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TESTO
1. Se non ti va bene... è proprio la tua! 1
La croce non è un vestito o un paio di scarpe, che devono starti bene.
La croce non va mai a pennello dei tuoi gusti
e delle tue esigenze particolari.
La croce strappa, ammacca, graffia, scortica, schiaccia, tira giù...
Eppure non c'è dubbio...
per essere veramente tua, la croce non deve andarti bene
Anche a Cristo non andava bene la sua croce.
Non andava bene il tradimento di Giuda, il sonno degli apostoli,
la congiura dei nemici, la fuga degli amici, il rinnegamento di Pietro,
gli scherni dei soldati... il grido feroce della folla...
Quella croce che ti piomba addosso al momento meno opportuno:
una malattia che ti coglie mentre hai tante cose da sbrigare
e ti manda all'aria un mucchio di progetti...
... quel colpo vile che ti è venuto da un amico...
... quella calunnia che ti ha lasciato senza fiato...
... quella croce che tu non avresti mai scelto in mezzo a mille altre...
che ti sembra eccessiva, spropositata,
sproporzionata alle tue deboli forze
- "è troppo, non ce la faccio" - non appartiene ad altri: è la "tua".
Non illuderti. La croce su misura non esiste.
Cerca pure, rovista da tutte le parti,
esamina bene, valuta attentamente...
se trovi la croce che fa per te, buttala via...
quella, sicuramente non è la tua.
I segni che una croce è tua sono sconcertanti :
imprevisto, ripugnanza, disagio, impossibilità, inopportunità, senso di debolezza.
Se una croce ti si presenta come antipatica, sgradevole, insopportabile...
non esitare a caricartela sulle spalle... ti appartiene
All'inizio ti apparirà con i segni dell'estraneità .
In seguito scoprirai che è veramente "tua".
Ciò non vuol dire, beninteso, che i rapporti tra voi due diventino idilliaci,
che tutto vada liscio...
la croce scava solchi profondi sulle spalle e nel cuore.
Però si stabilirà ugualmente una certa familiarità. Una familiarità sofferta,
ma giustificata dal senso che si scopre a poco a poco, camminando.
E anche quando il significato non diventa chiaro, c'è pur sempre la fede
che ti invita a lasciarti condurre per mano da Qualcuno che sa.
Fede vuol dire semplicemente sapere che Lui sa...
Avanti, dunque, con la croce che non ti va bene.
Con la croce che non è su misura.
Ciò che conta non è che la croce sia su tua misura
L'essenziale è che tu sia a misura del Cristo.
inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 27/06/2019
TESTO
Ora tocca a lui, a Gesù.
Sento una indicibile nostalgia.
Stamattina mi ha preso un colpo
quando un amico mi disse:
"Sai, c'è Gesù, il Maestro, a Gerico.
E tra poco passerà da queste parti,
per andare a Gerusalemme".
Mi ha preso un colpo, e non so come,
mi è venuta una gran voglia di vederti!
Ma che? sto parlando come se fosse qui!
Mi sono messo a correre. Una spinta,
non so come sia successo.
Ti volevo vedere. E, come dicevo,
mi son messo a correre,
come quando ero bambino.
Che figuraccia, correre come i ragazzini!
Avresti dovuto vedere le facce
di clienti e conoscenti.
Ma io ho continuato, perché non m'interessa
quello che può dire la gente.
Ce l'ho fatta ad arrampicarmi.
Ho sete di te, e mi brucia questa sete
di vederti. Mi basterà vederti?
Non so.
Ho paura di ciò che potrà capitarmi.
Me ne starò qui, abbastanza nascosto,
per vederlo senza farmi vedere.
Ora tocca a te, Gesù.
Il cuore mi dice che oggi
sarà un giorno indimenticabile.
Perché sono stanco,
stanco di maneggiare denaro,
di rendere la gente più arrabbiata,
di vedermi l'odio di tutti in faccia.
Mi son fatto una posizione, sì.
Tutti mi rispettano, mi temono.
Ma io non ce la faccio più a rubare,
a esigere, a fare i conti, a controllare,
ad arricchirmi. Sono diventato anche io
spietato, come i romani. Gentaglia!
Certe volte mi sono vergognato
vedendo piangere i miei fratelli ebrei.
Già, fratelli. Sono stato un carnefice.
Ho fatto disperare. Io, sì, disperare.
Quanti mi hanno implorato,
quanti mi hanno maledetto.
Qualche volta avrei voluto restituire i soldi,
fare la spesa per le famiglie sfortunate.
Ma c'era sempre qualche sodato romano
accanto, a controllarmi.
Ma ora non ce la faccio più.
Eccolo!!! Arriva. E' proprio lui.
Che occhi attenti, che occhi buoni.
Non guarda come guardo io.
Guarda dentro, guarda con amore.
Ora capisco come la gente gli vada dietro.
Mi avevano detto che la gente ascolta,
lo segue, cambia vita. E' proprio vero.
Che faccio ora? Scendo dall'albero?
Mi piacerebbe invitarlo a casa mia.
"Zaccheo, scendi. Subito".
Dice a me? Conosce il mio nome!
Come se sappia tutto di me!
“Scendi subito! Oggi devo fermarmi da te”
Ma certo! Era quello che sognavo.
Ho fatto bene a venire qui.
"Gesù, sono onorato di averti a casa mia".
Ora sono contento. Finalmente.
Contento come quand'ero bambino.
Ora posso cambiare. Potrò guardare tutti negli occhi.
Mi guardano tutti, sorpresi.
"Subito! Devo... fermarmi... A casa tua!"
E' un sogno!
Zaccheo, corri.
incontrare Gesùzaccheoattesamisericordia
inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 29/12/2018
TESTO
don Tonino Bello, www.mosaicodipace.it
Carissima Rut, avrei voluto scriverti in ben altra circostanza.
Per approfondire ad esempio le ragioni di quell'universalismo della salvezza che hanno indotto Dio a includere anche te, unica straniera nell'albero della genealogia ebraica di Gesù.
Non ti nascondo infatti che quando nella messa viene proclamata la lista degli antenati di Cristo tramandataci da Matteo, mi sorprende e mi commuove sentir pronunciare il tuo nome di donna fugace come un fremito d'ala. Sembra un nome abbreviato per pudore. O intimidito di comparire in mezzo al ferrigno scrosciare dei nomi di tanti maschioni.
Ti scrivo, invece, perché voglio sfogare con qualcuno la tristezza che mi devasta l'anima in questi giorni, alla vista di tanti stranieri che hanno invaso l'Italia, e verso i quali la nostra civiltà, che a parole si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multireligiosa e multinonsoché non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità.
So bene che il problema dell'immigrazione richiede molta avvedutezza e merita risposte meno ingenue di quelle fornite da un romantico altruismo. Capisco anche le «buone ragioni» dei miei concittadini che temono chi sa quali destabilizzazioni negli assetti consolidati del loro sistema di vita. Ma mi lascia sovrappensiero il fatto che si stenti a capire le «buone ragioni» dei poveri allo sbando e che in questo esodo biblico non si riesca ancora a scorgere l'inquietante malessere di un mondo oppresso dall'ingiustizia e dalla miseria.
Tu mi sembri, allora, l'interlocutrice più adatta delle mie confidenze, dal momento che, avendo coniugato il verbo accogliere non solo nella forma attiva ma anche nella forma passiva, hai sperimentato la durezza dell'emigrazione nella duplice fase: l'esilio in patria e la ghettizzazione in terra straniera.
Non tutti conoscono la tua storia. Perciò mi scuserai se, nel rievocarne alcuni particolari, sfiorerò la discrezione e farò violenza al tuo riserbo.
Vivevi spensierata sulle alture di Moab, al di là del mar Morto, cullando sogni e parlando d'amore con le tue compagne, quando un giorno arrivò nel tuo paese una famiglia di spiantati. Erano stranieri, provenienti dalla terra di Canaan, colpita in quegli anni da una terribile carestia.
Ti impressionò subito la carnagione bruna dei due figli. Uno dei quali si accorse di te.
Ma tu eri ancora ragazzina. Tanto ragazzina, che il cuore si mise a battere di paura quando egli, con i gesti più che con le parole, venne dai tuoi genitori a chiederti come sposa.
Non so se in casa quel giorno accaddero scenate. Ma c'è da supporre che ti rinfacciarono tutta la loro disapprovazione. Che eri il disonore della famiglia. Che non ti avrebbero più riconosciuta come figlia. E che era un infamia girar le spalle tutt'una volta alla propria tradizione, alla propria lingua, alle proprie divinità, per correr dietro a una maledetto sconosciuto. E che, comunque, non avrebbero tollerato mai e poi mai, dopo averti cresciuta come un fiore, di doverti consegnare a uno di quei morti di fame. Accidenti a lui e a tutti quelli della sua razza!
Furono giorni amarissimi, ma alla fine la spuntasti tu, pur pagando caramente il prezzo della tua caparbietà.
Ti vedesti così tagliare tutti i ponti, e alla fine rimanesti sola. Al punto che, quando dopo dieci anni di tribolazione tuo marito morì e morirono anche il fratello e il padre di lui, decidesti di seguire Noemi, la suocera addolorata, che, non avendo più nessuno anche lei in quella amarissima terra straniera, volle rimpatriare.
«Dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta».
Varcasti così la frontiera, e cominciò per te la seconda fase della tua esperienza di “diversità”.
Un vero e proprio mestiere non ce l'avevi. Insieme con la qualifica professionale, ti mancava anche il libretto di lavoro, e a Betlemme, dove andasti ad abitare con Noemi, non ti vollero iscrivere nelle liste di collocamento. Sicché, per camparti la vita, essendo il tempo in cui si cominciava a mietere l'orzo, andasti a spigolare furtivamente nelle campagne.
O Dio, non era proprio lavoro nero, ma era certo un lavoro umiliante, perché scartato da tutti ed esposto alle molestie del mietitori.
Meno male che trovasti grazia presso un ricco massaro, un certo signor Booz, il quale ti prese a ben volere e ordinò ai suoi dipendenti: «Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non le fate affronto; anzi lasciate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; abbandonatele, perché essa le raccolga, e non sgridatela».
Ti andò veramente bene. Anzi meglio di così la sorte non poteva arriderti, dal momento che il massaro cominciò ad avere del tenero per te e addirittura ti volle sposare, tra la meraviglia di tutte le donne di Betlemme che creparono d'invidia. E brava la Moabita!
Carissima Rut, qualcuno potrebbe dire che, a proposito di immigrati, la tua vicenda non fa testo, perché, essendosi conclusa con la fatidica frase «e vissero felici e contenti», sembra appartenere più al genere delle telenovele che ai resoconti del telegiornale o ai servizi di Samarcanda, laddove le storie degli extracomunitari si intridono spesso di lacrime e di morte.
Io, invece, penso che nelle pieghe della tua avventura possiamo leggere il giudizio di Dio su questa impressionante transumanza di gente alla deriva.
La tua storia, insomma, ci interpella non solo con la forza esemplare del paradigma, ma anche con la sollecitazione di risposte intelligenti di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri nel nostro territorio.
Anzitutto, ci dice che la fusione di etnie diverse è possibile: anzi, appartiene a quel pacco di progetti che costituiscono la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà. La comunicazione con le culture altre, insomma non è un'utopia, né uno sterile sospiro di sognatori.
Quando alle porte della città si celebrarono le tue nozze col massaro di Betlemme, gli anziani rivolsero a Booz tuo marito uno splendido augurio, che vale tutto un trattato sulla integrazione al razziale: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa di Israele».
In secondo luogo, la tua storia ci provoca a vincere gli istinti xenofobi che ci dormono dentro. Che si ammantano di ragioni patriottiche. Che scatenano all'interno delle nostre raffinatissime città, inqualificabili atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di violenza, di razzismo. E che implorano dalle istituzioni con martellante coralità, rigorosi provvedimenti di forza.
Siamo vittime di una insopportabile prudenza, e scorgiamo sempre angoscianti minacce dietro l'angolo.
Perché lo straniero mette in crisi sostanzialmente due cose: la nostra sicurezza e la nostra identità.
Da una parte, infatti, ci toglie il lavoro, ci contende la casa, ci riduce gli spazi, entra in competizione con noi, decostruisce l'articolazione dei nostri interessi economici. Dall'altra, sembra attentare ai nostri connotati, sfida la compattezza del nostro mondo spirituale, relativizza i nostri altari, sfibra il deposito delle nostre tradizioni.
Ebbene, la tua storia ci fa capire che la segregazione è la risposta più sbagliata al problema razziale, così come rappresenta una iattura simmetrica il tentativo di voler assorbire nelle stratificazioni della nostra cultura i tratti emergenti della «diversità» altrui, senza lasciarne neppure la traccia. Solo la progressiva intersezione di aree di valori sarà capace di creare il terreno, calcando il quale nessuno debba sentirsi in esilio.
Grazie, dolcissima Rut, per questo tuo incredibile messaggio di universalità che lasci cadere dai tuoi covoni.
Dietro i quali, alla ricerca dei tratti di un mondo più solidale, siamo venuti anche noi a spigolare.
Luglio 1991
stranierimigrantimigrazionidiversitàaccoglienzaintegrazionemulticulturalità
inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018
TESTO
4. Auguri di Natale non in serie
Carissimi,
formulare gli auguri di Natale dovrebbe essere la cosa più semplice di questo mondo. Invece, quest'anno sto provando tanta difficoltà. Ho scritto e riscritto cento volte l'attacco di questa lettera, ma mi è parso di dire sempre delle cose estremamente banali. Come sono banali certi presepi bell'e confezionati che si acquistano ai grandi magazzini. Saranno anche attraenti con i loro svolazzi di angeli e con i loro muschi di plastica. Ma sono freddi. Perché fatti in serie.
Ecco: è proprio la «serialità» che mi mette in crisi. Ho l'impressione, cioè, di esporre anch'io la mia merce preconfezionata, e poi lasciare che ognuno si serva da solo, come nei self-service di certi ristoranti.
È qui lo sbaglio: nella pretesa di voler trovare delle formule standard, buone per tutti. Invece, a Natale, non si possono porgere auguri indistinti.
Dire buon Natale a te, Ignazio, che vivi immobilizzato da anni, dopo quel terribile incidente stradale che ti ha ridotto a un rudere, è molto diverso che dire Buon Natale a te, Franco, che hai fatto spese pazze per rinnovarti l'attrezzatura sciistica, e il 25 dicembre lo passerai in montagna, dove hai già prenotato l'albergo per la settimana bianca. Tu, Ignazio, la stella cometa del presepe non la vedi neanche, perché non puoi muovere la testa dal guanciale. E, allora, devo descrivertela io, e dirti che essa fa luce anche per te, e assicurarti che Gesù è venuto a dare senso alla tua tragedia e che, nella Notte Santa, anzi, ogni notte della tua vita, egli trasloca dalla mangiatoia per venirti accanto e farsi scaldare da te. Tu, Franco, la stella cometa non la vedi perché non hai tempo per pensare a queste cose, e in testa hai ben altre stelle. E, allora, devo provocartene io la nostalgia, e dirti che le lampade dei ritrovi mondani dove consumi le tue notti e i tuoi soldi, non fanno luce sufficiente a dar senso alla tua vita.
Dire buon Natale a te, Katia, che il 26 andrai all'altare con Cosimo, è molto diverso che dire buon Natale a Rosaria, che il mese scorso ha firmato la separazione consensuale, dopo che Gigi se n'è andato con un'altra. Perché a te, Katia, basterà l'invito a vedere nel presepe la celebrazione nuziale suprema di Dio che prende in sposa l'umanità, e già ti sentirai coinvolta nel mistero dell'incarnazione. A te, Rosaria, invece, che per la prima volta le feste le passerai sola in casa, e che non hai voglia neppure di andare a pranzo dai tuoi, occorrerà tutta la mia discrezione per farti capire che non è molto dissimile il ripudio subito da Gesù nella notte santa. Buon Natale, Rosaria. E buon Natale anche a Gigi, perché, scorgendo nel bambino del presepe il mistero della fedeltà di Dio, torni presto a casa.
Dire buon Natale a te, carissimo Nicola, che mi sei tanto vicino con la tua amicizia ma anche tanto lontano con l'ateismo che professi, è molto diverso che dire buon Natale a te, don Donato, che le parole di santità, tu sei bravo a dirmele più di quanto io non sappia fare con te. Perché tu, don Donato, hai un cuore che trabocca di tenerezza, e quando parli del Verbo che scende sulla terra e diventa l'Emmanuele, cioè il Dio con noi, si vede che ci credi a quello che dici, e daresti la vita perché anche gli altri ponessero lo sguardo su quel pozzo di luce che rischia di accecare i tuoi occhi. Mentre tu, Nicola, davanti al presepe resti impassibile, e il bue e l'asino ti fanno sorridere, e l'incanto di quella notte ti sembra una fuga dalla realtà, e rassomigli tanto a qualcuno di quei pastori (qualcuno ci deve essere pur stato!) che, all'apparizione degli angeli, non si è neppure scomposto ed è rimasto a scaldarsi davanti al fuoco del suo scetticismo. Non voglio forzare la tua coscienza: ma sei proprio sicuro che, quel bambino non abbia nulla da dirti, e che questo mistero (che tu vorresti confinare tra le favole) di Dio fatto uomo per amore, sia completamente estraneo al tuo bisogno di felicità? Auguri, comunque, perché la tua irreprensibile onestà umana trovi nella culla di Betlemme la sua sorgente e il suo estuario.
Dire buon Natale a te, Corrado, che vivi nella casa di riposo, e la sera ti lasci cullare dalle nenie pastorali, e te ne vai sulle ali della fantasia ai tempi di quando eri bambino, e la tua anima brulica di ricordi più di quanto i tratturi del presepe non brulichino di percorelle, e pensi che questo sarà forse il tuo ultimo Natale, e ti raffiguri già il momento in cui Gesù lo contemplerai faccia a faccia con i tuoi occhi... è molto diverso che fare gli auguri a te, Antonietta, che hai vent'anni e tutti dicono che non sei più quella di una volta, e l'altro giorno mi hai confidato che non fai più parte del coro e che forse quest'anno non ti confesserai neppure. Buon Natale, Antonietta. Pregherò perché tu possa trovare cinque minuti per piangere da sola davanti alla culla, e in quel pianto tu possa sperimentare le stesse emozioni di quando la semplice carta stagnola del presepe ti faceva trasalire di felicità.
Un conto è dire buon Natale a te, Gianni, che stai in ospedale e oggi anche i medici se ne sono andati e tu non vedi l'ora che arrivi il momento delle visite per poter parlare con qualcuno, e un conto è dire buon Natale a te, Piero, che in carcere nessuno verrà a trovare dopo che ne hai combinate di tutti i colori perfino a tuo padre e a tua madre. Auguri a tutti e due, comunque, e ai vostri compagni di corsia o di cella: Gesù Cristo vi restituisca la salute del corpo e quella dello spirito.
Buon Natale a te, Carmela, che sei rimasta vedova. A te, Marina, che sei felice perché le cose vanno bene. A te, Michele, che ti disperi perché le cose vanno male. A te, Mussif, e a tutti i profughi albanesi che vivono insieme nella casa di accoglienza. A te, Sahid, che guardi alla televisioni gli spettacoli dell'Unicef sui bambini irakeni e slavi decimati dalla fame, e, per un'associazione di immagini non certo molto strana, pensi ai tuoi figli che hai lasciato in Tunisia.
Dopo che l'ho poggiata sull'altare, profumata d'incenso e grondante ancora di benedizioni divine, voglio dare la mano a tutti, sicuro che nessuno tirerà indietro la sua.
Perché a Natale, felice o triste che sia, fedele o miscredente, miserabile o miliardario, ognuno avverte, chi sa per quale mistero, che di quel bambino «avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia», una volta che l'ha conosciuto, non può più fare a meno.
nataleincarnazionesofferenzadisperazionesperanzasolidarietàsolitudinericercaricerca di senso
inserito il 19/02/2018
PREGHIERA
Giuliano Guzzo, www.giulianoguzzo.com
Caro Gesù Bambino,
una manciata di giorni e sarà il Tuo, se ancora vorrai visitare quest'umanità distratta e sperduta, in tutt'altre faccende affaccendata. E' incredibile, infatti, eppure accade ogni anno: si avvicina il Natale e di tutto ci si occupa - di mercatini, di cibo, di idee regalo, di pandori con la farina di insetti - fuorché della Ragione di Tutto, del Regalo dei Regali, di un Dio che non solo non se la tira, ma si umilia fino a farsi neonato, minuto ospite del mondo che Egli stesso ha creato; un po' come se Messi chiedesse di iscriversi alla squadra dei pulcini; se Federer elemosinasse la racchetta più economica; se Armani si aggirasse, sognante, fra bancarelle di capi di terza mano.
Un meraviglioso ed abbagliante paradosso che solo a Te, caro Gesù, sarebbe potuto venire in mente. Tuttavia, dicevo, quaggiù si stenta a rendersene conto. Non chiedermene la ragione, ma è così. La prima richiesta che mi permetto di avanzare con questa lettera è, quindi, quella di donarci lo stupore per la Tua venuta, il desiderio di fiondarci tra pecore e pastori, di bramare un posto che - oggi come 2000 e passa anni fa, purtroppo - pare interessi a pochi: quello dinnanzi a una grotta senza viste panoramiche, Jacuzzi né pavimento riscaldato ma con, dentro, una Grande Luce. Anzi, la sola vera Luce, al cui confronto le stesse stelle più splendenti non sono che fiacche lampadine.
La seconda richiesta che Ti rivolgo, sono Giga spirituali illimitati. La voglia di tornare a pregare, di farlo con intensità, fermi e in ginocchio, cosa oggi non facile. Come difatti saprai, qui è un continuo invito alla corsa: corri per affermarti, corri per cogliere l'attimo, corri per vincere, corri per restare in forma. Lo stesso Avvento è stato da tempo rimpiazzato dalla «corsa per gli acquisti»; come se a Natale si festeggiassero dei centometristi giamaicani e non un Bambino che, pur non potendo ancora camminare, ha fatto fare - da subito - enormi balzi in avanti all'umanità. Regalaci, insomma, la capacità di tornare ad affidarci a Te, la sola Bussola di cui abbisogna quel povero migrante che è il nostro cuore.
Sperando di non esagerare, avrei un terzo e ultimo desiderio. Ti vorrei chiedere di salutarci tanto, prima di venirci a trovare, Charlie Gard e tutti i piccoli come lui, scartati da un mondo che, da tempo, non sa più dare un significato alla fragilità, un senso al dolore, una direzione alle lacrime. Già lo sapranno, ma è bene che a questi Angeli venga ricordato che alcuni, qui, non si sono dimenticati di loro e che in loro nome continueranno a sottolineare che, se non si è favorevoli ad accogliere sempre la Vita, si può ben festeggiare Halloween, il Black Friday e, che so, la giornata mondiale del peto, ma il Natale, ecco, meglio lasciarlo stare. Per un briciolo di coerenza, se non altro.
Detto questo, caro Gesù, concludo - oltre che con la speranza le Poste Celesti sappiano recapitare questo messaggio per tempo dato che con l'eternità, sai com'è, hanno già abbastanza pratica quelle Italiane - con un ringraziamento. Ti ringrazio, senza voler dare ciò per scontato, per essere in viaggio e per riposare già nel ventre di Maria, al sicuro, dove le unghie e i soldati degli Erode, inclusi gli odierni, non possono arrivare. Non saprei dire, adesso, quanti saremo ad accoglierTi come meriti, ma dico grazie fin d'ora per la gioia che vorrai condividere col Tuo gregge, anche se è quello che è. Siamo infatti solo poveri diavoli stanchi di credersi grandi. Ma è per questo, in fondo, che aspettiamo un Bambino.
nataleavventoaccoglienzaspiritualitàstuporevita
inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018
TESTO
Roberto Benigni, I Dieci Comandamenti, Rai 1, 15 dicembre 2014
Il problema fondamentale dell'umanità da 2000 anni è rimasto lo stesso... amarsi. Solo che ora è diventato più urgente, molto più urgente, e quando oggi sentiamo ancora ripetere che dobbiamo amarci l'un l'altro, sappiamo che ormai non ci rimane molto tempo. Ci dobbiamo affrettare, affrettiamoci ad amare, noi amiamo sempre troppo poco e troppo tardi, affrettiamoci ad amare, perché al tramonto della vita saremo giudicati sull'amore, perché non esiste amore sprecato e perché non esiste un'emozione più grande di sentire quando siamo innamorati che la nostra vita dipende totalmente da un'altra persona, che non bastiamo a noi stessi, e che tutte le cose, ma anche quelle inanimate come le montagne, i mari, le strade, il cielo, il vento, le stelle, le città, i fiumi, le pietre, i palazzi... tutte queste cose, che di per sé sono vuote, indifferenti, improvvisamente quando le guardiamo si caricano di significato umano e ci affascinano, ci commuovono, perché? Perché contengono un presentimento d'amore, anche le cose inanimate, perché il fasciame di tutta la creazione è amore e perché l'amore combacia con il significato di tutte le cose: la felicità. Si, la felicità... e a proposito di felicità, cercatela, tutti i giorni, continuamente e anzi, chiunque mi ascolti ora, si metta in cerca della felicità ora, in questo momento stesso perché è lì, ce l'avete, ce l'abbiamo perché l'hanno data a tutti noi, ce l'hanno data in dono quando eravamo piccoli, ce l'hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che l'abbiamo nascosto, come fanno i cani con l'osso, quando lo nascondono; e molti di noi l'hanno nascosto così bene che non si ricordano più dove l'hanno messo, ma ce l'avete, ce l'abbiamo. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all'aria: i cassetti, i comodini che avete dentro... vedrete che esce fuori, c'è la felicità. Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa ma è lì, dobbiamo pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei, fino all'ultimo giorno della nostra vita.
E non dobbiamo avere paura nemmeno della morte, guardate che è più rischioso nascere che morire eh! Non bisogna avere paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero. Saltate dentro l'esistenza ora, qui, perché se non trovate niente ora, non troverete niente mai più, è qui l'eternità, e allora dobbiamo dire "SI” alla vita, dobbiamo dire un SI talmente pieno alla vita che sia capace di arginare tutti i no, perché alla fine di queste due serate insieme, abbiamo capito che non sappiamo niente e che non ci si capisce niente, e si capisce solo che c'è un gran mistero che bisogna prenderlo come è e lasciarlo stare, e che la cosa che fa più impressione al mondo è la vita che va avanti e non si capisce come faccia; "Ma come fa? Come fa a resistere? Ma come fa a durare così?"... è un altro mistero, e nessuno lo ha mai capito, perché la vita e molto più di quello che possiamo capire noi, per questo devi resistere. Se la vita fosse solo quello che capiamo noi, sarebbe finita da tanto, tanto tempo, e noi lo sentiamo, lo sentiamo che da un momento all'altro ci potrebbe capitare qualcosa di infinito, e allora ad ognuno di noi non rimane che una cosa da fare: inchinarsi.
amarsiamorefelicitàcomandamentibenignimortevitasenso della vitaviveremistero
inviato da Qumran, inserito il 02/12/2017
TESTO
Carlo Maria Martini, La famiglia alla prova
Il Signore chiama solo per rendere felici. Le possibili scelte di vita, il matrimonio e la vita consacrata, la dedizione al ministero del prete e del diacono, l'assunzione della professione come una missione possono essere un modo di vivere la vocazione cristiana se sono motivate dall'amore e non dall'egoismo, se comportano una dedizione definitiva, se il criterio e lo stile della vita quotidiana è quello del Vangelo.
La prima è quella di essere marito e moglie, papà e mamma. L'inerzia della vita con le sue frenesie e le sue noie, il logorio della convivenza, il fatto che ciascuno sia prima o poi una delusione per l'altro quando emergono e si irrigidiscono difetti e cattiverie, tutto questo finisce per far dimenticare la benedizione del volersi bene, del vivere insieme, del mettere al mondo i figli e introdurli nella vita. L'amore che ha persuaso al matrimonio non si riduce all'emozione di una stagione un po' euforica, non è solo un'attrazione che il tempo consuma. L'amore sponsale è vocazione: nel volersi bene, marito e moglie possono riconoscere la chiamata del Signore.
Il matrimonio non è solo la decisione di un uomo e di una donna: è la grazia che attrae due persone mature, consapevoli, contente, a dare un volto definitivo alla propria libertà. Il volto di due persone che si amano rivela qualcosa del mistero di Dio. Vorrei pertanto invitare a custodire la bellezza dell'amore sponsale e a perseverare in questa vocazione: ne deriva tutta una concezione della vita che incoraggia la fedeltà, consente di sostenere le prove, le delusioni, aiuta ad attraversare le eventuali crisi senza ritenerle irrimediabili.
Chi vive il suo matrimonio come una vocazione professa la sua fede: non si tratta solo di rapporti umani che possono essere motivo di felicità o di tormento, si tratta di attraversare i giorni con la certezza della presenza del Signore, con l'umile pazienza di prendere ogni giorno la propria croce, con la fierezza di poter far fronte, per grazia di Dio, alle responsabilità. Non sempre gli impegni professionali, gli adempimenti di famiglia, le condizioni di salute, il contesto in cui si vive, aiutano a vedere con lucidità la bellezza e la grandezza di questa vocazione. È necessario reagire all'inerzia indotta dalla vita quotidiana e volere tenacemente anche momenti di libertà, di serenità, di preghiera.
Invito pertanto a pregare insieme: una preghiera semplice per ringraziare il Signore, per chiedere la sua benedizione per sé, i figli, gli amici, la comunità: qualche Ave Maria per tutte quelle attese e quelle pene che forse non si riescono neppure a dire tra i coniugi.
Invito ad aver cura di qualche data, a distinguerla con un segno, come una visita a un santuario, una messa anche in giorno feriale, una lettera per dire quelle parole che inceppano la voce: la data del matrimonio, quella del battesimo dei figli, quella di qualche lutto familiare, tanto per fare qualche esempio.
Invito a trovare il tempo per parlare l'uno all'altro con semplicità, senza trasformare ogni punto di vista in un puntiglio, ogni divergenza in un litigio: un tempo per parlare, scambiare delle idee, riconoscere gli errori e chiedersi scusa, rallegrarsi del bene compiuto, un tempo per parlare passeggiando tranquillamente la domenica pomeriggio, senza fretta. E invito a stare per qualche tempo da soli, ciascuno per conto suo: un momento di distacco può aiutare a stare insieme meglio e più volentieri.
Invito infine gli sposi ad avere fiducia nell'incidenza della loro opera educativa: troppi genitori sono scoraggiati dall'impressione di una certa impermeabilità dei loro figli, che sono capaci di pretendere molto, ma risultano refrattari a ogni interferenza nelle loro amicizie, nei loro orari, nel loro mondo. La vocazione dei genitori a educare è benedetta da Dio: perciò occorre che essi trasformino le loro apprensioni in preghiera, meditazione, confronto pacato. Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto. Educare è una grazia che il Signore fa: occorre accoglierla con gratitudine e senso di responsabilità. Talora richiederà pazienza e amabile condiscendenza, talora fermezza e determinazione, talora, in una famiglia, capita anche di litigare e di andare a letto senza salutarsi: ma non bisogna perdersi d'animo, non c'è niente di irrimediabile per chi si lascia condurre dallo Spirito di Dio. Ed esorto ad affidare spesso i figli alla protezione di Maria, a non tralasciare una decina del rosario per ciascuno di loro, con fiducia e senza perdere la stima né di se stessi né dei propri figli. Educare è diventare collaboratori di Dio perché ciascuno realizzi la sua vocazione.
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inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
ESPERIENZA
Padre Modesto Paris, Panorama, num. 23/2017
Mancano poche ore al mio intervento di tracheostomia. Alcuni giorni fa ho dovuto prendere una decisione che non prevede ripensamenti. Non si può più tornare indietro. Mai avrei pensato di affrontare questa scelta a 59 anni. Ma i dottori mi hanno detto chiaro e tondo che sono arrivato alla fine del mio sentiero. Manca poco. E se non mi faccio aiutare con un foro nella trachea per far passare un tubo da collegare a una macchina esterna, il mio corpo non ce la farà più a respirare in maniera autonoma. L'alternativa era una sola: finire la mia permanenza terrena in modo dolce, addormentato. Da due anni mi hanno diagnosticato la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che, un pezzo alla volta, ha bloccato tutte le mie funzioni motorie e vitali. I medici sono stati chiari: mi hanno detto che solo il 15 per cento delle persone nelle mie condizioni decide di continuare a lottare. Il mio sì alla vita, nonostante le statistiche, è stato però immediato, senza esitazioni. E non solo perché sono un uomo di fede, un frate agostiniano scalzo, ordinato sacerdote 33 anni fa da Papa Giovanni Paolo II. L'ho fatto perché amo la vita in ogni sua sfaccettatura.
Ho puntato tutto il mio sacerdozio sull'esempio. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Per tutti i miei anni con il saio l'ho predicato in migliaia di Messe, in chiesa o in cima alle montagne. Agli adulti o ai giovani delle associazioni che ho fondato, ho sempre proposto un modello di vita basato su una fede viva aperta e gioiosa. Anche nelle difficoltà. Specialmente nelle difficoltà. Mentre sono sul letto su cui aspetto la chiamata per la sala operatoria, arriva una telefonata. È Guido. Il mio amico di sempre, compagno di tutte le mie avventure e "pazzie" nel volontariato. Lo conosco da quando ha cominciato a fare il chierichetto con me 40 anni fa. Io avevo 18 anni, lui 8. Ora è giornalista di Panorama. E nonostante abiti a 150 chilometri di distanza e abbia appena avuto un figlio, non ha mai smesso di credere ai miei sogni. Mi chiama e chiede se voglio raccontare a tutti i lettori perché ho detto sì. Perché non mi voglio arrendere. Se potessi ancora parlare ripeterei a gran voce queste parole di Papa Francesco: "Il dolore è dolore, ma vissuto con gioia e speranza ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo". Non potendo urlare lo scrivo sul tablet che mio fratello Andrea sorregge. Uso tre dita della mano destra. L'unica parte di me che ancora riesco a muovere. Oltre agli occhi.
Vado a ruota libera. Metto in fila i pensieri che come un lampo hanno attraversato la mia mente, gli istanti prima del mio sì. In camera mia i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. "L'aquilone prende il volo solo con il vento contrario". In questi mesi l'ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E proprio per questo ho continuato a volare. La mia decisione per il sì alla respirazione artificiale non è arrivata subito. È frutto di un cammino in salita che dura da mesi. A ogni ostacolo è seguita sempre una soluzione. E la vita è andata avanti. E io sono stato felice. Per prima cosa la malattia mi ha bloccato le corde vocali. Da quasi un anno non parlo più. Ma in mio aiuto è arrivato il comunicatore: un computer che parla al posto mio traducendo in messaggi audio i pensieri che digito sulla tastiera. Grazie a questo strumento tecnologico, per me la Messa non è mai finita. Ho potuto celebrare quasi tutte le domeniche. Anche in ospedale. Persino in diretta su Facebook. L'attenzione è addirittura aumentata. E ho visto tornare in chiesa tanti giovani che si erano smarriti. Poi ha smesso di funzionare la mia deglutizione e lo stomaco. Mi hanno messo un "rubinetto" nella pancia che permette di alimentarmi artificialmente. I canederli di mia madre e la pasta al pesto sono solo un ricordo.
