fermagli d'argento: ora, tosato come una pecora, portava sotto la tonaca un duro cilicio. Aveva sì domato la carne, ma una passione ancora resisteva tenace: la tendenza ad adirarsi.
Se un fratello nel mietere lasciava indietro una spiga, subito gli strappava di mano la falce con gesto iracondo. Se al vicino di stallo sfuggiva una nota falsa nel coro, arrotava i denti e gli allungava una gomitata.
Un giorno si presentò all'Abate: "Padre - gli disse - ben vedo che non sono fatto per vivere con i fratelli: trovo in loro continue occasioni di peccato. Io mi figuravo che i monaci fossero tutti perfetti, invece mi sono d'inciampo. Mi ritirerò nel deserto, al di là del fiume. Laggiù, solo con Dio, non avrò più occasione di adirarmi". E trascurando gli ammonimenti dell'Abate, prese con sé una brocca per attingere acqua dal fiume e se ne partì.
Sdraiato sulla tiepida arena, dormì il più bel sonno di vita sua. Poi cantò i suoi dodici salmi senza una nota stonata, e pregò con fervore. Com'era quieto e felice in quella solitudine, in quel silenzio!
Ora occorreva andare al fiume per attingere acqua. Andò e tornò, salmeggiando quasi come in estasi. Ma - che è che non è - la brocca si rovesciò, e giù tutta l'acqua a correre per l'arena. "Pazienza!" disse il monaco, e rifece la via andata e ritorno, quieto come l'olio, meditando sulla morte.
Posò a terra la brocca, e di nuovo quella gli sfuggì di mano. Vi rimase un po' di umidore, ma dentro neppure una goccia. "Maledizione! Cos'è mai questo? Il diavolo mi vuole tentare. Orsù, pazienza!". Trafelato, riprende la via, attinge e fa ritorno. E la brocca rotola a terra una terza volta. "Maledetta sii tu! Vattene al diavolo!". Una pedata furiosa e la brocca va in cento pezzi.
Sferra calci ai frantumi, e solleva un polverone di sabbia. Il povero giovane ha capito, e torna piangendo al monastero. "Padre mio, mea culpa!" dice all'Abate. "Ho rotto la brocca a furia di calci: ecco qua i cocci. La causa delle mie collere non è la compagnia dei fratelli: il nemico (e si picchiava il petto) è qui dentro".
inserito il 08/05/2002
RACCONTO
Un formicaio ai piedi di un vecchio abete. Milioni di formiche nere corrono senza sosta, perfettamente organizzate. Sezione trasporto aghi e foglie; sezione ricerca semi, insetti, larve; sezione allevamento e cura piccoli; comitato difesa dagli assalti...
Un giorno la formica n. 49.783.511 si fermò. Ansimando s'appoggiò al lungo ago che stava trascinando e alzò lo sguardo. Si sentiva svenire... abituata a scansare i fili d'erba, i sassolini, i bruchi, ora i suoi occhi si smarrivano nell'azzurro immenso del cielo, il cuore le scoppiava d'emozione guardando il grande tronco, i rami ordinati, il verde brillante.
"N. 49.783.511 - gridò il capo settore - gli altri sgobbano e tu poltrisci! T'assegno un quarto d'ora supplementare!".
La sera la formica n. 49.783.511 fece il recupero di lavoro. Poi mentre tutte s'infilavano nelle tane, restò fuori e scoprì le stelle. Un incanto!
Tutta la notte ebbe gli occhi pieni di luce. Da allora i turni supplementari aumentavano, ma lei non si preoccupava. Diceva a tutti: "Alzate gli occhi. c'è qualcosa di grande sopra di noi, non possiamo portare solo larve e semi. Non avete mai guardato nemmeno l'abete!".
La prendevano in giro: "Tu guardi e guardi, ma come riempiamo le riserve di cibo? Chi ripara la casa quando piove?".
La formica n. 49.783.511 lavorava, s'impegnava, rendeva bello il suo formicaio. Ma brontolavano lo stesso: "Se guardare il cielo fosse utile, dovresti essere più brava di noi, invece sei anche tu come noi. Le stelle non servono a niente".
Che volete, per capire che cos'è guardare il cielo bisogna provare, spiegare non si può.
Hai mai provato a spiegare la preghiera? C'è sempre un tizio pieno di "saggezza", che ti risponde: "uomo n. 789.451.331 smettila. Bisogna studiare, lavorare, produrre; fare sport per mantenersi sani; bisogna cambiare il mondo, avere mentalità scientifica; bisogna divertirsi, essere moderni...".
Il formicaio umano va avanti. Io credo d'essere importante perché porto aghi d'abete, o rivoluzionario perché faccio confusione.
E non ho il coraggio di guardare il cielo.
senso della vitaricerca di sensovitastuporeinteriorità
inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002
RACCONTO
Gianni Rodari, Favole al telefono
C'era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.
Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.
Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c'era sempre qualcuno per la strada.
Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c'era sempre qualcuno spaventato.
Figurarsi se capitava un forestiero. Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.
A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po' sordi, e tra loro parlavano pochissimo. Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.
Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare. E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani. Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di "bau bau" che faceva venire la pelle d'oca. E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.
Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.
Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi. I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro. Domandò una informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando. Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
"Ho capito, - concluse Giovannino - E' un'epidemia".
Si fece ricevere dal sindaco e gli disse: "Io un rimedio sicuro ce l'avrei. Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate. Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili. Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo".
Il sindaco gli rispose: "Bau! Bau!".
"Ho capito, - disse Giovannino, - il peggior malato è quello che crede di essere sano".
E se ne andò per i fatti suoi.
Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.
comunitàlitigareconvivereconflittopacecomunione
inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002
PREGHIERA
235. Parlami d'Amore (versione 1) 2
L'Amore supera l'amore, mio caro.
L'amore è volo d'uccello nel cielo infinito.
Ma il volo dell'uccello
è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne,
più che le sue ali innamorate, corteggiate dal vento,
è più che l'indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali
e il corpo in pace plana nella luce.
L'amore è canto di violino che canta il canto del mondo.
Ma il canto del violino
è più che il legno e l'archetto, inerti e solitari,
più che le note in abito da sera che danzano sulla partitura,
e più che le dita dell'artista che corrono sulle corde.
L'amore è luce, per le strade umane.
Ma la luce che si dà
è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni,
più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi,
e più che mille pennelli d seta che colorano i volti.
L'amore è fiume d'argento che scorre verso il mare.
Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta,
è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene,
più che l'acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto,
e più che l'uomo sulla riva che getta l'esca e ne estrae i frutti.
L'amore è veliero che sulle acque fende le onde.
Ma la corsa del veliero
è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte,
più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento,
è più che le mani del marinaio afferrate al timone,
mentre instancabile insegue la sua selvaggina.
...l'Amore supera l'amore.
L'Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l'altrove.
L'amore è mente d'uomo che conosce e riconosce il soffio,
è libertà d'uomo che tutto si volge verso di Lui.
L'amore è consenso dell'uomo al soffio che invita,
è cuore dell'uomo che si apre per accoglierlo e donarLo,
è corpo dell'uomo che si raccoglie, disponibile,
perché da Lui abitato, da Lui invaso
prenda il volo verso gli altri,
verso... l'altro,
e perché infine
ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi
ciò che era separato diventi uno
e che dall'uno sgorghi una nuova vita.