Ma riesco a farne a meno. Sono pure dimagrito e tornato un figurino. Di Sant'Agostino cito spesso una frase: "È meglio aver meno desideri che avere più cose". E mentre scrivo queste righe capisco quanto sia vera. Non so spiegarlo, ma mi sento fortunato. Vado avanti e dico sì anche al rubinetto. Prima l'una poi l'altra, si sono fermate le gambe. E poi il braccio sinistro. Da bravo trentino, come un montanaro su un sentiero, ho continuato a salire in vetta. Questa volta sono spinto da una carrozzina elettrica ultratecnologica che io chiamo Bcs come il mio primo trattore. Penso e ripenso all'ok che ho scritto sulla lavagnetta ai medici e il sì diventa sempre più mio: ho sempre osato nella vita. Mi sono sempre spinto oltre. Per questo per me il sì è venuto spontaneo. Lo dico e lo ripeto più volte a me stesso, chi mi conosce condivide. Chi mi vuole bene sorride orgoglioso di questo sì. Un infermiere mi ha sorpreso: ha detto che il dolore va sempre prevenuto con medicine ad hoc. Ma senza dolore e sacrificio, la vita è noia. Non mi sento un grande, ma un piccolo Modesto che ha sempre sognato oltre le stelle. Questa nuova macchina mi aiuterà a respirare e a mantenere il mio sorriso anche quando non potrò nemmeno fare ok con il pollice: con il cuore e con gli occhi sarà facile farmi capire da chi mi vuol bene. Sant'Agostino scrive: "Ama, e fa' quello che vuoi". Si ama con il cuore e con gli occhi. Quindi non cambierà nulla nemmeno questa volta. Tante sono le cime che ho scalato insieme ai ragazzi e agli adulti dei gruppi che in questi anni ho fondato.
Ci sono vette che vedi sempre mentre stai salendo, scorgi i sentieri, sai benissimo dove si trova la meta perché l'hai raggiunta tante volte. Altre vette non le vedi, le immagini, le sogni. Alcune hanno bisogno di gambe buone, altre di un cuore grande, altre di grinta, altre di tanta fede. Gli infermieri mi chiudono il computer. Ho scritto tutta la notte. Sono esausto. È ora di andare sotto i ferri. E tutto quello che ho digitato forse non potrò leggerlo sfogliando Panorama. Porto con me in sala operatoria il fazzoletto promessa simbolo di appartenenza ai gruppi e una piccola croce di legno. È venerdì, sono le 9 di mattino. Proprio il giorno e l'ora in cui Gesù è stato crocifisso. Ho paura, ma cerco di non farlo vedere. L'anestesia sta svanendo. Mi sono svegliato, respiro bene. Quelli che vedo sono i miei amici di sempre. Sono angeli, ma non hanno le ali. Sono ancora vivo. Chiedo il computer. Voglio finire di scrivere le ragioni del mio sì alla vita. Mi viene in mente un racconto che mi ha fatto un giorno la caposala, trentina di nascita, genovese d'adozione, come me. Mi parla di una ragazza che ha assistito 30 anni fa. Si chiama Paola: a 19 anni, presenta disturbi motori e neurologici. Non si cita la Sla perché non la si conosceva ancora. Soltanto nove anni dopo le comunicano di avere proprio quella malattia. Paola conosce Alessandro, mentre riesce ancora a camminare e gli rivela sin da subito di essere malata. Paola e Alessandro si sposano e poco tempo dopo decidono di avere un figlio. Nel frattempo la malattia di Paola va avanti e non le permette più di camminare. I medici non sono favorevoli alla gravidanza perché pensano che possa essere troppo rischiosa. E invece nasce Luca un bimbo bellissimo e sano. Paola, poco per volta, perde tutte le sue funzionalità motorie e respiratorie, si deve sottoporre a vari interventi come quelli che ho affrontato io. Alimentazione assistita e tracheotomia.
Oggi la sua è una bellissima famiglia. Luca ha 18 anni, Paola muove solo gli occhi e Alessandro sa usare con molta abilità tutte le macchine che tengono in vita la moglie. Tantissimi sono gli amici che a turno vanno ad aiutare la sua famiglia e a chi le chiede come possa vivere così lei risponde: "Io sono felice così". Anche io sono felice così. Perché finché vivo mi posso nutrire della vita degli altri. Della grande famiglia che in questi anni è cresciuta con me. Vivo per sapere come vanno le attività dei miei ragazzi, dei gruppi di adulti, dei miei fratelli (e confratelli agostiniani), di mia mamma. Sapere che un giovane che conosco si è sposato o ha avuto un figlio mi riempie di gioia. Vedere un video e le foto di un campo o un bivacco, oppure sapere che una festa del volontariato è riuscita nell'intento di aiutare un orfanotrofio, mi fa sorridere. Mi fa sentire bene. Mi fa sentire vivo. Quanto è vera la frase "la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare". L'ho ripetuta centinaia di volte per motivare i ragazzi ad arrivare in cima a una montagna. Ora è il mio bastone. La mia fede è rimasta la stessa. Quella fede del montanaro con gli scarponi. Quella del bambino cresciuto in segheria. Primo di sei fratelli ho iniziato a lavorare quando non avevo ancora compiuto 4 anni. Il mio compito era stare accanto alla " bindella a zapar stece", vicino alla sega a nastro per raccogliere le assicelle tagliate che servivano a costruire cassette per le mele. Il mio mondo era quello, lo stesso di mio padre. A 12 anni la chiamata.
Ho lasciato quel mondo per entrare in convento. E non l'ho abbandonato nemmeno quando morì, giovanissimo, mio padre. Lo avevo promesso a mia mamma che, in quell'occasione mi disse: "No nir fora parché se vene fora le come moris en auter". Voleva dire: "Non uscirai mica dal seminario, perché se lo fai è come se morisse un altro". Una frase che mi ha dato la carica per diventare sacerdote e che continua a spronarmi ancora oggi che sono bloccato a letto. È per mia mamma che ho detto sì. Ma non solo. Chiudo con un segreto, che non ho mai rivelato a nessuno. Nel 1985 sono stato ordinato sacerdote da Papa Giovanni Paolo II. Avevo 26 anni. C'è stato un momento, prima che mi ponesse le mani sulla testa, in cui abbiamo scambiato alcune parole. Davanti alla Pietà del Michelangelo, in San Pietro, a Roma, gli ho confidato il mio sogno: fare da guida ai ragazzi e agli adulti nella cordata della vita. Nella frase che ho detto c'era la parola "per sempre". E così è stato. E così sia.
Mercoledì 31 maggio 2017, poco giorni dopo aver scritto questa lettera, il sottile spago che teneva legato alla terra il fragile aquilone si è spezzato, cosi Modesto ha potuto proseguire il volo, verso il cielo.
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inviato da Qumran2, inserito il 08/06/2017
TESTO
9. Lettera di un animatore Grest ad un genitore
Roberta Carta, Blog Vita piena
Caro genitore di un bambino che frequenta il Grest,
sono quel ragazzo a cui hai lasciato timoroso le mani del tuo bambino.
Ho visto che mi guardavi preoccupato, forse della mia giovane età, forse del mio taglio di capelli... allora ho pensato di scriverti per ringraziarti, perché non mi conosci e mi stai affidando la cosa più preziosa che hai!
Immagino ti sarai chiesto perché un ragazzo della mia età passi le sue ore estive gratuitamente con tuo figlio. In questi giorni ascolto alla radio una canzone che dice "vale la pena mi amor", ti voglio allora dire perché ne vale la pena passare parte della mia estate con tuo figlio!
Qualcuno mi sta insegnando che donare il mio tempo per gli altri, specialmente per i più piccoli, mi può rendere felice... ho scoperto che è vero! Quando riesco a far sorridere tuo figlio; quando al mattino lo vedo corrermi incontro insieme agli altri; quando riesco a far ballare i bambini più rigidi nei miei bans scatenati; quando li consolo per una caduta o un gioco in cui non hanno vinto; quando mi vedono come un punto di riferimento, proprio me che in casa sono considerato ancora "il piccolo"... non sai quanto ne valga la pena! Ad ognuna di queste piccole cose mi sembra che il mio cuore cresca un po' di più.
Quando il mio coordinatore mi affida la responsabilità della conduzione di un gioco, delle scenografie, oppure il compito di recitare o preparare il laboratorio; sento che vede il mio talento, che mi considera competente e capace di crescere sempre di più. Non sai quanto ne valga la pena per vedere i suoi occhi soddisfatti del mio lavoro!
Quando il Don ci ringrazia a nome di tutti i bambini e genitori e di Chi sa, vale tutta la pena anche solo per me, e poi ci dice che siamo tanto amati e che è orgoglioso di noi, ne vale la pena!
E... quando condivido questo servizio con i miei amici, sì a volte litighiamo, ma più spesso siamo una grande squadra, ci abbracciamo, scherziamo... e a volte finisce a gavettoni! non sai quanto ne valga la pena!
Ti voglio ringraziare ancora per esserti fidato di me.
Ti prego non ti arrabbiare quando tuo figlio torna con la maglietta tutta sporca, non sai quante risate si è fatto mentre dipingevamo con le tempere! Valgono più di una maglietta da ricomprare, lo sai meglio di me!
Non ti sentire in colpa perché lo lasci al Grest anche la mattina in cui sei libero, gli stai regalando un esperienza unica.
Non essere preoccupato delle sbucciature, dei graffi; sono i segni di un guerriero felice che si è lanciato, ha giocato, non si è risparmiato!
Fidati che vorrò bene a tuo figlio, ho già il suo nome nella mia maglietta, so le sue canzoni ed i suoi giochi preferiti, so cosa lo spaventa e ti prometto di tenerlo per mano fino a quando non lo riconsegnerò nelle tue.
Vale la pena anche per incrociare il tuo sguardo e il tuo sorriso a fine Grest.
Alla prossima!
grestanimatorieducatorieducaregenitoriragazzifiducia
inviato da Roberta Carta, inserito il 20/02/2017
TESTO
10. Testamento di Raoul Follereau
Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi. Scrivevo, venticinque anni fa: "O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l'uomo vivrà per l'uomo, o gli uomini moriranno". Tutti e tutti insieme.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire. Bisogna scegliere. Subito. E per sempre. Ieri, l'allarme. Domani, l'inferno.
I Grandi - questi giganti che hanno cessato di essere uomini - possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all'idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un'intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore. L'Apocalisse è all'angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire "no" al suicidio dell'umanità.
"Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere". Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele...
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me. Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare. Questa è l'ultima ambizione della mia vita, e l'oggetto di questo "testamento".
Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C'è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l'umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: "la pace, la pace", perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.
I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano. Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.
Allontanatevi dai mascalzoni dell'intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste "tecniche divinizzate" che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi "progressi" e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell'anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell'uomo. Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione! La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l'Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell'umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d'amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.
Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un "progresso" folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido "ho fame!" che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: Essere veramente fratelli.
Allora... domani?
Domani, siete voi.
testamentopaceguerradisarmogiovanilibertàamoregiustiziaingiustiziafame nel mondopovertàricchezza
inviato da Fra Roberto Brunelli, inserito il 28/12/2016
RACCONTO
11. Tre figli e una gemma preziosa
Un filosofo moderno, buon pensatore, scriveva un giorno ad un suo amico così: vorrei scrivere la tua vita in un bel volume, questo volume però lo vorrei raccogliere in una sola pagina, questa pagina in una sola riga e questa riga in una sola parola.
L'amico gli riscontrava: lo puoi. Scrivi così di me: Tu sei niente. Forse aveva ragione.
Se il medesimo filosofo dicesse a noi: io vorrei scrivere la vita del cristianesimo in un bel volume, questo volume in una pagina, questa pagina in una riga, questa riga in una sola parola, noi gli risponderemmo dicendo: scrivi "Amore".
Ci sono diverse specie di amore del prossimo, per diversi motivi.
I genitori amano i propri figlioli come i figlioli amano i propri genitori. E' un amore lodevole ma non è carità. Quello tra i genitori e i figli è un amore puramente naturale....
Si ama una persona perché ci fa dei favori, perché ci aiuta nelle più gravi necessità. E' lodevole questo amore, ma non è carità; questa sarà riconoscenza che facevano anche i pagani; si può amare una persona per la sua genialità, per il suo modo graziato di dire, perché ci riesce simpatica. E' pur anche questo un amore lodevole, ma non si può chiamare carità. Sarà invece amicizia, sarà simpatia e nulla più.
La vera carità è che si debba amare il prossimo nostro per un motivo soprannaturale cioè per amore di Dio. E perché?
Perché il nostro prossimo è l'immagine di Dio. Ora se noi amiamo la persona cara, amiamo anche la sua immagine. Quindi non bisogna distinguere né chi è in alto né chi sta in basso nella società; né se è ricco o povero; né se è dotto o ignorante... Il Vangelo dice di perdonare ai nostri nemici e Iddio ce ne dà l'esempio perché fa sorgere il sole sia sul campo del buono come sul campo del cattivo, come fa piovere sia sul campo del buono come sul campo del cattivo.
Il Vangelo però continua e dice: perdonate e sarete perdonati.
Il cristiano pertanto deve conformarsi a questa legge. Ora, il cristianesimo è nato e cresce nella grandiosa legge del perdono. E per comprendere maggiormente la nobiltà della legge cristiana sul perdono, racconto una parabola.
Un uomo aveva tre figli coi quali divise la sua eredità. Avanzò per sé una gemma preziosa da destinarsi a quello dei tre figli che avrà compiuta la più grande e più magnanima azione entro un anno. Andarono i fratelli e ritornarono dopo un anno.
E il primogenito si presenta a suo padre e gli dice: «Io ho incontrato un forestiero che mi ha affidato tutti i suoi averi. Al suo ritorno io gli consegnai ogni cosa e nessuna garanzia egli aveva fuorché la mia parola». E il padre: «Hai fatto bene, ma la tua opera è giustizia e non generosa azione».
Il secondo invece dice: «Padre, io un giorno ritornavo a casa lungo un fiume rigonfio di acqua e, vedendo un bimbo caduto nell'acqua che stava per annegare, mi buttai nel fiume e lo trassi in salvo». «Tu sei degno di lode - rispose - ma la tua azione si deve chiamare umanità e non è la più perfetta».
Il terzogenito si fece innanzi e disse: «Padre, io trovai lungo la strada il mio mortal nemico addormentato sull'orlo di un precipizio; solo che un poco si fosse mosso nel sonno, sarebbe precipitato e avrebbe trovata la sua morte. Io mi accostai a lui, cautamente, lo svegliai perché badasse a salvare la sua vita».
«Figliol mio - disse il padre, abbracciandolo - tu hai veramente compiuta la più bella azione, il diamante tocca a te».
O cristiano, qui sta l'essenza del cristianesimo, amare i nemici; qui è legge divina, la perfezione, la santità, il premio del paradiso.
perdonomisericordiaamoregratuitàcarità
inviato da Simona Fontanesi, inserito il 28/12/2016
PREGHIERA
12. Lettera di un parroco a Gesù Bambino
Caro Gesù Bambino,
da quando il Padre tuo, per mezzo di te, ha creato l'uomo, tu non ti sei mai stancato di amarlo. Per la sua salvezza, ti sei fatto carne nel seno della Vergine. Dalla carne gli hai mostrato quanto è grande la tua compassione, la tua divina carità. Nella carne hai preso tutti i suoi peccati e nel tuo corpo li hai affissi su legno della croce, per toglierli dalle sue spalle. Per attestare che ogni tua parola, ogni tuo gesto d'amore è vero, sei risorto e ora sei assiso nella più alta gloria del Cielo, avendo ricevuto dal Padre un nome che è sopra ogni altro nome.
Dinanzi a te, ogni ginocchio si piega sulla terra, nei cieli, sotto terra e ogni lingua proclama che solo tu sei il Signore. Non esistono altri signori nell'universo. Solo tu sei la Vita di ogni uomo. Questa la tua verità eterna. Questa è la nostra fede. In te, solo in te, l'uomo ritrova la luce, la pace, se stesso.
Dopo la tua gloriosa ascensione, hai bisogno della nostra carne per continuare la tua missione. Hai bisogno del mio corpo per dire la tua parola, per battezzare nel tuo nome, per perdonare i peccati, per fare te pane di vita, per trasformare te in Eucaristia. Per mostrare ad ogni uomo la tua compassione, la tua carità, la tua salvezza, per discerne e separare con taglio netto, più che spada a doppio taglio, la luce dalle tenebre, la verità dalla falsità, il bene dal male, la giustizia dall'ingiustizia, l'amore dall'odio, la pace dalla guerra, la virtù dal vizio.
Non hai bisogno di un corpo di peccato, nel quale non può abitare lo Spirito Santo e il tuo cuore mai potrà muovere il mio. Hai bisogno della mia carne pura, santa, immacolata, come la carne della Madre tua. Se è nel peccato, non può essere data a te, perché appartiene già al principe del mondo. Per questo ti scrivo: per chiederti questa piccola grazia: fa' che la tua carne sia la mia carne, il tuo cuore il mio cuore, la tua anima la mia anima, il tuo Spirito Santo il mio Spirito Santo, i tuoi sentimenti i miei sentimenti.
Conformami a te, perché come te, in te, per te, possa esercitare il mio ministero profetico, sacerdotale, regale come lo hai esercitato tu. Sarò sacerdote secondo il tuo cuore. Il mondo lo vedrà e tutti si lasceranno conquistare a te. Ti prego. Non negarmela. Tu per questo vieni: per farci vita della tua vita, per essere veri strumenti della tua salvezza.
Sarei egoista se pensassi solamente a me. La mia Parrocchia è fatta di molte persone: piccoli giovani, adulti, anziani, sani, ammalati, vicini a te, ma anche tanti che da te sono lontani. Anche per ogni persona affidata alle mie cure pastorali ti chiedo una grazia. Fa' che quanti sono vicini a te, crescano nel tuo amore, diventino tuoi missionari per fare conoscere te a quanti non ti conoscono o si sono stancati di servirti, perché privi del tuo amore nel loro cuore.
Dona a questi tuoi fedeli costanza nel servizio, perseveranza nell'amore, fortezza nell'impegno, zelo nella proclamazione della tua Parola, carità sempre viva perché mai si stanchino di amare, come non ti sei stancato tu, concludendo la tua missione sull'albero della croce. A quanti sono lontani dal tuo cuore e dalla tua parola, manda dal cielo lo Spirito di conversione come hai fatto con Saulo, il tuo persecutore. Tu lo hai convertito e ne hai fatto un tuo apostolo, sempre fedele nel servizio e perennemente obbediente alla tua volontà.
Aiuta quanti sono piccoli a crescere in età, sapienza e grazia. Sostieni i giovani perché non si smarriscano dietro le false profezie del mondo, le ingannevoli promesse e inganni che sempre le tenebre prospettano loro come vera luce. Dona alle famiglia la gioia dell'unità, della pace, del perdono, della mutua carità. Rendi gli uomini liberi per abbracciare la fede nel tuo Vangelo, senza mai vergognarsi di testimoniarti in ogni momento e circostanza della vita.
Ai senza lavoro provvedi perché abbiano il loro pane quotidiano. Agli ammalati porta la consolazione della tua presenza, così come hai fatto con tutti i sofferenti del tuo tempo. A tutti dona la saggezza dello Spirito Santo e la luce della verità.
Tu, Caro Gesù Bambino, dal tuo cielo ci scruti, ci conosci, sai le nostre debolezze, fragilità, carenza di amore. Sai che ci stanchiamo con facilità. Iniziamo tante cose, ma poi non abbiamo la forza di imitarti restando fedeli alla missione. Ti prego, manda con potenza su di noi il tuo Santo Spirito come hai fatto sugli Apostoli il giorno della Pentecoste. Fa' che Lui venga con tutta la potenza dei suoi santi sette doni: sapienza, conoscenza, fortezza, consiglio, intelletto, pietà, timore del Signore.
Senza di lui che ci muove e ci attrae, noi saremo sempre privi di quell'energia divina che ci fa tuoi veri servi. Noi non vogliamo essere discepoli oziosi, infingardi, negligenti, apatici, senza alcuna volontà di amarti. Vogliamo servirti con tutto l'amore che abita nel tuo cuore. Se tu non divieni, con il tuo Santo Spirito, il nostro nuovo alito di vita, mai ti serviremo secondo il tuo cuore e mai porteremo una sola anima a te. Vieni presto, non tardare. Abbiamo bisogno di te, per servire te, per amare te, per mostrare ad ogni uomo te.
Vergine Maria, Madre di Gesù, Madre della Redenzione, presenta la nostra preghiera al tuo Divin Figlio, prima però rivestila con il tuo cuore, avvolgila con la tua anima, così Gesù penserà che se tu che chiedi ogni cosa per te e di certo ti esaudirà. Angeli e Santi, intercedete per noi, gridate al cuore di Gesù perché ascolti la nostra supplica. Vogliamo vivere in lui, per essere di lui, per portare i cuori a Lui. Per lui sempre è Natale quando nasce in un cuore.
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inviato da Qumran2, inserito il 24/12/2016
TESTO
13. Esame di coscienza dello Sportivo 1
Ufficio Nazionale Cei Pastorale dello sport, tempo libero e turismo, Fare pastorale dello sport in Parrocchia, 2013
Passa il tempo, cambia il modo di concepire il bene e il male, ma le due tavole della Legge permangono validissime. I Dieci Comandamenti, rimeditati lungo il percorso del pellegrinaggio giubilare, nel silenzio del cuore, offrono indicazioni sempre attuali per tutti gli sportivi.
Non avrai altro Dio fuori di me
Lo sport ha i suoi dei, ogni sport ha il suo Dio. È sconvolgente quando nello sport emerge un Dio che fa dimenticare il vero ed unico Dio. Non è giusto fare dello sport per esaltare se stesso, mettendo da parte Dio.
Non nominare il nome di Dio invano
Purtroppo lo sport offre una spaventosa occasione per bestemmiare; sia sul campo, sia ai suoi bordi, vissuta come scarica del nervosismo procurato dall'evento sportivo.
Ricordati di santificare le feste
Spesso non si va a Messa nei giorni festivi con la scusa della partita. Si perde il valore del "Giorno del Signore". L'impegno sportivo diventa una facile scusante.
Onora il padre e la madre
Il giocatore, una volta raggiunti i buoni livelli sportivi, non sente più la necessità della "tutela". I cambiamenti di società ed i rapporti sportivi diminuiscono i legami familiari per dare più importanza all'interesse sportivo.
Non ammazzare
La violenza dello sport è vissuta come una necessità per dare sostegno alla propria capacità e danneggiare l'intervento dell'avversario. La violenza è vissuta dagli spettatori come partecipazione attiva all'evento sportivo a favore della propria squadra.
Non commettere atti impuri
Purtroppo anche nello sport prevale la mancanza di rispetto del proprio corpo. Lo spogliatoio mette a dura prova parecchi giovani.
Non rubare
Ci sono anche furti legati allo sport. Si ruba il risultato dell'evento sportivo, riuscendo a pesare sulle decisioni dell'arbitro. Quante partite truccate?!
Non dire falsa testimonianza
Lo sport è vissuto, il più delle volte, come recitazione o come simulazione. Spesso questo comportamento è insegnato dai responsabili delle attività sportive. Quante simulazioni di fallo!
Non desiderare la roba d'altri
Quanti desideri per l'acquisto di attrezzature personali a imitazione dei professionisti. Acquisti che mettono a dura prova il bilancio familiare e che, se insoddisfatti, rendono infelice il giovane.
Non desiderare la donna d'altri
Il desiderio è forte, la tentazione può diventare convincente, ma occorre vigilare per non lasciarsi prendere dalla concupiscienza. Se rispetti, sarai rispettato, se giochi al ribasso sarai un perdente e imbrogli i rapporti veri e sacri.
Cfr. G. P. Ormezzano, Lo sport che fa male, ed. Gruppo Abele, Torino.
esame di coscienzasportsportivicomandamenticorrettezza
inviato da Qumran2, inserito il 26/08/2016
TESTO
Per poter riflettere su che cos'è la comunità prendiamo l'immagine di un grande albero pieno di frutti.
L'unità in questa immagine è data dall'albero stesso, ma sull'albero i frutti non hanno alcuna relazione fra loro: ciascuno per sé, il sole per tutti. Non è questa l'immagine giusta della vera comunità!
Prendiamo allora i singoli frutti, li cogliamo uno ad uno e li mettiamo in un unico canestro: è la comunità-contenitore, comunità-scompartimento del treno, stiamo insieme perché viaggiamo sullo stesso scompartimento, siamo nella stessa casa, ma siamo dei perfetti estranei.
Neanche questa è l'immagine della vera comunità!
Proviamo allora a immaginare di prendere i nostri frutti, sbucciarli e metterli nel frullatore per farne un beverone. Stesso sapore, stesso colore, stessa consistenza tutti uguali. Annullate le differenze.
Non è nemmeno questa la vera comunità!
L'immagine che più rispecchia la vera comunità è questa: La macedonia.
Per arrivare ad avere la macedonia devo necessariamente compiere alcuni passaggi non sempre indolori per ogni singolo frutto:
- Prendo la frutta, e come prima cosa la lavo, oppure tolgo la buccia che la rende dura.
- Poi la taglio a cubetti e mescolo tutto.
- Infine, aggiungendo lo zucchero faccio la macedonia.
Nella macedonia posso ancora gustare ogni singolo pezzo da solo se voglio, oppure posso mangiare i pezzettini di più frutti insieme con un cucchiaino.
Ognuno mantiene il suo gusto. Ognuno ha perso la sua durezza perché viene tolta la buccia, si viene spezzati (vuol dire morire, morire a se stessi).
Unendoci però prendiamo più gusto!
E' questa la comunità - macedonia.
Ti metti in comune, ti giochi. Per perdere la durezza bisogna essere fatti a fettine.
E... nella comunità-macedonia, quali sono i frutti che vengono spezzati di meno?
Sono i più piccoli: il ribes, i frutti di bosco. Nella macedonia più sei piccolo e meno ti devi spezzare, più sei grande più devi essere fatto a fette per essere gustato.
E' questa anche l'immagine più appropriata della vita della comunità cristiana, della parrocchia. Non è pensare tutti nella stessa maniera, bensì vivere la propria identità, la propria originalità, la propria diversità ma in vista di un bene più grande, di un bene comune.
Nella comunità-macedonia dall'unione di diversi tipi di frutta viene fuori un sapore straordinario e buono; siamo frutti differenti, ma unendoci, prendiamo più gusto e ci arricchiamo a vicenda. Come la macedonia, nello stare insieme e nel rispetto delle diversità, creiamo l'unità.
Solo allora Gesù potrà aggiungere lo zucchero dello Spirito Santo e trasformarci in cibo prelibato!
Da una parabola di Jacques Loew raccontata da Padre Chiodaroli.
comunitàcomunionefraternitàgruppoparrocchiachiesaSpirito Santounità
inviato da Cristina Corradini, inserito il 23/08/2016
TESTO
15. Ogni stagione della vita ha un suo paradiso 1
Enzo Bianchi, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015
Ogni cristiano che recita il "Credo", la professione di fede, dice: "Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen", e questo credere non è periferico, ma fondamentale nella fede cristiana. Il cristiano, dunque, crede che ci sia un dopo la morte, una vita piena per sempre, nella quale non vi saranno più pianto, né dolore, né malattia, né morte, ma la gioia eterna della comunione, attraverso Gesù Cristo, con Dio e con gli uomini e le donne da lui salvati. Anch'io, in quanto cristiano e monaco, aderisco a questa speranza, ma confesso che il mio immaginario è molto personale ed è mutato nelle diverse stagioni della mia vita. La domanda che mi viene posta: "Come immagini il paradiso?", mi spinge dunque a dare diverse risposte.
Innanzitutto, il paradiso è un'immagine che ci viene trasmessa quando siamo piccoli, e così è stato anche per me. Quando morì mia mamma avevo solo otto anni. Chiedevo dov'era andata, perché non riuscivo ancora a comprendere la morte, e mi veniva risposto: è in paradiso, in un bel giardino, e là passeggia tra gli asfodeli, fiori molto profumati. Così immaginavo dunque il paradiso e speravo di andarci presto, per ritrovare mia mamma e vedere questi fiori profumati che nessuno sapeva descrivermi, perché nel Monferrato nessuno li aveva mai visti.
Con la giovinezza e gli studi biblici, elaborai altre immagini, sovente in contrapposizione al possibile esito opposto: gli inferi, luogo di perdizione, lontano da Dio e da tutti gli altri. Il paradiso assumeva le immagini della Bibbia che leggevo e studiavo: un luogo pieno di luce, in cui non era mai notte; un luogo di pace, senza litigi, dispute, violenze, guerre; un banchetto con abbondanza di cibi squisiti e di vini raffinati; tanta musica e la possibilità di stare insieme, in una festa continua... Belle immagini, ma che svanivano velocemente, perché la ragionevole fede mi spingeva a comprendere che il paradiso non era un luogo, bensì una condizione di comunione con il Signore. Mi piaceva però l'immagine del pranzo con piatti sempre nuovi e dal gusto straordinario, dell'ascolto di musiche che rendevano l'eternità sopportabile...
Poi le immagini del paradiso sono cambiate ancora, tra dubbi, rinnovamenti della speranza, a volte anche stanchezza delle immagini stesse e desiderio di rinnovarle. Ora che sono vecchio, il paradiso o l'esito contrario dell'inferno sono sempre più prossimi: non nascondo una certa paura che mi abita al pensiero della morte, perché credo nel giudizio di Dio sulle mie responsabilità, sul mio operare che è stato buono o cattivo.
Spero soprattutto che nessuno vada all'inferno; ma se qualcuno ci va, allora - mi dico - rischio di andarci anch'io, che non mi sento tanto diverso dagli altri nell'acconsentire all'egoismo che mi abita.
E le immagini del paradiso, da vecchio? Sono svanite. Oggi non so dire, non so immaginare, non oso neppure pensare di dire qualcosa che lo descriva. Nella mia fede è solo una cosa: una grande comunione in Gesù Cristo, in cui regnerà l'amore. Sono convinto che chi ho amato qui sulla terra, lo ritroverò anche di là, e così continueranno il nostro amore e la nostra amicizia. Se pensassi di andare di là e di non trovare più i miei amici, preferirei allora non andarci!
Spero di ritrovare questa terra che tanto ho amato, certamente da Dio trasfigurata, ma ancora questa terra con le sue colline, le sue vigne, i suoi boschi... Sì, vorrei che continuassero le "storie d'amore" vissute qui; anzi, che riprendessero quelle che si sono interrotte e, senza gelosie né concorrenze, potessimo tutti insieme bere alle coppe del vino dell'amore.
Per farvi sorridere, cari lettori, vi confesso che ho un'altra paura: di finire sì in paradiso, ma vicino a persone che non mi piacevano, sebbene fratelli o sorelle nella fede e magari anche di rinomata santità. No, questo proprio no! Ma forse, se Dio mi salverà, sarò cambiato tanto da sopportare anche questo. Purché il Signore non mi faccia perdere gli amici, quelli che ho amato bene e quelli che ho amato male: li vorrei con me.
mortevita eternaparadisorapporto con Dioeternitàpienezza
inviato da Simone Pestelli, inserito il 07/02/2016
RACCONTO
Leggenda peruviana
Era piccolo, sparuto e miserabile, quell'ometto. Era un servo, un domestico indiano, e doveva compiere la sua corvée nella residenza del grande Signore.
Pieno di umiltà e di terrore, l'Ometto si teneva in piedi di fronte al padrone. Forse a causa di quella sua aria smarrita, era da questi particolarmente disprezzato.
«Mi sembri un cane», gli diceva. «Mettiti a quattro zampe. Ora trotta come i cagnolini. Ora drizza le orecchie. Giungi le mani!».
L'Ometto obbediva come meglio poteva, e il padrone rideva a crepapelle. E così ogni giorno, obbligava il suo servo a umiliarsi, lo esponeva alle canzonature dei suoi compagni. Ma una sera, l'Ometto alzò d'un tratto la voce. Aveva qualcosa da dire.
«Grande Signore, Padrone mio, perdonami, ma vorrei parlarti», disse.
«Che? proprio tu?... e a me?».
«Si, Signore. Ho fatto un sogno. Ho sognato che eravamo morti tutti e due: tu, ed io».
«Tu?... Con me?... Racconta, che ridiamo un po'». «Ecco, eravamo morti, e perciò nudi tutti e due insieme. Nudi davanti al nostro grande Patrono san Francesco». «Ma guarda un po'! E allora?... Parla!», ordinò il padrone, tra seccato e incuriosito.
«II nostro grande Patrono ci esaminava con i suoi occhi che vedono fin dentro al cuore. Poi chiamò un Angelo e gli ordinò: "Porta una coppa d'oro piena del miele più trasparente!». «E allora?», incalzò il padrone.
«Allora san Francesco disse: "Ricopri questo gentiluomo col miele della coppa d'oro". E l'Angelo, prendendo il miele nelle proprie mani, lo ha spalmato sopra il tuo corpo, o Padrone, dalla testa ai piedi, cosicché tu eri raggiante di luce, come una statua d'oro, trasparente nello splendore del cielo». «Bene», fece il padrone. Poi aggiunse: «E tu?». «Per me, il nostro Santo Patrono fece venire un Angelo con un grosso bidone pieno di escrementi umani. "Andiamo, gli disse, insudicia il corpo di questo ometto; coprilo tutto come meglio potrai. Alla svelta". Così fece l'Angelo. Mi impiastricciò tutto il corpo, da capo a piedi, ed io comparvi, vergognoso e puzzolente, nella luce del cielo...».
«Proprio così ha da accadere», approvò il Padrone. «Finisce qui la tua storia?».
«Oh no, mio Signore, no, Padre mio. San Francesco riprese a scrutarci con quei suoi occhi che frugano il cuore, poi comandò: "Ed ora, leccatevi l'un l'altro. Lentamente, e a lungo!" E ordinò agli Angeli di vegliare perché si adempisse la sua volontà».
inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015
RACCONTO
A 18 anni ho venduto il mio spirito a Dio, come altri vendono la loro anima al diavolo.
Allora ero goffa, brutta, mingherlina, inetta, come il «brutto anitroccolo», ma avevo molto spirito... uno spirito chiaro, vivo, acuto, pungente, che mordeva senza misericordia. Non appena una persona un tantino ridicola arrischiava di mostrarsi a me, l'acchiappavo al volo e la fissavo con una parola pungente, come si fissa un insetto su un tappo, con uno spillo. Ciò mi divertiva molto e faceva ridere la compagnia. Ma i miei cugini mi giudicavano «cattiva», e mio fratello mi chiamava «vipera». Avrebbe fatto meglio a dire zanzara o vespa. Un giorno, però, ci pensai su e mi vidi tal quale ero col mio crudele pungiglione. Poteva forse una cristiana accettare di essere così?
Fui presa dal rimorso.
E una mattina ne parlai con Nostro Signore, dopo la Comunione.
Rinunciare al mio spirito? Cosa mi rimaneva senza di esso? Non avevo bellezza né fascino, niente che potesse piacere. Sacrificare il mio spirito? Non mi ci potevo decidere. Mi costava troppo. Mi costava tutto.
Dentro di me, Dio attendeva con aria di rimprovero. Fu allora che mi venne l'idea - forse fu lui ad ispirarmela - di cedergli il mio spirito dietro ricompensa. Un baratto.
Glielo vendetti. Caro. Senza far prezzi. Dio è ricco. Dio è giusto. E generoso, anche. Contavo che me l'avrebbe pagato bene. Una volta concluso il mercato - io negli affari sono onesta - non osai più servirmi dell'oggetto che avevo ceduto. Da principio mi sentii legata, impacciata, come colpita da improvvisa infermità. Le parole mi volavano alle labbra, le inghiottivo già dette a metà. Il che non era sempre comodo. Ma poi l'abitudine mi venne in aiuto. E diventai poco a poco la piccola, mite zitella cui nessuno fa caso, né in famiglia fuori... cui nessuno fa caso più che a un fiammifero spento. Sono passati vent'anni... Che cosa mi avrà dato il Buon Dio, in cambio della mia malizia?
Non la bellezza. Non il fascino. Non l'amore. Non la felicità. Forse il dono della poesia? Ma quello già lo avevo, sin dalla prima infanzia.
Ecco. Mi diede il dono di una vista nuova, per cogliere immediatamente, anziché il lato ridicolo, la bellezza e le qualità delle persone, anche di quelle che non ne hanno. Al punto che oggi io le amo tanto, anche quando sono ridicole, sciocche e mediocri, da poter giocare di nuovo con la mia malizia, solo per divertirmi, senza far male a nessuno.
inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015
TESTO
18. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione lunga)
don Primo Mazzolari, Scritti
«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)
Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».
Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.
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«Gesù sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre»...
Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli; ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre allo spirituale, dal parziale all'universale, dal temporale all'eterno.
Il distacco, che prepara il transito, non può avvenire che per un accrescimento d'amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».
Un «passaggio» o una «conversione» che diminuisse le affezioni naturali e ci sottraesse alle parziali emozioni che tali affetti giustamente ci comandano, non sarebbe un'ascensione.
Si sale verso il Padre, con cuore purificato, ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescerne il valore nella santità.
Niente ci deve impedire di portare «sino alla fine», nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.
Proprio quando Gesù sa che «il diavolo aveva già messo in cuore» a Giuda Iscariota di tradirlo, quando ha la certezza che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare a Dio «...si levò da tavola, depose le sue vesti e preso un asciugatoio, se ne cinse...».
Facendosi uomo aveva preso «la forma del servo». Ma nessuno se n'era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava sul monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.
Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L'amore ve l'avrebbe fissato per sempre e in un gesto che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.
«Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio».
Non ha cominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per subito gustare l'estrema ripugnanza di servire l'inservibile, di amare l'inamabile.
Quando arriva a Pietro si sente dire: - Tu Signore, lavare i piedi a me? - Pietro misurava soltanto la propria miseria, e non poneva l'occhio sul mandato di carità che lo avrebbe impegnato come seguace di Cristo, per tutta la vita.
- Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo. Capiva il fatto dell'umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva dargli attraverso il mistero dell'umiliazione. Pietro voleva aver parte con Cristo immaginando chi sa quali ricompense; per questo era disposto a farsi lavare anche le mani e il capo. Neanche il primo degli apostoli sapeva che l'unica condizione per aver parte con lui, è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.
«Come dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: - Capite quel che vi ho fatto?».
E poiché gli apostoli non capivano l'istituzione della carità, che doveva precedere di poco l'istituzione del sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione.
«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro v'ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v'ho fatto io».
L'istituzione dell'eucaristia si chiude con parole quasi eguali: - Fate questo in memoria di me.
I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza eucaristica della presenza della carità, dimenticando che non si può capire una mensa dalla quale, almeno uno, dietro l'esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del mistero.
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Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.
Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.
I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».
lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo
inviato da Qumran, inserito il 09/06/2015
PREGHIERA
19. Preghiera di chi compie cinquant'anni
Se ci domandiamo come stiamo vivendo la vita non sempre il bilancio è dei migliori.
Per non lasciarsi fiaccare il cuore dal pensiero di ciò che non si è vissuto bene
è meglio dire: Grazie, Signore, per la vita.
Grazie per chi ce l'ha donata:
da quando siamo diventati genitori abbiamo imparato a scoprire con occhi nuovi l'umanità di nostro padre, di nostra madre.
Grazie per gli amici che la vita ci ha donato;
con alcuni ci siamo persi per strada, con tanti altri, invece, abbiamo imparato a donare, a chiedere e a gustare ciò che davvero conta.
Ti affidiamo quelli che sono già tornati da te: il loro ricordo è gratitudine di vita.
Grazie per la capacità di amare che hai posto nel nostro cuore:
ora che abbiamo cinquant'anni ci pare di capire con più consapevolezza cosa vuol dire amare una donna, un uomo.
Ti ringraziamo di cuore, per chi ci hai messo accanto:
i ragazzi che sono diventato nostri mariti, le ragazze che sono diventate nostre mogli.
Per quelli che tra noi sono stati feriti nell'amore, o che, nel tentativo di amare, hanno ferito qualcuno:
ti chiediamo il dono della consolazione, del perdono e della fiducia nella vita.
Grazie per il dono dei figli:
non li abbiamo scelti, ci sono arrivati così come sono.
Tu ci hai affidato a loro perché imparassimo a diventare genitori, a scoprire cosa vuol dire amare sul serio; ti li hai affidati a noi perché li aiutassimo a vivere in questo mondo da persone vere, libere, buone.
Manda nel nostro cuore il tuo amore così che in questa e in tutte le età della vita possiamo essere per loro una porta aperta, un incoraggiamento: il nostro esempio, più che le parole, li aiutino a stare con coraggio e verità nella vita quotidiana.
Grazie per il dono della fede e della comunità cristiana.
Perdona le incoerenza e le falsità; fa' che viviamo l'età della maturità senza l'orgoglio di chi crede di bastare a se stesso.
Donaci di vivere la fede nel modo dei tuoi amici che si avvicinavano a te per chiederti spiegazioni:
stando vicino a te le cose diventano più chiare, gli animi più trasparenti, i ricordi più sereni, le parole più vere, il presente un dono, gli incontri più significativi.
Grazie per il dono del nostro corpo e del grado di salute di cui godiamo:
aiutaci a stare dentro alla bellezza dei cinquant'anni senza la smania di apparire ciò che non siamo.
Donaci l'entusiasmo di chi sa vedere in ciò che è nuovo, diverso, inaspettato, in ogni giorno nuovo un'opportunità.
Togli da noi ogni paura, ciò che invecchia il cuore e ci rende pedanti.
Grazie, Signore per questa vita:
per questa e per tutte le età che vivremo donaci di saper sorridere, di non prenderci troppo sul serio ma aiutaci a trovare il senso buono di ciò che viviamo.
Benedici i nostri giorni, quanti portiamo nel cuore, le nostre famiglie, le nostre comunità.
Amen.
inviato da Don Massimo De Francesci, inserito il 18/09/2014
RACCONTO
Min-Hi era una graziosa e simpatica cinesina di dodici anni che viveva con la mamma e il papà in un villaggio al margine della foresta. Il compleanno di Min-Hi coincideva con la stagione calda, quando il sole scottava e la gente andava in cerca di ombra. Perciò, per il suo compleanno, ricevette in regalo un bel parasole.
«Posso andare a fare una passeggiata col mio nuovo parasole?», chiese alla mamma.
«Va bene, stai attenta però, e torna presto!».
Min-Hi stava camminando sul ciglio di una risaia, quando vide un enorme gorilla dondolarsi su un albero con le braccia penzoloni.
«Povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò Min-Hi. E, tremando tutta, si rincantucciò dietro il parasole. Ma non accadde niente... proprio niente! Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia del gorilla!
Non aveva fatto molta strada, quando intravide una grande ombra aggirarsi minacciosa fra i cespugli. Era un'enorme tigre che puntava silenziosamente verso di lei.
«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò sgomenta. E, tremando tutta, si accoccolò dietro il parasole. Ma non successe nulla... decisamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia di tigre.
Non era andata molto più lontano quando un'ombra nera sulla sua testa la fece guardare in alto. Su di lei stava calando un grosso uccello dalle enormi ali spiegate, con un becco adunco e gli unghioni affilati.
«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi sotto il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò terrorizzata. E tremando tutta si fece piccola sotto il parasole. Ma non successe nulla... assolutamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia dell'aquila.
Quando Min - Hi tornò a casa, raccontò alla mamma le sue tremende avventure.
«Ma hai guardato cosa c'è sul tuo parasole?», le chiese la mamma.
Min - Hi lo aprì e fece un salto per lo spavento.
Sopra il parasole c'era dipinto un drago coloratissimo e terrificante, con enormi artigli e narici fiammeggianti.
«Hai visto?» le chiese la mamma, «Contro il tuo potentissimo drago non c'è gorilla, tigre o rapace che tenga».
E aggiunse: «Il tuo parasole, farai bene a portarlo sempre con te».
E da quel giorno, Min - Hi non se lo fece certo dire due volte.
inserito il 20/09/2013
TESTO
21. Parlami d'Amore (versione 2) 3
Michel Quoist, Parlami d'amore, Sei, Torino 1987, pp. 104-107
L'amore non è la folgorazione della bellezza
davanti a un volto che d'improvviso s'illumina per te,
perché la vera bellezza è il riflesso dell'anima,
ma l'anima è oltre, e la cerchi tremando.
L'amore non è seduzione di un'intelligenza viva e sciolta
che scorre in parole e idee per piacerti,
perché l'intelligenza può splendere di mille barbagli
senza essere autentico diamante nascosto nelle profondità dell'amato.
L'amore non è l'emozione di fronte a un cuore
che batte per te
più di quanto non batta per gli altri,
né quella meraviglia d'essere scelto, eletto,
senza motivo ai tuoi occhi
che valga questa follia,
perché un cuore può un giorno turbarsi per un altro,
e lasciarti sanguinare, in lacrime,
senza che il tuo amore muoia.
L'amore non è voglia di catturare, di afferrare
l'oggetto del tuo desiderio,
sia esso cuore, corpo, mente o tutti e tre insieme,
perché l'altro non è "oggetto";
e se lo prendi per te, lo mangi e lo distruggi,
è te che ami credendo di amare l'altro.
Folgorazione e seduzione, fame e fremiti,
emozione e sgorgare di desideri,
tutto ciò è bello e necessario, nell'uomo, nella donna,
ma soltanto per aiutare ad amare chi accetta di amare.
E' la porta socchiusa e le finestre spalancate,
è il vento che entra a folate,
è il richiamo del largo, è il mormorio di Dio
che invitano a uscire dalla casa sbarrata
per andare verso un altro
che hai scelto per colmare la tua vita
perché lo ami e lo vuoi amare.
Amare è volere l'altro libero e non sedurlo,
è liberarlo dai suoi lacci se ne rimane prigioniero,
perché anche lui possa dire: ti amo,
senza esservi spinto dai suoi desideri non domati.
Amare è con tutte le forze volere il bene dell'altro,
anche prima del tuo,
è fare di tutto perché l'amato cresca, e poi sbocci e fiorisca
diventando ogni giorno l'uomo che deve essere
e non quello che tu vuoi modellare
sull'immagine dei tuoi sogni.
Amare è dare il tuo corpo, e non prendere il suo,
ma accogliere il suo quando si offre per essere condiviso,
è raccoglierti, arricchirti,
per offrire all'amato più che mille carezze e folli abbracci,
la tua vita intera raccolta nelle braccia del tuo "io".
Amare è offrirti all'altro,
anche se questi ad un certo momento si rifiuta,
è dare senza tenere il conto di quello che l'altro ti dà,
pagando il prezzo alto senza mai reclamare il resto,
ed è supremo amore perdonare
quando l'amato purtroppo si sottrae,
tentando di consegnare ad altri ciò che ti aveva promesso.
Amare è credere nell'altro e dargli fiducia,
credere nelle sue forze nascoste, nella vita che ha in sé;
e quali che siano le pietre da tagliare
per appianare la strada,
è decidere da uomo ragionevole
di avviarsi coraggiosamente per il viaggio del tempo.
Non per cento giorni, per mille, e neppure per diecimila,
ma per un pellegrinaggio che non finirà,
perché è un pellegrinaggio che durerà
"sempre"...
Se amare è questo, come potrò riuscirci?
Ero scoraggiato...
Non avevo ancora capito...
che l'amore era un fine da raggiungere
e non un punto di partenza
e che, per cercare di riuscirci,
bisognava lottare per tutto il tempo della vita.
Io volevo tutto e subito.
Questo era il mio errore.
Dovevo accettare di adottare
il passo lento e regolare,
il passo dell'autentico montanaro.
Clicca qui per un altro testo di Michel Quoist sullo stesso tema.
amoreinnamoramentoamaredonarsigratuitàlibertàcrescerematurità
inviato da Qumran2, inserito il 20/09/2012
TESTO
Carlo Carretto, Beata te che hai creduto
Una sera tentai il discorso con Maria.
Mi era così facile!
Le volevo così bene!
Maria, dimmi come è andata? Raccontalo a me come l'hai raccontato a Luca l'evangelista.
Tu lo sai, mi disse, perché conosci il Vangelo.
È stato tutto molto bello!
lo vivevo a Nazaret in Galilea e la mia vita era la vita di tutte le ragazze del popolo: lavoro, preghiera, povertà, molta povertà, gioia di vivere e soprattutto speranza nelle sorti di Israele.
Abitavo con Anna, mia madre, in una casetta molto semplice che aveva un cortile davanti ed un gran muro di cinta fatto apposta perché noi donne ci sentissimo in libertà ed intimità.
Lì sostavo sovente per lavorare e pregare. In me l'una e l'altra cosa si mescolavano ed ero piena di pace e di gioia.
Quel giorno ero sola nel piccolo cortile e una gran luce mi avvolgeva.
Pregavo, seduta su uno sgabello. Tenevo gli occhi socchiusi e sentivo una gioia invadermi tutta.
La luce aumentava ed io incominciai a socchiudere le palpebre che avevo chiuso per non restare abbacinata.
Ero contenta di lasciarmi riempire di quella luce. Mi pareva il segno della presenza di Dio che mi avvolgeva come un manto. Ad un tratto quella luce prese l'aspetto di un angelo. Ho sempre pensato agli angeli così come lo vidi in quel momento.
Tu sai com'è la questione della fede. Non sai mai se la visione è dentro o fuori.
È certamente dentro perché se fosse solo fuori potresti dubitare come fosse un'illusione.
Ma dentro l'illusione non c'è, è così, sai che è così: ne è testimone Dio.
lo stavo molto ferma per paura che tutto scomparisse.
E invece l'Angelo parlò. Anche qui: non sai mai se la voce la senti nell'orecchio o più in profondo.
Certamente in profondo perché se fosse solo nell'orecchio potresti illuderti.
La voce la senti là dove lo stesso Dio è il testimone.
E che ti disse?
Mi disse: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
E tu che provasti?
È evidente che ne fui turbata. Era come se fossi visitata da cose troppo grandi per me e per la mia dimensione così piccola.
Tu puoi pensare alle cose di Dio con immenso desiderio ma quando ti toccano non puoi non spaventarti.
Difatti mi disse subito.
«Non temere, Maria» (Luca 1,30).
Mi feci coraggio perché la stessa frase l'avevo sentita alla Sinagoga quando si leggeva la storia di Abramo.
«Non temere, Abramo. lo sono il tuo scudo» (Genesi 15, 1).
Poi l'Angelo mi diede l'annuncio della maternità con poche parole ma così chiare che avevo l'impressione mi stessero nascendo dentro. Non mi era mai capitato di sentire parole come fossero avvenimenti.
Dimmi, Maria, sei stata colta di sorpresa? Non avevi mai pensato prima che tu... proprio tu...
Oh sì! Ci avevo pensato. Noi ragazze ebree non pensavamo ad altro. Sentivamo che i tempi erano quelli e quando pregavamo nella Sinagoga, l'aria era satura di attesa del Messia.
Che hai capito quando l'angelo ti disse che eri tu la scelta e che il Messia sarebbe nato da te?
Capii esattamente cosa voleva dirmi, e rimasi soltanto stupita della straordinarietà della cosa. Com'era possibile se io ero vergine?
L'Angelo mi spiegò le cose e mi fu facile accettarle perché mi sentivo immersa in Dio come in quella luce vivissima del mezzogiorno.
Confusamente capii anche che pasticci ce ne sarebbero stati, che non sarei riuscita a spiegarmi con mia madre, specialmente col mio fidanzato Giuseppe, ma non avrei potuto fermarmi tanta era forte la presa di Dio su di me e tanta era la certezza che mi veniva dalle parole dell'Angelo.
«Nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio» (Luca 1,37). Adagio, adagio la luce diminuì e non vidi più l'Angelo.
Vidi mia madre Anna attraversare il cortile e mi venne voglia di parlarle, ma non ne fui capace perché non trovai le parole adatte.
Capii subito che non c'erano parole con cui potevo spiegare le cose.
Così nei giorni che seguirono, anzi, più andavo avanti e più diventavo silenziosa.
Fu più difficile il discorso con Giuseppe, mio fidanzato.
Tu sai come avvenivano le cose nelle nostre tribù. La sposa veniva promessa molto presto. Era come un patto tra famiglie.
Ma essendo così giovane la futura sposa continuava a vivere in famiglia in attesa della maturità.
Allora con grande festa, di notte, si compiva lo sposalizio e lo sposo accompagnato dai suoi amici veniva con tante luci e canti e gioia a prendere la sua sposa ed a condurla a casa. Da quel momento si era veramente sposati.
Quando l'Angelo mi apparve per annunciarmi la maternità, io ero ancora in casa. Ero stata promessa a Giuseppe ma non ero ancora andata ad abitare con lui.
Bastarono pochi mesi perché tutto divenisse complicato agli occhi degli uomini. lo non potevo nascondere la mia maternità e il mio ventre mi denunciava.
Capii allora cos' era la fede oscura, dolorosa.
Come potevo spiegarmi con mia madre?
Come potevo discutere col mio fidanzato Giuseppe?
Vissi tempi veramente dolorosi e l'unico conforto mi veniva nel ripetere: «Tutto è possibile a Dio, tutto è possibile a Dio».
Toccava a Lui spiegarsi ed io avevo tanta confidenza. Ma ciò non toglieva la mia sofferenza che in certi momenti mi straziava l'anima.
Come potevo trovare le parole per dire che quel bimbo che portavo in seno era il figlio dell'Altissimo?
Intanto non osavo più uscire di casa ed una volta vidi una vicina guardarmi da sopra il muro del cortile con evidente attenzione puritana.
Ci furono dei momenti terribili ed io tremai al pensiero di essere denunziata come adultera.
Ci voleva così poco. Bastava che Giuseppe andasse alla Sinagoga a spiegare la cosa e non gli sarebbero mancati gli zelanti che l'avrebbero seguito con le pietre per lapidarmi. Non era la prima volta che a Nazaret veniva uccisa un'adultera.
Ma è vero: «Dio può tutto». E si spiegò lui.
Si spiegò con Giuseppe per primo che mi disse di avere avuto un sogno veramente straordinario e che non aveva perduto la confidenza in me e che mi avrebbe sposata lo stesso.
Che gioia quando me lo disse!
Ma che paura avevo provato! Che oscurità!
Sì, il fatto mi aveva spiegato che la fede è di quella natura e che dobbiamo abituarci a vivere nell'oscurità.
Ci fu anche un fatto straordinario che alleviò le mie pene in quei mesi.
Tu sai che l'Angelo mi aveva dato un segno per aiutare la mia debolezza. Mi aveva detto che mia cugina Elisabetta era al sesto mese di una maternità straordinaria perché tutti noi della famiglia sapevamo che era sterile.
Dovevo andare a trovarla in Giudea ad Ain-Karim dove abitava.
Non mi feci pregare a partire.
L'idea venne a mia madre perché era preoccupata che la gente del paese mi vedesse con quel ventre grosso e non voleva dicerie.
Partii di notte, ma così contenta di allontanarmi da Nazaret dove c'erano troppi occhi indiscreti e non potevo raccontare a tutti le mie faccende.
Trovai mia cugina già vicina al parto e così felice, poverina! Aveva aspettato tanto un figlio!
Il Signore si era spiegato anche perché quando giunsi fu come se sapesse
tutto!
tutto!
tutto!
Si mise a cantare per la gioia ed io cantavo con lei.
Sembravamo due pazze, ma pazze di amore.
E c'era un terzo che sembrava impazzito di gioia.
Era il piccolino, il futuro Giovanni che danzava nel ventre di Elisabetta come per fare festa a Gesù che era nel mio.
Furono giorni indimenticabili.
Ma Elisabetta, che se ne intendeva di fede e di fede oscura e che aveva tanto sofferto nella vita, mi disse una cosa che mi fece piacere e che fu come il premio a tutta la mia solitudine di quei mesi.
«Beata te che hai creduto» (Luca 1,44). E me lo ripeteva tutte le volte che mi incontrava e mi toccava il ventre, come per toccare Gesù, il nuovo Mosè che stava per venire al mondo.
Il fuoco con cui avevo cotto il pane si stava spegnendo. La notte era già alta e mi sentii solo.
La presenza di Maria ora era nel rosario che avevo in mano e che mi invitava a pregare.
Sentivo freddo e mi avvolsi nel «bournous» (Mantello arabo di lana di pecora) che avevo con me.
L'oscurità divenne totale ma non avevo nessuna voglia di addormentarmi.
Volevo gustare la meditazione che Maria mi aveva regalata.
Soprattutto volevo entrare con dolcezza e forza nel mistero della fede, la vera, quella dolorosa, oscura, arida.
Oh no! Non è facile credere, è più facile ragionare.
Non è facile accettare il mistero che ti supera sempre e che ti allarga sempre i limiti della tua povertà.
Povera Maria!
Dover credere che quel bimbo che portava in seno era figlio dell'Altissimo. Sì, è stato semplice concepirlo nella carne, estremamente più impegnativo concepirlo nella fede! Quale cammino!
Eppure non ne esiste un altro. Non c'è altra scelta.
Vuoi tu, Maria, spaventata dal credere, tornare indietro, pensare che non è vero, che è inutile tentare, che è una illusione quella di un Dio che si fa uomo, che non c'è Messia di salvezza, che tutto è un caos, che sul mondo domina l'irrazionale, che sarà la morte a vincere sul traguardo e non la vita?
No!
Se credere è difficile, non credere è morte certa.
Se sperare contro ogni speranza è eroico, il non sperare è angoscia mortale.
Se amare ti costa il sangue, non amare è inferno.
Credo, Signore!
Credo perché voglio vivere.
Credo perché voglio salvare qualcuno che affoga: il mio popolo.
Credo perché quella del credere è l'unica risposta degna di te che sei il Trascendente, l'Infinito, il Creatore, la Salvezza, la Vita, la Luce, l'Amore, il Tutto.
Che cosa strana per non dire meravigliosa: appena ho detto con tutte le viscere la parola «credo» ho visto la notte farsi chiara.
Ora chiudo gli occhi perché è proprio lei la notte che mi abbaglia con la sua luce al di là di ogni luce.
Sì, nulla è più chiaro di questa notte oscura, nulla è più visibile dell'invisibile Dio, nulla è più vicino di questo infinitamente lontano, nulla è più piccolo di questo infinito Iddio.
Difatti è riuscito a stare nel tuo piccolo seno di donna, Maria, e tu l'hai potuto scaldare col tuo corpicino bello.
Maria! Sorella mia!
Beata te che hai creduto, ti dico stasera con entusiasmo, come te lo disse tua cugina Elisabetta, in quel vespero caldo ad AinKarim.
crederefedenataleincarnazioneMaria
inviato da Qumran2, inserito il 09/12/2011
ESPERIENZA
23. Tre storie della vita di Steve Jobs 3
Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo.
Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.
La prima storia è su una cosa che io chiamo "unire i puntini" di una vita.
Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? E' iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente! ". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.
Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.
Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.
Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.
Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.
Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Consentitemi di fare subito un esempio.
Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.
Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.
Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita.
Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.
Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.
Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.
Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.
Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.
Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.
Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.
La terza storia è a proposito della morte.
Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.
Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.
Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.
Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.
Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto.
Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. E' l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.
Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. E' stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. E' stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. E' stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.
Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso.
E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.
vitasconfittacreativitàentusiasmoperditamorteprogetti
inviato da Lisa, inserito il 06/11/2011
ESPERIENZA
24. Grazie mamma e papà per non avermi abortito! 1
Elisa Bertoli, www.gingergeneration.it
Quando si discute di aborto, non ci si chiede mai cosa sceglierebbe il bimbo concepito. Intervistiamo Federica, 21 anni, venuta al mondo dopo che sua madre ha avuto il coraggio di non abortire.
Non ci si ricorda mai che, quando si discute di aborto, si parla prima di tutto di persone. Che magari sono talmente piccole da stare nel palmo di una mano, ma che, per citare il film "Juno", "hanno già le unghie". Loro in questi dibattiti non hanno voce, nonostante si discuta della loro vita e della loro morte. Ma provate a pensarci: cosa risponderebbe secondo voi un feto se gli si potesse chiedere di scegliere tra la venuta al mondo e la soppressione nel grembo della mamma? Secondo me vorrebbe nascere, nonostante tutto.
Tuttavia si sa che una mamma per il proprio bimbo desidera sempre il massimo, e il timore che egli non lo potrà avere, o la paura di non riuscire a portare avanti la gravidanza in una situazione che non è delle migliori, le impedisce di sentire una vocina che chiede semplicemente un po' di amore. E questo succede soprattutto se si sente sola e tutti, invece di aiutarla, le dicono che quella dell'aborto è "la soluzione più giusta, veloce e indolore" (non sanno queste persone che le donne in tanti casi ne portano il segno per tutta la vita). Ma ci sono anche mamme che, trovandosi in grandi difficoltà, riescono a chiedere aiuto e a vincere le proprie paure, perché si accorgono di non essere sole. E ci sono anche papà (già, perché dei papà non si parla mai!) che sono pronti a combattere con loro per avere la gioia di vedere finalmente quel bimbo. Sono grata a queste mamme (e a questi papà), perché, se una di loro non avesse avuto questo coraggio, anch'io non avrei mai potuto conoscere Federica!
Federica ha ventuno anni, abita sul Lago d'Orta. Studia informatica a Milano, svolge servizio civile presso la Croce Rossa Italiana, è animatrice in oratorio e per parecchie ore la settimana lavora in una pizzeria come cameriera. Ha due sorelle più grandi: Elena di ventisette anni e Maura di ventidue. Quando sua madre scoprì di essere in dolce attesa per la terza volta, non passava un momento facile: assieme al marito correva continuamente da un ospedale all'altro per far curare Elena, molto spesso malata, e al tempo stesso doveva accudire Maura, di soli otto mesi.
Come ha reagito tua madre alla notizia?
Aveva molta paura: Elena non stava ancora bene e Maura era molto piccola. Inoltre le condizioni economiche non erano delle migliori, lei aveva appena ripreso a lavorare dopo la seconda maternità... Insomma, una paura dietro l'altra!
Così ha pensato di abortire?
Sì, ha cominciato a tener presente la possibilità di abortire.
E come hanno reagito alla notizia invece tuo padre, i familiari, gli amici? Cosa le consigliavano?
Le persone esterne alla famiglia che le erano accanto le consigliavano di abortire, "tanto è solo una goccia di sangue". Mia madre nel frattempo macinava tutto questo dentro di sé senza parlarne con mio padre, senza sapere quindi cosa ne pensasse. Un giorno però il ginecologo le ha detto che era ora di prendere una decisione e così, capendo che non poteva decidere da sola, ha preso il coraggio tra le mani e ne ha parlato con lui. La risposta è stata decisa: le ha detto subito che non era proprio il caso di abortire. Anche perché erano cattolici praticanti e le ha chiesto con quale coraggio, commettendo un tale gesto, avrebbero poi potuto ancora andare in chiesa e ricevere l'Eucaristia.
Così il supporto di tuo padre è stato fondamentale per lei?
Sì, mio padre le ha assicurato che si sarebbero fatti forza a vicenda e che sarebbero andati avanti comunque. Mia madre ha capito allora che il sostegno del compagno nella coppia è fondamentale e che non sempre le persone che ci stanno vicino ci consigliano ciò che è meglio per noi... Ed eccomi qui!
E tu, quanto sei grata loro per aver avuto il coraggio di accogliere la tua vita, nonostante tutto?
Moltissimo! Ora posso dire di essere molto fortunata: sono cresciuta in una bella famiglia, mi sono stati insegnati valori importanti. E poi i miei genitori mi hanno fatto capire che la famiglia è il dono più grande e che bisogna rispettare la vita: essa non è "solo una goccia di sangue".
Quanto le difficoltà familiari si sono fatte sentire nella tua vita? Ti è mai mancato qualcosa?
Non mi hanno mai fatto mancare nulla. Certo, magari non avevo i pantaloni o la maglia firmati, ma l'amore e la gioia che mi donavano i miei genitori e che mi donano tuttora mi rendono molto più ricca. Non mi sono mai sentita una figlia non voluta: ho sempre ricevuto tanto amore sia dalle mie sorelle sia dai miei genitori.
Alla luce della tua esperienza, cosa ti senti di dire alle ragazze che si trovano ora in una situazione simile a quella vissuta da tua madre?
Alle ragazze che stanno pensando di abortire, vorrei dire che questa non è l'unica soluzione, che dentro di loro c'è una vita e che non hanno il diritto di buttarla via, perché è stata donata loro con amore, è stata generata da amore. Ragazze, oggi ci sono tante associazioni che aiutano le giovani mamme in difficoltà, ci sono tante persone che vogliono solo aiutarvi, provate ad ascoltarle! E poi ci sono anche molte famiglie che cercano un figlio con fatica senza riuscirci. Pensate a loro, e pensate se qualcuno decidesse della vostra vita senza chiedervi un parere, non credo vi piacerebbe!
abortocoraggiomaternitàpaternitàfamigliavita
inviato da Elisa Bertoli, inserito il 10/07/2011
RACCONTO
Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.
Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.
Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."
Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.
Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"
"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".
Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.
Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.
"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".
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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011
TESTO
Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, pagg. 34 e 36
Gli animali mangiano cibo crudo, senza prepararlo, ognuno per sé, ma noi uomini abbiamo inventato il mangiare insieme, la tavola, polo verso cui convergiamo ogni giorno. Ma cosa fa di un tavolo una tavola? Innanzi tutto il fatto di incontrarsi guardandosi in faccia, comunicando con il volto la gioia, la fatica, la sofferenza, la speranza che ciascuno porta dentro di se e desidera condividere. Sì, pranzare o cenare insieme non è mai anonimo: qualcosa dell'istante dell'evento si inscrive profondamente in noi e certi momenti pur effimeri assumono un profumo di eternità. Anche per questo nella tradizione cristiana antica prima di mangiare si diceva una preghiera, si pronunciava una benedizione. Questa tradizione serve all'uomo per dire grazie al Signore, per prendere consapevolezza di quello che sta davanti a noi sulla tavola e quindi respingere la tentazione di divorare quanto sta nel piatto.
Davvero la cucina e la tavola sono l'epifania dei rapporti e della comunione. Del resto, il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità. Il cibo cucinato e condiviso - il pasto - è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa, testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale. Si, perché nella preparazione, nella condivisione e nell'assunzione del cibo si celebra il mistero della vita e chi ne è cosciente sa scorgere nel cibo approntato sulla tavola il culmine di una serie di atti di amore compiuti da parte di chi il cibo lo ha cucinato e offerto come dono all'amico. Far da mangiare per una persona amata, prepararle un pranzo o una cena è il modo più concreto e semplice per dirgli ti amo, perciò voglio che tu viva e viva bene, nella gioia!
inviato da La Perla Preziosa, inserito il 08/01/2011
RACCONTO
Bruno Ferrero, C'è ancora qualcuno che danza
Questa è la storia vera di una bambina di otto anni che sapeva che l'amore può fare meraviglie. Il suo fratellino era destinato a morire per un tumore al cervello. I suoi genitori erano poveri, ma avevano fatto di tutto per salvarlo, spendendo tutti i loro risparmi.
Una sera, il papà disse alla mamma in lacrime: "Non ce la facciamo più, cara. Credo sia finita. Solo un miracolo potrebbe salvarlo".
La piccola, con il fiato sospeso, in un angolo della stanza aveva sentito.
Corse nella sua stanza, ruppe il salvadanaio e, senza far rumore, si diresse alla farmacia più vicina. Attese pazientemente il suo turno. Si avvicinò al bancone, si alzò sulla punta dei piedi e, davanti al farmacista meravigliato, posò sul banco tutte le monete.
"Per cos'è? Che cosa vuoi piccola?".
"È per il mio fratellino, signor farmacista. È molto malato e io sono venuta a comprare un miracolo".
"Che cosa dici?" borbottò il farmacista.
"Si chiama Andrea, e ha una cosa che gli cresce dentro la testa, e papà ha detto alla mamma che è finita, non c'è più niente da fare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo. Vede, io voglio tanto bene al mio fratellino, per questo ho preso tutti i miei soldi e sono venuta a comperare un miracolo".
Il farmacista accennò un sorriso triste.
"Piccola mia, noi qui non vendiamo miracoli".
"Ma se non bastano questi soldi posso darmi da fare per trovarne ancora. Quanto costa un miracolo?".
C'era nella farmacia un uomo alto ed elegante, dall'aria molto seria, che sembrava interessato alla strana conversazione.
Il farmacista allargò le braccia mortificato. La bambina, con le lacrime agli occhi, cominciò a recuperare le sue monetine. L'uomo si avvicinò a lei.
"Perché piangi, piccola? Che cosa ti succede?".
"Il signor farmacista non vuole vendermi un miracolo e neanche dirmi quanto costa…. È per il mio fratellino Andrea che è molto malato. Mamma dice che ci vorrebbe un'operazione, ma papà dice che costa troppo e non possiamo pagare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo. Per questo ho portato tutto quello che ho".
"Quanto hai?".
"Un dollaro e undici centesimi…. Ma, sapete…." Aggiunse con un filo di voce, "posso trovare ancora qualcosa….".
L'uomo sorrise "Guarda, non credo sia necessario. Un dollaro e undici centesimi è esattamente il prezzo di un miracolo per il tuo fratellino!". Con una mano raccolse la piccola somma e con l'altra prese dolcemente la manina della bambina.
"Portami a casa tua, piccola. Voglio vedere il tuo pratellino e anche il tuo papà e la tua mamma e vedere con loro se possiamo trovare il piccolo miracolo di cui avete bisogno".
Il signore alto ed elegante e la bambina uscirono tenendosi per mano.
Quell'uomo era il professor Carlton Armstrong, uno dei più grandi neurochirurghi del mondo. Operò il piccolo Andrea, che potè tornare a casa qualche settimana dopo completamente guarito.
"Questa operazione" mormorò la mamma "è un vero miracolo. Mi chiedo quanto sia costata…".
La sorellina sorrise senza dire niente. Lei sapeva quanto era costato il miracolo: un dollaro e undici centesimi…. più, naturalmente l'amore e la fede di una bambina.
Se aveste almeno una fede piccola come un granello di senape, potreste dire a questo monte: "Spostati da qui a là e il monte si sposterà". Niente sarà impossibile per voi (Vangelo di Matteo 17,20).
inviato da Lisa, inserito il 29/09/2010
TESTO
28. Che cos'è un sacerdote? Meditazione dettata in occasione di una prima messa
Karl Rahner, Sul sacerdozio
Nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita...
Come popolo dei redenti in Gesù Cristo, noi presentiamo sugli altari della Chiesa il sacrificio della Nuova Alleanza. Anche in un giorno come questo, non possiamo far niente di più di quello che facciamo sempre. Si compie infatti qualcosa che è così alto da non essere suscettibile di reale accrescimento: si fa presente in mezzo a noi il Signore di tutti i secoli, il cuore del mondo e, insieme, l'azione del suo amore che muove le stelle e tutto accoglie nella gloria di Dio.
E tuttavia nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita, finché un giorno la sua vita intera sarà consumata in quel sacrificio, che egli celebra ogni giorno e nella cui accettazione soltanto tutta la realtà terrena trova la propria accettazione nell'infinita maestà di Dio. Perché celebriamo solennemente questo giorno? Forse che la Chiesa vuol indurre i suoi fedeli a concedere, per così dire, anticipati allori ad un giovane, il quale non ha fatto ancora niente altro che offrire a Dio il suo cuore e la sua vita, mentre sarebbe lecito glorificare solo il sacrificio interamente compiuto? No, noi non celebriamo un uomo: celebriamo solo il sacerdozio di Gesù Cristo. Celebriamo la Chiesa, tutta la Chiesa di tutti i redenti, i santificati, i chiamati alla vita eterna: quella di cui noi tutti facciamo parte, sia che siamo preti o 'soltanto' credenti e santificati. Poiché noi tutti apparteniamo all'unico Corpo del Cristo in modo tale che ciò che ad uno viene concesso di grazia, dignità e potenza è grazia ed elevazione per tutti, ed in maniera tale che nel servizio e nella vocazione di uno si manifesta la santa dignità di tutti.