Clicca qui per un altro testo di Michel Quoist sullo stesso tema.
amoreinnamoramentoamaredonarsigratuitàlibertàcrescerematurità
inviato da Mariangela Molari, inserito il 08/05/2002
PREGHIERA
David Maria Turoldo, Il sesto angelo, Mondadori, 1976
Tempo del primo avvento
tempo del secondo avvento
sempre tempo d'avvento:
esistenza, condizione
d'esilio e di rimpianto.
Anche il grano attende
anche l'albero attende
attendono anche le pietre
tutta la creazione attende.
Tempo del concepimento
di un Dio che ha sempre da nascere.
(Quando per la donna è giunta la sua ora
è in grande pressura
ma poi tutta la sua tristezza
si muterà in gaudio
perché è nato al mondo un uomo.)
Questo è il vero lungo inverno del mondo:
Avvento, tempo del desiderio
tempo di nostalgia e ricordi
(paradiso lontano e impossibile!)
Avvento, tempo di solitudine
e tenerezza e speranza.
Oh, se sperassimo tutti insieme
tutti la stessa speranza
e intensamente
ferocemente sperassimo
sperassimo con le pietre
e gli alberi e il grano sotto la neve
e gridessimo con la carne e il sangue
con gli occhi e le mani e il sangue;
sperassimo con tutte le viscere
con tutta la mente e il cuore
Lui solo sperassimo;
oh se sperassimo tutti insieme
con tutte le cose
sperassimo Lui solamente
desiderio dell'intera creazione;
e sperassimo con tutti i disperati
con tutti i carcerati
come i minatori quando escono
dalle viscere della terra,
sperassimo con la forza cieca
del morente che non vuol morire,
come l'innocente dopo il processo
in attesa della sentenza,
oppure con il condannato
avanti il plotone d'esecuzione
sicuro che i fucili non spareranno;
se sperassimo come l'amante
che ha l'amore lontano
e tutti insieme sperassimo,
a un punto solo
tutta la terra uomini
e ogni essere vivente
sperasse con noi
e foreste e fiumi e oceani,
la terra fosse un solo
oceano di speranza
e la speranza avesse una voce sola
un boato come quello del mare,
e tutti i fanciulli e quanti
non hanno favella
per prodigio
a un punto convenuto
tutti insieme
affamati malati disperati,
e quanti non hanno fede
ma ugualmente abbiano speranza
e con noi gridassero
astri e pietre,
purché di nuovo un silenzio altissimo
- il silenzio delle origini -
prima fasci la terra intera
e la notte sia al suo vertice;
quando ormai ogni motore riposi
e sia ucciso ogni rumore
ogni parola uccisa
- finito questo vaniloquio! -
e un silenzio mai prima udito
(anche il vento faccia silenzio
anche il mare abbia un attimo di silenzio,
un attimo che sarà la sospensione del mondo),
quando si farà questo
disperato silenzio
e stringerà il cuore della terra
e noi finalmente in quell'attimo dicessimo
quest'unica parola
perché delusi di ogni altra attesa
disperati di ogni altra speranza,
quando appunto così disperati
sperassimo e urlassimo
(ma tutti insieme
e a quel punto convenuti)
certi che non vale chiedere più nulla
ma solo quella cosa
allora appunto urlassimo
in nome di tutto il creato
(ma tutti insieme e a quel punto)
VIENI VIENI VIENI, Signore
vieni da qualunque parte del cielo
o degli abissi della terra
o dalle profondità di noi stessi
(ciò non importa) ma vieni,
urlassimo solo: VIENI!
Allora come il lam po guizza dall'oriente
fino all'occidente così sarà la sua venuta
e cavalcherà sulle nubi;
e il mare uscirà dai suoi confini
e il sole più non darà la sua luce
né la luna il suo chiarore
e le stelle cadranno fulminate
saranno scosse le potenze dei cieli.
E lo Spirito e la sposa dicano: Vieni!
e chi ascolta dica: vieni!
e chi ha sete venga
chi vuole attinga acqua di vita
per bagnarsi le labbra
e continuare a gridare: vieni!
Allora Egli non avrà neppure da dire
eccomi, vengo - perché già viene.
E così! Vieni Signore Gesù,
vieni nella nostra notte,
questa altissima notte
la lunga invincibile notte,
e questo silenzio del mondo
dove solo questa parola sia udita;
e neppure un fratello
conosce il volto del fratello
tanta è fitta la tenebra;
ma solo questa voce
quest'unica voce
questa sola voce si oda:
VIENI VIENI VIENI, Signore!
- Allora tutto si riaccenderà
alla sua luce
e il cielo di prima
e la terra di prima
son sono più
e non ci sarà più né lutto
né grido di dolore
perché le cose di prima passarono
e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi
perché anche la morte non sarà più.
E una nuova città scenderà dal cielo
bella come una sposa
per la notte d'amore
(non più questi termitai
non più catene dolomitiche
di grattacieli
non più urli di sirene
non più guardie
a presiedere le porte
non più selve di ciminiere).
- Allora il nostro stesso desiderio
avrà bruciato tutte le cose di prima
e la terra arderà dentro un unico incendio
e anche i cieli bruceranno
in quest'unico incendio
e anche noi, gli uomini,
saremo in quest'unico incendio
e invece di incenerire usciremo
nuovi come zaffiri
e avremo occhi di topazio:
quando appunto Egli dirà
"ecco, già nuove sono fatte tutte le cose"
allora canteremo
allora ameremo
allora allora...
MARANATHA', VIENI SIGNORE GESU'!
inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002
RACCONTO
237. Il grillo del signor Fabre 1
Bruno Ferrero, Il canto del grillo
Siamo a Londra. In una vasta e tumultuosa via alberata di Londra. Strepito di cavalli e di carrozze, vociare di mercanti e di strilloni. Trambusto di uomini e di mezzi. Chi corre perché ha fretta. Chi passeggia. Un po' di tutto. Un via vai continuo. Ma ecco... quel signore che si è fermato. Pare in ascolto. Ma di che? Trattiene per un braccio l'amico e gli sussurra: "Senti? C'è un grillo!". L'amico lo guarda stralunato: com'è possibile sentire il cri-cri di un grillo in quel mondo di rumori? "Ma cosa dice, professore? Un grillo?!". E il signore, che si è fermato, come guidato da un radar, si accosta lentamente a un minuscolo ciuffo d'erba ai piedi di un albero. Con delicatezza sposta steli e dice: "Eccolo!". L'amico si curva. E' davvero un piccolo grillo. Stupore per il fatto del grillo a Londra. Ma doppio stupore per averlo sentito. D'accordo. Per avvertire certe "voci", occorre grande capacità d'ascolto. E quel signore ce l'aveva.
Era il grande etmologo francese Jean Henry Fabre. E la sua grande capacità di ascolto era rivolta in modo specifico al mondo degli insetti.
"Ma come ha fatto a sentire il grillo in tutto questo chiasso?" domanda l'amico al signor Fabre, mentre riprendono il cammino.
"Perché voglio bene a quelle piccole creature. Tutti sentono le voci che amano, anche se sono debolissime. Vuoi che proviamo?".
Il signor Fabre si ferma. Estrae dal borsellino una sterlina d'oro e la lascia cadere a terra. E' un piccolo din, ma una decina di persone che camminano sul marciapiede si voltano di scatto a fissare la moneta.
"Hai visto" dice il signor Fabre, "Queste persone amano il denaro e ne percepiscono il suono, anche tra lo strepito più chiassoso".
Per avvertire certe "voci" occorre una grande capacità di ascolto. E la capacità di ascolto di certe "voci" c'è, se tu quelle "voci" le ami. Il signor Fabre è stato un grande nel mondo degli insetti per la sua capacità di ascolto, scaturitagli dal suo amore verso quelle piccole creature.