Che cos'è un sacerdote?
Egli è un uomo
Quando Paolo, nella lettera agli Ebrei, parla del prete, la prima cosa che dice è che il prete è scelto fra gli uomini. A tal punto che perfino l'eterno sommo sacerdote Gesù Cristo, nato da donna, soggetto alla legge, pellegrino attraverso la valle di questa realtà peritura, volle essere il figlio dell'uomo, un uomo, trovato in tutto simile a noi. Il prete è un uomo. Non è fatto, dunque, di un legno diverso da quello di cui tutti siete fatti: è vostro fratello. Egli continua a condividere la sorte dell'uomo anche dopo che la destra di Dio, attraverso la mano del vescovo, si è posata su di lui: la sorte dei deboli, la sorte di quelli che sono stanchi, scoraggiati, inadeguati, peccatori. Gli uomini, però, se l'hanno a male, se uno si presenta nel nome di Dio, pur essendo soltanto un uomo: vogliono messaggeri più splendi, araldi più convincenti, cuori più ardenti. Accoglierebbero volentieri dei vittoriosi, di quegli uomini che hanno sempre una risposta a tutto e un rimedio per tutto. Terribile illusione! Quelli che vengono sono deboli, in timore e tremore, uomini che devono anch'essi continuamente pregare: Signore, io credo, aiuta la mia incredulità! che devono anch'essi continuamente battersi il petto: Signore, abbi pietà di me, povero peccatore! Eppure essi proclamano la fede che vince il mondo e portano la grazia, che trasforma i peccatori e i perduti in santi e redenti. Sono uomini quelli che vengono. Vengono e dicono, con la loro povera umanità: vedete, Dio ha misericordia di uomini come noi; vedete, per i poveri e per gli stolti, per i disperati e per i moribondi è sorta la stella della grazia. Dicono, come messaggeri umani dell'eterno Dio: non vi adirate contro di noi! Noi sappiamo di portare il tesoro di Dio in vasi di argilla; sappiamo che la nostra ombra offusca continuamente la divina luce che dobbiamo portarvi. Siate misericordiosi verso di noi, non giudicate, abbiate pietà della debolezza sulla quale Dio ha posato il fardello troppo pesante della sua grazia. Considerate come una promessa per voi stessi il fatto che noi siamo uomini: riconoscete da ciò che Dio non ha orrore degli uomini. Voi avrete un giorno paura e orrore di voi stessi, quando avrete sperimentato anche in voi che cosa è l'uomo, che cosa c'è nell'uomo. Beati voi, allora, che non vi siete scandalizzati dell'uomo che è nel prete. Egli è un uomo, affinché voi crediate che la grazia di Dio può essere concessa all'uomo, al pover'uomo, così com'è.
Il sacerdote è un messaggero della verità di Dio
Nella verità di Dio c'è qualcosa di inquietante e insieme di beato. Essa è del tutto semplice, e non fa progressi così rapidi come la verità degli uomini, che diventano tanto sapienti da arrivare, da ultimo, alla fabbricazione delle bombe atomiche. Spesso la verità di Dio penetra nei cuori degli uomini, senza che essi lo sappiano: solo in piccola parte la sua venuta si manifesta, per esempio nell'umiltà silenziosa del cuore, in un'oscura nostalgia dello spirito, nella rassegnazione con cui uno accetta le tacite e mai autogiustificantesi disposizioni del destino. Ma quando viene, per quanto piccola, con la forza dello Spirito Santo, essa è tutta presente, e vi è già in essa anche l'inizio dell'amore e della vita eterna. E tutta questa semplice, unica verità di Dio, per mezzo della quale Dio afferma se stesso nel più profondo del cuore dell'uomo, è la Verità, che è presente nel mondo, perché stillata dal cuore trafitto del Cristo Dio. Perciò questa verità vuole farsi carne nella parola umana; vuole penetrare in tutti i pensieri e le parole degli uomini; vuole divenire il tema permanente di una sinfonia infinita, che risuona attraverso tutti gli spazi del cosmo; vuole essere spiegata e proclamata; vuole entrare attraverso le porte dell'udito nel cuore degli uomini; vuole salire e sorgere dal cuore degli uomini, sua più intima dimora, per penetrare anche in tutti i settori della vita umana, per essere predicata da tutti i tetti, per congiungersi, infine, con ogni verità umana, correggendola e purificandola, salvandola e portandola a compimento. Perciò vi sono messaggeri di questa verità, messaggeri umani. Essi vengono con parole umane, ma queste sono ripiene di verità divina. E dicono una cosa antichissima e tuttavia non mai ancora compresa: dicono la verità, che sola non avvizzisce, sola non si logora, sola non si consuma. Dicono Dio: il Dio dell'eterna gloria, il Dio della vita eterna; dicono che Dio stesso è la nostra vita; proclamano che la morte non è la fine; che l'astuzia del mondo è stoltezza e miopia; che vi è un giudizio, una giustizia ed una vita eterna. Dicono sempre la stessa cosa, monotonamente, infinite volte. La dicono a se stessi ed agli altri, poiché gli uni e gli altri devono confessare di non aver ancora mai compreso ciò che viene predicato: Dio, il Dio vivente, il vero Dio, il Dio rivelato, Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo; Dio, che riversa prodigalmente la propria infinità nel nostro cuore, senza che noi ce ne accorgiamo; Dio, che fa della nostra spaventosa precarietà l'inizio della vita eterna - e noi non vogliamo crederlo. Questo dicono i messaggeri. Per questo hanno studiato e meditato; tutto questo si sono sforzati, spesso disperatamente, di far penetrare anche nella meschinità del proprio spirito e nell'angustia del proprio cuore. Eppure non ci sono ancora riusciti: sono ancora apprendisti di Dio. E tuttavia, Dio ordina loro di mettersi a parlare di ciò che essi stessi hanno compreso soltanto a metà. Ed essi cominciano. Balbettano, sono impacciati, sanno bene che tutto ciò che hanno da dire suona così strano, così inverosimile, sulla bocca di un uomo. Ma vanno e parlano. E, oh meraviglia! trovano perfino degli uomini che, attraverso il loro strano discorso, percepiscono la Parola di Dio; uomini nel cui cuore la Parola penetra, giudicando, salvando e portando la serenità, la consolazione e la forza nella debolezza, sebbene siano essi a dirla, e sebbene portino così male il messaggio. Ma Dio è con loro. Con loro, nonostante la loro miseria e il loro peccato. Essi non predicano se stessi, ma Gesù Cristo, predicano nel suo nome, e sono confusi fino in fondo al cuore per ciò che egli ha detto loro: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Ma egli ha detto proprio così. E dunque essi vanno e parlano. Sanno che si può essere un bronzo sonante e un cembalo tintinnante, e che ci si può perdere dopo aver predicato agli altri: ma non si sono scelti da sé. Sono stati chiamati e inviati, e così devono andare e predicare, opportunamente e importunamente. Vanno per i campi del mondo e spargono il seme di Dio: sono pieni di riconoscenza quando un poco ne germoglia, e implorano per sé la misericordia di Dio, affinché non ne rimanga sterile troppo per colpa loro. Seminano fra le lacrime, e per lo più un altro raccoglie ciò che essi hanno seminato. Ma essi lo sanno: la parola di Dio deve diffondersi dovunque e portar frutto, perché essa è la felice Verità di Dio, la luce dei cuori, la consolazione nella morte e la speranza della vita eterna.
Il sacerdote è il dispensatore dei divini misteri
La parola, che Dio ha posto sulla bocca del prete, non è una semplice parola generica, che viene pronunciata nel vago. È la parola di Dio, deve perciò riguardare anche i singoli, nella loro individualità originale e nella loro irrepetibile storicità. Deve essere detta a ciascun uomo in particolare: al mattino della vita, quando egli comincia a creare nel tempo una eternità; nei molti monotoni giorni del suo pellegrinaggio, in cui egli deve cercare faticosamente se stesso, attraverso tutte le vallate e gli errori di una vita umana; nella cupa disperazione della colpa; in quel sacro istante, in cui sembra che, dalla pienezza del tempo che muore, debba venir fuori per sempre il frutto dell'eternità nella morte. In tali istanti, il prete deve dire la parola di Dio, la parola potente e creatrice di Dio, la parola che non dice, bensì opera, la parola sacramentale: io ti battezzo; io ti assolvo dai tuoi peccati; questo è il mio Corpo. Tali parole, pronunziate nel nome del Cristo, il pret le dice applicandole alla concreta situazione dell'uomo. Ed esse apportano ciò che proclamano, operano quello che annunziano, perché sono parole di Dio. Grazie a queste parole sacramentali, il prete è, al tempo stesso, l'uomo più privo di potenza e il più potente, poiché esse non sono assolutamente più parole sue, ma parole interamente del Cristo: egli, però, ha il diritto di dirle, di ripeterle continuamente, di dirle con pazienza e con fede, instancabilmente. Tutte le altre parole, che egli deve pur dire, nella predica e nell'insegnamento, non sono altro che un'eco, una spiegazione, un commento, aggiunto alle eterne parole fondamentali della sua esistenza sacerdotale, che egli pronunzia nell'amministrare i sacramenti, accompagnandole col gesto santo, che utilizza i poveri elementi della terra per celarvi la beatitudine del cielo, fecondandoli con la parola del Cristo. Munito dunque della parola efficace del Cristo, egli dispensa i misteri del Cristo, i sacramenti. Gli uomini, per lo più, vogliono da lui qualcos'altro: il pane, la soluzione dei problemi sociali, ricette per poter essere felici su questa terra. Si irritano e si annoiano, se si continua a ripetere loro sempre soltanto parole, che si devono credere, che producono effetto solo nella divina eternità e il cui valore non si può negoziare sui mercati del mondo. Ma il prete continua a ripetere la sua parola, la parola dei sacramenti. Il loro effetto non si può provare nei laboratori degli uomini, che vogliono riconoscere come reale solo ciò che si manifesta concretamente. Ma l'effetto c'è. E così, da quella parola, ha inizio il destino dei figli di Dio, si compie il perdono dei peccatori, si celebra il banchetto della vita eterna, scaturisce dalle tenebrose profondità della morte la luce che non conosce tramonto. Col suo dono e con la sua offerta dei misteri di Dio, il prete se ne sta, come uno che sia estraneo al mondo, agli angoli delle vie, dinanzi ai quali passa in fretta il corteo interminabile degli uomini e della loro storia, precipitando non si sa bene se verso la morte o verso la vita. Chi si arresta, chi accetta l'offerta di questo viandante tra due mondi che è il prete, costui riceve i misteri di Dio, per lui si realizza nel tempo l'eternità, dalla morte la vita, dalle tenebre la luce, e si fa manifesta la presenza di Dio. E colui che ha il potere di penetrare nella situazione sempre unica del singolo queste parole della presenza e dell'efficacia sacramentale del Dio vivente nello spazio della santa Chiesa, noi lo chiamiamo il prete.
Al sacerdote è affidato il sacrificio
Abbiamo cominciato a parlare dell'opera del prete nel mondo; dobbiamo intraprendere la trattazione, più esplicita di quanto finora sia stata, del mistero che nel Corpo della Chiesa è paragonabile al cuore, in quanto apporta al regolare battito del polso dei singoli membri la forza nutritiva del sangue. Il prete è l'uomo a cui è affidata l'offerta sacrificale della Chiesa, la ripetizione liturgica della Cena del Cristo, e poiché proprio questo è l'aspetto più intimo e supremo dell'esistenza sacerdotale, noi celebriamo solennemente l'inizio di tale vita non già con un battesimo che egli celebri per la prima volta, o con la parola dell'assoluzione che pronunzi per la prima volta, bensì col sacrificio della messa che egli celebra per la prima volta e noi con lui. Qui, in questo momento, tutto si raccoglie: gli uomini, la Chiesa, Dio, il Cristo, il sacrificio della Croce, i vivi e i morti, l'angoscia terrena e la beatitudine celeste. Qui, infatti, il Signore glorioso è in mezzo alla sua comunità: la comunità dei santificati e redenti, che il prete, per mandato ricevuto dal Cristo, con pieni poteri che provengono dall'alto, e non dal basso, conduce dinanzi al trono della Grazia, affinché essa comunità offra il Signore, reso presente mediante la parola del prete, come offerta di tutta la Chiesa, all'eterno Padre, in lode del suo nome e per la salvezza di tutti quelli che celebrano il sacrificio e in esso sono ricordati con amore e fedeltà. Avendone ricevuto facoltà dal Cristo stesso, che ama la sua Chiesa e a lei ha fatto dono del proprio sacrificio, il prete può celebrare in nome di tutti, con tutti e per tutti, il sacrificio dell'eterna riconciliazione. E se è vero che in questa vocazione egli è stato da Dio sollevato più in alto di tutti gli altri, è anche vero che egli è divorato e consumato al massimo, in un puro servizio di Dio, per gli uomini. Egli acquista, in questo momento, il diritto di portare il Corpo del Signore e di prendere il calice della salvezza, riempito del prezzo del riscatto del mondo, non già per essere lui, il prete, innalzato, bensì perché ne venga salvezza per tutto il popolo di Dio. E ciò che, nel giorno della sua prima messa, egli fa', circondato dalla gioia degli altri, lo farà tutti i giorni. Tutti i giorni, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle grigie mattine di ogni giorno, e nelle ore terribili, che non sono risparmiate a nessuna vita. E sempre questa piccola, povera celebrazione racchiuderà in sé il contenuto, e al tempo stesso la soluzione, di tutti gli enigmi dell'esistenza: il Corpo, che venne immolato, e il Sangue, che fu versato per il perdono dei peccati. Sempre, tutto ciò sarà contenuto in questa piccola mezz'ora, perché in essa è presente, come il Sacrificato e il Vittorioso insieme, colui che è in sé l'unità reale dell'enigma e della sua soluzione, l'unità della terra e del cielo, l'unità dell'uomo e di Dio, nella celebrazione di quell'istante unico in cui, sulla Croce, l'estrema lontananza tra loro divenne inseparabile vicinanza.
Conclusione
È uomo, il prete, messaggero della Verità di Dio, dispensatore dei divini misteri, capace di rendere presente il sacrificio unico del Cristo. Sorte felice! Certo, ogni uomo ha da Dio la sua vocazione, la sorte a lui assegnata dalla eternità, il suo compito anche nel Corpo del Cristo, che è la Chiesa. Non vi è esistenza profana, per nessuno. Ma ciò che per la maggior parte è quasi soltanto la presenza della divina realtà nel profondo della loro più intima coscienza e nel silenzioso segreto della loro sfera privata, per il prete, chiamato da Dio, erompe da quella profondità per abbracciare tutta la estensione della vita. Tutto, in quella vita, Dio deve consumare e ridurre al servizio della sua signoria onnipotente. Questo è il destino del prete: vivere interamente nella manifesta vicinanza di Dio. Un destino beato e terribile a un tempo. Beato, perché Dio solo è la beatitudine; terribile, perché solo difficilmente l'uomo resiste in mezzo al tremendo splendore di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, che il progetto più sublime rimanga sempre anche il più frammentario. Nessuna meraviglia, che l'alta vocazione nasconda in sé anche il pericolo delle cadute estreme: il pericolo che esser prete voglia dire non dovere esser più uomo; il pericolo della perdita della pietà per gli uomini, dell'inaridirsi della sostanza umana; il pericolo della fuga lontano da Dio, verso la più familiare vicinanza degli uomini; il pericolo del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l'altissimo prezzo richiesto dall'esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Se si esamina attentamente questo destino beato e terribile del prete, si potrebbe rimanere colpiti, e quasi ammutolire per lo spavento, in questa festa, perché qui ha inizio ciò che nessun uomo, da solo, può portare a compimento. Ma noi confidiamo nella grazia di Dio: essa, non già noi, porterà a compimento ciò che ha iniziato. È fedele, infatti, colui che ha chiamato il prete, e non si pente dei doni di grazia che concede. E noi, in questa celebrazione del santo sacrificio, vogliamo pregare per la Chiesa sulla terra, che Dio mandi operai alla sua messe, perché gli operai sono pochi. Preghiamo per i nostri preti, che essi comincino nel timore e nella gioia del Signore e perseverino in fedele servizio sino alla beata fine, che noi tutti attendiamo, e in cui è il termine unico e beato di tutte le vocazioni, nell'infinita celebrazione del sacrificio eterno, in cui il Figlio, e noi in lui, tutto rimettiamo al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Amen.
tratto da www.donboscoland.it
sacerdotepretepresbitericleroanno sacerdotale
inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010
RACCONTO
In una calda sera di fine estate, un giovane si recò da un vecchio saggio: "Maestro, come posso essere sicuro che sto spendendo bene la mia vita? Come posso essere sicuro che tutto ciò che faccio è quello che Dio mi chiede di fare?". Il vecchio saggio sorrise compiaciuto e disse: "Una notte mi addormentai con il cuore turbato, anch'io cercavo, inutilmente, una risposta a queste domande. Poi feci un sogno. Sognai una bicicletta a due posti. Vidi che la mia vita era come una corsa con una bicicletta a due posti: un tandem. E notai che Dio stava dietro e mi aiutava a pedalare. Ma poi avvenne che Dio mi suggerì di scambiarci i posti. Acconsentii e da quel momento la mia vita non fu più la stessa. Dio rendeva la mia vita più felice ed emozionante. Che cosa era successo da quando ci scambiammo i posti? Capii che quando guidavo io, conoscevo la strada. Era piuttosto noiosa e prevedibile. Era sempre la distanza più breve tra due punti. Ma quando cominciò a guidare lui, conosceva bellissime scorciatoie, su per le montagne, attraverso luoghi rocciosi a gran velocità a rotta di collo. Tutto quello che riuscivo a fare era tenermi in sella! Anche se sembrava una pazzia, lui continuava a dire: «Pedala, pedala!». Ogni tanto mi preoccupavo, diventavo ansioso e chiedevo: «Signore, ma dove mi stai portando?». Egli si limitava a sorridere e non rispondeva. Tuttavia, non so come, cominciai a fidarmi. Presto dimenticai la mia vita noiosa ed entrai nell'avventura, e quando dicevo: «Signore, ho paura...», lui si sporgeva indietro, mi toccava la mano e subito una immensa serenità si sostituiva alla paura. Mi portò da gente con doni di cui avevo bisogno; doni di guarigione, accettazione e gioia. Mi diedero i loro doni da portare con me lungo il viaggio. Il nostro viaggio, vale a dire, di Dio e mio. E ripartimmo. Mi disse: «Dai via i regali, sono bagagli in più, troppo peso». Così li regalai a persone che incontrammo, e trovai che nel regalare ero io a ricevere, e il nostro fardello era comunque leggero. Dapprima non mi fidavo di lui, al comando della mia vita. Pensavo che l'avrebbe condotta al disastro. Ma lui conosceva i segreti della bicicletta, sapeva come farla inclinare per affrontare gli angoli stretti, saltare per superare luoghi pieni di rocce, volare per abbreviare passaggi paurosi. E io sto imparando a star zitto e pedalare nei luoghi più strani, e comincio a godermi il panorama e la brezza fresca sul volto con il delizioso compagno di viaggio, la mia potenza superiore. E quando sono certo di non farcela più ad andare avanti, lui si limita a sorridere e dice: «Non ti preoccupare, guido io, tu pedala!»".
affidamentoaffidarsi a Diofiducia in Diofedeabbandonofiducia
inviato da Anna Barbi, inserito il 26/06/2010
RACCONTO
Un giorno, ero un ragazzino delle superiori, vidi un ragazzo della mia classe che stava tornando a casa da scuola. Il suo nome era Kyle e sembrava stesse portando tutti i suoi libri. Dissi tra me e me: "Perché mai uno dovrebbe portarsi a casa tutti i libri di venerdì? Deve essere un ragazzo strano".
Io avevo il mio week-end pianificato (feste e una partita di football con i miei amici), così ho scrollato le spalle e mi sono incamminato.
Mentre stavo camminando vidi un gruppo di ragazzini che correvano incontro a Kyle. Gli corsero addosso facendo cadere tutti i suoi libri e lo spinsero facendolo cadere nel fango. I suoi occhiali volarono via, e li vidi cadere nell'erba un paio di metri più in là. Lui guardò in su e vidi una terribile tristezza nei suoi occhi. Mi rapì il cuore! Così mi incamminai verso di lui mentre stava cercando i suoi occhiali e vidi una lacrima nei suoi occhi. Raccolsi gli occhiali e glieli diedi dicendogli: "Quei ragazzi sono proprio dei selvaggi, dovrebbero imparare a vivere". Kyle mi guardò e disse: "Grazie!". C'era un grosso sorriso sul suo viso, era uno di quei sorrisi che mostrano vera gratitudine.
Lo aiutai a raccogliere i libri e gli chiesi dove viveva. Scoprii che viveva vicino a me così gli chiesi come mai non lo avessi mai visto prima. Lui mi spiegò che prima andava in una scuola privata. Prima di allora non sarei mai andato in giro con un ragazzo che frequentava le scuole private. Parlammo per tutta la strada e io lo aiutai a portare alcuni libri.
Mi sembrò un ragazzo molto carino ed educato così gli chiesi se gli andava di giocare a football con i miei amici e lui disse di sì. Stemmo in giro tutto il week end e più lo conoscevo più Kyle mi piaceva così come piaceva ai miei amici.
Arrivò il lunedì mattina ed ecco Kyle con tutta la pila dei libri ancora. Lo fermai e gli dissi: "Ragazzo finirà che ti costruirai dei muscoli incredibili con questa pila di libri ogni giorno!". Egli rise e mi passo la metà dei libri.
Nei successivi quattro anni io e Kyle diventammo amici per la pelle.
Una volta adolescenti cominciammo a pensare al college, Kyle decise per Georgetown e io per Duke. Sapevo che saremmo sempre stati amici e che la distanza non sarebbe stata un problema per noi. Kyle sarebbe diventato un dottore mentre io mi sarei occupato di scuole di football.
Kyle era il primo della nostra classe e io l'ho sempre preso in giro per essere un secchione. Kyle doveva preparare un discorso per il diploma. Io fui molto felice di non essere al suo posto sul podio a parlare. Il giorno dei diplomi vidi Kyle, aveva un ottimo aspetto. Lui era uno di quei ragazzi che aveva veramente trovato se stesso durante le scuole superiori. Si era un po' riempito nell'aspetto e stava molto bene con gli occhiali. Aveva qualcosa in più e tutte le ragazze lo amavano. Ragazzi qualche volta ero un po' geloso!
Oggi era uno di quei giorni, potevo vedere che era un po' nervoso per il discorso che doveva fare, così gli diedi una pacca sulla spalla e gli dissi: "Ehi ragazzo, te la caverai alla grande!". Mi guardò con uno di quegli sguardi (quelli pieni di gratitudine) e sorrise mentre mi disse: "Grazie".
Iniziò il suo discorso schiarendosi la voce: "Nel giorno del diploma si usa ringraziare coloro che ci hanno aiutato a farcela in questi anni duri. I genitori, gli insegnanti, gli allenatori ma più di tutti i tuoi amici. Sono qui per dire a tutti voi che essere amico di qualcuno è il più bel regalo che voi potete fare. Voglio raccontarvene una".
Guardai il mio amico Kyle incredulo non appena cominciò a raccontare il giorno del nostro incontro. Lui aveva pianificato di suicidarsi durante il week-end. Egli raccontò di come aveva pulito il suo armadietto a scuola, così che la madre non avesse dovuto farlo dopo, e di come si stava portando a casa tutte le sue cose.
Kyle mi guardò intensamente e fece un piccolo sorriso. "Ringraziando il cielo fui salvato, il mio amico mi salvò dal fare quel terribile gesto".
Udii un brusio tra la gente a queste rivelazioni. Il ragazzo più popolare ci aveva appena raccontato il suo momento più debole.
Vidi sua madre e suo padre che mi guardavano e mi sorridevano, lo stesso sorriso pieno di gratitudine.
Non avevo mai realizzato la profondità di quel sorriso fino a quel momento.
Non sottovalutate mai il potere delle vostre azioni.
Con un piccolo gesto potete cambiare la vita di una persona, in meglio o in peggio. Dio fa incrociare le nostre vite perché ne possiamo beneficiare in qualche modo. Cercate il buono negli altri.
"Gli amici sono angeli che ci sollevano in piedi quando le nostre ali hanno problemi nel ricordare come si vola".
amiciziagentilezzaimportanza delle piccole cosesemplicitàbontà
inviato da Lisa, inserito il 26/06/2010
RACCONTO
31. L'asinello che portò Gesù 3
In un campo pascolavano un'asina con il suo puledro. Era stato svezzato da poco e talvolta, quando si metteva nei guai, cercava ancora il conforto della sua mamma.
Il suo nome era Lollo e aveva grandi orecchie appuntite e occhioni scuri, intelligenti e furbi. Come tutti i cuccioli era birbaccione, chiassoso, prepotente. Appena poteva si allontanava verso i confini del campo cercando di sconfinare e, quando il padrone andava a riprenderlo, puntava le zampe sul terreno e non c'era modo di smuoverlo. Bisognava trascinarlo e quanto erano acuti i suoi ragli di protesta! Il padrone ancora non si decideva a metterlo al lavoro: era talmente giovane e testone!
Una bella mattina di primavera giungono nel campo degli uomini, parlottano un po' col padrone e poi cominciano a guardare verso Lollo. Erano venuti infatti a fare una richiesta curiosa che riguardava proprio lui. Questi uomini erano servi di un tale, un certo Nazareno e, mandati da questo, volevano in prestito proprio Lollo. Serviva al loro Maestro per entrare in Gerusalemme.
Il padrone era perplesso: "Macché Lollo! Per il vostro Maestro ci vuole un cavallo. Io non ce l'ho, ma il mio vicino è un soldato e certamente sarà contento di prestarvi il suo bel cavallo bianco".
Ma quelli insistevano, si erano proprio fissati! Volevano un asino che fosse giovane che non avesse mai lavorato. "E' il Maestro che lo chiede - dicevano - ma non temere te lo restituiremo".
Il padrone alzava gli occhi al cielo: "Ma allora proprio non capite, quest'asino non è adatto! E' prepotente, testone e farà fare a me e al vostro Maestro una brutta figura. E' capace di fermarsi in mezzo alla strada e di non voler più camminare, se gli gira, incomincia a ragliare così forte e non la finisce più, e poi, morde!".
E i servi a lui: "Così come è, lo vuole il Maestro, e Lui non sbaglia! Se ha chiesto quest'asino avrà i suoi buoni motivi!". Il padrone allora, avvilito, prende un pezzo di corda, lo butta intorno al collo di Lollo e lo consegna ai servi. Lollo è troppo interessato alla faccenda per pensare a fare i capricci, e docile si lascia legare e condurre fuori del campo.
Fatta poca strada arrivano a un bivio, poco fuori Gerusalemme. Ci sono uomini, donne e anche bambini che attorniano un giovane uomo. I servi dirigono proprio verso di Lui: "Ecco, Maestro, questo è l'asino che avevi chiesto". Il Maestro si volta, si avvicina a Lollo, allunga una mano, lo accarezza sulla testa e lo guarda. Anche Lollo alza gli occhi verso questo bizzarro Maestro che ha voluto a tutti i costi averlo come cavalcatura, e i suoi occhi si immergono nello sguardo del Maestro: "Mai nessuno mi aveva guardato così" - dirà poi Lollo - "neanche la mia mamma". E' come se con un solo sguardo il Maestro mi dicesse: "Non temere, va bene così. Sì sei un po' un brigante, ma ce la puoi fare. Io mi fido di te e ti voglio bene! Coraggio! Cominciamo questo viaggio, sarai tu a portarmi a Gerusalemme".
Lollo sente come un fuoco dentro il suo cuore, è contento e un po' ha voglia di piangere, senza motivo... Mansueto si lascia mettere un mantello rosso sulla groppa, si lascia montare dal Maestro e, lentamente, incominciano il loro viaggio verso Gerusalemme. Via via che si avvicinano alla città la gente diventa più numerosa. Stendono per terra dei mantelli rossi, hanno in mano dei rami di palma e di ulivo, li agitano e gridano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell'alto dei cieli!".
Lollo si sente davvero un asinello importante... Tutti fanno festa alla persona che lui sta portando in groppa, bardato con quel bel manto rosso! Anche i bambini fanno festa e alcune bambine portano dei fiori.
Ad un tratto una voce si leva dalla folla e chiede: "Chi è quest'uomo?".
Qualcuno risponde: "E' Gesù, da Nazareth di Galilea!".
"Che cosa ha fatto?".
"Io sono vedova, Gesù ha risuscitato il mio unico figlio. Eccolo!".
"Io ero muto per colpa di un demonio e Gesù mi ha liberato".
"Io avevo questa mano come morta e lui mi ha detto: Stendila! E la mia mano è tornata come nuova! Ha fatto bene ogni cosa!".
Lollo ascolta tutto quello che la gente dice sull'uomo che sta accompagnando a Gerusalemme. "Ora capisco perché alcuni chiamano Gesù il Signore!". La folla è al colmo della gioia e della festa. Gesù è pronto per entrare nel tempio. Prima di allontanarsi, con la mano sfiora lentamente il muso dell'asinello. Gesù e Lollo si guardano per un lungo istante.
Gesù capisce ciò che l'asinello gli vuol dire:
"Grazie Signore di avermi cercato.
Tu hai avuto bisogno di me e hai avuto fiducia in me!
D'ora in poi, anche se non credo che riuscirò ad essere sempre bravo, voglio provare ad essere come tu mi vedi.
Forse scalcerò ancora e certamente raglierò ogni tanto ma non potrò mai dimenticare che hai avuto fiducia in me.
Grazie Gesù, anche io ti voglio bene".
domenica delle palmefiduciasguardo di Dio
inviato da Mariolina Puddu, inserito il 25/03/2010
TESTO
Essere giovani è avere un'età che ti permette di essere al massimo della salute, al massimo della voglia di vivere, al massimo dei sogni.
Essere giovani è sentirsi liberi da ricordi.
Essere giovani è alzarti una mattina deciso a conquistare il mondo e il giorno dopo stare a letto fino a quando vuoi, perché tanto c'è qualcuno che lo farà per te.
Essere giovani è sapere di stare a cuore a qualcuno, magari anche solo papà e mamma, che ti rimproverano continuamente, ma che alla fine ti lasciano fare quel che vuoi e di fronte agli altri ti difendono sempre.
Essere giovani è sballare e sapere di avere energie per uscirne sempre anche se un po' acciaccati.
Essere giovani è sbagliare e far pagare agli altri.
Essere giovani è trovare pronti i calzini, le camicie ben stirate e i jeans lavati.
Essere giovani è parlare coi vestiti, perché ti mancano parole per dire chi sei.
Essere giovani è passare per fuori di testa e accorgerti che gli adulti forse sono più fuori di te.
Essere giovani è portare i pantaloni bassi e vedere tua madre che ti imita e fa pietà.
Essere giovani è sognare che oggi ci divertiremo al massimo, anche se qualche volta quando torni e chiudi la porta dietro le spalle ti sale una noia insopportabile.
Essere giovani è trovare sempre in piazza qualcuno con cui stare a tirare sera sparando stupidate, senza problemi.
Essere giovani è sgommare e sorpassare sperando che ti vada sempre bene.
Essere giovani è avere il cuore a mille perché ti ha guardato negli occhi e ti senti desiderata.
Essere giovani è avere un bel corpo, anche se qualche volta non hai il coraggio di guardarti allo specchio e stai col fiato sospeso a sentire come ti dipingono gli altri.
Essere giovani è il desiderio di vita piena che il giovane ricco ha espresso a Gesù e la sua debolezza nel non riuscire a distaccarsi da sé.
Essere giovani è sentirsi fatti per cose grandi e trovarsi a fare una vita da polli.
Essere giovani è sentirsi precari: oggi qui, domani là, ma sempre scaricato.
Essere giovani è aprire la mente, incuriosirsi delle cose belle del mondo, della scienza, della poesia, della bellezza.
Essere giovani è affrontare la vita giocando, sicuri che c'è sempre una qualche rete di protezione.
Essere giovani è sentirsi addosso un corpo di cui si vuol fare quel che si vuole, perché è tuo e nessuno deve dirti niente.
Essere giovani è sentirsi dalla parte fortunata della vita, e avere un papà che tutte le volte che ti vede, gli ricordi che lui non è mai stato così spensierato, si commuove e stacca un assegno.
Essere giovani è sentire che nel pieno dello star bene ti assale un voglia di oltre, di completezza, di pienezza che non riesci a sperimentare. Hai un cuore che si allarga sempre più, le esperienze fatte non sono capaci di colmarlo.
Essere giovani è sentire dentro un desiderio di altro cui non riesci a dare un volto, anche il ragazzo più bello che sognavi, ti comincia a deludere e la ragazza del cuore ti accorgi che ti sta usando.
Essere giovani è alzarsi un giorno e domandarsi ma dove sto andando, che faccio della mia vita, chi mi può riempire il cuore? Posso realizzare questi quattro sogni che ho dentro? Che futuro ho davanti?
Essere giovani è capire che divertirmi oggi per raccontare domani agli amici non mi basta più. È avere una sete che non mi passa con la birra, aver rotto tutti i tabù di ogni tipo: spinello, coca, ragazzo, ma sentire ancora un vuoto.
In quali di queste affermazioni ti riconosci?
inviato da Marco Malatesta, inserito il 07/12/2009
PREGHIERA
33. Santa Maria donna del riposo 1
Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni
Santa Maria, donna del riposo, accorcia le nostre notti quando non riusciamo a dormire. Come è dura la notte senza sonno! È una pista senza luce, su cui atterrano tenebrosi convogli di ricordi, e da cui decollano stormi di incubi che stringono il cuore.
Mettiti accanto a noi quando, nonostante i sedativi, non ce la facciamo a chiudere occhio, e il letto più morbido diventa una tortura, e dalla strada i latrati del cane sembrano dar voce ai gemiti dell'universo, e dalla torre dell'orologio i rintocchi scendono sull'anima come colpi di maglio, e i secondi scanditi dal pendolo del corridoio non si sa bene se vogliano farti compagnia, o ricordarti l'inarrestabile corsa del tempo, o dilatare il supplizio delle ore che non passano mai.
Sorveglia il riposo di chi vive solo. Allunga nei vecchi i sipari del sonno, corti e leggeri come veli di melagrana. Tonifica il dormiveglia di chi sta in ospedale sotto un pianto di flebo. Rasserena l'inquietudine notturna di chi si rigira nel letto sotto un pianto di rimorsi. Acquieta l'ansia di chi non riposa perché teme il sopraggiungere del giorno. Rimbocca gli stracci di chi dorme sotto i ponti. E riscalda i cartoni con cui la notte i miserabili si riparano dal freddo dei marciapiedi.
Santa Maria, donna del riposo, vogliamo pregarti per coloro che annunciano il Vangelo. Qualche volta li vediamo stanchi e sfiduciati, e sembrano dire come san Pietro: «Abbiamo faticato tutta la notte, ma non abbiamo preso nulla». Ebbene, fermali quando la generosità pastorale li porta a trascurare la loro stessa persona. Richiamali al dovere del riposo. Allontanali dalla frenesia dell'azione. Aiutali a dormire tranquilli. Non indurli nella tentazione di ridurre le quote minime di sonno, neppure per la causa del Regno. Perché lo stress apostolico non è un incenso gradito al cospetto di Dio.
Pertanto, quando nel breviario recitano il Salmo 126, mettiti a cantarlo con loro, e calca la voce sui versetti in cui si dice che è inutile alzarsi di buon mattino o andare tardi a riposare la sera, perché «ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno». Capiranno bene, allora, che tu non li esorti al disimpegno, ma a rimettere tutto nelle mani di colui che dà fecondità al lavoro degli uomini.
Santa Maria, donna del riposo, donaci il gusto della domenica. Facci riscoprire la gioia antica di fermarci sul sagrato della chiesa, e conversare con gli amici senza guardare l'orologio. Frena le nostre sfibranti tabelle di marcia. Tienici lontani dall'agitazione di chi è in lotta perenne col tempo. Liberaci dall'affanno delle cose. Persuadici che fermarsi sotto la tenda, per ripensare la rotta, vale molto di più che coprire logoranti percorsi senza traguardo. Ma, soprattutto, facci capire che se il segreto del riposo fisico sta nelle pause settimanali o nelle ferie annuali che ci concediamo, il segreto della pace interiore sta nel saper perdere tempo con Dio. Lui ne perde tanto con noi. E anche tu ne perdi tanto.
Perciò, anche se facciamo tardi, attendici sempre la sera, sull'uscio di casa, al termine del nostro andare dissennato. E se non troviamo altri guanciali per poggiare il capo, offrici la tua spalla su cui placare la nostra stanchezza, e dormire finalmente tranquilli.
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inviato da Qumran2, inserito il 24/07/2009
ESPERIENZA
Mia madre è morta il 6 aprile di quest'anno e sinceramente con lei ha cessato di vivere anche parte di me! Il vuoto immenso che si era incarnato nel mio corpo, nella mia mente e soprattutto all'interno del mio cuore, era tanto grande da togliermi ogni emozione, ogni sensazione bella e brutta... perché per me lei era tutto ciò che apparentemente mi rendeva felice.
Era giovane, bella, di umore per lo più allegro, ma non aveva dentro di sè la luce, la sintonia col suo prossimo, lo spirito feroce che deve avere una giovane donna: non conosceva bene Dio!
Quando se n'è andata da questa terra mia madre ha smesso di soffrire, di rincorrere qualche cosa che la tormentava, si, una pace che in lei non era mai esistita: la pace e l'armonia che io trovo nella mia fede in Cristo!
L'ho conosciuto proprio quel giorno, il 6 aprile del 1999, o meglio, lo conoscevo già ma non mi rendevo conto che era solo per sentito dire, che non ero mai stata veramente in grado di accettarlo dentro di me con tutta la sua importanza, la sua bontà e tutta la sua fiducia che, ora, solo grazie a lui, mi aiutano a vivere.
Quando ho fatto i conti con la realtà e ho capito che la mamma non era più presente in questo mondo, ho provato a chiedermi perché proprio io dovevo soffrire così, sentirmi straziata dal dolore per un'altra simile mancanza, visto che il papà l'avevo già perso... ma ho capito che il perché non c'era, perché in realtà la sofferenza non doveva esistere, ed è impossibile, come sappiamo tutti, trovare una risposta a qualche cosa che non c'è.
Giuro che non mi sono mai sentita sola nemmeno per un attimo, anzi, mi sono sentita profondamente capita, stretta fra le braccia del Signore, e ho capito lì, in quel momento, in quell'ospedale che mia madre era malata ed aveva ormai spento la fiammella della sua anima e la sua sofferenza senza Dio era tanto più grande della mia senza di lei.
Dio l'ha capita e l'ha chiamata a sè, rendendo me certa e più fiduciosa che mai della sua presenza, del suo grande amore...
Per le mie convinzioni mi sono sentita dare dell'esaurita, della pazzerella, della superficiale, ma io non sento queste parole perché sono dettate da menti e cuori che parlano così perché non hanno conosciuto Dio... altrimenti capirebbero che io non sono inconsapevole di quel che mi è successo, anzi ancora a volte piango per la mancanza della mamma; ma ho capito, riesco a darmi una ragione, a vivere ancora perché mi sento protetta e perché mi è stato concesso il dono della vita che è una cosa grandissima, infinita, inspiegabile.
Vorrei che tante altre persone la pensassero come me, vorrei che abbandonassero il Dio denaro, il Dio successo, il Dio spreco e si affidassero al Dio molto più semplice, umile ed indubbiamente molto più ricco di qualsiasi altra invenzione umana.
Le persone che si ritengono felici e atee, sono le persone che mi fanno più pena, perché non riescono a guardare oltre loro stesse!
Chi non crede, non professa alcuna opera che il Nostro Signore ci insegna, vive per se stesso e se fa qualcosa per il prossimo con consapevolezza eccessiva, lo fa con lo scopo anche a volte implicito di sentirsi gratificato dagli altri. Chi agisce spinto dalla fede vede come unico scopo il bene altrui, l'atto buono destinato ad aiutare un figlio di Dio come lui. Sì, figlio di Dio.
Questa espressione è stupenda, perché lega tutti gli uomini del mondo sotto uno stesso Cielo, nel cuore grande di uno stesso Padre e tu sai che chiunque incontri lungo il tuo cammino è figlio del tuo unico Padre e puoi solo sperare che come te se ne renda conto e non si senta abbandonato e ferito.
Scrivendo queste righe cresce in me il bisogno di trasmettere la mia gioia, il mio messaggio pulito a chiunque legga... provo il desiderio e forse anche la presunzione di far capire che si può trovare Dio in qualunque momento e in qualsiasi luogo.
L'uomo non può vivere solo per se stesso, non può vivere giorno per giorno con la concezione che con la fine di questa vita ci sarà la fine di tutto; perché se grande è questo nostro mondo terreno, ancora più grande è il "Regno dei Cieli".
Sarebbe stupido vivere questi quattro giorni consapevoli che poi non ci sarà più nulla, perché io personalmente sentirei di avere vissuto per nulla, di essere nata per caso, e mi sentirei inutile se la mia anima morisse con il mio corpo, poiché di me tutto scomparirebbe.
Trovare Dio significa anche andare verso l'eternità, l'immensità, la profondità... e ognuno di noi può farlo, in qualunque momento, anche fuori dalla Chiesa, perché non è solo lì che si vive il Signore. In Chiesa si riuniscono i fedeli la domenica e durante tutte le principali festività, ma quanti dei presenti, durante la Messa, si mettono realmente davanti a Dio? Quanti sentono fra quei muri freddi il calore dell'amore del Padre?
Io ho iniziato a farlo, la domenica seguo la Messa perché sento il bisogno di conoscere, di venire a contatto in modo particolare con gli insegnamenti e i dettami di Gesù, di tutti coloro che prima di me gli hanno voluto bene...
Fra il profumo dell'incenso e di cera, immersa nelle note dei canti che io stessa intono, trovo uno strano modo di star bene con me stessa e con gli altri, mi sento pulita, svuotata dal peso che a volte la vita ci carica in spalla; sento tutti quanti vicini, uniti per uno stesso scopo: imparare Dio.
Questo è un compito della Chiesa, del Giubileo del 2000: far sentire le persone tutte uguali, sotto uno stesso Padre, accettando comunque le indiscutibili differenze fra uno e l'altro.
speranzaaccoglienzafiducia in Dio
inviato da Romina Bernardinis, inserito il 19/07/2009
RACCONTO
Bruno Ferrero, Storie belle e buone
Quando mise fuori la testa dall'uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell'Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l'orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito. Tutti i pinguini presenti applaudirono.
"È un ottimo segno!" disse lo zio Fortebecco.
"È impaziente di affrontare la vita".
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.
Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.
Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non potè sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all'enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei "pinguini irsuti", chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l'incontrastato boss.
"Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?", gli chiedeva la mamma, un po' in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
"Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!"
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
"E' tutta colpa tua!".
"No, tua!".
"E' colpa di Filippo!".
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:
"Non ne posso più!".
I colori della vita
Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
"Che barba! Un posto tutto bianco, grigio e nero. Dove nessuno si fa i fatti suoi... Deve pur esserci un paese colorato. Pieno di gente colorata. Potrei diventare anch'io pieno di colori... Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!"
E, impulsivo com'era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall'Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.
Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale. I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
"Adesso sono libero e faccio come mi pare", si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d'ali alle sue spalle lo mise in guardia. Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po', facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia. Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò. Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
"Aah!", fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche. Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:
"Bene! Comincio ad essere colorato".
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
"Ehi, amico!!", Una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
"Ti ho visto sistemare il cormorano", disse il gabbiano. "Sei un duro, tu".
"Certo", rispose Filippo.
"Ti invito a pranzo", insinuò furbescamente il gabbiano.
"Che cosa vuoi dire?".
"Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici? In due non oseranno farci niente".
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi. I due briganti mulinavano ali e becchi.
Alla fine, Filippo si guardò il petto: era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d'uovo.
"Altri colori!", si disse. "Questa è vita".
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutti.
Il grande salto
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un'otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente "Il pinguino colorato". Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c'erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un' epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?
Il pensiero dell'Isola Azzurra prese a torturarlo.
Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po' di nostalgia dell'allegra comunità dei pinguini.
"Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo", si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell'Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
"Un mostro! Un mostro!".
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore. Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
"Ma perché? Idioti, sono io, non mi riconoscete?", brontolava Filippo.
"Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato". La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
"Ma in che stato sei...".
"Bentornato, Filippo", gli disse anche il papà. Ma non lo toccò.
Le comari tutt'intorno borbottavano: "Che disgrazia! Poveri genitori...".
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell'Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
"Papà", chiese.
"Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile".
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
"C'è un mezzo solo: devi tuffarti dalla Grande Cascata. Laggiù l'acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere. Ma è tremendamente rischioso. Ci vorrà il tuo coraggio. Te la senti di farlo?".
"Si, papà".
La voce si sparse in un attimo.
Nel giro di pochi minuti c'erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un "Oh!" sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo. Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice. Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell'acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso: "Urrà!", che coprì perfino il tuonare dell'acqua.
L'esperienza nascosta nel racconto:
Il pinguino Filippo è annoiato dalla vita di tutti i giorni che è soltanto "bianca, grigia e nera". Sono molti i ragazzi di oggi che considerano noioso ciò che è normale.
La cultura in cui sono immersi è sempre alla ricerca di eccitanti per i sensi, per la mente, per lo spirito.
Questa ricerca travolge limiti e regole. Filippo cerca i colori, li trova diventando ingiusto, ladro, cattivo.
Soltanto quando è davvero diventato colorato si accorge del prezzo da pagare: l'insoddisfazione personale e soprattutto l'allontanamento dalla sua famiglia e dalla comunità. È il prezzo del male, del peccato: essere tagliati fuori, perdere l'identità.
Ma nella comunità dell'Isola Azzurra c'è il modo di cancellare tutto, di ricominciare. E' quello che succede nella Chiesa: Dio ci dà la possibilità di cancellare tutti i colori sbagliati.
Bisogna solo avere il coraggio di buttarsi nella Grande Cascata dell'Amore infinito di Dio che è il Sacramento della Riconciliazione.
Per il dialogo:
L'educatore deve aiutare i ragazzi a percepire il significato simbolico della storia del pinguino Filippo e a riflettere contemporaneamente sulla realtà che anche loro stanno vivendo. Lo può fare con alcune domande:
- Perché il pinguino Filippo decide di partire dalla sua isola?
- Vi è mai venuta la voglia di "mollare tutto"? Quando? Perché?
- Secondo voi, che cosa sono i colori che Filippo cerca?
- Di che tipo sono i colori che Filippo trova? Vi ricordano qualcosa?
- Ci sono certe cose che i ragazzi di oggi desiderano ma che, secondo voi, sono un male? Ne sapete ricordare qualcuna?
- Perché Filippo non viene riconosciuto e accettato nella sua comunità?
- Nella nostra comunità parrocchiale c'è qualche modo particolare per riconoscere di aver sbagliato e per riaccettare quelli che riconoscono di aver commesso il male?
Per l'attività:
I ragazzi possono fare l'esame di coscienza con un cartellone sul quale si trovano i "colori sbagliati": (il rosso dell'ira, il giallo dell'invidia, il viola delle parolacce, il rosa della pigrizia, ecc...)
Anche la Bibbia racconta...
L'evangelista Giovanni (13, 21-30), racconta il tradimento di Giuda e lo conclude con queste parole: "Egli subito uscì. Ed era notte". Il peccato è uscire dalla luce della comunità degli amici di Gesù ed entrare nella notte.
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inviato da Qumran2, inserito il 17/07/2009
TESTO
36. Digiuno, elemosina e preghiera 1
san Giovanni Maria Vianney, Omelia per la VII Domenica dopo Pentecoste
Leggiamo nella Sacra Scrittura che il Signore diceva al suo popolo, parlandogli della necessità di fare delle opere buone per piacergli e per far parte del numero dei santi: «Le cose che vi chiedo non sono al di sopra delle vostre forze; per farle, non è necessario innalzarvi fino alle nubi, né attraversare i mari. Tutto ciò che vi comando è, per così dire, a portata di mano, nel vostro cuore e attorno a voi». Posso ripetere la stessa cosa: è vero, non avremo mai la fortuna di andare in cielo se non facciamo opere buone; ma non ci spaventiamo: ciò che Gesù Cristo ci chiede, non sono cose straordinarie, né al di sopra delle nostre capacità; non chiede a noi di stare tutto il giorno in chiesa, neanche di fare grandi penitenze, cioè fino a rovinare la nostra salute, e neppure di dare tutto il nostro avere ai poveri (benché sia verissimo che siamo obbligati a dare ai poveri quanto possiamo, e che lo dobbiamo fare per piacere a Dio che ce lo comanda e per riscattare i nostri peccati). È pur vero che dobbiamo praticare la mortificazione in molte cose, domare le nostre inclinazioni...
Ma, mi direte voi, ce ne sono più d'uno che non possono digiunare, altri che non possono dare l'elemosina, altri che sono talmente occupati che spesso riescono a stento a fare la loro preghiera al mattino e alla sera; come dunque potranno salvarsi, dal momento che bisogna pregare di continuo e bisogna necessariamente fare opere buone per conquistare il cielo?
Visto che tutte le vostre opere buone si riducono alla preghiera, al digiuno e all'elemosina, potremo fare facilmente tutto questo, come vedrete.
Sì, anche se avessimo una cattiva salute o fossimo addirittura infermi, c'è un digiuno che possiamo facilmente fare. Fossimo pure del tutto poveri, possiamo ancora fare l'elemosina e, per quanto grandi fossero le nostre occupazioni, possiamo pregare il buon Dio senza essere disturbati nei nostri affari, pregare alla sera e al mattino, e persino tutto il giorno. Ed ecco come.
Noi pratichiamo un digiuno che è assai gradito a Dio, ogni volta che ci priviamo di qualche cosa che ci piacerebbe fare, perché il digiuno non consiste tutto nella privazione del bere e del mangiare, ma nella privazione di ciò che riesce gradito al nostro gusto; gli uni possono mortificarsi nel modo di aggiustarsi, gli altri nelle visite che vogliono fare agli amici che hanno piacere di vedere, gli altri, nelle parole e nei discorsi che amano tenere; questi fa un grande digiuno ed è molto gradito a Dio allorché combatte il suo amor proprio, il suo orgoglio, la sua ripugnanza a fare ciò che non ama fare, o stando con persone che contrariano il suo carattere, i suoi modi di agire...
Vi trovate in una occasione nella quale potreste soddisfare la vostra golosità? Invece di farlo, prendete, senza farlo notare, ciò che vi piace di meno... Sì, se volessimo applicarci bene, non soltanto troveremmo di che praticare ogni giorno il digiuno, ma ancora ad ogni momento della giornata.
Ma, ditemi, c'è ancora un digiuno che sia più gradito a Dio del fare e del soffrire con pazienza certe cose che spesso vi sono molto sgradevoli? Senza parlare delle malattie, delle infermità e di tante altre afflizioni che sono inseparabili dalla nostra miserabile vita, quante volte non abbiamo l'occasione di mortificarci, accettando ciò che ci incomoda e ci ripugna? Ora è un lavoro che ci annoia, ora una persona antipatica, altre volte è un'umiliazione che ci costa di sopportare. Ebbene, se accettiamo tutto questo per il buon Dio, e unicamente per piacergli, questi sono i digiuni più graditi a Dio...
Diciamo che c'è una specie d'elemosina che tutti possono fare.
Vedete bene che l'elemosina non consiste soltanto nel nutrire chi ha fame, e nel dare vestiti a chi non ne ha; ma sono tutti i favori che si rendono al prossimo, sia per il corpo, sia per l'anima, quando lo facciamo in spirito di carità. Quando abbiamo poco, ebbene, diamo poco; e quando non abbiamo, diamo in prestito, se lo possiamo. Colui che non può provvedere alle necessità degli ammalati, ebbene, può visitarli, dir loro qualche parola di consolazione, pregare per loro, affinché facciano buon uso della loro malattia. Sì, tutto è grande e prezioso agli occhi di Dio, quando agiamo per un motivo di religione e di carità, perché Gesù Cristo ci dice che un bicchiere d'acqua non rimane senza ricompensa. Vedete dunque che, benché siamo assai poveri, possiamo facilmente fare l'elemosina.
Dico che, per grandi che siano le nostre occupazioni, c'è una specie di preghiera che possiamo fare di continuo, anche senza distoglierci dalle nostre occupazioni, ed ecco come si fa. Consiste, in tutto quello che facciamo, nel non fare altro che la volontà di Dio. Ditemi, vi pare molto difficile lo sforzarsi di fare soltanto la volontà di Dio in tutte le nostre azioni, per quanto piccole esse siano?
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inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney - Roma, inserito il 26/06/2009
TESTO
E' arrivata la Primavera ed ogni anno, in natura, si ripete puntuale il miracolo della rinascita, e tutte le creature rinnovano in sé l'energia vitale per dimostrare e donare, ad un mondo distratto ed indifferente, la potenza creatrice e amorosa del Creatore.
Passeggiando in giardino, davanti al mistero di una piccolissima gemma che diventa un turgido bocciolo, quasi geloso di svelare la meraviglia dei suoi petali, mi afferra uno stupore crescente.
C'è un giardino, però, in cui non è necessario aspettare la primavera per vedere realizzati i miracoli della creazione ed è il " cuore dell'uomo".
Dio ha creato l'uomo e la donna per "sete d'amore", perché, essendo lui amore, non poteva fare a meno di amare e di essere amato. Ed ecco il miracolo: uomo e donna, creati a sua immagine, ricevono il suo amore e sono chiamati a diventarne messaggeri e testimoni, per diffonderlo a chi sta loro accanto e al mondo intero.
Le vite che si donano diventano, così, veicolo dell'Amore di Dio e vanno a saziare l'incontenibile e misteriosa sete d'amore delle creature, come un fiore sbocciato e donato sazia la sete di bellezza e di armonia.
L'uomo, però, non ha accolto il dono dell'Amore di Dio, che significa donarsi, perdonarsi, compatirsi, comprendersi, ed ha messo al primo posto l'amore per se stesso e per gli idoli creati dalle sue stesse mani, diventandone schiavo (Salmo 113 B, 4-8). Allora Dio, non potendo fare a meno di amare l'uomo e di essergli fedele, ha giocato l'ultima carta per salvarlo ed è sceso in terra nella Persona del Figlio, Gesù Cristo, facendosi "peccato" ( cfr. 2 Corinzi 5,21 ) lui stesso, Innocente, per liberare l'umanità dal peccato e dalla morte. Gesù, sulla terra, ha camminato con gli uomini ed ha parlato del Padre che è nei Cieli come del "nostro Padre" ( Matteo 6,9 ) che, dalla creazione, non vuole forzare i figli ad amarlo, avendoli resi liberi di accettare o rifiutare il suo amore. Il Padre, però, non smette mai di aspettare che i figli tornino per lasciarsi amare da lui, per poter dire loro parole d'amore e fare festa ( Luca 15, 11-24 )! Gli uomini, ancora una volta, non hanno saputo e voluto rispondere con l'amore alla richiesta d'amore del loro Creatore e così l'hanno ucciso: hanno crocifisso l'amore, pensando di poter togliere di mezzo l'imbarazzante "Rabbì " che parlava di cose troppo scomode per le coscienze: pace, perdono, conversione, riconciliazione, giustizia, dignità umana, strane beatitudini che fanno "vincere" i poveri, gli ultimi, gli affamati, i perseguitati..., amore addirittura per i nemici, misericordia, dono totale di se stessi agli altri fino a perdere la propria vita...
"Il mondo non lo riconobbe" (Giovanni 1,10).
Ognuno di noi c'era, quel venerdì che chiamiamo Santo, sul Calvario, ed ognuno di noi, con la parte del proprio cuore in cui vince l'avidità, la gelosia, l'invidia, la lussuria, il risentimento, la rabbia, ha battuto i chiodi nelle mani e nei piedi dell'Innocente. "Dio è morto", ha scritto qualcuno. Si, Dio è morto facendo suo il peccato e la morte dell'uomo, ma non poteva finire così, con il buio di quel venerdì e col silenzio di quel sabato. Se Dio fosse morto, tutta la creazione sarebbe morta, io sarei morta, la primavera sarebbe morta.
No! Dio ha trascinato in sé la morte e l'ha distrutta, trasformandola in vita, nella sua vita, che è immortale, incorruttibile (Corinzi 15, 20-27, 53-55). Essendo vero uomo, Gesù ha, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, innalzato a sé ogni uomo, ogni vita umana (Giovanni 3,14-17) donando ognuno di noi all'abbraccio misericordioso del Padre, che dalla creazione non aspetta altro che ritorniamo a lui, bisognosi del suo perdono e, a nostra volta, capaci di perdonare.
La sete d'amore di Dio lo ha portato a farsi lui stesso creatura, affinché nel cuore dell'uomo si continuasse a compiere il miracolo per cui era stato creato: l'amore vissuto, rinnovato, donato, gratuito, generoso, spassionato, umile, felice, sofferto, offerto, coraggioso, sorridente, radicale, ingenuo, totale.
La capacità di amarsi viene solo da Dio e se ci allontaniamo da lui, nostra unica fonte del vero amore, perdiamo la capacità di amare e accadono le cose che quotidianamente tutti vediamo e di cui ci lamentiamo. "La società va male", diciamo, "è tutta colpa della società...".
No, sono io, siamo noi che abbiamo perso il contatto con la fonte della vera vita, diventando schiavi dei vitelli d'oro che ci siamo costruiti.
L'uomo, però, ha fame d'amore, continua a cercare qualcuno o qualcosa da amare, perché è Dio stesso che ha posto nel nostro cuore il seme del suo amore.
Che fare? Perché non provare a diventare "distributori" consapevoli di amore? Perché abbiamo così tanta paura di amare? Perché temiamo di assecondare il nostro bisogno di Risurrezione? Perché non ci opponiamo alla tentazione di seguire la corrente, che ci invita a privilegiare i pensieri e le scelte di morte?
Noi cristiani siamo tali perché crediamo in Cristo, il Vivente, il Risorto, Colui grazie al quale siamo destinati, a nostra volta, ad essere eternamente viventi e risorti: perché, allora, non scegliere di vivere secondo la Sua Parola, che è Parola di vita eterna? (Giovanni 6, 67-69)
Se i genitori, ad esempio, avessero il coraggio di raccontare ai loro figli le meraviglie che ogni giorno compie in noi l'Amore di Dio, se vivessero la Risurrezione nelle scelte di vita quotidiane, se trasmettessero loro la Speranza che deriva dalla Risurrezione di Cristo, allora ogni giorno sarebbe Pasqua, ogni giorno l'amore vincerebbe e non saremmo sconvolti da tante notizie che parlano di delitti in famiglia, di ragazzi che filmano violenze sui coetanei più deboli, di famiglie distrutte da odi e rancori, di stragi del sabato sera...L'elenco non finirebbe mai, ma io propongo che ognuno di noi, nel suo piccolo, anziché soffermarsi sulle cose negative, faccia l'elenco di tutte le cose belle che ogni giorno ci vengono donate. Cerchiamo poi di arricchire l'elenco con le cose belle, dettate dall'amore, che nel nostro quotidiano possiamo fare. Facciamo crescere, nel giardino del nostro cuore, la parte divina che Dio ha preso da sé e ci ha donato.
Scegliamo consapevolmente di soddisfare la nostra "sete di Risurrezione", affinché il Signore, nostro Dio, possa dirci parole di bene e d'Amore per l'eternità.
risurrezioneamoreparolafamiglia
inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 02/06/2009
TESTO
La vita è come un soffio di vento, che soffia, ti attraversa e va via lontano... E mentre ti attraversa, ti leva le gioie, i dolori, le sensazioni e le situazioni che hai dentro e le porta via con se... Non illuderti di poter cambiare la vita, perché sarà lei a cambiare te... Ti plasmerà a suo piacimento, sarai come argilla nelle mani di uno scultore...
La vita è qualcosa che ti brucia dentro, che brucia senza sosta e ti consuma... Tu puoi viverla bene o male, ma l'importante è che non lasci mai spegnere quella fiamma... perché se l'avrai alimentata bene, continuerà a bruciare anche dopo la tua morte, per i secoli dei secoli, o forse anche di più...
La vita è quella cosa che non sai cos'è, ma sai che c'è; c'è nell'aria, c'è stasera... E se saprai usarla, se saprai tramandare quella tua voglia di vivere, quelle tue opere, anche se chi ti è nemico ti ucciderà, ucciderà quel tuo corpo, tu morirai con il sorriso sulle labbra, perché saprai che la tua vita non è stata sprecata...infatti la tua voce calda e accogliente, i tuoi meravigliosi occhi che ispirano allegria a chiunque li guardi, continueranno a rivivere, negli occhi e nella voce di chi come te ha fatto della sua vita uno strumento...E se il nemico che sicuramente incontrerai riuscirà per un attimo ad offuscare i tuoi bei pensieri beh allora pensa ad una giornata al mare, ad un gelato al cioccolato, alla faccia di quella figlia che non hai avuto, alla felicità, alla vita stessa...e vola lontano, sui campi di grano e non chiederti il perché... Vai dove la vita ti porta... Dove quella brezza leggera, calma ma continua, ti spinge... Lasciati andare...
Seconda stella a destra questo è il cammino e poi dritto fino al mattino; poi la strada la trovi da te, porta all'isola, l'isola che non c'è... No. Fai tutto ma non questo. Non illuderti che possa esistere un mondo dove c'è solo il bello ed il buono... Perché sul più bello ricadrai sulla dura realtà e ti farai male, molto più male di quanto tu possa pensare... Perché la vita è la vita, non la puoi cambiare, la puoi vivere, quello sì, ma non cambiare...
E quando tutto sembra abbandonarti, pensa a quelle persone che avrebbero voluto vivere anche solo un istante in più, per dire "andrà tutto bene", "ti amo" oppure solamente "arrivederci"; ma non hanno potuto... Pensa al male che c'è nel mondo, può sembrare strano ma ti sentirai meglio.
Poi penserai a quanto pesano le lacrime. Sì. Perché le lacrime di un bambino capriccioso pesano meno del vento, ma quelle di un bimbo affamato, più di tutta la terra... E se pensi a questo ti viene una gran voglia di vivere la vita... E scoprirai che è proprio questo lo scopo... Vivi la vita!!
inviato da Giuseppe Nesi, inserito il 02/06/2009
TESTO
Mentre il Natale evoca istintivamente l'immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l'aveva perduta. Perciò se il Natale suscita un po' in tutte le latitudini, anche presso i non cristiani e i non credenti, un'atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul terreno dell'oscuro e del difficile.
Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli». Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello "star bene" come principio assoluto. Vorrei che il senso di sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori.
In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne». (2Corinti 4,16-18). È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi: come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani, 8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.
Più difficile è però per me l'esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c'è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l'inondazione di New Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla dopo la tempesta delle guerre.
È così che la risurrezione entra nell'esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
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inviato da Qumran2, inserito il 14/04/2009
TESTO
Come installare il software Amore per rendere poi operativi anche tutti gli altri programmi.
Assistenza tecnica: Sì... come posso aiutarti?
Cliente: Ho deciso di installare Amore. Potete guidarmi nella procedura di caricamento?
Assistenza tecnica: Sì, posso aiutarti. Sei pronto a procedere?
Cliente: Beh, non sono molto esperto, ma credo di essere pronto. Qual è la prima cosa da fare?
Assistenza tecnica: Il primo passo è aprire il Cuore. Hai localizzato dove si trova Cuore?
Cliente: Sì, ma ci sono diversi altri programmi attualmente operativi. Va bene installare Amore con altri programmi aperti?
Assistenza tecnica: Quali sono i programmi aperti?
Cliente: Vediamo. Attualmente sono attivi sofferenze passate, scarsa autostima, risentimenti e rancori.
Assistenza tecnica: Non c'è problema. Amore cancellerà gradualmente sofferenze passate dal tuo sistema operativo attuale. Potrebbe rimanere nella memoria permanente ma non disturberà più gli altri programmi. Alla fine Amore renderà obsoleto scarsa autostima. Però devi chiudere completamente risentimenti e rancori: questi programmi impediscono la corretta installazione di Amore. Puoi chiuderli?
Cliente: Non so come fare a chiuderli. Può spiegarmi come si fa?
Assistenza tecnica: Con piacere. Vai al menu di partenza e clicca su perdono. Ripeti l'operazione finché risentimenti e rancori sono stati completamente cancellati.
Cliente: Bene, ho fatto! Amore ha cominciato a installarsi da solo. È normale?
Assistenza tecnica: Sì, ma ricorda che attualmente ha solo il programma di base. Devi cominciare a collegarti con altri Cuori per scaricare le estensioni.
Cliente: Oh oh. Vedo già un messaggio di errore. Dice, "Errore: il programma non è operativo su supporti esterni." Cosa devo fare?
Assistenza tecnica: Non ti preoccupare. Significa che il software Amore è programmato per operare su cuori interiori, ma non è ancora stato inizializzato sul tuo cuore. In termini non tecnici, vuol dire semplicemente che tu devi Amare te stesso prima di poter amare altri.
Cliente: Che cosa devo fare adesso?
Assistenza tecnica: Vai al menu accettazione di sé, poi apri i seguenti file: perdonarsi, rendersi conto del proprio valore, riconoscere i propri limiti.
Cliente: Bene, fatto.
Assistenza tecnica: Ok. Ora copia questi file nella cartella "Mio Cuore". Il sistema eliminerà automaticamente i file contrari e comincerà a riparare la programmazione difettosa. Devi anche cancellare autocritica soffocante da tutte le cartelle e svuotare il cestino per assicurarti che il file sia eliminato completamente e non torni mai più.
Cliente: Bene. Ehi! Il mio cuore si sta riempiendo di file nuovi. È comparso sorriso sul mio monitor, e pace e soddisfazione si stanno copiando in tutto il mio cuore. È normale?
Assistenza tecnica: Succede. Qualche volta ci vuole del tempo, ma alla fine tutto arriva al momento giusto. Bene, Amore è installato e operativo. Ancora una cosa prima di interrompere la comunicazione: Amore è un software gratuito. Se fai circolare Amore e le sue estensioni a tutti quelli che incontri, verrà condiviso con molti altri e riceverai in cambio dei sottoprogrammi utili.
Cliente: Grazie, Dio.
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inviato da Miriam Bolfissimo, inserito il 07/09/2008
RACCONTO
(Sara, 12 anni, figlia di Giairo, capo della Sinagoga di Cafarnao, cfr. Mc. 5,21-43)
"...Gesù!"
Il tuo nome è l'ultima parola che ho afferrato prima di morire. "Vado a chiamare Gesù", così ripeteva mio papà, lasciandomi per venire a cercarti.
"È arrivato tardi", mormoravano a bocca stretta, i miei vicini di casa; ero già morta, infatti, quando sei arrivato. Avevo dodici anni. "La bambina dorme, ora la sveglio", ti sentirono dire, chiusi nel loro silenzio, ti disprezzarono.
Tenendomi la mano, tu hai detto: "Talità kum!". "Fanciulla, io te lo ordino, alzati!" Non so dove la tua voce mi ha raggiunto; non so come hai fatto a trovarmi. Come un gigante tu hai attraversato, vittorioso, il buio della mia morte. Ho dischiuso gli occhi e ho visto il tuo volto: forte e sorridente.
Ma una ruga ti si formò in mezzo alla fronte, all'improvviso, come una ferita! Tu hai detto: "Datele da mangiare"; contenti ti hanno obbedito; ma io non avrei mai distolto i miei occhi dai tuoi.
Così ho ricominciato a vivere: grazie a te. "E' grazie a Gesù - spiegavo a tutti - se sono di nuovo viva". Mio papà e io non ti abbiamo più lasciato: due anni incredibili vissuti vicino a te. Quanta strada abbiamo fatto insieme a te; quante parole, quanti silenzi, quanti malati guariti, quanti lebbrosi sanati, quanti peccatori perdonati, quanti afflitti consolati, quanti sorrisi restituiti: e ogni volta sul tuo bel volto, una ruga, una ferita in più.
Mi sono sentita perduta il giorno che ti hanno arrestato. Perché farti del male, a te che hai fatto sempre del bene? Perché far del male al mio Gesù? Perché ti hanno flagellato? Perché coprire di sputi il tuo volto così bello? Perché ti hanno preso a schiaffi? Ti hanno messo perfino una corona di spine: perché trattare così il mio Re?
Papà mi ha detto che ti hanno inchiodato a una croce; che ci hai perdonato; che tua mamma era presente; che, prima di morire, anche tu hai chiamato tuo Padre; che il tuo viso era tutto una ferita.
Li ho visti, quel venerdì sera, i tuoi discepoli; vergognosi, tornavano dal Calvario impauriti, sconvolti, disperati. "E' la fine", dicevano, "è la fine". Ma io non potevo rassegnarmi; non potevo dimenticare, io: la mia carne ricordava. Io sapevo, io, che il tuo amore è più forte della morte.
M'hanno detto che sei risuscitato, che ti hanno incontrato: prima alcune donne, poi Pietro, Giovanni e tanti altri. Sono felici! Sembrano rinati! Come li capisco!
Io non ti ho ancora visto; sei salito in cielo: forse non ti vedrò più; ma non importa: le mie notti e i miei giorni sono fatti di te. Eppure, quanta voglia di ascoltarti, di abbracciarti, di vederti.
E' curioso: a volte mi sorprendo a pensare a te, a parlare con te, tanto è grande il desiderio che ho di te; allora chiudo gli occhi per ritrovare il tuo volto; è così grande il desiderio che... vorrei morire... per essere sempre con te, mio Gesù.
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inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008
RACCONTO
A una cena di raccolta fondi per una scuola che serve i disabili mentali, il padre di uno degli studenti fece un discorso che nessuno di coloro che partecipavano avrebbe mai dimenticato.
Dopo aver lodato la scuola e il personale dedito, fece una domanda: "Quando influenze esterne non interferiscono dall'esterno, la natura di tutti è perfetta. Mio figlio Shay, tuttavia, non può imparare le cose che imparano gli altri. Non può capire le cose come gli altri. Dov'è l'ordine naturale delle cose, in mio figlio?". Il pubblico fu zittito dalla domanda.
Il padre continuò. "Io ritengo che, quando un bambino come Shay, fisicamente e mentalmente handicappato viene al mondo, si presenta un'opportunità di realizzare la vera natura umana, ed essa si presenta nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino".
Poi raccontò la storia che segue: Shay e suo padre stavano camminando vicino a un parco, dove c'erano alcuni ragazzi che Shay conosceva che giocavano a baseball. Shay chiese: "Credi che mi lascerebbero giocare?". Il padre di Shay sapeva che la maggior parte dei ragazzi non volevano un ragazzo come lui nella squadra, ma comprendeva anche che se al figlio fosse stato permesso giocare, la cosa gli avrebbe dato un senso di appartenenza di cui aveva molto bisogno, e un po' di fiducia nell'essere accettato dagli altri, nonostante i suoi handicap.
Il padre di Shay si avvicinò a uno dei ragazzi sul campo e chiese se Shay poteva giocare, non aspettandosi un granché in riposta. Il ragazzo si guardò attorno, in cerca di consiglio e disse: "Siamo sotto di sei e il gioco è all'ottavo inning. Immagino che possa stare con noi e noi cercheremo di farlo battere all'ultimo inning".