Chi vuol diventare "grande" - in qualunque campo, soprattutto nel "campo" di Dio" - deve avere una grande capacità di ascolto.
inviato da Mariangela Molari, inserito il 05/05/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua
C'era una volta, tanto tempo fa, in un piccolo villaggio, la bottega di un falegname. Un giorno, durante l'assenza del padrone, tutti i suoi arnesi da lavoro tennero un gran consiglio.
La seduta fu lunga e animata, talvolta anche veemente. Si trattava di escludere dalla onorata comunità degli utensili un certo numero di membri.
Uno prese la parola: "Dobbiamo espellere nostra sorella Sega, perché morde e fa scricchiolare i denti. Ha il carattere più mordace della terra".
Un altro intervenne: "Non possiamo tenere fra noi sorella Pialla: ha un carattere tagliente e pignolo, da spelacchiare tutto quello che tocca".
"Fratel Martello - protestò un altro - ha un caratteraccio pesante e violento. Lo definirei un picchiatore. E' urtante il suo modo di ribattere continuamente e dà sui nervi a tutti. Escludiamolo!".
"E i Chiodi? SI può vivere con gente così pungente? Che se ne vadano. E anche Lima e Raspa. A vivere con loro è un attrito continuo. E cacciamo anche Cartavetro, la cui unica ragion d'essere sembra quella di graffiare il prossimo!".
Così discutevano, sempre più animosamente, gli attrezzi del falegname. Parlavano tutti insieme. Il martello voleva espellere la lima e la pialla, questi volevano a loro volta l'espulsione di chiodi e martello, e così via. Alla fine della seduta tutti avevano espulso tutti.
La riunione fu bruscamente interrotta dall'arrivo del falegname. Tutti gli utensili tacquero quando lo videro avvicinarsi al bancone di lavoro. L'uomo prese un asse e lo segò con la Sega mordace. Lo piallò con la Pialla che spela tutto quello che tocca. Sorella Ascia che ferisce crudelmente, sorella Raspa che dalla lingua scabra, sorella Cartavetro che raschia e graffia, entrarono in azione subito dopo.
Il falegname prese poi i fratelli Chiodi dal carattere pungente e il Martello che picchia e batte.
Si servì di tutti i suoi attrezzi di brutto carattere per fabbricare una culla. Una bellissima culla per accogliere un bambino che stava per nascere. Per accogliere la Vita.
Dio ci guarda con l'occhio del falegname.
occhi di Dio su di noiamore di Diocorrezione fraternaconvivere
inviato da Stefania Raspo, inserito il 05/05/2002
PREGHIERA
239. Il dono di nozze da parte di Dio 3
La creatura che hai al fianco è mia. Io l'ho creata.
Io le ho voluto bene da sempre, prima di te e più di te.
Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Te la affido.
La prendi dalle mie mani e ne diventi responsabile.
Quando l'hai incontrata l'hai trovata amabile e bella.
Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza,
è il mio cuore che ha messo in lei tenerezza ed amore,
è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità,
la sua intelligenza e tutte le qualità che hai trovato in lei.
Ma non puoi limitarti a godere del suo fascino.
Devi impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri.
Ha bisogno di serenità e di gioia, di affetto e di tenerezza,
di piacere e di divertimento, di accoglienza e di dialogo,
di rapporti umani, di soddisfazione nel lavoro, e di tante altre cose.
Ma ricorda che ha bisogno soprattutto di me.
Sono Io, e non tu, il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.
Aiutala ad incontrarmi nella preghiera, nella Parola,
nel perdono, nella speranza.
Abbi fiducia in me.
La ameremo insieme. Io la amo da sempre.
Tu hai cominciato ad amarla da qualche anno,
da quando vi siete innamorati.
Sono Io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei.
Era il modo più bello per dirti "Ecco te l'affido.
Gioisci della sua bellezza e delle sue qualità".
Con le parole "Prometto di esserti fedele,
di amarti e rispettarti per tutta la vita",
è come se mi rispondessi che sei felice di accoglierla
nella tua vita e di prenderti cura di lei.
Da quel momento siamo in due ad amarla.
Anzi Io ti rendo capace di amarla "da Dio",
regalandoti un supplemento di amore
che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende simile al mio.
E' il mio dono di nozze: la grazia del sacramento del matrimonio.
Io sarò sempre con voi e farò di voi gli strumenti del mio amore
e della mia tenerezza:
continuerò ad amarvi attraverso i vostri gesti d'amore.
matrimoniocoppiaamorefamigliainnamoramento
inviato da Francesco Sessa, inserito il 04/05/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, Il canto del grillo
Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava a casa spossato e pieno di malumore. Guardava con astio la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini del bar.
"Quelli sì che stanno bene", brontolava l'uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d'uva nel torchio. "Non sanno cosa vuol dire tribolare... Tutte rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!".
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell'uomo. E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa.
"Ah, sei tu, Signore?" disse l'uomo, quando lo vide. "Non provare a rabbonirmi. Lo sai bene quant'è pesante la croce che mi hai imposto". L'uomo era più imbronciato che mai.
Il Signore gli sorrise bonariamente."Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare un'altra scelta", disse.
L'uomo si trovò all'improvviso dentro una enorme grotta azzurra. L'architettura era divina. Ed era tempestata di croci: piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte.
"Sono le croci degli uomini", disse il Signore,"scegline una". L'uomo buttò con malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita.
Provò una croce leggerina. ma era lunga e ingombrante. Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e sacrificio.
Un'altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell'uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi.
Afferrò una croce d'argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e abbandono. La posò subito. Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.
Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po' logorata dall'uso. Non era troppo pesante, né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L'uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante. "Prendo questa!", esclamò. Ed uscì dalla grotta.
Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce. E in quell'istante l'uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta. E che portava da tutta la vita.
"Come in un sogno mattutino, la vita si fa sempre più luminosa a mano a mano che la viviamo, e la ragione di ogni cosa appare finalmente chiara" (Ricther).
accettazione di sésofferenzacrocedolore
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 03/05/2002
PREGHIERA
241. Parafrasi del "Padre Nostro" 2
O santissimo Padre nostro:
creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro.
Che sei nei cieli
negli angeli e nei santi,
illuminandoli alla conoscenza, perché tu, Signore, sei luce;
infiammandoli all'amore, perché tu, Signore, sei amore;
ponendo la tua dimora in loro e riempiendoli di beatitudine,
perché tu, Signore, sei il sommo bene, eterno,
dal quale proviene ogni bene e senza il quale non esiste alcun bene.
Sia santificato il tuo nome
si faccia luminosa in noi la conoscenza di te,
affinché possiamo conoscere l'ampiezza dei tuoi benefici,
l'estensione delle tue promesse,
la sublimità della tua maestà
e la profondità dei tuoi giudizi.
Venga il tuo regno
perché tu regni in noi per mezzo della grazia
e ci faccia giungere nel tuo regno,
ove la visione di te è senza veli,
l'amore di te è perfetto,
la comunione di te è beata,
il godimento di te senza fine.
Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra
affinché ti amiamo con tutto il cuore sempre pensando a te;
con tutta l'anima, sempre desiderando te;
con tutta la mente, orientando a te tutte le nostre intenzioni
e in ogni cosa cercando il tuo onore;
e con tutte le nostre forze,
spendendo tutte le energie e sensibilità dell'anima e del corpo
a servizio del tuo amore e non per altro;
e affinché possiamo amare i nostri prossimi come noi stessi,
trascinando tutti con ogni nostro potere al tuo amore,
godendo dei beni altrui come dei nostri
e nei mali soffrendo insieme con loro
e non recando nessuna offesa a nessuno.