Shay si avvicinò faticosamente alla panchina della squadra, indossò una maglietta della squadra con un ampio sorriso e suo padre si sentì le lacrime negli occhi e una sensazione di tepore al cuore. Il ragazzo vide la gioia di suo padre per essere stato accettato. In fondo all'ottavo inning, la squadra di Shay ottenne un paio di basi, ma era ancora indietro di tre. Al culmine del nono e ultimo inning, Shay si mise il guantone e giocò nel campo giusto. Anche se dalla sua parte non arrivarono dei lanci, era ovviamente in estasi solo per essere nel gioco e in campo, con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all'altro, mentre suo padre lo salutava dalle gradinate.
Alla fine del nono inning, la squadra di Shay segnò ancora.
Ora, con due fuori e le basi occupate, avevano l'opportunità di segnare la battuta vincente e Shay era il prossimo, al turno di battuta.
A questo punto, avrebbero lasciato battere Shay e perso l'opportunità di far vincere la squadra? Sorprendentemente, a Shay fu assegnato il turno di battuta. Tutti sapevano che gli era impossibile colpire la palla, perché Shay non sapeva neppure tenere bene la mazza, per non dire cogliere la palla. Comunque, mentre Shay andava alla battuta, il lanciatore, capendo che l'altra squadra stava mettendo da parte la vincita per far sì che Shay avesse questo momento, nella sua vita, si spostò di alcuni passi per lanciare la palla morbidamente, così che Shay potesse almeno riuscire a toccarla con la mazza. Arrivò il primo lancio e Shay girò la mazza a vuoto. Il lanciatore fece ancora un paio di passi avanti e gettò di nuovo lentamente la palla verso Shay.
Mentre la palla era in arrivo, Shay girò goffamente la mazza, la colpì e la spedì lentamente sul terreno, dritta verso il lanciatore.
Il gioco avrebbe dovuto finire, a quel punto, ma il lanciatore raccolse la palla e avrebbe potuto facilmente lanciarla al primo che copriva la base e squalificare il battitore. Shay sarebbe stato fuori e questo avrebbe segnato la fine della partita. Invece, il lanciatore raccolse la palla e la lanciò proprio al di là della testa
del primo in base, fuori dalla portata dei compagni di squadra. Tutti quelli che si trovavano sugli spalti e i giocatori cominciarono a gridare: "Shay, corri in prima base! Corri in prima!" Shay non aveva mai corso in vita sua così lontano, ma riuscì ad arrivare in prima base. Corse lungo la linea, con gli occhi spalancati e pieno di meraviglia. Tutti gli gridarono: "Corri alla seconda, alla seconda, ora!" Trattenendo il fiato, Shay corse ancor più goffamente verso la seconda, ansimando e sforzandosi di raggiungerla. Quando Shay curvò verso la seconda base, la palla era fra le mani del giocatore giusto, un piccoletto, che ora aveva la possibilità per la prima volta di essere lui l'eroe della propria squadra. Avrebbe potuto lanciarla alla seconda base per squalificare il battitore, ma comprese le intenzioni del lanciatore e anche lui gettò intenzionalmente la palla in alto, ben oltre la portata della terza base. Shay corse verso la terza base in delirio, mentre gli altri si spostavano per andare alla casa base. Tutti gridavano: "Shay, Shay, Shay, vai Shay".
Shay raggiunse la terza base, quello opposto a lui corse per aiutarlo e voltarlo nella direzione giusta, e gridò: "Shay, corri in terza! Corri in terza!".
Mentre Shay girava per la terza base, i ragazzi di entrambe le squadre e quelli che guardavano erano tutti in piedi e strillavano: "Shay, corri alla base! Corri alla base, sali sul piatto!" Shay corse, salì sul piatto e fu acclamato come l'eroe che aveva segnato un 'grand slam' e fatto vincere la sua squadra.
Quel giorno, disse il padre a bassa voce e con le lacrime che ora gli rigavano la faccia, i ragazzi di entrambe le squadre aiutarono a portare in questo mondo un pezzo di vero amore e umanità.
Shay non superò l'estate e morì in inverno, senza mai scordare di essere stato l'eroe e di aver reso suo padre così felice, e di essere tornato a casa fra il tenero abbraccio di sua madre per il piccolo eroe del giorno!
accoglienzadiversitàhandicappregiudiziamoresolidarietàunità
inviato da Stefania Calzavara, inserito il 29/10/2007
TESTO
Aldo Rabino, Vivere non è un assurdo
Com'è facile parlare dell'oppressione dei popoli, della violenza! Le chiacchiere sono un alibi per nascondere il pensiero; ma, molto più, per seppellire i fatti. Il grido "ho fame", "ho sete", "non ho casa", "sono nudo" ha sempre attraversato la terra e turbato il cuore dei ricchi, ma era un'emozione necessaria per dare uno sfondo alla festa.
Parlare, sentire, commuoversi è facile.
Difficile è scendere nel concreto, lasciare la superficie e calarsi a fondo nella realtà. Cos'è che c'impedisce, ci frena, ci paralizza? Se ci riflettiamo bene è la paura di non poter più - imboccata la strada di una scelta radicale per i poveri - tornare indietro. Eppure la fede senza le opere è morta, non si può dire d'essere cristiano senza una scelta radicale, con tutto ciò che di scomodo questa comporta.
Cristo è stato esplicito - "Andate, predicate, battezzate" - lui ha vissuto nella propria carne il sapore della testimonianza, del logorio, il patimento di dover essere accolti a sassate, di essere derisi e infine di essere messi a Morte. Credere nei poveri è lavorare, è un buttarsi dentro.
Non servono le mie o le tue idee. Serve il mio e il tuo impegno, messi insieme e vissuti in mezzo ai poveri. L'uomo del duemila non ha bisogno di parole ma di fatti, di cose concrete. Il mondo soffre per la guerra e la fame. Ma forse soffre più per la mancanza di gesti vivi, di realtà concrete, di piccole cose e attenzioni. Ma qual è la meta? Aiutare i poveri, quelli che hanno realmente bisogno, coloro che un po' tutti insieme abbiamo emarginato e messi da parte.
L'aiutare i poveri richiede atti di amore continuati, esige un buttarsi via, stando con loro. Non sono cose da dire ma da fare. Troppe volte sono state predicate, dimenticando che la vera sensibilizzazione è cio che Facciamo e cio che siamo. Alla base di questa conversione ci sta il lavoro; il lavoro duro che è fatica, che è sudore. "Lavoro non chiacchiere". Ciò che mette in crisi gli altri è il fare noi le cose, stando nel duro, anziché fare chiacchiere dure o discorsi da duri. Il gioco è questo: "perdere un po' alla volta noi stessi per aiutare poco alla volta gli altri".
È una strada dura, ci parrà di soffocare, ma alla fine saremo contenti di non aver chiuso la vita in passivo. Allora finalmente saremo uomini!
impegnoresponsabilitàamorepoveripovertà
inviato da Anna Lollo, inserito il 21/08/2007
TESTO
44. Trenta consigli per genitori frettolosi 4
Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano 2006
Qualche semplice regola che può migliorare la vita familiare e l'educazione.
1. I primi anni di vita sono importanti: è in questo periodo che si posano le strutture fondamentali della persona.
2. I bambini sono persone con carattere, temperamento, bisogni, desideri, cambiamenti di umore proprio come voi. Lasciate che anche i vostri figli qualche volta diano in escandescenze.
3. I bambini imitano quello che fate voi. Non faranno mai quello che ordinate. Soprattutto non fate prediche. I bambini imparano solo quello che vivono.
4. I due genitori devono avere la stessa idea di educazione. Questo non significa che devono fare le stesse cose o apparire un muro di cemento armato.
5. Non entrate in conflitto con i vostri figli. Ogni volta che entrerete in conflitto con i vostri figli voi avrete già perso.
6. Siate pazienti. Anche con voi stessi. Nessuno ha mai detto che sia facile essere un genitore.
7. I genitori non sono i soli educatori: c'è anche la società in cui i figli sono immersi.
8. Dite "no". In questo modo i vostri figli sapranno che li proteggete anche dai loro errori. Insegnate ai vostri figli che non possono avere tutto e subito. È prudente, perciò, usare con cautela il sistema di assecondare: i bambini devono imparare a manovrare le frustrazioni, perché la vita dell'adulto ne è piena. È pura assurdità partire dal principio che il bambino sarà in grado di affrontarle quando sarà più grande; che cosa, infatti, c'è di magico nella crescita per fornire una capacità che si dovrebbe rivelare fin dai primi anni di vita?
9. Riservate del tempo per ridere insieme e divertitevi insieme. Vivete i vostri valori nella gioia. Se fate la morale tutto il giorno ai vostri figli verrà voglia di scappare.
10. Scambiatevi dei regali.
11. Imparate a relativizzare i problemi, ma risolveteli.
12. Accogliete in casa gli amici dei vostri figli.
13. L'incoraggiamento è l'aspetto più importante nella pratica di educazione del bambino. E' tanto importante, che la mancanza di esso si può considerare quale causa fondamentale di certe anomalie del comportamento. Un bambino che si comporta male è un bambino scoraggiato.
14. Consentite ai vostri figli di non avere il vostro parere. E soprattutto ascoltateli veramente. Fa parte del nostro pregiudizio comune sui bambini pretendere di capire quello che vogliono dire senza in realtà ascoltarli. I figli hanno una diversa prospettiva e spesso soluzioni intelligenti da proporre. Il nostro orgoglio ci impedisce di ascoltarli.
Quante volte potremmo approfittare della loro sensibilità se li trattassimo alla pari e li ascoltassimo davvero.
15. Sottolineate i lati positivi dei vostri figli. I bambini non ne sono sempre coscienti. I complimenti piacciono a tutti, anche ai vostri figli.
16. Consentite loro di prendere parte alle decisioni della famiglia. Spiegate bene i motivi delle vostre scelte. Rispondete ai loro «perché».
17. Mantenete la parola. Siate coerenti. Attenetevi alle decisioni prese. Non promettete o minacciate a vanvera.
18. Riconoscete i vostri errori e scusatevi. Abbiate il coraggio di essere imperfetti e consentite ai vostri figli di esserlo.
19. Giocate con i vostri figli.
20. Quando dovete fare un "discorso serio" con i vostri figli, aspettate che siano in posizione orizzontale. Non fatelo mai quando sono in posizione verticale.
21. Ricordate che ogni bambino è unico. Non esiste l'educazione al plurale.
22. Alcuni verbi non hanno l'imperativo. Non potete dire: «Studia!», «Metti in ordine!», «Prega!» e sperare che funzioni.
23. Spiegate ai vostri figli che cosa provate. Raccontate come eravate voi alla loro età.
24. Aiutateli a essere forti e a riprendersi quando le cose vanno male.
25. Raccogliete la sfida della TV. La televisione non è tanto pericolosa per quello che fa quanto per quello che non fa fare.
26. Non siate iper/protettivi. Cercate le occasioni giuste per tirarvi indietro e consentire ai vostri figli di mettere alla prova la loro forza e le loro capacità.
27. Un bambino umiliato non impara nulla. Eliminate la critica e minimizzate gli errori. Sottolineando costantemente gli errori, noi scoraggiamo i nostri figli, mentre dobbiamo ricordarci che non possiamo costruire sulla debolezza, ma soltanto sulla forza.
28. Non giudicate gli altri genitori dai loro figli e non mettetevi in competizione per i figli con parenti e amici.
29. Date loro il gusto della lettura.
30. Raccontate loro la storia di Gesù. Tocca a voi.
famigliafigligenitorieducatorieducazione
inviato da Qumran2, inserito il 20/08/2007
TESTO
Rivista Consacrazione e servizio
Sogno una comunità formata da fratelli e sorelle, ma il cui termine «fratello» o «sorella» non venga appiccicato addosso dall'abitudine, ma guadagnato, sudato da tutti, giorno per giorno. Sogno una comunità in cui il «reale» sia la legge fondamentale da cui dipendono tutte le altre leggi. Il reale: ossia queste persone concrete, con questa mentalità, con questa cultura, con questa formazione, con queste doti, con questa età, in questa situazione particolare, in questo ambiente, con questa missione da compiere, in questo tempo.
Sogno una comunità in cui venga riconosciuto il primato della persona. E tutti siano convinti che il «bene comune» non può che coincidere sempre con il bene delle singole persone. Una comunità costruita in rapporto alle persone. Una comunità in cui le strutture e le opere siano in funzione dell'equilibrio, dello sviluppo, della crescita delle persone.
Sogno una comunità nella quale l'uguaglianza fondamentale di tutti i membri venga riconosciuta e accentuata con tutti i mezzi. Sogno una comunità in cui manchino i privilegiati; semmai i privilegiati siano i piccoli, i deboli, gli ultimi, una comunità nella quale domini la «mentalità della catena», secondo cui la forza e la consistenza della catena nel suo insieme viene data dall'anello più debole.
Sogno una comunità in cui non ci sia tempo da perdere per le sciocchezze e i pettegolezzi, per le insinuazioni, i sospetti, le maldicenze, le chiacchiere: dove ci si ama non c'è mai tempo da perdere, perché nulla ci può assorbire come l'amore. Una comunità in cui nessuno si prenda troppo sul serio, ma ognuno si senta preso sul serio dagli altri.
Sogno una comunità in cui venga scoraggiato bruscamente ogni tentativo, da qualunque parte si manifesti, di parlare male di una persona assente. Una comunità in cui tutti si trovino «al sicuro». Ossia ognuno si trovi al sicuro in fatto di libertà, dignità, rispetto e, soprattutto, responsabilità personale.
Sogno una comunità in cui ciascuno abbia il coraggio di esprimere liberamente il proprio pensiero. In cui le opinioni espresse dai singoli vengano prese in considerazione per il peso effettivo degli argomenti portati, e non per le altre valutazioni opportunistiche, autoritarie o emozionali. Una comunità in cui ogni membro venga considerato da tutti gli altri «uno di cui ci si può fidare». E ciascuno si impegni ad esserlo per davvero.
Sogno una comunità nella quale tutti si lascino mettere in discussione e il linguaggio sia schietto, e non si abbia paura della verità; anche perché lo stile abituale è uno stile di verità che penetra, scomoda, ma non umilia nessuno. Una verità che guarisce sia pure dolorosamente, ma non ferisce, perché... felicità è poter dire la verità senza far piangere nessuno.
Sogno una comunità in cui tutti quelli che si «atteggiano» a maestri vengano condannati a vivere le parole; tutti quelli che si atteggiano a «giudici» vengano condannati a sentirsi complici. Una comunità in cui l'unico sospetto valido sia il sospetto che qualche fratello o sorella non ricevano la quota d'amore che spetta loro.
Sogno venti, cinquanta, mille comunità che dimostrino che.. ho sognato la realtà!
inviato da Naldi Franco, inserito il 18/08/2007
TESTO
Tonino Bello, Cirenei della gioia
Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.
Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire, avrà la firma d'autore del Signore. Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.
Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.
Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.
Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare...». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d'amore.
Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».
Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare, chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di AIDS... diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgeranno che non c'è sostanza, che non c'è l'acqua viva, la gente se ne va.
Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.
Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Chiristi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.
La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in modo o nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte» (Gv. 13,30).
Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell'intimismo, ovattato dove le percussioni dei mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l'ordine del giorno che il mondo ci impone.
Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo..
amorecaritàattivitàcontemplazioneservizioeucaristia
inviato da Don Luigi Pisoni, inserito il 17/11/2006
RACCONTO
Suor Angela Benedetta, clarissa
Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.
Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.
Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.
Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.
Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.
Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.
"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".
Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.
Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.
Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.
Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".
Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".
Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.
Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.
Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".
Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.
Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.
inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006
PREGHIERA
Parla all'io cuore, Signore.
"Ti sto parlando. Ma perché hai paura?
Eppure non avevi paura di incontrare illustri sconosciuti
che potevano portarti a sfiorare i pantani della vita!
E hai paura di me, l'unico che hai conosciuto meglio di tutti?
Mi hai conosciuto. Non è forse vero?
Puoi forse dire che conosci i pensieri, i sogni e i palpiti di qualcun altro, come conosci i miei?
Sono tanti anni che li racconto personalmente a te.
Quali sogni conosci meglio dei miei?
Ti ho conosciuto, chi ti conosce meglio di me?
Forse qualcuno ha saputo intravedere i tuoi talenti anche quando non si vedevano,
soffocati com'erano da mille croste?
Forse qualcuno ha puntato su di te come ho fatto io, con determinazione e sicurezza?
Io sapevo di te quando tu neanche ti supponevi.
E allora, se io conosco così bene te e tu così bene me, perché hai paura?
Sono forse un fantasma?
Ti ha fatto compagnia un fantasma durante le notti di paura e solitudine?
E' forse un fantasma quello che, con le mani della provvidenza, ti ha mandato cibo, casa e vestiti per te e i tuoi figli?
Tu dici: - Può essere fantasia, autosuggestione tutto ciò?
E se fosse tutto una follia? -
Io ti rispondo: E' forse una follia andare insieme sul monte della felicità,
o era una follia affidarsi ciecamente a gente più cieca di te?
E' forse una follia la dimensione dello spirito sulla quale voglio farti volare,
o non è forse più follia restare terra terra quando invece il Padre nostro
ci ha fatto giganti spirituali con ali per volare?
Non aver paura, non è una follia. Solo resta tranquillo, seguimi, attaccati alle mie ali
e comincia a volare con me.
Quando ti vedrò sicuro nel volo, solo allora ti lascerò volare da solo!
Ma dovrai volare da solo, perché non posso fare la balia per sempre.
Devi diventare adulto e aiutarmi perché è per diffondere l'amore
che mi sono fatto conoscere da te, è per essere amato e per far conoscere agli altri,
attraverso il rapporto d'amore mio e tuo, che l'amore di Dio è una seria e concreta.
Perché vedano e, vedendo, ne abbiano voglia anche loro.
Per questo mi sono fatto conoscere da te".
rapporto con Dioconversioneevangelizzazionetestimonianzamissionecrescitainteriorità
inviato da Leo, inserito il 10/10/2005
TESTO
La seguente lettera è uno "pseudoepigrafo paolino", sulla conversione missionaria del prete; è una simpatica e profonda lettera rivolta da un vescovo ai preti di oggi.
Carissimo fratello Timoteo,
da circa un mese sei parroco in Santa Maria del terzo Millennio. Come non ricordare la solenne e commovente "presa di possesso"? L'unica pecca che stava per guastare la festa fu proprio quella bruttissima espressione - "presa di possesso" - che il cancelliere vescovile voleva implacabilmente inserire nel verbale da conservare nell'archivio Diocesano e in quello parrocchiale. Ti ho letto nel lampo degli occhi che stavi per scattare - per dire con la vostra brutalità giovanile che non ti sentivi affatto un vassallo in atto di prendere possesso del suo ambìto feudo. Intervenni io, un po' a gamba tesa, e spiegai alla tanta gente in festa che tu, la parrocchia, non l'avresti mai e poi mai vista come un "tuo" possesso, ma solo come un dono immeritato e preziosissimo, e a quel punto mi permisi un'autocitazione, presa dalla mia seconda lettera ai cristiani di Corinto: noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia.
Mi telefonasti la sera dopo, e mi dicesti: "Che bella parrocchia! E c'è anche la luna!". Da allora non ti ho più visto né sentito, ma dato che siamo al primo... "trigesimo" di quel felice inizio, ho pensato bene di scriverti questa breve lettera, perché vorrei che la tua gioia di essere parroco crescesse di giorno in giorno.
Sì, lo so: questo miracolo della beatitudine è purtroppo un po' raro tra noi pastori, ma non è improbabile e niente affatto impossibile. Ed è proprio di questo che vorrei parlarti. Stai sereno, non ti rifilo un trattato di ascetica e mistica sulla carità pastorale. Ti vorrei parlare solo di una condizione assolutamente irrinunciabile - "sine qua non", si diceva ai miei tempi - perché il miracolo si avveri. Sarai un parroco felice nella misura in cui sarai un vero missionario. Non si scappa: o missionari o... dimissionari.
E' una conversione profonda, che bisogna rinnovare ogni giorno. Ogni mattina, prima di mettere i piedi fuori dal letto, beato te se dirai: "Grazie, Signore, per avermi creato, fatto cristiano, e grazie per avermi fatto questi piedi belli per il vangelo". Scrivi sullo specchio in sagrestia, o almeno in quello del bagno: "Non sono un professionista del sacro, né un insegnante della fede: sono un annunciatore del vangelo". Quando ero a Corinto io avevo scritto sulla porta della stanzetta nella casa di Aquila e Priscilla: Non sono stato mandato qui a battezzare, ma ad evangelizzare.
Ricordi la grammatica di base del missionario, che ti ho insegnato quando prima di essere tuo vescovo, ti ho fatto da rettore in seminario? E' una grammatica costruita su un quadrilatero di certezze che devono rimanere solide più delle fondamenta della tua splendida chiesetta romanica:
- La parola di Dio è come l'acqua e la neve, se cade...
- La Parola non è lontana, ma molto vicina al cuore, anzi è dentro. Basta trovare il modo per far scattare il contatto...
- "Come agnelli tra i lupi" non è per farci sbranare, ma per far accogliere il messaggio: quanto più siamo deboli umanamente...
- A noi tocca il compito di annunciare. E' il Signore che veglia sulla sua parola perché si realizzi...
Stai attento, Timoteo: devi essere severo nel vigilare che questo spirito missionario non venga aggredito da virus micidiali, quali l'IO-latria del prete che pensa: "Come me non c'è nessuno: prima di me e dopo di me, non ci sarà nessuno uguale a me!". Perciò niente cose alla "W il parroco!". Un altro virus che fa strage in casa nostra è quello dello stress da pastorale: correre, competere, confliggere e alla fine... l'eterno riposo! Ma non c'è da scherzare neanche con la depressio clericalis (si chiama così anche quando infetta i laici): la si vede come un messaggio scritto sulla maglietta in quei "nostri" che vanno in giro con l'aria fritta di chi sembra dire: "fateme 'na flebo". Ti ripeto: devi essere severo. E se lo sarai con te, potrai vigilare anche sullo spirito missionario dei "vicini". Per esempio i gruppi - dal coro a quello liturgico, a quello catechistico e caritativo, dall'AC ai carismatici - non devono essere luoghi di potere o gradini per emergere (è un pericolo sempre in agguato), ma sviluppare il servizio al vangelo. Allora la tua - la vostra - parrocchia non sarà una scuola in cui si spiega il cristianesimo o, peggio ancora, un ufficio di controllo della fede dei parrocchiani, ma riuscirete a far circolare la parola di Dio per le strade, in modo che la gente la incontri.
E con gli altri? Quelli che si servono della parrocchia per continuare abitudini e consuetudini sociali; quelli che la ignorano: cosa puoi esigere se non hanno le motivazioni? Allora ringrazia Dio tutte le volte che càpitano a messa. Tutte le volte che ti portano i figli al catechismo. Tutte le volte che ti chiedono i sacramenti, per sé o per i figli, o il funerale per il caro estinto. Anche se per le loro motivazioni non proprio di fede. Tutte le volte! Non è una disgrazia: è un dono di Dio che vengano, quando saresti tu che dovresti andare a cercarli.
Accogliendoli così come sono, non farai finta che abbiano le tue motivazioni. Quindi non li rimproveri e non li ricatti, non imponi loro dei compiti come se avessero le tue motivazioni, non parli loro e non fai prediche come se avessero la fede. Ti comporti da missionario: entri nella loro situazione, cerchi di capire le loro domande e i loro interessi, parli la loro lingua, proponi con libertà e chiarezza il messaggio, non imponi loro dei fardelli che nemmeno tu riesci a portare.
Per finire, permettimi di ricordarti alcune regole che ti potranno servire per misurare il tuo spirito missionario.
1. Non maledire i tempi correnti: è arrivato al capolinea il cristianesimo dell'abitudine e sta rinascendo il cristianesimo per scelta, per innamoramento.
2. Non anteporre nulla all'annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto. Afferra ogni situazione, ogni problema, ogni interesse e riportalo lì, al centro di tutta la fede.
3. Annuncia il cristianesimo delle beatitudini e non vergognarti mai del vangelo della croce: Cristo non toglie nulla e dà tutto!
4. Il vangelo è da proporre, non da imporre. Non imporlo mai a nessuno, neanche ai bambini, soprattutto ai bambini: gli resterebbe un ricordo negativo per tutta la vita.
5. Non amareggiarti per l'indifferenza dei "lontani" e non invocare mai il fuoco dal cielo perché li consumi, ma fa' festa anche per uno solo di loro che si converte.
6. Ricorda: il kerygma non è come un chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Il messaggio cristiano non è da ripetere meccanicamente, è da reinterpretare nella mentalità e nella lingua della gente: vedi s. Paolo. Scusami: guarda me...
7. Sogna una parrocchia che sia segno e luogo di salvezza, non club di perfetti.
8. Non credere di comunicare il vangelo da solo! Almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72! Creare un gruppo di parrocchiani veri per evangelizzare i presunti tali.
9. Ricordati che i laici non vanno usati come ausiliari utili, ma vanno aiutati a diventare collaboratori corresponsabili.
10. Non ridurti mai a vigile del traffico intraparrocchiale: tu non sei il coordinatore delle attività o il superanimatore di gruppi, ma sei una vera guida, sei il primo evangelizzatore.
Ti auguro di credere sempre nella presenza forte e dolce dello Spirito Santo e ti raccomando di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani.
Caro Timoteo, ti ripeto quanto ti scrissi nella mia prima Lettera: Custodisci con cura tutto quanto ti è stato affidato. Evita le chiacchiere contrarie alla fede. E ti raccomando pure quanto ti scrissi nella seconda Lettera: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inopportuna, rimprovera, raccomanda e incoraggia con tutta la tua pazienza.
La grazia sia con te e con tutti i fedeli della tua comunità, anche con quelli che ancora non sei riuscito ad incontrare!
Paolo, missionario di Gesù Cristo
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inserito il 01/10/2005
TESTO
Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano, marzo 2005
1°. Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull'amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori "per dovere". E l'educazione è sempre un "gioco di squadra". Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un'intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in "cambio", il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po' di spazio per sé.
2°. Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa "voi siete il primo interesse della mia vita". Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l'assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l'aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E' anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.
3°. Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa', alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo "coscienza" ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.
4°. Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto "no", che è il modo migliore per comunicare: "ho cura di te".
5°. Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l'ascolto, l'accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: "Qualunque cosa capiti, sono qui per te!". Di qui nasce nei figli quell'atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.
6°. Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l'isola accogliente per i "naufraghi della giornata". E' fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d'incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell'affetto. Nel passato il padre era il portatore dei "valori", e per trasmettere i valori ai figli basta imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?
7°. Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo " di fuori". Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l'attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.
8°. Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: "Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand'ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L'amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni... Mi ha tolto l'affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo".
9°. Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati, trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.
10°. Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l'immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un'impronta indelebile.
papàpadregenitorifamigliafiglieducazioneeducare
inviato da Gianni Andrea Granzotto, inserito il 29/09/2005
PREGHIERA
Si sente spesso parlare di obbedienza cieca. Mai di obbedienza sorda. Sapete perché? Per spiegarvelo devo ricorrere all'etimologia, che, qualche volta, può dare una mano d'aiuto anche all'ascetica.
Obbedire deriva dal latino "ob-audire". Che significa: ascoltare stando di fronte. Quando ho scoperto questa origine del vocabolo, anch'io mi sono progressivamente liberato dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia volontà, e ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari.
Chi ubbidisce non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica nella logica della domanda e dell'offerta. Non si avvilisce all'umiliante ruolo dell'automa, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo.
C'è una splendida frase che fino a qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della contestazione: "obbedire in piedi". Sembra una frase sospetta, da prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell'autentica natura dell'obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e l'altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l'altro che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra di violenza, e l'altro che con gioia ne interiorizzi l'indicazione.
In effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace, non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si collabora.
Teresa, per esempio, che è costretta a dire sì a tutte le voglie del marito e non può uscire mai di casa perché lui è geloso, e la sera, quando torna ubriaco e i figli piangono, lei si prende un sacco di botte senza reagire, è una donna repressa, non è una donna obbediente. Il Signore un giorno certamente la compenserà: ma non per la sua virtù, bensì per i patimenti sofferti.
L'obbedienza, insomma, non è inghiottire un sopruso, ma è fare un'esperienza di libertà. Non è silenzio di fronte alle vessazioni, ma è accoglimento gaudioso di un piano superiore. Non è il gesto dimissionario di chi rimane solo con i suoi rimpianti, ma una risposta d'amore che richiede per altro, in chi fa la domanda, signorilità più che signoria.
Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuol bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà. Ecco l'analisi logica e grammaticale dell'obbedienza di Maria.
Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo "Sì", si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell'orbita della storia della salvezza con tale coscienza responsabile che l'angelo Gabriele ha fatto ritorno in cielo, recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio di andata.
Forse non sarebbe sbagliato intitolare il primo capitolo di Luca come l'annuncio dell'angelo al Signore, più che l'annuncio dell'angelo a Maria.
Santa Maria, donna obbediente, tu che hai avuto la grazia di "camminare al cospetto di Dio", fa' che anche noi, come te, possiamo essere capaci di "cercare il suo volto".
Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E anche quando egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia.
Santa Maria, donna obbediente, tu sai bene che il volto di Dio, finché cammineremo quaggiù, possiamo solo trovarlo nelle numerose mediazioni dei volti umani, e che le sue parole ci giungono solo nei riverberi poveri dei nostri vocabolari terreni. Donaci, perciò, gli occhi della fede perché la nostra obbedienza si storicizzi nel quotidiano, dialogando con gli interlocutori effimeri che egli ha scelto come segno della sua sempiterna volontà.
Ma preservaci anche dagli appagamenti facili e dalle acquiescenze comode sui gradini intermedi che ci impediscono di risalire fino a te. Non è raro, infatti, che gli istinti idolatrici, non ancora spenti nel nostro cuore, ci facciano scambiare per obbedienza evangelica ciò che è solo cortigianeria, e per raffinata virtù ciò che è solo squallido tornaconto.
Santa Maria, donna obbediente, tu che per salvare la vita di tuo figlio hai eluso gli ordini dei tiranni e, fuggendo in Egitto, sei divenuta per noi l'icona della resistenza passiva e della disobbedienza civile, donaci la fierezza dell'obiezione, ogni volta che la coscienza ci suggerisce che "si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini".
E perché in questo discernimento difficile non ci manchi la tua ispirazione, permettici che, almeno allora, possiamo invocarti così: "Santa Maria, donna disobbediente, prega per noi".
inviato da Giulio Bianchi, inserito il 23/09/2005
TESTO
Paolo VI, omelia inaugurazione parrocchia N.S. di Lourdes, Roma 23-2-1964
Collabora, prega e soffri per la tua parrocchia, perché devi considerarla come una madre a cui la Provvidenza ti ha affidato: chiedi a Dio che sia casa di famiglia fraterna e accogliente, casa aperta a tutti e al servizio di tutti. Da' il tuo contributo di azione perché questo si realizzi in pienezza. Collabora, prega, soffri perché la tua parrocchia sia vera comunità di fede: rispetta i preti della tua parrocchia anche se avessero mille difetti: sono i delegati di Cristo per te. Guardali con l'occhio della fede, non accentuare i loro difetti, non giudicare con troppa facilità le loro miserie perché Dio perdoni a te le tue miserie. Prenditi carico dei loro bisogni, prega ogni giorno per loro.
Collabora, prega, soffri perché la tua parrocchia sia una vera comunità eucaristica, che l'Eucaristia sia "radice viva del suo edificarsi", non una radice secca, senza vita. Partecipa all'Eucaristia, possibilmente nella tua parrocchia, con tutte le tue forze. Godi e sottolinea con tutti tutte le cose belle della tua parrocchia. Non macchiarti mai la lingua accanendoti contro l'inerzia della tua parrocchia: invece rimboccati le maniche per fare tutto quello che ti viene richiesto. Ricordati: i pettegolezzi, le ambizioni, la voglia di primeggiare, le rivalità sono parassiti della vita parrocchiale: detestali, combattili, non tollerarli mai!
La legge fondamentale del servizio è l'umiltà: non imporre le tue idee, non avere ambizioni, servi nell'umiltà. E accetta anche di essere messo da parte, se il bene di tutti, ad un certo momento, lo richiede. Solo, non incrociare le braccia, buttati invece nel lavoro più antipatico e più schivato da tutti, e non ti salti in mente di fondare un partito di opposizione!
Se il tuo parroco è possessivo e non lascia fare, non farne un dramma: la parrocchia non va a fondo per questo. Ci sono sempre settori dove qualunque parroco ti lascia piena libertà di azione: la preghiera, i poveri, i malati, le persone sole ed emarginate. Basterebbe fossero vivi questi settori e la parrocchia diventerebbe viva. La preghiera, poi, nessuno te la condiziona e te la può togliere.
Ricordati bene che, con l'umiltà e la carità, si può dire qualunque verità in parrocchia. Spesso è l'arroganza e la presunzione che ferma ogni passo ed alza i muri. La mancanza di pazienza, qualche volta, crea il rigetto delle migliori iniziative.
Quando le cose non vanno, prova a puntare il dito contro te stesso, invece che contro il parroco o contro i tuoi preti o contro le situazioni. Hai le tue responsabilità, hai i tuoi precisi doveri: se hai il coraggio di un'autocritica, severa e schietta, forse avrai una luce maggiore sui limiti degli altri.
Se la tua parrocchia fa pietà la colpa è anche tua: basta un pugno di gente volenterosa a fare una rivoluzione, basta un gruppo di gente decisa a tutto a dare un volto nuovo ad una parrocchia. E prega incessantemente per la santità dei tuoi preti: sono i preti santi la ricchezza più straordinaria delle nostre parrocchie, sono i preti santi la salvezza dei nostri giovani.
Alcuni nostri utenti hanno messo in dubbio che la frase sia attibuibile al Papa Paolo VI, infatti sul sito vaticano viene riportata l'omelia indicata ma senza questa parte: e a quel tempo l'intervento a braccio non sembra pensabile.
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inviato da Anna Barbi, inserito il 06/06/2005
RACCONTO
Bruno Ferrero, 40 Storie nel deserto
Il buon Dio aveva deciso di creare... la mamma. Ci si arrabattava intorno già da sei giorni, quand'ecco comparire un angelo che gli fa: "Questa qui te ne fa perdere di tempo, eh?". E Lui: "Sì, ma hai letto i requisiti dell'ordinazione? Dev'essere completamente lavabile, ma non di plastica... avere 180 parti mobili tutte sostituibili... funzionare a caffè e avanzi del giorno prima... avere un bacio capace di guarire tutto, da una sbucciatura ad una delusione d'amore... e sei paia di mani". L'angelo scosse la testa e ribatté incredulo: "Sei paia?!". "Il difficile non sono le mani - disse il buon Dio - ma le tre paia di occhi che una mamma deve avere". "Così tanti?". Dio annuì. "Un paio per vedere attraverso le porte chiuse quando domanda "che state combinando lì dentro, bambini?", anche se lo sa già; un altro paio dietro la testa, per vedere quello che non dovrebbe vedere, ma che deve sapere; un altro paio ancora per dire tacitamente al figlio che si è messo in un guaio "capisco e ti voglio bene lo stesso".