Il nostro pane quotidiano dà a noi oggi
il tuo Figlio diletto,
il Signore nostro Gesù Cristo,
dà a noi oggi:
in memoria, comprensione e reverenza dell'amore
che egli ebbe per noi e di tutto quello
che per noi disse, fece e patì.
E rimetti a noi i nostri debiti
per la tua ineffabile misericordia,
per la potenza della passione del tuo Figlio diletto
e per i meriti e l'intercessione della beatissima Vergine
e di tutti i tuoi eletti.
Come noi li rimettiamo ai nostri debitori
e quello che non sappiamo pienamente perdonare,
Tu, Signore, fa' che pienamente perdoniamo,
sì che, per amor tuo, amiamo veramente i nemici
e devotamente intercediamo presso di te,
non rendendo a nessuno male per male
e impegnandoci in te ad essere di giovamento a tutti.
E non ci indurre in tentazione
nascosta o manifesta, improvvisa o insistente.
Ma liberaci dal male
passato, presente e futuro.
Amen.
inviato da Giovanni Ferroni, inserito il 03/05/2002
ESPERIENZA
242. Stupendo "Presepe vivente" non pubblicizzato a...
In questi giorni tutti i mezzi di comunicazione annunciano che le amministrazioni comunali, le parrocchie, le associazioni, hanno organizzato il: "Presepe vivente a..., nei giorni..., dalle ore... alle ore...; il 6 gennaio l'arrivo dei Magi con i doni...; comparse numero...; scenario suggestivo sul...; prenotarsi allo..., offerta libera" e noi annotiamo le date per poterli vedere tutti. Con questa mia lettera volevo fare anche io un po' di pubblicità ad un presepe reale...
La Società Consumista, Egoista, ha organizzato sulla Campi - Lecce, un presepe vivente, dal 1 gennaio al 31 dicembre (fin quando non ci diamo una mossa); dalle ore 00,00 alle ore 24,00; arrivano i doni (vestiti usati, pasta, olio, burro tutto aiuto CEE). I personaggi (non comparse) sono circa 300; le grotte sono fatte di roulotte bucate, senza finestre, freddissime d'inverno, bollenti in estate; le luminarie: poca luce di giorno (la notte salta sempre perché non avendo il bue e l'asino per riscaldarsi accendono tutti le stufe ed è normale che la piccola cabina elettrica non riesca a mantenere e quindi i vari bambinelli rimangono al freddo e al gelo, riscaldati dalla disperazione dei genitori che danno un po' di calore abbracciandoli, col rischio di soffocarli); gli animali: topi, scarafaggi; i servizi (se così si possono chiamare): una quindicina per 300 persone, acqua fredda; l'assistenza medica (solo le urgenze al pronto soccorso, se fanno in tempo; ma è meglio prevenire che curare). Il resto lo vedrete voi. Ah! Dimenticavo, non bisogna prenotarsi, né fare lunghe code, l'ingresso è gratuito, anzi uscendo da questo presepe vi accorgerete come loro vi avranno dato qualcosa: sì, capirete molte cose della vita. Uscendo non direte Che bello e poi tutto finisce lì. Non avrete parole, ma ve lo ricorderete per tutta la vita. Lo spazio Campo Sosta Panareo per realizzare questo presepe è stato messo a disposizione (e abbandonato) dal Comune di Lecce.
I personaggi di questo presepe mi fanno venire in mente i pastori al tempo di Gesù: non godevano di diritti civili ed erano considerati gli ultimi della società. Vivevano immersi nell'abiezione e dal punto di vista delle norme religiose nell'impurità totale, senza alcuna possibilità di riscatto. Venivano trattati alla stregua di bestie, con una differenza a favore delle bestie: si può tirare un animale caduto in un fosso, ma non un pastore. Proprio a costoro si rivolge l'angelo. Non parole di condanna, ma un annunzio di grande gioia, la nascita di colui che li libererà dall'emarginazione. Quelli che gli uomini avevano confinato nelle tenebre (in un campo sosta) sono i primi a rendersi conto della luce che risplende, mentre quanti vivono nello splendore (ricchezza) rimangono nelle tenebre. Quando Gesù si presenta nella storia, nessun sacerdote di Gerusalemme se ne accorge. I pastori sì, loro se ne andarono dalla grotta "glorificando e lodando Dio": questo era compito esclusivo degli angeli.
Correremo anche noi il rischio di non accorgerci della nascita di Gesù? Ci inginocchieremo davanti ad un bambino fatto di gesso che non soffre né il caldo né il gelo e ci dimenticheremo che nasce in carne ed ossa nel "Campo Sosta Panareo"?. E i musulmani del Campo quella notte ascolteranno gli angeli che canteranno "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama", e il giorno di Natale, stando ai semafori delle nostre città o davanti alle porte delle nostre chiese, ci annunceranno la grande gioia che Gesù è nato anche per loro. Ci vogliamo impegnare quanto prima a cambiare un po' lo scenario di questo presepe vivente (ci vuole qualche novità per l'anno prossimo)? Andate a vedere e decidete quale modifica apportare. Magari un prefabbricato andrebbe bene.
Santo Natale a tutti.
Natalepovertàsolidarietàcaritàamore
inviato da Fra Angelo De Padova, inserito il 30/04/2002
ESPERIENZA
243. Ho regalato il Monte Bianco ad una signora antipatica
Quando ho raccontato l'episodio agli amici tutti hanno sentenziato che mi ero comportato da scemo. Poco male. Era già accaduto altre volte. E capiterà ancora. Stavolta però mi sentivo intimamente soddisfatto di essere stato stupido.
Dunque: mi presento all'aeroporto con discreto anticipo e riesco a farmi assegnare un posto per fumatori e, soprattutto, vicino all'oblò. Salgo sul DC9 dell'Alitalia, controllo: Sì il mio posto è proprio quello: 8E=WINDOW, vicino all'oblò. Un posto di osservazione stupendo, non disturbato dall'ala. Mi allaccio la cintura e guardo mi direzione del cielo. E' una giornata bellissima, il cielo terso, di un azzurro incredibile. La rotta prevede il passaggio delle Alpi, Monte Bianco incluso. Sarà uno spettacolo sensazionale, perfino la mia macchina fotografica sembra fremere d'impazienza.
A un tratto, una ruvida manata sulla spalla mi scuote dalla contemplazione. Una robusta signora che garganzza un tedesco aspro, mi ordina perentoriamente di sloggiare. Mi sventola sotto il naso, accompagnando il gesto con crepitio secco di parole-comandi, il suo biglietto. Do un'occhiata: 8C=AISLE. Non ci sono dubbi: è lei che deve accomodarsi sulla poltroncina che dà sul corridoio. Invece quella insiste per sistemarsi accanto all'oblò.
Mi viene voglia di invitare la signora, dal volto aggrondato e paonazzo, a studiare un po' l'inglese. Così, imparerà che "WINDOW" vuol dire finestrino (mio) e "AISLE" corridoio (suo). Mi vien voglia di buttarle in faccia - una faccia senza un tratto che la renda simpatica - che avere il marco forte non significa acquisire il diritto di essere prepotenti. Mi vien voglia di invocare l'intervento della hostess.
Ma improvvisamente mi vien voglia di essere stupido, di passare per cretino. Ed è quella che vince. Lascio il mio posto e mi accomodo in quello sgradito senza borbottare, anzi regalando un sorriso, non ricambiato naturalmente, alla usurpatrice che inalbera l'aria trionfante di chi ha fatto valere i suoi sacrosanti diritti.
Allorché sono alle viste le cime delle montagne ed il comandante invita ad ammirare la catena del Monte Bianco, il mio nemico-invasore scatta a ripetizione dozzine di foto, quasi con rabbia. Negli intervalli appoggia il testone rubizzo all'oblò, come per impedirmi il più fugace lampo azzurro, la più minuscola briciola di neve, il più piccolo frammento di ghiaccio. Ma io che avevo già deciso, senza pentimenti, di essere stupido fino all'ultimo, il cielo ce lo avevo dentro. Provavo una sensazione benefica di pace profonda, di compiaciuta soddisfazione. All'apparenza aveva vinto l'arroganza, La giustizia era stata calpestata dal sopruso. L'ignoranza villana aveva avuto il sopravvento.
Mi aveva rubato il Monte Bianco.
lo però non mi sentivo affatto sconfitto. Al contrario. Mi sorprendevo che le Grandes Jorasses rappresentassero uno spettacolo impagabile, ma la pace ha un valore superiore. Riflettevo che è meglio farsi dar ragione dal Vangelo piuttosto che da un miserabile biglietto con su stampigliato "E=WINDOWS". Beh mi rallegravo per il fatto che, in un pianeta incendiato in continuazione da troppe guerre e guerriglie, quel giorno io ero riuscito ad evitare un, se pur ridottissimo, conflitto.
Si. In terra e pure in cielo - eravamo a diecimila metri di quota - quel giorno una stupida e piccolissima guerra - ma anche le guerre di grosse dimensioni sono stupide - non era scoppiata soltanto perché uno scemo aveva compiuto, senza dire una parola, un gesto semplicissimo: spostarsi dì mezzo metro.
No. Non è stata la signora villana a rubarmi il Monte Bianco: gliel'avevo regalato io. Io ero più ricco di lei, anche se non potevo disporre del marco forte. Ciò che conta non è possedere la moneta forte, ne sapere quattro parole d'inglese: ma non avvelenare l'aria che tutti respiriamo con le nostre beghe meschine. E' possibile contemplare, anzi costruire un pezzetto di cielo, anche stando affacciati al corridoio...
Amico non aspettare che siano i furbi, gli arroganti, i prepotenti, a fare la pace. La pace, se mi credi, la fanno gli ingenui gli stupidi - stupidi secondo la mentalità corrente - ossia quelli capaci di spostarsi di mezzo metro per regalare un po' d'azzurro all'individuo titolare di un volto neppure troppo simpatico.
Non è il gesto dei vili, dei deboli. Per compierlo bisogna essere i più forti.
pacenon violenzaamare i nemiciperdono
inviato da Maria Vitali, inserito il 30/04/2002
PREGHIERA
Questa sera, allo stadio, la notte si agitava, popolata di diecimila ombre,
e quando i proiettori ebbero dipinto in verde il velluto dell'immenso campo,
la notte intonò un coro, nutrito di diecimila voci.
Infatti il maestro di cerimonie aveva fatto segno di iniziare la funzione.
L'imponente liturgia si svolgeva dolcemente.
Il pallone bianco volava da ministro a ministro come se tutto fosse stato minuziosamente preparato in precedenza.
Passava dall'uno all'altro, correva raso terra o volava sopra le teste.
Ognuno era al suo posto, ricevendolo alla sua volta, con colpo misurato lo passava all'altro, e l'altro era là per accoglierlo e trasmetterlo.
E siccome ognuno faceva il suo lavoro dove occorreva,
siccome forniva lo sforzo richiesto,
siccome sapeva di aver bisogno di tutti gli altri,
lentamente, ma sicuramente, il pallone avanzava;
e quand'ebbe raccolto il lavoro d'ognuno,
quand'ebbe riunito il cuore degli undici giocatori,
la squadra gl'impresse un soffio e segnò il goal della vittoria.
Dopo la partita, a stento l'immensa folla si disperdeva nelle strade troppo strette,
ed io pensavo, o Signore, che la storia umana, per noi lunga partita, per Te era questa grande Liturgia,
meravigliosa cerimonia iniziata all'aurora dei tempi, che terminerà quando l'ultimo ministro avrà compiuto l'ultimo gesto.
In questo mondo, o Signore, abbiamo ognuno il nostro posto;
allenatore previdente, da sempre Tu ce lo destinavi.
Tu hai bisogno di noi qui, i nostri fratelli han bisogno di noi e noi abbiamo bisogno di tutti.
Non ha importanza il posto che io occupo, o Signore, ma la perfezione e l'intensità della mia presenza.
Che importa che io sia avanti o indietro, se sono al massimo quello che debbo essere?
Ecco, o Signore, la mia giornata davanti a me...
Non ho riparato troppo sul fallo, criticando gli sforzi degli altri, le mani in tasca?
Ho tenuto bene il mio posto, e mi hai Tu incontrato sul campo quando lo guardavi?
Ho ricevuto bene il "passaggio" del vicino e quello dell'altro dall'altra estremità del campo?
Ho "servito" bene i miei compagni di squadra, senza giocare troppo personalmente per mettermi in mostra?
Ho "costruito" il gioco in modo da ottenere la vittoria con il contributo di tutti?
Ho lottato fino in fondo nonostante gli scacchi, i colpi e le ferite?
Non sono stato turbato dalle dimostrazioni dei compagni e degli spettatori, scoraggiato dalla loro incomprensione e dai loro rimproveri, insuperbito dai loro applausi?
Ho pensato di pregare la mia partita, non dimenticando che agli occhi di Dio questo gioco degli uomini è la funzione più religiosa?
Ora vado a riposarmi negli spogliatoi, Signore;
domani, se Tu darai il calcio d'avvio, giocherò un altro tempo,
E così ogni giorno...
Fa' che questa partita celebrata con tutti i miei fratelli sia l'imponente liturgia che Tu aspetti da noi,
affinché quando il tuo ultimo fischio interromperà le nostre esistenze
noi siamo selezionati per la Coppa del Cielo.
comunitàgruppochiesacamminare insieme
inviato da Maria Vitali, inserito il 29/04/2002
PREGHIERA
245. Amare - La preghiera dell'adolescente 2
Michel Quoist, Preghiere
Signore, vorrei amare, ho bisogno d'amare.
Tutto il mio essere non è che desiderio:
il mio cuore, il mio corpo,
si protendono nella notte verso uno sconosciuto da amare.
Le mie braccia brancicano nell'aria verso uno sconosciuto da amare.
Sono solo mentre vorrei essere due.
Parlo e nessuno è presente ad ascoltarmi.
Vivo e nessuno coglie la mia vita.
Perché essere così ricco e non aver nessuno da arricchire?
Donde viene quest'amore? Dove va?
Vorrei amare, Signore,
ho bisogno d'amare.
Ecco stasera, Signore, tutto il mio amore inutilizzato.
Ascolta, mio caro,
fermati,
fai, in silenzio, un lungo pellegrinaggio fino in fondo al tuo cuore.
Cammina lungo il tuo amore nuovo,
così come si risale un ruscello per scoprirne la sorgente.
E al termine, laggiù in fondo, nell'infinito mistero della tua
anima turbata, Mi incontrerai,
perché io mi chiamo Amore piccolo,
ed Io non sono altro che Amore, da sempre,
E l'amore è in te.