"Signore - fece l'angelo sfiorandogli gentilmente un braccio - va' a dormire. Domani è un altro...". "Non posso - ripose il Signore - ho quasi finito ormai. Ne ho già una che guarisce da sola se è malata, che può lavorare 18 ore di seguito, preparare un pranzo per sei con mezzo chilo di carne tritata e che riesce a tenere sotto la doccia un bambino di nove anni". L'angelo girò lentamente intorno al modello di madre, esaminandolo con curiosità: "E' troppo tenera", disse poi con un sospiro. "Ma resistente - ribatté il Signore con foga - tu non hai idea di quello che può sopportare una mamma!". "Sa pensare?". "Non solo, ma sa anche fare un ottimo uso della ragione e venire a compromessi", ribatté il Creatore. A quel punto l'angelo si chinò sul modello della madre e le passò un dito su una guancia: "Qui c'è una perdita", dichiarò. "Non è una perdita - lo corresse il Signore - è una lacrima". "E a che serve?". "Esprime gioia, tristezza, delusione, dolore, solitudine, orgoglio". "Ma sei un genio!", esclamò l'angelo. Con sottile malinconia Dio aggiunse: "A dire il vero, non sono stato io a mettercela quella cosa lì...".
inviato da Silvia Ongaro, inserito il 21/04/2005
TESTO
Ai tiepidi raggi del sole pomeridiano trionfavano per tutto il bosco i colori dell'autunno e Mirella, una giovanissima castagna ancora ben chiusa nel suo riccio, se li godeva compiaciuta, dondolandosi con sicurezza in cima al ramo più alto del Castagno Valerio.
«Che vista fantastica!», pensava tra sé, contemplando le pendici del monte e l'intera vallata baciata dal sole autunnale; «Un panorama meraviglioso, davvero meraviglioso...», sussurrava estasiata.
- Mai quanto te! - mormorò una voce suadente che proveniva dal basso; Mirella si chinò per vedere chi avesse parlato e scorse la Vespa Rachele, che con il suo inconfondibile ronzio le fu rapidamente accanto.
- Guarda che spine, che magnifiche spine! Mai visto un riccio come il tuo! Spine aguzze come punte di lancia, affilate come spade, fitte come un esercito schierato a battaglia! Altro che il mio pungiglione! La tua sì che è una bella difesa, una vera corazza! Abbine sempre cura e tientela cara: sia questo il tuo tesoro e il tuo vanto! - e con la stessa fulminea rapidità con cui era comparsa, sfrecciò via ronzando.
Mirella rimase un po' perplessa: da quando era nata non aveva fatto altro che guardarsi attorno, ammirando una dopo l'altra le infinite meraviglie di cui di giorno in giorno si scopriva circondata. Non aveva mai badato al suo riccio, né si preoccupava di come fossero le sue spine. Ora però, lusingata dai complimenti di Rachele, cominciò a farci caso e nel giro di breve tempo si convinse di essere effettivamente una gran bella castagna, anzi, forse proprio la più bella tra tutte quelle che Valerio poteva contare sui suoi rami.
«Non a caso abito sui ramo più alto e ricevo per prima il bacio del sole!» - ripeteva tra sé - «Perfino le foglie, per farmi spazio; si stanno ritirando una alla volta, volando via silenziose... certo per permettere a tutti di ammirare meglio me!», concludeva convinta.
- Attenta, figlia mia! - la riprese un giorno babbo Valerio - Bada bene di non montare in superbia! Non sei nata per essere ammirata, ma per...
- Ci mancavano solo le prediche del vecchio padre! - lo interruppe brontolando Mirella - Sei proprio incontentabile, papà! Anziché andare orgoglioso di una figlia così bella, ti metti a fare critiche e osservazioni!
Babbo Valerio rimase in silenzio; «Capirà a sue spese quello che non vuole ascoltare da me», pensò addolorato, e con un profondo sospiro rivolse lo sguardo al cielo: fosche nubi si stavano addensando e già oscuravano le cime dei monti vicini. Raffiche di vento gelido si abbatterono ben presto sul bosco, che per tutta la notte fu flagellato da un violento temporale.
Il mattino seguente, Mirella si svegliò contusa e indolenzita. «Dove sono?», si chiese stupefatta guardandosi attorno: si trovava infatti malamente adagiata tra vecchie foglie fradice di pioggia, in mezzo ad una vasta pozzanghera che lambiva le radici del Castagno Valerio.
- Benvenuta tra noi, Mirella! - le disse amichevolmente il Fungo Tebaldo, un porcino grassoccio dall'aria assai cordiale, circondato da una nidiata di figlioletti di varia statura. - Dopo aver sperimentato l'ebbrezza dei rami più alti, era conoscerai anche gli amici della terra!
Mirella si guardò intorno con aria schifiltosa: non era per niente contenta di trovarsi tutta inzaccherata in mezzo al fango e soprattutto temeva per la salute e la bellezza del suo riccio. Senza curarsi di rispondere al fungo Tebaldo si specchiò preoccupata nell'acqua melmosa della pozzanghera. «Ahimè!» - esclamò rabbrividendo - «Cosa mi è successo?». Una profonda ferita aveva spaccato la buccia verdastra del suo amato riccio, lasciando intravedere il guscio d'un bel marrone lucido.
- Niente di grave, piccola! - cercò di rassicurarla il Lombrico Gustavo - È assolutamente normale che una castagna prima o poi esca dal riccio! Non vorrai per caso startene rinchiusa lì dentro per sempre?
- Viscido e molle come sei, ti conviene startene alla larga senza ironizzare sulle mie sventure - ribatté con asprezza Mirella - Altrimenti assaggerai le mie spine e ti passerà la voglia di fare lo spiritoso!
- Via, via. Gustavo non intendeva offenderti - soggiunse la Lumaca Giannina - ma solo tranquillizzarti. E poi, permettimi di dirti con tutta franchezza che saresti molto più bella senza quell'enorme casco spinoso.
- Vuoi dire che quaggiù non vanno di moda le spine? - chiese con interesse Mirella.
- Assolutamente no! Apprezziamo molto di più tutto ciò che è morbido e tenero - intervenne gentilmente Luciana, la moglie del Fungo Tebaldo - e se vuoi un consiglio schiettamente femminile il colore del tuo guscio è così lucido e bello che ci guadagneresti soltanto a metterlo in mostra anziché tenerlo nascosto!
Mirella si lasciò persuadere e pian piano uscì spontaneamente dal riccio, abbandonandolo per sempre. Nel giro di pochi giorni fece amicizia con tutti gli abitanti del Sottobosco ed era certa che la simpatia che le dimostravano fosse dovuta in massima parte alla splendente lucentezza del suo guscio, di cui era assai fiera. Un mattino, però, quando il sole era da poco spuntato e i suoi raggi cominciavano a filtrare tra i rami degli alberi, il silenzio del bosco fu rotto da un insolito calpestio e dal vociare confuso di un gruppo di ragazzi. Erano degli scout e portavano in spalla pesanti zaini, tra le mani invece sporte e cestini. Avanzavano allegramente, cantando e fischiettando e in breve furono nei pressi del Castagno Valerio.
- Alt! Fermi tutti! - gridò il capo scout, poi si curvò ed esclamò compiaciuto: - Che meraviglia, ragazzi! Venite a vedere!
Mirella pensò subito che si trattasse di lei, dell'eccezionale splendore del suo guscio castano, e cominciò a gongolare, immaginandosi già di essere portata a valle ed esposta nella vetrina di qualche prestigiosa boutique di città. «Speriamo che si tratti di una gioielleria...», fantasticava tra sé, ma i suoi sogni di gloria furono drasticamente interrotti quando si accorse che tutti gli scout non si stavano minimamente curando né di lei né del suo guscio, ma unicamente del Fungo Tebaldo.
- È un porcino! - dichiarò con sicurezza il capo e dopo averlo colto delicatamente lo mostrò a tutti i ragazzi, che si affollarono intorno a lui per guardarlo da vicino.
- Avanti, ora! Continuiamo la raccolta! - E subito gli scout si sparpagliarono tra gli alberi facendo a gara a chi raccoglieva più castagne: fu così che anche Mirella finì senza tanti complimenti dentro un canestro di vimini insieme a numerose compagne.
Quella sera, mentre il falò rischiarava coi suoi bagliori la radura dove si erano accampati gli scout, Mirella domandò preoccupata: - Che ne sarà di noi, amiche mie?
- Saremo finalmente liberate! - rispose con gioia Donatella, l'anziana del gruppo.
- Liberate? E da che? Vuoi forse dire che ci lasceranno andare?
- Ma no! Ciascuna di noi sarà finalmente liberata da questo odioso guscio che ci tiene prigioniere impedendoci di essere veramente noi stesse!
- Ma io non mi sento affatto prigioniera! - esclamò inorridita Mirella - E poi non ho nessuna intenzione di perdere il mio guscio: è così bello! Non sono affatto disposta a lasciarlo!
Mentre ancora stava parlando, una ruvida mano raccolse dal canestro una manciata di castagne, tra cui anche lei, e dopo aver aperto un coltellino a serramanico cominciò ad inciderle ad una ad una.
- Ahi! - strillò disperata la povera Mirella, mentre una profonda ferita solcava irrimediabilmente il suo amato guscio. «Sono perduta...» pensava tristemente - «E il peggio è che le mie compagne non mi capiscono! Ci fosse almeno papà Valerio o il Fungo Tebaldo a consolarmi... e invece mi sento così sola».
In quel momento, però, a piangere di malinconia sulla propria solitudine non era solo Mirella: anche Martino, un lupetto di otto anni alle prese con la sua prima uscita di branco, non aveva nessuna voglia di cantare con i compagni seduti attorno al falò e pensava con tanta nostalgia alla sua mamma. Guardava fisso a terra e non alzò gli occhi nemmeno quando si levò un coro di applausi e di gioiose esclamazioni: una padella forata era stata posta sul fuoco con la prima razione di castagne, e tra queste c'era anche Mirella. Alla vista del fuoco e delle scintille, la poveretta rabbrividì di terrore, dicendo per sempre addio al suo caro guscio che nel giro di breve tempo rimase secco e mezzo carbonizzato.
- Coraggio, Martino! - disse amorevolmente Silvana, una dei capi, vedendo la tristezza del suo lupetto e prendendolo in braccio.
- Voglio la mia mamma... singhiozzò lui imbronciato.
- La mamma è contentissima che tu sia qui, Martino! E domani sera, quando la rivedrai, avrai molte cose belle da raccontarle. Per esempio, adesso c'è una sorpresa che ti aspetta.
- Che cos'è? chiese incuriosito Martino.
- Si chiamano caldarroste e sono proprio le castagne che abbiamo raccolto insieme stamattina. Prova ad assaggiarne una!
Il bimbo stese la mano e la prima che gli capitò fu proprio Mirella, che aveva sentito tutto ed era piena di compassione per il povero lupetto. «Come vorrei consolarlo! So benissimo anch'io cosa vuol dire sentirsi soli e tristi!». Così pensando non si accorse nemmeno che Silvana le aveva completamente spaccato e tolto il guscio: non rimaneva altro che la polpa, calda, dorata e fragrante.
- Assaggia, Martino! Sentirai com'è dolce e tenera! Ti piacerà molto più delle palatine e dei pop-corn che ti dà la mamma quando guardi i cartoni animati alla televisione!
Martino non si fece pregare: era la prima castagna che assaporava e gli parve così dolce e gustosa che dimenticò in un baleno tutte le sue malinconie.
- Che buona! - esclamò sorridendo, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. Poi, con gli occhi che scintillavano di gioia al riverbero del falò, si mise a cantare all'unisono con gli altri ragazzi.
E Mirella? Si era ormai completamente dissolta, ma aveva l'impressione che le si fosse sciolto anche quel carico di tristezza che la opprimeva. «Avevi ragione, papà Valerio!» - pensò. - «Non sono nata per essere ammirata, ma... per lasciarmi mangiare!».
E per la prima volta nella sua vita si sentì felice. Veramente felice.
Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29)
consegnarsidono di séamoresacrificio
inviato da Don Silvano Zanella, inserito il 05/10/2004
RACCONTO
55. Il cuore più bello del mondo 1
storiella indiana
C'era una volta un giovane in mezzo a una piazza gremita di persone: diceva di avere il cuore più bello del mondo, o quantomeno della vallata. Tutti quanti gliel'ammiravano: era davvero perfetto, senza alcun minimo difetto. Erano tutti concordi nell'ammettere che quello era proprio il cuore più bello che avessero mai visto in vita loro, e più lo dicevano, più il giovane s'insuperbiva e si vantava di quel suo cuore meraviglioso.
All'improvviso spuntò fuori dal nulla un vecchio, che emergendo dalla folla disse: "Beh, a dire il vero.. il tuo cuore è molto meno bello del mio."
Quando lo mostrò, aveva puntàti addosso gli occhi di tutti: della folla, e del ragazzo. Certo, quel cuore batteva forte, ma era ricoperto di cicatrici. C'erano zone dove dalle quali erano stati asportàti dei pezzi e rimpiazzàti con altri, ma non combaciavano bene - così il cuore risultava tutto bitorzoluto. Per giunta, era pieno di grossi buchi dove mancavano interi pezzi.
Così tutti quanti osservavano il vecchio, colmi di perplessità, domandandosi come potesse affermare che il suo cuore fosse bello.
Il giovane guardò com'era ridotto quel vecchio e scoppiò a ridere: "Starai scherzando!", disse. "Confronta il tuo cuore col mio: il mio è perfetto, mentre il tuo è un rattoppo di ferite e lacrime."
"Vero", ammise il vecchio. "Il tuo ha un aspetto assolutamente perfetto, ma non farei mai a cambio col mio. Vedi, ciascuna ferita rappresenta una persona alla quale ho donato il mio amore: ho staccato un pezzo del mio cuore e gliel'ho dato, e spesso ne ho ricevuto in cambio un pezzo del loro cuore, a colmare il vuoto lasciato nel mio cuore. Ma, certo, ciò che dai non è mai esattamente uguale a ciò che ricevi - e così ho qualche bitorzolo, a cui sono affezionato, però: ciascuno mi ricorda l'amore che ho condiviso.
Altre volte invece ho dato via pezzi del mio cuore a persone che non mi hanno corrisposto: questo ti spiega le voragini. Amare è rischioso, certo, ma per quanto dolorose siano queste voragini che rimangono aperte nel mio cuore, mi ricordano sempre l'amore che provo anche per queste persone.. e chissà? Forse un giorno ritorneranno, e magari colmeranno lo spazio che ho riservato per loro. Comprendi, adesso, che cosa sia la vera bellezza?" Il giovane era rimasto senza parole, e lacrime copiose gli rigavano il volto. Prese un pezzo del proprio cuore, andò incontro al vecchio, e gliel'offrì con le mani che tremavano. Il vecchio lo accettò, lo mise nel suo cuore, poi prese un pezzo del suo vecchio cuore rattoppato e con esso colmò la ferita rimasta aperta nel cuore del giovane. Ci entrava, ma non combaciava perfettamente, faceva un piccolo bitorzolo.
Il giovane guardò il suo cuore, che non era più "il cuore più bello del mondo", eppure lo trovava più meraviglioso che mai: perché l'amore del vecchio ora scorreva dentro di lui.
amoredonocuorerapporto con gli altri
inviato da Marco Notari, inserito il 29/07/2004
TESTO
56. Lucciole d'amore, scarafaggi di rabbia 1
"L'uomo è stato creato da Dio perché ami". Questa affermazione riassume in sé tutto quanto sia necessario dire. Certo, poi si possono dare spiegazioni, si può approfondire e discutere. Ma in ogni caso quella frase contiene tutto il necessario. Capita a volte di stupirsi per la gratuità dell'amore che riceviamo. Capita a volte che una persona abbia una semplice gentilezza verso un altro individuo, che dica una parola buona, che abbia anche solo uno sguardo di dolcezza o risponda un "grazie" di cuore, anche quando esso non sia dovuto. Queste sono piccolezze, ma ciascuna è una piccola gemma d'amore, una piccola luce... una lucciola d'amore. Ciò che le caratterizza è la loro semplicità da una parte e la loro assoluta, completa gratuità dall'altra. È un'esperienza bellissima accorgersi poi di come a volte possa instaurasi un vero e proprio circolo virtuoso grazie alla presenza di queste piccole, semplici lucciole d'amore. Se qualcuno lancia a un altro una piccola lucciola d'amore, chi la riceve ne sarà felice. Non è davvero la felicità entusiasta e sfrenata che si può provare nel vedere, per esempio, realizzato un proprio grande desiderio... è tuttavia pur sempre una piccola felicità, un senso di benessere, una piccola lucciola che, a volte, è sufficiente ad illuminare quella che altrimenti sarebbe stata solo una grigia e fredda giornata di noie, di malumori e di preoccupazioni. Forse, allora, capiterà che chi riceve una piccola lucciola d'amore si accorga della sua gratuità e del benessere che gli deriva dal ricevere questo piccolo gesto. Forse capiterà anche che si fermi un momento a riflettere e a gustare quel piccolo benessere. E forse, a questo punto, gli sorgerà il desiderio di fare altrettanto verso altre persone: donare piccole e gratuite lucciole d'amore. Se, poi, questo individuo davvero proverà a donarne alcune, allora si accorgerà con grande, meraviglioso stupore di quanto sia facile lanciare agli altri lucciole d'amore, di quanta poca fatica costi, e di quanta gioia porti non solo agli altri ma anche a lui per primo! Già, perché la fatica che occorre per lanciare piccole lucciole d'amore è davvero poca: un sorriso, una parola gentile, un gesto semplice, una cortesia da nulla, una risposta garbata ad una do-manda... sono molti gli esempi, le occasioni capitano mille volte al giorno! Chi riceve una lucciola d'amore sa quanto essa possa far bene, quanto scaldi il cuore!
Esistono a volte, invece, situazioni opposte: malumori e grattacapi possono chiudere il cuore degli uomini, e questi si riducono allora a scortesie, a risposte sgarbate, a dimenticare un "grazie" o un saluto... e questi comportamenti sono gratuiti e inaspettati, altrettanto quanto le lucciole d'amore. Sono scarafaggi di rabbia, che intristiscono il cuore, oscurano la giornata e rischiano, a volte, di innescare veri e propri circoli viziosi, in cui chi riceve uno scarafaggio di rabbia si incupisce al punto da lanciarne a sua volta ad altre persone, e così via...
Ma talvolta accade qualcosa di meraviglioso: capita infatti che qualcuno riceva uno di questi scarafaggi di rabbia e risponda ad esso con una piccola lucciola d'amore, diretta proprio verso chi gli aveva mandato la scortesia. Forse una sola lucciola in quel momento non basterà a rischiarare un cuore incupito, forse neppure due o tre... ma a volte capita di vedere persone che non si scoraggiano, e che portano dentro sé una luce tanto grande da potersi permettere di intestardirsi nel "bombardare" quel cuore cupo con lucciole d'amore. Oggi una, domani un'altra, dopodomani ancora... e dai e dai, a un certo punto anche nel cuore cupo compare un raggio di luce. E questa persona, che fino ad ieri era cupa, accenna timidamente a lanciare a sua volta a un'altra persona una piccola, minuscola, timidissima lucciola d'amore. Che gioia, che stupore, che meraviglia quando questo accade! Che meraviglia scoprire che c'è un altro cuore che si è rischiarato, e quanta gioia c'è nel vedere che questo cuore ci prende gusto, che assapora la felicità di donare lucciole d'amore, ancora e ancora... diventa quasi una droga!
A volte capita però che le persone siano esauste, che rientrino a casa sfinite da una giornata di duro lavoro, di impegni, di scadenze, di fatiche... è come se, a volte, nel rientrare a casa venisse lasciata fuori dalla porta tutta la luce che avevano albergato in cuore fino a quel momento. Si comportano con le persone più care, con i famigliari, con la moglie, con il marito come se, adesso che sono finalmente a casa, "pretendessero" di ricevere a tutti i costi qualche lucciola d'amore da essi. Se è vero che le lucciole d'amore donate dalle persone più care e dalla persona amata sono le più luminose e le più lenitive nei confronti di un animo stanco ed esausto, è anche vero purtroppo che la pretesa che lucciole ci vengano donate è in se stessa un vero e proprio scarafaggio di rabbia. E uno scarafaggio di rabbia diretto verso la persona amata morde e graffia molto di più che non uno scarafaggio lanciato da un semplice conoscente o addirittura da uno sconosciuto! Le lucciole d'amore non devono essere mai pretese: altrimenti, si spengono. L'unico modo per mantenerle sempre luminose e vive è donarle, e le più preziose sono quelle che rispondono ad un piccolo scarafaggio di rabbia, perché a volte hanno il potere di tramutarlo in una bellissima lucciola!
generositàamoregratuitàdono di séamare i nemici
inviato da Isabella, inserito il 29/07/2004
RACCONTO
57. Antonio, mister D.I.O. per gli amici, e Camilla 1
Antonio aveva finalmente realizzato il suo progetto, lo scopo della sua esistenza, realizzare una via che unisse tutti i popoli del mondo e per questo venne nominato Dottore In Onniscienza, per gli amici Mr. D.I.O.. Per celebrare l'avvenimento venne realizzato un grandissimo museo, un museo particolare a dire la verità, sempre aperto, 24 ore su 24 e 365 giorni all'anno, un museo dove non si paga il biglietto d' ingresso e tutti coloro che lo visitano non vogliono più andare via e, nonostante tutto, più gente entra e più cresce lo spazio disponibile per altra gente ancora.
Il pezzo forte di questo museo, illuminato da una luce particolare, che lo rende ancora più affascinante, è Camilla, una vecchia e assai malandata Jeep. Camilla era la macchina con cui Mr. D.I.O si spostava in giro per il mondo per studiare, progettare e realizzare il suo disegno. A dire il vero Mr. D.I.O. aveva in testa anche come doveva essere Camilla, innanzitutto il colore della carrozzeria, bianco o nero, rosso, giallo, o quel verde olivastro tanto esotico per lui non facevano alcuna differenza, anche la forma esterna non era di grande importanza, tozza o filante, alta o bassa per lui era la stessa cosa. Le cose veramente importanti per lui erano altre, ad esempio dei buoni fari per poter vedere nell'oscurità, una buona radio per captare anche le voci più lontane, delle ruote sempre capaci di sorreggerne il peso e un cuore, pardon, un motore che non si stancasse mai di farla andare avanti, anche piano, ma sempre avanti, e dei finestrini ampi, per poter vedere bene all'esterno, non solo le bellezze di questo mondo, ma anche e soprattutto per non perdere mai la direzione giusta in cui procedere e riuscire a vedere e interpretare i segnali che Mr. D.I.O., man mano che costruiva la via metteva per evitare che altri si perdessero.
Anche se può sembrare strano fin dai primi tempi in cui i due si trovarono a lavorare insieme capirono entrambi che l'altro aveva qualcosa di speciale, Antonio era convinto che Camilla lo potesse in qualche modo sentire, e Camilla, dal canto suo, sembrava intuirne i pensieri. Anzi, da quella volta che Antonio mise mano al suo computer di bordo aveva maturato una specie di autocoscienza e spesso si chiedeva se i segnali erano abbastanza chiari, se, per esempio, su una strada apparentemente facile anziché un semplice limite di velocità era il caso di mettere anche un avviso del tipo "attento alla curva puoi ucciderti o uccidere qualcun altro", o mettere nei posteggi dei cartelli con la scritta "non rubare il posteggio a chi sta aspettando da prima di te"oppure decorare le macchine nuove con scritte del tipo "non desiderarmi solo perché sono più nuova della tua", o altri ancora che potessero in qualche modo essere di maggior aiuto alle persone intente a raggiungere la propria meta.
Con il passare del tempo l'intesa cresceva sempre di più, tanto che Camilla ogni tanto si permetteva di agire come di testa sua e Mr. D.I.O. la lasciava fare, anche se ogni tanto non rispettava le regole, tagliare per i prati per accorciare la strada o passare con il semaforo arancione per la fretta in fin dei conti erano delle infrazioni venali e comunque lui era sempre lì, pronto a riportarla in carreggiata. I due andarono avanti così per moltissimi anni, Camilla di tanto in tanto usciva di strada, Antonio la riprendeva e se restava qualche piccolo segno sulla carrozzeria non importava, importante era andare avanti, sempre e insieme. Tutto sembrava procedere per il meglio fino a quando Camilla in qualche modo intuì che per lei Mr. D.I.O. aveva in mente qualcosa di speciale, da quel momento fu presa da una strana smania di correre e fare di testa sua. Antonio faceva ricorso a tutta la sua pazienza e abilità per tenere Camilla in strada e ci riuscì sempre fino a quando, ormai vicinissimi al museo dove Camilla avrebbe trovato il suo posto d'onore, Camilla per la smania di arrivare prima uscì dalla strada segnata e, incurante dei cartelli di attenzione, imboccò quella che sembrava una bellissima scorciatoia, una strada larga, ben asfaltata e leggermente in discesa. Viaggiare su quella strada era bellissimo e non si faceva neanche fatica ma inesorabilmente la discesa si faceva sempre più ripida e la strada più stretta e tortuosa, Camilla provò a frenare ma ormai era troppo tardi e i freni non ressero allo sforzo, provò allora ad uscire dalla strada, sperando di riuscire a fermarsi strisciando contro gli alberi che la fiancheggiavano.
Dopo aver strisciato su molti alberi, sobbalzato su innumerevoli sassi Camilla finalmente terminò la sua corsa dentro un fosso, era veramente malridotta, il suo desiderio in quel momento era di farsi rottamare quando si accorse che Antonio non c' era, probabilmente era stato sbalzato fuori durante la sua folle corsa, in quel momento fu presa dal panico, si rese conto di essere veramente sola, capì che anche quando faceva di testa sua Mr. D.I.O. le era comunque vicino, pronto a correggerla e perdonare gli sbagli. Fu questo a farle trovare la forza di rimettersi in moto, in fondo il motore era forte e lentamente e con fatica riuscì a riportarla sulla giusta via anche se la carrozzeria era ammaccata, le ruote non perfettamente allineate e i fari, già appannati dagli anni, sembravano sul punto di piangere (era solo il lavafari rotto che perdeva acqua).
Quando si fermò un attimo per raffreddare l'acqua del radiatore Camilla si accorse che Antonio, Mr. D.I.O. per gli amici, era lì seduto su un paracarro che la guardava ammirato, appena l'acqua nel radiatore si raffreddò Antonio si rimise al volante e portò Camilla nel suo museo e la sistemò al posto che si meritava, il migliore. Ai visitatori che gli chiedevano come mai Camilla, così malridotta era al posto d' onore Mr. D.I.O. dava questa risposta, Avevo un progetto, ma da solo non lo potevo realizzare, avevo bisogno di qualcuno che mi portasse per il mondo, avevo bisogno di qualcuno su cui poter contare, avevo bisogno di qualcuno a cui dare fiducia nella certezza che, anche se talvolta per fare di testa sua sorvola su alcune regole, trova poi il coraggio di ammettere i propri sbagli e la forza per tornare sulla strada segnata, perché è solo nella luce che la illumina che Camilla mette in risalto le sue doti, quelle che le hanno permesso di riuscire a fare tutto questo.
regolepeccatopentimentoperdonouomorapporto con Dio
inviato da Mauro Bianchi, inserito il 27/07/2004
TESTO
Tonino Bello, Ti voglio bene, omelia pronunciata il 19 marzo 1993 durante il rito di Ammissione di due giovani seminaristi tra i candidati agli Ordini Sacri
... La cosa più importante che vi voglio dire è quello di fare veramente con il Signore spreco di generosità. Guardate, non impressionatevi per i problemi che ci sono nel mondo, per le difficoltà che dovete incontrare per arrivare alla meta del sacerdozio. È difficile che oggi dei giovani scelgano di seguire Gesù Cristo con totalità, con libertà, con amore, lusingati come sono da tante seduzioni: le seduzioni della strada, della piazza, del successo, non dico del denaro, perché forse, grazie a Dio, nonostante la promessa di povertà, di fame non morrete nella Chiesa. Però dovete rimanere poveri, nella condizione di dipendenza da Dio, sentirvi poveri davanti a lui.
Ci sono lusinghe, le lusinghe della ricchezza, che vi attraggono, che attraggono tanti giovani: voi resistete a queste lusinghe e andate avanti con gioia perché volete seguire il Signore. Ma è difficile, oggi.
Ci sono le lusinghe bellissime, dolcissime, nella cui trama di rugiada, carica di luce, che sa di cancelli che immettono nell'aldilà, nell'ulteriorità, è facile abbandonarsi: la lusinga dell'amore, dell'amore per una donna. Pure dentro di voi batte il cuore per queste cose sante, pure e nobili. Eppure voi con grazia, con garbo, accantonate e mettete da parte con la stessa delicatezza con cui accarezzate il volto di Gesù Cristo. Mettete da parte tutta questa potenziale esperienza che potete avere per dire: "Signore, io seguo Te più da vicino, in modo più stretto. Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati con gioia da chi sta a valle".
"Beati i piedi di coloro che sui monti annunciano la pace".
Coraggio, non lasciatevi lusingare oppure tirar dietro: guardate avanti con grande fierezza, con grande gioia perché il Signore è vicino. Il Signore ha bisogno di voi.
Il tempo si è fatto breve. Tantissimi giovani hanno bisogno di Lui, hanno bisogno di sentir parlare di Lui. I figli chiedono il pane e non c'è chi lo spezza per loro - dice un salmo; voi fate questa prova di gettarvi a capofitto in questo abisso di luce che è Gesù Cristo. Egli poi vi dà la forza di andare avanti. Vi sostiene. Vi dà l'entusiasmo, il gusto di vivere in mezzo al popolo, non lontano, non astratti dal mondo.
Io vi auguro che non stiate mai in testa e neppure in coda, ma possiate stare in mezzo al popolo, come Gesù: "Gesù, allora si sedette in mezzo ai dottori, aprì la bocca e disse...". Si sedette in mezzo. Gesù che si siede in mezzo...
Anche voi, sedetevi in mezzo alla gente, sentite il sapore e il profumo del popolo, inebriatevi di questo grande ideale di annunciare Gesù Cristo.
È splendido: dà significato alla vostra vita. Parola di uomo. È così. Il Signore Gesù è in grado di renderci felici al punto tale che questa felicità sentite il bisogno di trasferirla agli altri, a tutti coloro che vi accostano.
...Chiedete ogni giorno a Dio che vi dia un cuore umano che batta secondo i suoi ritmi. Quanti saranno i battiti di Gesù Cristo?
Come vorrei che il mio cuore battesse come il suo, in sintonia col suo per poter trascinare tutti quanti in un vortice di amore, di tenerezza, di bontà!
Chiedete al Signore che vi dia un cuore umano perché possiate essere capaci di capire la povertà della gente, la tristezza della gente, il pianto della gente; nessuno legge più questi "audiovisivi". Sono degli audiovisivi il pianto, la sofferenza, il dolore.
Il Signore si prende gioco della morte. Cos'è la morte davanti a Lui? Cos'è la malattia davanti a Lui? Cos'è un tumore davanti a Lui? Cosa volete che sia! Come facciamo a non vivere nella gioia, nel gaudio, nella speranza del Signore? Della morte lui si prende gioco. Il Signore non ci abbandona mai.
Il Signore vi dà la mano stasera, e la tiene sempre inevitabilmente stretta. E a meno che non siate voi a dichiarare il divorzio, state tranquilli che Lui da voi non si allontanerà più. È l'augurio che vi faccio ed è anche l'offertorio che presentiamo al Signore.
generositàvocazionesacerdozioseminaristichiamata
inviato da Sandra Aral, inserito il 27/07/2004
TESTO
59. A coloro che soffrono nel corpo
Tonino Bello, Pietre di scarto, ed. La Meridiana 1993
Carissimi, non scrivo per consolarvi. Anche perché so bene quanto fastidio vi diano le declamazioni di coloro che sentendosi sempre in dovere di spendere qualche parola con voi, ricorrono ai prontuari dei più indisponenti fraseggi. Non è di compatimento che avete bisogno. Prima di tutto, perché il compatimento è una spartizione fittizia del dolore. Poi, perché vi toglie la fierezza di rimaner soli sulla croce. E infine, perché rischia di fermarsi alla soglia delle parole. Al paraplegico che sta inchiodato su una sedia a rotelle, che sollievo può dare il sermone di circostanza fatto da chi magari, subito dopo, deve correre in palestra per una partita di basket? All'handicappato che ti interpella sui grandi perché della vita, e vuole rendersi conto delle ragioni misteriose che stanno all'origine della sfortuna, che conforto possono recare i luoghi comuni tratti dai repertori della compassione? A chi è ridotto all'impotenza da una malattia irreversibile o da un improvviso declino della salute, o da un fatale incidente sulla strada, e ti pone la scomoda domanda del «che ci sto a fare più sulla terra?», quale aiuto possono dare maldestre citazioni bibliche?
Davanti a chi soffre l'atteggiamento più giusto sembrerebbe il silenzio. Però anche il silenzio può essere frainteso o come segno di imbarazzo, o come tentativo di rimozione del problema. E allora tanto vale parlarne. Semmai con pudore, chiedendovi scusa per ogni parola di troppo.
Dire che con il vostro dolore contribuite alla salvezza del mondo, può sembrarvi letteratura consolatoria. Ricorrere alle frasi fatte degli occhi che vedono bene solo attraverso le lacrime, può essere inteso come insulto gratuito, almeno come un ritrovato sterile della saggezza umana. Accennarvi che, in fondo, ognuno si porta dentro il suo carico di dolori e che, tutto sommato, non siete poi così soli come sempre, potrebbe accrescere il vostro sdegno. Aggiungere che un giorno sarete schiodati pure voi dalla croce, può apparire uno scampolo di quell'eloquenza mistificatoria che non convince nessuno.
Ma dirvi che sulla croce un giorno ci è salito un uomo innocente, e che sul retro della croce c' è un posto vuoto dove un altro innocente è chiamato a fare compagnia ai rantoli di Cristo, appartiene al messaggio inquietante, e pur dolcissimo, che un Ministro della parola non può né accorciare, né mettere tra parentesi.
Chiamalo, il tuo Signore: è un nome breve. Non può non sentirti: è inchiodato appena dietro di te. Forse un giorno quel posto sarà mio. O lo è già da adesso, ed è solo l'esemplarità del vostro martirio più grande che me ne rende agevole il tormento.
Il mattino di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, voi sarete più veloci di tutti, e ci precederete come Giovanni. E forse vi fermerete sulla soglia, per farci vedere le bende per terra e il sudario piegato in disparte.
È l'ultima carità che ci aspettiamo da voi. Un abbraccio.
crocehandicapsofferenzaCristodolore
inviato da Anna Barbi, inserito il 20/12/2003
TESTO
60. Una giornata del silenzio contro rumori e parole gridate
Vittorino Andreoli, Avvenire, 2 aprile 2002
Il silenzio nel tempo presente è morto, e nessuno sembra disperarsene, avvertirne la perdita. Il silenzio anzi spaventa e lo si cancella al solo pensiero che possa avvolgerci.
Si sente invece il fascino del rumore, di quella presenza continua che forma lo scenario, vero habitat dell'uomo del terzo millennio. La scelta allora non è tra rumore e silenzio, ma tra i mille rumori possibili. Svariate persone ricercano combinazioni multiple: i rumori impuri o la ridda di questi al cui confronto un terremoto apocalittico appare quasi un suono d'arpa.
Nelle discoteche non si ascolta musica, ma il baccano ed inutile è mettere in guardia dai decibel o dal rischio di lesione all'orecchio: il rumore piace. È uno stimolante come una pozione magica. Le spiagge dell'Adriatico gremite d'estate come un formicaio, non rappresentano una condizione del destino, ma una scelta piacevole: uno vicino all'altro, ciascuno dentro i rumori dell'altro: uno scambio di rumori che uniscono gli ombrelloni e fa sentire un'unica famiglia di urlanti.
La montagna era luogo di silenzio con gli spazi infiniti, con la roccia che si continua con il cielo e con l'eterno, ora è un folle concentrarsi di macchine e di corpi lungo le strade, vicino alle auto parcheggiate con le radio accese, le bocche che urlano. A pochi passi di distanza dalla strada non c'è nessuno e quel silenzio sembra sprecato. Si cerca il rumore. L'identità di questa civiltà è il rumore. La civiltà del rumore. Il televisore in casa è sempre acceso. Ci sono persone che non lo spengono nemmeno la notte. Hanno bisogno di quel sottofondo rassicurante e il video ha sostituito persino il sogno, che ormai è fuori di noi e parla degli altri.