Io ti ho fatto per amare, per amare eternamente.
Ed il tuo amore sarà un altro te stesso.
Lei sta cercando;
Rassicurati, è già sulla tua strada,
In cammino da sempre,
Sulla strada del Mio Amore.
Bisogna aspettare il suo passaggio,
lei si avvicina,
tu ti avvicini,
vi riconoscerete,
perché Io ho fatto il suo corpo per te,
ho creato il tuo per lei,
ho fatto il tuo cuore per lei, ho creato il suo per te,
e voi vi state ricercando nella notte,
nella mia notte che diventerà luce
se voi avrete fiducia in Me.
Conservati per lei, piccolo mio,
come lei si conserva per te.
Io vi custodirò l'uno per l'altra,
e, giacché hai fame d'amore,
ho posto sul tuo cammino tutti i tuoi fratelli da amare.
Credimi, è un lungo tirocinio l'amore,
e non vi sono diverse specie di amore:
amare, vuol sempre solo dire abbandonare se stessi
per darsi agli altri...
Signore, aiutami a dimenticarmi per gli uomini miei fratelli,
perché dando me stesso impari ad amare.
amoresessualitàamareaffettività
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 26/04/2002
TESTO
Kahlil Gibran, Il profeta
Quando l'amore vi fa cenno, seguitelo,
benché le sue strade siano aspre e scoscese.
E quando le sue ali vi avvolgono,
abbandonatevi a lui,
benché la spada che nasconde tra le penne possa ferirvi.
E quando vi parla, credetegli,
anche se la sua voce può mandare in frantumi i vostri sogni
come il vento del nord lascia spoglio il giardino.
Perché come l'amore vi incorona, così vi crocifigge.
E come per voi è maturazione, così è anche potatura.
E come sale alla vostra cima e accarezza i rami più teneri che fremono al sole,
così discenderà alle vostre radici che scuoterà dove si aggrappano con più forza alla terra.
Come fastelli di grano vi raccoglierà.
Vi batterà per denudarvi.
Vi passerà al crivello per liberarvi dalla pula.
Vi macinerà fino a farvi farina.
Vi impasterà fino a rendervi plasmabili.
E poi vi assegnerà al fuoco sacro,
perché possiate diventare pane sacro nei sacri conviti di Dio.
Tutto questo farà in voi l'amore,
affinché conosciate i segreti del cuore,
e in quella conoscenza diventiate un frammento del cuore della vita.
Ma se avrete paura, e cercherete soltanto la pace dell'amore
ed il piacere dell'amore,
allora è meglio che copriate le vostre nudità,
e passiate lontano dall'aia dell'amore,
nel mondo senza stagioni dove potrete ridere,
ma non tutto il vostro riso,
e piangere, ma non tutto il vostro pianto.
L'amore non dà nulla all'infuori di sé,
né prende nulla se non da se stesso.
L'amore non possiede né vuol essere posseduto,
perché l'amore basta all'amore.
Quando amate non dovreste dire: "Dio è nel mio cuore".
Ma, semmai, "sono nel cuore di Dio".
E non crediate di guidare il corso dell'amore,
poiché l'amore, se vi trova degni,
guiderà lui il vostro corso.
L'amore non desidera che il proprio compimento.
Ma se amate e quindi avete desideri,
i vostri desideri siano questi:
sciogliersi e farsi simili a un ruscello
che scorra e canti nella notte la sua melodia;
conoscere il martirio della troppa tenerezza;
esser feriti dal vostro proprio intendere l'amore;
e sanguinare di buon grado, gioiosamente;
svegliarsi all'alba con un cuore alato
e dire grazie a un nuovo giorno d'amore;
Riposare al pomeriggio e meditare sull'estasi amorosa,
tornare a casa con gratitudine la sera,
e addormentarsi con una preghiera per chi amate nel cuore,
e un canto di lode sulle labbra.
inviato da Cristiano Ciferri, inserito il 16/04/2002
TESTO
don Primo Mazzolari, Impegno con Cristo, EDB, ediz. 2007
Ci impegnamo noi e non gli altri,
unicamente noi e non gli altri,
né chi sta in alto, né chi sta in basso,
né chi crede, né chi non crede.
Ci impegnamo
senza pretendere che altri s'impegnino,
con noi o per suo conto,
come noi o in altro modo.
Ci impegnamo
senza giudicare chi non s'impegna,
senza accusare chi non s'impegna,
senza condannare chi non s'impegna,
senza disimpegnarci perché altri non s'impegna.
Ci impegnamo
perché non potremmo non impegnarci.
C'è qualcuno o qualche cosa in noi,
un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia,
più forte di noi stessi.
Ci impegnamo per trovare un senso alla vita,
a questa vita, alla nostra vita,
una ragione che non sia una delle tante ragioni
che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore.
Si vive una volta sola
e non vogliamo essere "giocati"
in nome di nessun piccolo interesse.
Non ci interessa la carriera,
non ci interessa il denaro,
non ci interessa la donna o l'uomo
se presentati come sesso soltanto,
non ci interessa il successo né di noi né delle nostre idee,
non ci interessa passare alla storia.
Ci interessa perderci
per qualche cosa o per qualcuno
che rimarrà anche dopo che noi saremo passati
e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci.
Ci impegnamo
a portare un destino eterno nel tempo,
a sentirci responsabili di tutto e di tutti,
ad avviarci, sia pure attraverso un lungo errare,
verso l'amore.
Ci impegnamo
non per riordinare il mondo,
non per rifarlo su misura, ma per amarlo;
per amare
anche quello che non possiamo accettare,
anche quello che non è amabile,
anche quello che pare rifiutarsi all'amore,
poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore
c'è insieme a una grande sete d'amore,
il volto e il cuore dell'amore.
Ci impegnamo
perché noi crediamo all'amore,
la sola certezza che non teme confronti,
la sola che basta per impegnarci perpetuamente.
inviato da Maria Grazia Guidetti, inserito il 15/04/2002
PREGHIERA
Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate, dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro;
Signore, noi siamo tanto armati che non lo siamo mai stati nei secoli prima d'ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l'umanità;
Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri, e tutte rivolte ad uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l'equilibrio crudele dell'economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali;
Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l'odio di classe, l'orgoglio nazionalista, l'esclusivismo razziale le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui;
Signore, noi ogni giorno ascoltiamo e impotenti le notizie di guerre ancora accese nel mondo;
Signore, è vero! Noi non camminiamo rettamente;
Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace del mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e la trattativa;
Signore, vi sono soprattutto tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza: e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia legge delle nuove generazioni;
Signore, tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l'amore;
Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.
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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002
TESTO
249. La pace è fondata sulla libertà, sulla verità, sulla giustizia e sull'amore
Giovanni XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris, n. 16-18
Gli esseri umani, essendo persone, sono sociali per natura. Sono nati quindi per convivere e operare gli uni a bene degli altri. Ciò richiede che la convivenza umana sia ordinata, e quindi che i vicendevoli diritti e doveri siano riconosciuti ed attuati; ma richiede pure che ognuno porti generosamente il suo contributo alla creazione di ambienti umani, in cui diritti e doveri siano sostanziati da contenuti sempre più ricchi.
Non basta, ad esempio, riconoscere e rispettare in ogni essere umano il diritto ai mezzi di sussistenza: occorre pure che ci si adoperi, secondo le proprie forze, perché ogni essere umano disponga di mezzi di sussistenza in misura sufficiente.
La convivenza fra gli esseri umani, oltre che ordinata, è necessario che sia per essi feconda di bene. Ciò postula che essi riconoscano e rispettino i loro vicendevoli diritti ed adempiano i rispettivi doveri, ma postula pure che collaborino tra loro nelle mille forme e gradi che l'incivilimento acconsente, suggerisce, reclama.
La dignità di persona, propria di ogni essere umano, esige che esso operi consapevolmente e liberamente. Per cui nei rapporti della convivenza, i diritti vanno esercitati, i doveri vanno compiuti, le mille forme di collaborazione vanno attuate specialmente in virtù di decisioni personali; prese cioè per convinzione, di propria iniziativa, in attitudine di responsabilità, e non in forza di coercizioni o pressioni provenienti soprattutto dall'esterno.
Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana. In essa infatti è inevitabile che le persone siano coartate o compresse, invece di essere facilitate e stimolate a sviluppare e perfezionare se stesse.
La convivenza fra gli esseri umani è quindi ordinata, feconda e rispondente alla loro dignità di persone, quando si fonda sulla verità, conformemente al richiamo dell'apostolo Paolo: "Via dunque da voi la menzogna e parli ciascuno col suo prossimo secondo verità, poiché siamo membri gli uni degli altri" (Ef 4,25). Ciò domanda che siano sinceramente riconosciuti i reciproci diritti e vicendevoli doveri. Ed è inoltre una convivenza che si attua secondo giustizia o nell'effettivo rispetto di quei diritti e nel leale adempimento dei rispettivi doveri; che è vivificata e integrata dall'amore, atteggiamento d'animo che fa sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui, rende partecipi gli altri dei propri beni e mira a rendere sempre più vivida la comunione nel mondo dei valori spirituali; ed è attuata nella libertà, nel modo cioè che si addice alla dignità di esseri portati dalla loro stessa natura razionale ad assumere la responsabilità del proprio operare.
paceuguaglianzagiustiziacomunione tra i popoli
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002
PREGHIERA
250. Il Cantico di Frate Sole o Cantico delle Creature
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi' Signore, per sor'aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si', mi' Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si', mi' Signore,
per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke 'l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.
Laudate e benedicete mi' Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
Versione italiano moderno
Altissimo, onnipotente, buon Signore
tue sono le lodi, la gloria e l'onore
ed ogni benedizione.
A te solo, Altissimo, si confanno,
e nessun uomo è degno di te.
Laudato sii, o mio Signore,
per tutte le creature,
specialmente per messer Frate Sole,
il quale porta il giorno che ci illumina
ed esso è bello e raggiante con grande splendore:
di te, Altissimo, porta significazione.
Laudato sii, o mio Signore,
per sora Luna e le Stelle:
in cielo le hai formate
limpide, belle e preziose.
Laudato sii, o mio Signore, per frate Vento e
per l'Aria, le Nuvole, il Cielo sereno ed ogni tempo
per il quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato sii, o mio Signore, per sora Acqua,
la quale è molto utile, umile, preziosa e casta.
Laudato sii, o mio Signore, per frate Fuoco,
con il quale ci illumini la notte:
ed esso è robusto, bello, forte e giocondo.
Laudato sii, o mio Signore, per nostra Madre Terra,
la quale ci sostenta e governa e
produce diversi frutti con coloriti fiori ed erba.
Laudato sii, o mio Signore,
per quelli che perdonano per amor tuo
e sopportano malattia e sofferenza.
Beati quelli che le sopporteranno in pace
perché da te saranno incoronati.
Laudato sii, o mio Signore,
per nostra sora Morte corporale,
dalla quale nessun uomo vivente può scampare.
Guai a quelli che morranno nel peccato mortale.
Beati quelli che si troveranno nella tua volontà
poiché loro la morte non farà alcun male.
Laudate e benedite il Signore e ringraziatelo
e servitelo con grande umiltà.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002
TESTO
251. Quanto mi hai fatto soffrire, Chiesa, eppure... 4
Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!
Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo!
Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza.
Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità!
Nulla ho visto al mondo di più oscurantista, più compresso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello.
Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porte della mia anima, quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure.
No, non posso liberarmi di te, perché sono te, pur non essendo completamente te.
E poi, dove andrei?
A costruirne un'altra?
Ma non potrò costruirla se non con gli stessi difetti, perché sono i miei che porto dentro. E se la costruirò, sarà la mia Chiesa, non più quella di Cristo.
Sono abbastanza vecchio per capire che non sono migliore degli altri.
L'altro ieri un amico ha scritto una lettera ad un giornale: "Lascio la Chiesa perché, con la sua compromissione con i ricchi, non è più credibile". Mi fa pena!
O è un sentimentale che non ha esperienza, e lo scuso; o è un orgoglioso che crede di essere migliore degli altri.
Nessuno di noi è credibile finché è su questa terra...
La credibilità non è degli uomini, è solo di Dio e del Cristo.
Forse che la Chiesa di ieri era migliore di quella di oggi? Forse che la Chiesa di Gerusalemme era più credibile di quella di Roma?
Quando Paolo arrivò a Gerusalemme portando nel cuore la sua sete di universalità, forse che i discorsi di Giacomo sul prepuzio da tagliare o la debolezza di Pietro che si attardava con i ricchi di allora e che dava lo scandalo di pranzare solo con i puri, poterono dargli dei dubbi sulla veridicità della Chiesa, che Cristo aveva fondato fresca fresca, e fargli venire la voglia di andarne a fondare un'altra ad Antiochia o a Tarso?
Forse che a Santa Caterina da Siena, vedendo il Papa che faceva una sporca politica contro la sua città, poteva saltare in capo l'idea di andare sulle colline senesi, trasparenti come il cielo, e fare un'altra Chiesa più trasparente di quella di Roma cosi spessa, così piena di peccati e così politicante?
...La Chiesa ha il potere di darmi la santità ed è fatta tutta quanta, dal primo all'ultimo, di soli peccatori, e che peccatori!
Ha la fede onnipotente e invincibile di rinnovare il mistero eucaristico, ed è composta di uomini deboli che brancolano nel buio e che si battono ogni giorno contro la tentazione di perdere la fede.
Porta un messaggio di pura trasparenza ed è incarnata in una pasta sporca, come è sporco il mondo.
Parla della dolcezza dei Maestro, della sua non-violenza, e nella storia ha mandato eserciti a sbudellare infedeli e torturare eresiarchi.
Trasmette un messaggio di evangelica povertà, e non fa' che cercare denaro e alleanze con i potenti.
Coloro che sognano cose diverse da questa realtà non fanno che perdere tempo e ricominciare sempre da capo. E in più dimostrano di non aver capito l'uomo.
Perché quello è l'uomo, proprio come lo vede visibile la Chiesa, nella sua cattiveria e nello stesso tempo nel suo coraggio invincibile che la fede in Cristo gli ha dato e la carità dei Cristo gli fa vivere.
Quando ero giovane non capivo perché Gesù, nonostante il rinnegamento di Pietro, lo volle capo, suo successore, primo Papa- Ora non mi stupisco più e comprendo sempre meglio che avere fondato la Chiesa sulla tomba di un traditore, di un uomo che si spaventa per le chiacchiere di una serva, era un avvertimento continuo per mantenere ognuno di noi nella umiltà e nella coscienza della propria fragilità.
No, non vado fuori di questa Chiesa fondata su una roccia così debole, perché ne fonderei un'altra su una pietra ancora più debole che sono io.
...E se le minacce sono così numerose e la violenza del castigo così grande, più numerose sono le parole d'amore e più grande è la sua misericordia. Direi proprio, pensando alla Chiesa e alla mia povera anima, che Dio è più grande della nostra debolezza.
E poi cosa contano le pietre? Ciò che conta è la promessa di Cristo, ciò che conta è il cemento che unisce le pietre, che è lo Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo è capace di fare la Chiesa con delle pietre mai tagliate come siamo noi!...
E il mistero sta qui.
Questo impasto di bene e di male, di grandezza e di miseria, di santità e di peccato che è la Chiesa, in fondo sono io...
Ognuno di noi può sentire con tremore e con infinito gaudio che ciò che passa nel rapporto Dio-Chiesa è qualcosa che ci appartiene nell'intimo.
In ciascuno di noi si ripercuotono le minacce e la dolcezza con cui Dio tratta il suo popolo di Israele, la Chiesa. A Ognuno di noi Dio dice come alla Chiesa: "Io ti farò mia sposa per sempre" (Osea 2, 21), ma nello stesso tempo ci ricorda la nostra realtà: "La tua impurità è come la ruggine. Ho cercato di toglierla, fatica sprecata! E' così abbondante che non va via nemmeno col fuoco" (Ezechiele 24, 12).
Ma poi c'è ancora un'altra cosa che forse è più bella. Lo Spirito Santo, che è l'Amore, è capace di vederci santi, immacolati, belli, anche se vestiti da mascalzoni e adulteri.
Il perdono di Dio, quando ci tocca, fa diventare trasparente Zaccheo, il pubblicano, e immacolata la Maddalena, la peccatrice.
E' come se il male non avesse potuto toccare la profondità più intima dell'uomo. E' come se l'Amore avesse impedito di lasciar imputridire l'anima lontana dall'amore.
"Io ho buttato i tuoi peccati dietro le mie spalle", dice Dio a ciascuno di noi nel perdono, e continua: "Ti ho amato di amore eterno; per questo ti ho riservato la mia bontà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine Israele" (Geremia 3 1, 3-4).
Ecco, ci chiama "vergini" anche quando siamo di ritorno dall'ennesima prostituzione nel corpo, nello spirito e nel cuore.
In questo, Dio è veramente Dio, cioè l'unico capace di fare le "cose nuove".
Perché non m'importa che Lui faccia i cieli e la terra nuovi, è più necessario che faccia "nuovi" i nostri cuori.
E questo è il lavoro di Cristo.
E questo è l'ambiente divino della Chiesa...
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002
RACCONTO
La storia racconta di un monastero che stava vivendo tempi difficili. In passato aveva ospitato un ordine importante, ma in seguito a un'ondata di persecuzioni antimonastiche verificatesi nel diciasettesimo e diciottesimo secolo e a una crescente tendenza verso il secolarismo nel diciannovesimo secolo, tutti i suoi conventi secondari erano andati distrutti e l'ordine era rappresentato soltanto dall'abate e altri quattro monaci, tutti ultra settantenni, che vivevano nella cadente abbazia. Era chiaramente destinato a scomparire.
Nel fitto bosco che circondava il monastero, si trovava una piccola capanna che un rabbino proveniente da una città vicina usava di tanto in tanto come eremo. Nei lunghi anni di preghiera e contemplazione i vecchi monaci avevano sviluppato una sensibilità quasi paranormale ed erano quindi sempre in grado di dire quando il rabbino si trovava nel suo eremo. "Il rabbino è nel bosco, il rabbino è di nuovo nel bosco", si sussuravano a vicenda, l'abate decise di recarsi all'eremo e di chiedere al rabbino se non avesse alcun consiglio da dargli per salvare il monastero.
Il rabbino accolse l'abate nella capanna, ma quando l'abate gli spiegò lo scopo della sua visita, il rabbino non potè far altro che condividere il suo dolore. "Conosco questo problema", esclamò. "La gente ha perso la spiritualità. Accade lo stesso nella mia città. Quasi nessuno viene più alla sinagoga". Così si lamentarono insieme il vecchio abate e il vecchio rabbino. Poi lessero alcuni brani dalla Torah e presero a conversare serenamente di profonde questioni spirituali. Venne per l'abate il momento di andarsene e i due si abbracciarono. "E' stato meraviglioso incontrarsi dopo tutti questi anni", disse l'abate, ma venendo qui non ho raggiunto il mio scopo. Non c'è nulla che puoi dirmi, nessun consiglio che puoi darmi, per aiutarmi a salvare il mio ordine dalla morte?". "No, mi dispiace", rispose il rabbino, non ho consigli da darti. L'unica cosa che posso dirti è che il Messia è tra voi".
Quando l'abate tornò al monastero i monaci gli si radunarono intorno e gli chiesero: "Ebbene, cosa ti ha detto il rabbino?". Non è stato in grado di autarmi", rispose l'abate. "Abbiamo soltanto pianto insieme e letto la Torah. L'unica cosa che mi ha detto, proprio mentre me ne stavo andando, è stato qualcosa di oscuro. Ha detto che il Messia è tra noi. Ma non so cosa intendesse".
Nei giorni, nelle settimane, nei mesi che seguirono, i vecchi monaci rifletterono su questa frase chiedendosi se le parole del rabbino avessero un qualche particolare significato. Il Messia è tra noi? Voleva forse dire che il Messia è uno di noi? E se è così, chi? Intendeva forse l'abate? Si, se si riferiva a qualcuno, probabilmente si riferiva all'abate. Ci ha guidati per più di una generazione. D'altra parte avrebbe anche potuto riferirsi a fratello Thomas. Sicuramente fratello Thomas è un sant'uomo. Tutti sanno che Thomas è un uomo illuminato. Certamente non poteva rifersi a fratel Elred! A volte Elred è irascibile. E' una spina nel fianco per tutti, anche se praticamente ha sempre ragione. Chissà se il rabbino non intendesse proprio fratel Elred. Ma sicuramente non fratel Phillip. Phillip è così passivo, una vera nullità. Eppure ha il dono di essere sempre presente quando c'è bisogno di lui. Forse il Messia è proprio lui. Non è proprio possibile che intedesse me. Io sono una persona qualsiasi. Eppure se fosse proprio così? Se fossi io il Messia? Oh no, non io. Non potrei essere così importante per Te, non è vero?
Immersi in questi pensieri, i vecchi monaci cominciarono a trattarsi fra di loro con straordinario rispetto poiché esisteva la possibilità, per quanto remota, che il Messia fosse tra di loro. E per la possibilità, ancor più remota, che il Messia fosse ciascuno di loro, ognuno cominciò a trattare se stesso con altrettanto rispetto.
Accadeva che di tanto in tanto alcuni visitatori si trovassero da quelle parti, quando senza nemmeno rendersene conto cominciarono ad avvertire l'alone di straordinario rispetto che circondava i cinque vecchi monaci, c'era qualcosa di straordinariamente affascinante, persino irresistibile. I visitatori cominciarono a tornare per fermarsi a pregare, portarono gli amici e gli amici portarono altri amici.
Accadde così che qualcuno di loro iniziò a intrattenersi sempre più frequentemente con i monaci. E dopo qualche tempo uno chiese di potersi unire a loro. Poi un altro e un altro ancora. Così, nel giro di pochi anni, il monastero riprese a ospitare un ordine prosperoso e, grazie al dono del rabbino, tornò a essere un vivo centro di luce e di spiritualità.
testimonianzaamorecaritàrispettovita comunitaria
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 09/04/2002