Non è più specchio dei nostri segreti interiori, del mistero che bolle in noi. È stato svelato, sostituito meglio, da un rumore.
Gli studenti leggono Aristotele con il rock, per la matematica è preferibile la musica metal. La sinfonica è troppo dolce, occorrerebbe riscriverla sostituendo ai violini i fiati, i tromboni in particolare, e i timpani.
Nelle case ci sono tanti rumori, poche parole e - comunque - silenzio mai. E l'accenno vale per il silenzio fisico, dato dalla mancanza di suoni o rumori che si può rilevare con l'orecchio umano, ma obiettivamente pure con un fonografo. Eppure c'è anche un silenzio interiore, che coincide con il senso di svuotamento del mondo esterno che penetra dentro di noi, e che ci consente di cogliere meglio cosa c'è in noi.
Il silenzio della meditazione: è morto anch'esso. Basta vedere la funzione di un telefono portatile. Uno strumento della sopravvivenza, un oggetto della follia. In treno uno è obbligato a stare fermo, potrebbe pensare, percepirsi, ma non ce la fa e allora chiama qualcuno, non importa chi e perché, importa rompere il silenzio e fare un po' di rumore di cui tutti sono alla fine felici.
Insomma c'è un silenzio fuori di noi, quello del deserto, quando il vento è immobile, o di un canyon sperduto. E c'è un silenzio dentro di noi, che si lega alla pace interiore. L'uno è certamente condizionato dall'altro, ma non in maniera proporzionale: c'è chi sa astrarsi dal mondo, fuggirlo.
Dell'Africa ricordo il silenzio e il buio che non esistono più nella civiltà tecnologica. Anche il buio è parte dell'archeologia: ora c'è sempre una lampadina che illumina. E le stelle hanno perso il proprio fascino. I suoni che rompono il silenzio in Africa sembrano voci del mistero. E anche un coyote parla degli dei che così abitano dentro la testa dell'uomo. Ricordo certe notti nei villaggi d'Africa quando un uomo nella notte si riduceva a due occhi appesi al nulla.
Si è riempiti di rumore fino a non sentire che quel rumore e perdere se stessi, il proprio silenzio. Il mondo dentro di me può esser sopraffatto da quello attorno a me, e il mio silenzio espropriato e ciascun uomo è anche silenzio, forse è soprattutto silenzio.
Io me li ricordo gli esercizi spirituali d'un tempo e li ricordo come silenzio esteriore per sentire qualche voce bambina e qualche balbettio dentro di me. Ma ricordo, più tardi, anche il bisogno di silenzio per pensare, per seguire un percorso di idee, per entrare nel profondo di una meditazione concentrata. Ricordo le passeggiate in montagna, ricordo i monasteri che regalavano silenzio.
Ma c'è - attenzione - una grande differenza tra silenzio e mutismo. Chi è muto non parla all'altro, chi è silenzioso parla a se stesso. Senza silenzio l'uomo è un folle che gira per la strada senza sapere dove va e perché mai si muove. Ha perduto ogni direzione e segue le tracce dei rumori senza sapere da dove provengono, un rumore non ha nulla dentro, è solo rumore, segnale di qualche cosa, ma non di che cosa.
L'uomo del tempo presente è perso dentro i rumori che cerca di tradurre in parole che non hanno più senso. La parola nelle civiltà antiche e nelle culture animiste è forza vitale: dà la forza. È mistero. La parola nella magia agisce: "male dicere" provoca disgrazia, "bene dicere" dà coraggio e felicità. La parola non va mai sprecata. E l'uomo saggio parla poco e vive di silenzio.
Nel cristianesimo la Parola irrompe nella storia e diventa liturgia, quindi crea un contesto sacro. Mentre il mondo lancia raffiche di parole, senza senso, che feriscono o uccidono come obici d'artiglieria pesante.
Si crede che le parole abbiano significato, mentre sono flatus vocis senza una combinazione, che non è quella della sintassi, ma del senso dell'uomo, della esistenza.
La parola come senso, non come rumore. Una parola oggi non ha più storia, non si lega ad un prima, e non è l'incipit per un poi. Si usa la parola che nel momento appare più rumorosa, e può essere antitetica a quella appena usata: si può sempre dire di essere stati fraintesi, così la parola non ha senso o ha tutti i sensi possibili. La parola è rumore. La parola gridata è più efficace. L'oratore è colui che dice tante parole fino a comporre un suono senza senso, ammaliare senza trasmettere nulla.
Il senso dell'uomo e del mondo è nel silenzio che non è vuoto, ma la condizione per un lungo viaggio dentro il proprio esistere e la propria angoscia di esistere, avendo un senso e una coerenza. Il silenzio genera anche la parola che è però pensiero, è intuizione non spot, è colloquio con sé o con il mistero, non un quiz né un quizzone.
Ci sono le malattie del parlare. Da un lato il maniacale che parla continuamente e non sa che cosa dice. Parla a una velocità che è propria dell'articolazione della gola, ma non della mente. Parla a prescindere dalla testa, senza pensare. Dall'altra parte, il depresso, non fa parola perché teme che ogni espressione sia un errore.
Ma c'è anche il silenzio della normalità, di colui che sa quanto sia difficile pronunciare frasi sensate, e quanto sia facile offendere con parole che si penserebbero invece neutre, e allora medita e prende tempo prima di pronunciarsi.
"Non ha la parola pronta": è considerato un difetto mentre può essere il segno della prudenza che è una grandissima virtù.
"È di poche parole": e si crede che abbia bisogno di uno psicologo o di uno psichiatra, mentre si muove dentro i sensi del proprio io, dentro la propria "anima".
L'importante è parlare. Il politico deve parlare e magari non dire niente: fa l'ostruzionismo della parola. Il presentatore deve parlare sempre, per dire semplicemente buona sera e nessuno finisce per coglierlo. Ormai ad abbaiare è l'uomo.
I condomini sono permeabili ai rumori, a quelli del water ma anche alle parole. Le strade sono un massacro di auto e di parole. Le orecchie sono piene di auricolari che portano i rumori del mondo intero, non bastano più quelli della propria dimora o paese: la globalizzazione del rumore e la follia delle parole. Un manicomio assordante.
Arrivo a proporre una giornata del silenzio. Ma forse la specie si estinguerebbe. In una occasione in cui una grande città è stata senza corrente elettrica per due giorni, e quindi hanno perso la parola i televisori e le radio, la gente è impazzita, è entrata in una crisi di astinenza da parole e rumore che aveva espressioni e sintomi peggiori di quella da eroina.
Questa settimana ho preso in mano un settimanale femminile: di 623 pagine. Parole e parole. I giornali ordinano parole senza pensare al senso. Ore di televisione, parole su mille canali. Una follia vociante, parlante. Moriremmo di parole.
Una infinità di parole, senza un pensiero, senza nemmeno l'ombra di un'idea. Il comando è rumore come quei potenti che credono di essere forti se lanciano bombe o missili che distruggono. O come quei gaudenti che si riempiono il ventre di piacere e scoprono di essere vivi solo dalle flatulenze: flatus vocis. Anche le preghiere sono troppo rumorose e troppo vocianti: penso a san Francesco che, alla Porziuncola, dice: Signore non so dire nulla se non ba ba ba. Il mio silenzio - a questo punto lo ammetto - è ancora più confuso perché non ho ancora trovato il mio interlocutore nel cielo. Forse è tempo di cercarlo nel silenzio e forse nel silenzio si sentono parole di "vita eterna". Il dolore parla solo nel silenzio il resto è telenovela. La fatica non ha parole. Ho bisogno di silenzio per sentire quel vuoto che si può riempire di quiete.
Così terminano, almeno per un po', anche le mie parole su "Avvenire". Ho iniziato dicendo che scrivevo per cercare, ora ho voglia di silenzio, devo cercare ancora ma senza fare rumore. Voglio dare ai miei lettori un po' di silenzio che auguro sia silenzio di pace.
silenziointerioritàrumoredeserto
inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003
TESTO
Giorgio Gaber, Alla ricerca dell'io
L'appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un'apparente aggregazione
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
Uomini
uomini del mio passato
che avete la misura del dovere
e il senso collettivo dell'amore
io non pretendo di sembrarvi amico
mi piace immaginare la forza di un culto così antico
e questa strada non sarebbe disperata
se in ogni uomo ci fosse un po' della mia vita
ma piano piano il mio destino
è andare sempre più verso me stesso
e non trovar nessuno.
L'appartenenza
non è lo sforzo di un civile stare insieme
non è il conforto di un normale voler bene
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza
è assai di più della salvezza personale
è la speranza di ogni uomo che sta male e non gli basta esser civile
è quel vigore che si sente se fai parte di qualcosa
che in sé travolge ogni egoismo personale con un'aria più vitale
che è davvero contagiosa.
Uomini
uomini del mio presente
non mi consola l'abitudine
a questa mia forzata solitudine
io non pretendo il mondo intero
vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero
dove un bel giorno magari molto presto
io finalmente possa dire: questo è il mio posto
dove rinasca non so come e quando
il senso di uno sforzo collettivo
per ritrovare il mondo.
L'appartenenza
non è un insieme casuale di persone
non è il consenso a un'apparente aggregazione
l'appartenenza
è avere gli altri dentro di sé.
L'appartenenza
è un'esigenza che si avverte a poco a poco
si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo
è quella forza che prepara al grande salto decisivo
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.
Sarei certo di cambiare la mia vita
se potessi cominciare
a dire noi.
appartenenzacomunitàcomunionerapporto con gli altricomunità
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 28/06/2003
RACCONTO
Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe
In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui! " disse la voce, "sotto al melo...".
"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino...".
"Sono la volpe" disse la volpe.
"Vieni a giocare con me!", le propose il piccolo principe, "sono così triste...".
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! Scusa" fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire 'addomesticare'?".
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?".
"Cerco gli uomini" disse il piccolo principe.
"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso! Allevano anche le galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?".
"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare"'".
"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...".
"Creare dei legami?".
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te e neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe (...).
"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana come una musica. E poi, guarda! Vedi laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...".
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!".
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.
"In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...".
Il piccolo principe ritornò l'indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti".
"Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe.
"E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza...".
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe. "Io non ti volevo fare del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...".
"E' vero" disse la volpe.
"Ma piangerai", disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei sola è più importante di tutte voi, perché è lei che io ho annaffiato, perché è lei che ho riparato col paravento, perché su di lei ho ucciso i bruchi, perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere, perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: si vede bene solo col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".
inviato da Marianna, inserito il 25/11/2002
RACCONTO
63. Festa grande per un pacco consegnato 1
C'era un uomo che di mestiere faceva il corriere espresso (sapete? quello che consegna nelle case i pacchi...). Come tutte le mattine, caricò il suo camion e si preparò al lungo giro di consegne. Quel giorno aveva 100 pezzi da consegnare.
Iniziò con una cassa di bottiglie di vino, che andava consegnata proprio all'ultimo piano di un lussuoso palazzo del centro. Con il fiatone suonò alla porta. Aprì un distinto signore: "Buongiorno, sì è per me, prego la metta qui, no un po' più in là, ecco perfetto, arrivederci!".
Poi fu la volta di una anziana signora, a cui trepidante consegnò un pacchetto con un preziosissimo anello. La donna annoiata e indifferente commentò solo: "Ah, lo metta lì con tutti gli altri, poi lo aprirò...".
A una giovane coppia doveva consegnare la lavatrice nuova. Mentre era in cucina e li aiutava a dismballare, i due iniziarono a litigare "Vedi, avevo ragione io: dovevamo prendere l'altro modello". "Invece no, abbiamo fatto bene a seguire il consiglio di mia madre". "Ma cosa dici, non vedi che sta malissimo vicino al frigo". "Piantala, si sa che tu hai un pessimo gusto!". "Perché secondo te era di buon gusto il regalo che tu mi hai fatto a Natale"... Il trasportatore se ne andò un po' imbarazzato.
Un pacco era destinato a un parroco. Era una statua molto bella, ma molto pesante. Il trasportatore era molto in difficoltà, e nell'entrare in sacrestia si ferì una mano contro un'acquasantiera. Ma il parroco lo accolse solo con un "Oh, finalmente me l'ha portata! Per favore faccia presto, si sbrighi. Sono impegnatissimo, tra 2 min e 40 sec. devo dire messa, tra 45 min c'è la lezione di catechismo, poi c'è la riunione con il gruppo della 3 età, poi il comitato di programmazione economica, poi i giovanissimi e la catechesi per famiglie. Capisce, no?, c'è tanto da fare: faccia presto!". Con la mano ancora dolorante il trasportatore uscì e andò a bagnarla alla fontana del sagrato.
Con il passare delle ore e il crescere della fatica, i pacchi pian piano diminuivano. Alla fine ne rimase solo uno. Quando arrivò all'indirizzo segnato sul pacco, aprì la porta un ragazzo: "No mi dispiace, il suo indirizzo è sbagliato, la signora Beatrice Bianchi (quello era il nome della destinataria) non abita più qui, si è trasferita almeno da un mese...". "E sa dove è andata ad abitare?". "No, io no, ma provi a chiedere al fruttivendolo all'angolo. Lui conosce tutti".
Il camionista si presentò al fruttivendolo e spiegò il suo problema: "Devo consegnare un pacco alla signora Beatrice Bianchi, ma ho l'indirizzo sbagliato. Lei sa dirmi dove posso trovarla?". "Ah, sì, si è trasferita, in un altro quartiere, me lo aveva detto, però l'indirizzo proprio non me lo ricordo... Provi a chiedere a Piero, lo trova là all'osteria, lui sicuramente lo sa".
Il camionista entrò nel fumoso bar e dietro un bicchiere di vino e un mazzo di carte, trovò Piero, un vecchietto con la barba bianca e due occhi azzurri come il cielo. "Ma sì la Beatrice! La conosciamo tutti qui, faceva la cameriera, è un peccato che si sia trasferita... Ecco, le scrivo il nuovo indirizzo".
Finalmente, dopo la lunga ricerca, il nostro amico si trovò di fronte alla porta dell'appartamento della signora Beatrice Bianchi. Il palazzo era in una delle zone più povere e degradate della città, lo squallore del luogo metteva proprio tristezza. Come aveva fatto con gli altri 99 pacchi, suonò e annunciò: "Signora, devo consegnarle un pacco". Aprì una giovane ragazza, mentre da una stanza interna si sentiva il pianto di un ragazzino. "Un pacco per me?". "Sì, signora; non è stato facile, ma sono contento di averla trovata...". "E cosa sarà mai? Non aspettavo pacchi... Oh... mi scusi, la sto lasciando sulla porta; prego, si accomodi, si sieda, posso offrirle un caffè? intanto guardiamo cosa c'è nel pacco...". Piacevolmente sorpreso, il corriere accettò volentieri l'invito. Il bambino intanto aveva smesso di piangere e si era avvicinato a osservare curioso quell'ospite sconosciuto.
Dopo aver versato il caffè all'ospite, Beatrice aprì il grosso pacco. Non poté trattenere un grido di gioia, quando ne vide il contenuto. Il pacco era pieno di cibi buonissimi, tra cui una grossa torta di compleanno. Insieme ai cibi una lettera. Quando la lesse, a Beatrice vennero gli occhi lucidi. Poi spiegò: "5 anni fa litigai violentemente con mia madre, e da allora non ci siamo più frequentate. Ora mi scrive che non vuole più discutere del passato, ma si è ricordata che oggi è il compleanno di Roberto, mio figlio e ci manda un po' di dolci per festeggiare. E pensare che proprio 10 minuti fa io stavo spiegando a Roberto che non avremmo potuto fare la festa con i suoi amici perché dopo aver pagato le bollette mi sono avanzati pochissimi soldi... È lei che ha permesso tutto questo! Io... io voglio ringraziarla. Si fermi e festeggi con noi!".
E così il trasportatore si trovò coinvolto in una festa piena di musica, allegria e risate, insieme con Beatrice, Roberto, i suoi amici e altre persone del vicinato. E alla fine della giornata, potete star certi, fu proprio lui il più contento per quel pacco con l'indirizzo sbagliato!
La storia può essere un punto di partenza per parlare di Dio che cerca tutti gli uomini, anche la pecorella smarrita... per suggerimenti sull'attività e per scaricare altre storielle simili, clicca qui.
rapporto con Diomisericordiapecorella smarrita
inviato da Andrea Zamboni, inserito il 20/11/2002
ESPERIENZA
Padre Mariano, Vivere il quotidiano con fedeltà, a cura di Giovanni Barra, Ed. Gribaudi
Padre Mariano raccontò una volta, in uno dei suoi famosi colloqui in TV, questa singolare storia di una vocazione..
Era una signorina dell'alta società romana. Era fidanzata e stava per sposarsi. Mancavano pochi mesi.
Già l'appartamento era pronto, tutto bello, tutto sorridente. Si preparava un matrimonio veramente sontuoso.
Questa signorina stava in villeggiatura ai Castelli Romani. Tutte le sere scendeva giù nel paesino, da una sua villa, per prendere alla posta la lettera del suo fidanzato che in quegli ultimi mesi, per ragione di lavoro, stava in Alta Italia e le scriveva tutti i giorni.
Essa imbucava la sua cartolina o lettera e ritirava quella di lui.
"Quella sera imbucai la solita lettera. - raccontava, ormai anziana la protagonista. - Era estate, faceva caldo, ero stanca...
La cassetta delle lettere stava sopra la parete della chiesa parrocchiale e mi venne la tentazione (perché proprio di una tentazione si trattava per me, che non mettevo piede in chiesa da più di quindici anni) di entrare in quella chiesa per riposarmi un po' al fresco.
Mi avviai verso la porta della chiesa e, mentre camminavo, mi passa per la testa un'idea (ma che idea bizzarra!), una domanda, che mai
mi ero fatta:
- Quest'uomo, al quale io sto per dedicare tutta la mia vita, mi vorrà poi bene davvero?.
- Perché no? (mi rispondevo tra me e me) Mi ha dato anelli, gioielli, ha preparato la casa per me...
Una seconda domanda mi passò poi per la testa:
- Ma quest'uomo, domani se fosse necessario, per il mio bene, un sacrificio anche grave da parte sua, sarebbe disposto a farlo?
- Io penso di sì, (continuavo a rispondermi) perché l'anno scorso non è andato a quella crociera per starmi vicino, l'anno prima lo stesso... Insomma, qualche sacrificio per amor mio, lo ha già fatto. E altri li farà certamente in seguito...
Entro in chiesa, e nella semioscurità, mentre mi sto orientando per cercare un banco per sedermi, mi passa per la mente la domanda più assurda, la più stupida che possa passare per la mente di una fidanzata, che sta per sposarsi:
- Ma quest'uomo, se dovesse dare la sua vita per me, sarebbe capace di farlo?
- Che cretina, che stupida, - mi dissi proprio così - ma se dà la vita... non lo sposo più!
Ero evidentemente stanca... e come fuori di me, mi siedo, alzo la testa e vedo, là sopra il pulpito di quella povera chiesa, un Crocifisso.
Io non sono una visionaria, e nemmeno una sognatrice, ma in quel momento mi sono sentita dire da quel Crocifisso:
"Io ho dato la mia vita per te!".
Fu tale lo sconvolgimento della mia anima, tale il rovesciamento dei valori, inesplicabile, istantaneo, che io scattai in piedi e dissi a me stessa: - Sarò suora carmelitana!
E non ci furono ritorni.
Io non avrei più potuto sposarmi, non mi sarei più sentita di farlo perché avevo 'sentito' questa affermazione, alla quale non avevo mai pensato prima e ormai la mia vita dovevo impegnarla per Lui.
E sono cinquant'anni e più che sono suora carmelitana e sono felicissima. E, se ho un rincrescimento, è quello di non aver ancora saputo rendere al Signore, se non in minima parte, quello che Lui mi ha dato".
vocazionechiamataprogetto di Dioamore di Diorapporto con Dio
inviato da Don Natale Trevisan, inserito il 29/08/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù
Il padrone di una grossa fattoria aveva bisogno di un aiutante che badasse alle stalle e al fienile. Come voleva la tradizione, il giorno della festa del paese, cominciò a cercare. Scorse un ragazzo di 16-17 anni che si aggirava tra i baracconi. Era un tipo alto e magro, che non sembrava molto forte.
«Come ti chiami giovanotto?».
«Alfredo, signore».
«Sto cercando qualcuno che voglia lavorare nella mia fattoria.. Ti intendi di lavori agricoli?».
«Sissignore. Io so dormire in una notte ventosa!».
«Che cosa?» chiese il contadino sorpreso.
«Io so dormire in una notte ventosa».
Il contadino scosse la testa e se ne andò.
Nel tardo pomeriggio, incontrò nuovamente Alfredo e gli rifece la proposta. La risposta di Alfredo fu la medesima: «Io so dormire in una notte ventosa!».
Al contadino serviva un aiutante non un giovanotto che si vantava di dormire nelle notti ventose.
Provò ancora a cercare, ma non trovò nessuno disposto a lavorare nella sua fattoria. Così decise di assumere Alfredo che gli ripeté: «Stia tranquillo, padrone, io so dormire in una notte ventosa».
«D'accordo. Vedremo quello che sai fare».
Alfredo lavorò nella fattoria per diverse settimane. Il padrone era molto occupato e non faceva molta attenzione a quello che faceva il giovane.
Poi una notte fu svegliato dal vento. Il vento ululava tra gli alberi, ruggiva giù per i camini, scuoteva le finestre.Il contadino saltò giù dal letto. La bufera avrebbe potuto spalancare le porte della stalla, spaventare cavalli e mucche, sparpagliare il fieno e la paglia, combinare ogni sorta di guai.
Corse a bussare alla porta di Alfredo, ma non ebbe risposta. Bussò più forte.
«Alfredo, alzati! Vieni a darmi una mano, prima che il vento distrugga tutto!».
Ma Alfredo continuò a dormire.
Il contadino non aveva tempo da perdere. Si precipitò giù per le scale, attraversò di corsa l'aia e raggiunse la cascina.
Ed ebbe una bella sorpresa.
Le porte delle stalle erano saldamente chiuse e le finestre erano bloccate. Il fieno e la paglia erano coperti e legati in modo tale da non poter essere soffiati via. I cavalli erano al sicuro, e i maiali e le galline erano quieti. All'esterno il vento soffiava con impeto. Dentro la cascina, gli animali erano calmi e tutto era al sicuro.
D'improvviso il contadino scoppiò in una sonora risata. Aveva capito che cosa intendeva dire Alfredo quando affermava di saper dormire in una notte ventosa.
Il giovane faceva bene il suo lavoro ogni giorno. Si assicurava che tutto fosse a posto. Chiudeva accuratamente porte e finestre e si prendeva cura degli animali. Si preparava alla bufera ogni giorno. Per questo non la temeva più.
Tu, riesci a dormire in questa lunga notte di vento che è la tua vita?
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Quando sei preparato spiritualmente, mentalmente e fisicamente, non hai niente da temere.
Puoi dormire quando il vento soffia per la tua vita?
Il bracciante agricolo nella storia è capace di dormire perché ha messo al sicuro la fattoria contro la tempesta.
Assicuriamoci contro le tempeste della nostra vita trovando equilibrio e sicurezza nella Parola di Dio.
Non c'e bisogno di capire, dobbiamo solo stringere le sue mani per avere pace anche in mezzo alla tempesta.
previdenzaresponsabilitàimpegnoquotidianitàattenzione alle piccole cose
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 11/06/2002
ESPERIENZA
Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione
Venceslaa è ora un'anziana missionaria in Colombia. L'ho conosciuta quand'era una giovane suora e dirigeva alcune opere di una grande comunità. E' stato allora che mi ha insegnato una cosa bellissima sulla messa.
Io la osservavo con ammirazione: aveva molto da fare, ma si muoveva tutto il giorno con uno splendido sorriso e una fine disponibilità. Le cose non andavano sempre bene; anzi, si verificò nella comunità un tristissimo episodio, fortunatamente rimasto a conoscenza di pochi. Essa ne era al corrente, eppure continuava a sorridere e a servire come se nulla fosse. Gliene volli parlare: "Come fa a mantenersi sempre serena, anche nei momenti difficili?". Mi rispose: "E' la Messa, Padre!".
E mi raccontò: "Quando avevo dodici anni, in parrocchia si tenne un ritiro. Il predicatore parlò della messa, spiegò il rito delle gocce d'acqua nel calice, all'offertorio. Le gocce d'acqua sono così insignificanti che si perdono nel vino. Possiamo dire che diventano vino. Quando il sacerdote offre il calice non le menziona più: 'Benedetto sei tu, Signore, per questo vino'... Ora, l'evangelista Giovanni fa capire che il vino ricorda la natura divina e l'acqua la natura umana. Sulla scia di Giovanni, i Padri della Chiesa hanno ricalcato questo simbolismo: il vino ricorda il Verbo Eterno, l'acqua l'umanità assunta - il vino il Redentore, l'acqua l'umanità redenta; il vino Gesù capo, l'acqua gli uomini membra del suo corpo; il vino Gesù, l'acqua l'assemblea e ognuno dei partecipanti. Questa dottrina mi folgorò. Da quel giorno non ho più potuto perdere una sola messa. Abitavo a tre chilometri dalla chiesa, nella campagna. La strada non era asfaltata e a volte poteva essere fangosa. La celebrazione avveniva all'alba, perché contadini e operai potessero parteciparvi prima di andare al lavoro. Ma ogni mattino, col buio, sulla mia bicicletta, dovevo recarmi là: ero troppo interessata ad essere una delle piccole gocce d'acqua. Mi capitava a volte di essere distratta prima o dopo, ma mai durante quel momento. E tutto questo mi sostiene. Le gioie e le difficoltà non mi appartengono e vengono prese da Gesù".
inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002
RACCONTO
Mark Eklund era in terza elementare e io insegnavo al Saint Mary's School a Morris, Minnesota. Ero affezionata a tutti e 34 i miei studenti, ma Mark era uno su un milione. Molto ordinato e preciso in apparenza, ma aveva quell'atteggiamento di essere-felice-di-vivere (happy-to-be-alive attitude) che faceva perfino la sua occasionale birbanteria deliziosa.
Mark parlava incessantemente. Dovevo ricordargli sempre che parlare senza permesso non era accettabile. Ciò che mi impressionava tanto, però, era la sua sincera risposta ogni volta che io dovevo correggerlo per cattivo comportamento: "Grazie per avermi corretto, Sorella!". All'inizio non sapevo cosa fare, ma dopo poco mi abituai a sentirlo molte volte al giorno.
Una mattina la mia pazienza era diventata sottile quando Mark parlò una volta di troppo, ed io commisi un errore da insegnante principiante. Guardai Mark e dissi, "Se dici ancora una parola, ti chiuderò le labbra con il nastro"! Passarono dieci secondi quando Chuck rivelò: "Mark sta parlando ancora." Io non avevo chiesto a nessuno degli studenti di aiutarmi a guardare Mark, ma dovetti punirlo davanti alla classe.
Ricordo la scena come se fosse successa questa mattina. Camminai verso la mia scrivania, aprii intenzionalmente il mio cassetto e tirai fuori un rotolo di nastro adesivo. Senza dire una parola, mi avvicinai al banco di Mark, strappai due pezzi di nastro e feci con essi una grande X sulle sue labbra. Poi tornai all'inizio della stanza. Mentre lanciai un'occhiata per vedere cosa stava facendo, lui mi strizzò l'occhio. Ciò fece! Io iniziai a ridere. La classe si rallegrò e applaudì. Tornai al banco di Mark, tolsi il nastro, e feci spallucce. Le sue prime parole furono: "Grazie per avermi corretto, Sorella."
Alla fine dell'anno, fui richiesta per insegnare alla classe di matematica della scuola media. Gli anni volarono, e presto seppi che Mark era ancora nella mia classe. Era più carino che mai e cosi educato. Poiché lui doveva mettere in lista attentamente le mie istruzioni sulla "nuova matematica", non parlò cosi tanto come aveva fatto in terza. Un venerdì le cose non andavano molto bene. Avevamo lavorato duramente su un nuovo concetto tutta la settimana e avevo la sensazione che gli studenti fossero accigliati, frustrati con se stessi e nervosi gli uni con gli altri. Dovevo fermare questo prima che mi sfuggisse di mano.
Così chiesi a loro di fare una lista con i nomi degli altri studenti nella stanza su due fogli di carta, lasciando uno spazio tra ogni nome. Poi dissi loro di pensare alla cosa più simpatica che potessero dire riguardo ad ognuno dei loro compagni di classe e di scriverla. Per finire il compito, la classe prese il resto del tempo e quando gli studenti lasciarono la stanza, ognuno mi passò il foglio. Charlie sorrise. Mark disse: "Grazie per avermi insegnato, Sorella. Buon fine settimana". Quel sabato annotai il nome di ogni studente su un foglio di carta separato, e misi in lista ciò che ognuno aveva detto di quella persona. Il lunedì diedi ad ogni studente il suo o la sua lista.
Dopo poco, l'intera classe stava sorridendo.
"Davvero?", sentii bisbigliato.
"Non sapevo di significare qualcosa per qualcuno!".
"Non sapevo di piacere cosi tanto agli altri".
Nessuno menzionò mai quei fogli ancora in classe.
Non sapevo se loro li avessero discussi dopo la classe o con i loro genitori, ma ciò non importava.
L'esercizio aveva raggiunto il suo scopo. Gli studenti erano ancora felici con se stessi e gli uni con gli altri. Il gruppo di studenti si era rimesso in marcia.
Diversi anni più tardi, dopo che tornai dalle mie vacanze, i miei genitori mi vennero incontro all'aeroporto. Quando stavamo guidando verso casa, mia Madre mi chiese le solite domande sulla gita, sul tempo, le mie esperienze in generale. Ci fu una pausa nella conversazione. Mia madre diede a mio padre un'occhiata di lato e disse semplicemente: "Papà?". Mio padre si schiarì la gola come faceva di solito prima di qualcosa importante. "Gli Eklunds hanno chiamato la notte scorsa", iniziò. "Davvero?" dissi. "Non li avevo sentiti per anni. Mark come sta?". Mio Padre rispose in modo sommesso: "Mark è stato ucciso in Vietnam", disse. "I funerali sono domani, e i suoi genitori vorrebbero che tu fossi presente". Da quel giorno posso ancora indicare il punto esatto sulla I-494 dove mio Padre mi disse di Mark.
Non avevo mai visto prima un militare in una bara militare. Mark appariva così carino, così maturo. Tutto ciò che potevo pensare in quel momento era: "Mark, darei tutto il nastro adesivo del mondo se solo tu potessi parlarmi". La chiesa era affollata di amici di Mark. La sorella di Chuck canto "L'inno di Guerra della Repubblica". Perché doveva piovere nel giorno dei funerali? Era già difficile così! Il pastore disse le solite preghiere e il trombettiere suonò i colpi. Uno dopo l'altro quelli che amavano Mark si misero in cammino verso la bara e la bagnarono con l'acqua santa. Io fui l'ultima a benedire la bara.
Mentre stavo in piedi, uno dei soldati che avevano portato la bara salì verso di me.
"Era lei l'insegnante di matematica di Mark?" mi chiese.
Io feci cenno di sì con il capo mentre continuavo a fissare la bara.
"Mark ha parlato molto di lei", lui disse.
Dopo il funerale, quasi tutti i vecchi compagni di classe di Mark si diressero alla fattoria di Chuck per il pranzo. La madre e il padre di Mark erano lì; ovviamente mi aspettavano.
"Vogliamo mostrarle qualcosa", suo padre disse, estraendo un portafoglio dalla sua tasca. "Hanno trovato questo su Mark quando fu ucciso. Pensiamo che lei possa riconoscerlo".
Aprendo il portafoglio, con attenzione tolse due pezzi logori di carta di taccuini che erano stati evidentemente legati, piegati e ripiegati molte volte. Sapevo senza guardare che i fogli erano quelli sui quali avevo messo in lista tutte le cose buone che ogni compagno di classe di Mark aveva detto su di lui.
"Grazie tanto per aver fatto ciò", disse la madre di Mark. "Come può vedere, Mark lo ha apprezzato molto".
I compagni di classe di Mark iniziarono a radunarsi intorno a noi.
Charlie sorrise in modo piuttosto imbarazzato e disse: "Io ho ancora la mia lista. E' nel primo cassetto della mia scrivania a casa".
La moglie di Chuck disse: "Chuck mi ha chiesto di mettere la sua nell'album del matrimonio".
"Anch'io ho la mia", disse Marilyn. "E' nel mio diario."
Poi Vicki, un'altra compagna di classe, raggiunse la sua borsetta, prese il suo portafogli e mostrò la sua consumata e logora lista del gruppo. "Io porto questa con me sempre", disse Vicki senza battere ciglio.
"Penso che tutti noi abbiamo salvato la nostra lista".
Qui fu quando alla fine mi sedetti e piansi.
Piansi per Mark e per tutti i suoi amici che non lo avrebbero mai più visto.
La densità delle persone nella società è cosi spessa che dimentichiamo che la vita finirà un giorno. E non sappiamo quando quel giorno sarà. Così per favore, dì alle persone che ami e a cui vuoi bene che sono molto speciali ed importanti. Diglielo, prima che sia troppo tardi.
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La storia dà anche l'idea per un'attività molto carina che si può fare con ragazzi ed adolescenti: come ha fatto l'insegnante di Mark, fate scrivere ad ognuno qualcosa di simpatico o di bello su ognuno degli altri componenti del gruppo, e poi date ad ognuno i suoi foglietti, oppure fateli leggere tutti ad alta voce.
E' un'attività che può andare molto bene sopratutto con gli adolescenti (ma può andare anche con i ragazzi) in quanto spesso hanno "crisi d'identità", o comunque non hanno una sufficiente autostima: il sentirsi dire cose simpatiche o comunque belle sul proprio conto può essere una buona iniezione di fiducia ed autostima.
Inoltre, aiuta tutti a guardare ad ognuno degli altri componenti del gruppo in modo positivo, e questo è ottimo per due motivi: innanzitutto fa fare lo sforzo di pensare a tutti gli altri, quando invece spesso qualcuno è messo da parte e non lo si considera mai; in secondo luogo, fa pensare agli altri in modo positivo, e anche questa è una cosa molto buona.
amiciziaamoreimportanza del singolocomplimentibontàconoscenzapositivopositività
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 24/05/2002
RACCONTO
Nel granaio di una fattoria, in campagna, vive il pipistrello Bastiano. Di notte, Bastiano, vola sulla fattoria orientandosi con il suo udito sensibilissimo e, di giorno, si riposa stando a testa in giù, appeso per i piedi a una trave del granaio. Questa sua, curiosa abitudine gli è valsa il soprannome di "Bastian contrario" .Così lo chiamano tutti gli abitanti della fattoria.
- Bastian contrario, sei proprio un bell'originale! - gli dicono i topolini che abitano nel granaio, incuriositi dal bizzarro comportamento del loro lontano parente.
- Bastian contrario, si può sapere com'è il mondo visto rovesciato? - gli domanda una topina.
- È molto più diritto di quanto non immagini! - è la strana risposta del pipistrello.
Da qualche giorno, però, Bastiano non attira più l'attenzione degli abitanti della fattoria, perché sono tutti interessati a un'altra cosa. Al fatto che l'usignolo che vive sull'olmo, al centro del cortile, ha smesso di cantare. Nessuno ode più il suo canto melodioso e tutti si sentono molto tristi.
- La vita, nella fattoria, non è più la stessa da quando l'usignolo ha smesso di cantare! - osserva il cavallo.
- Sì, prima, quando il lavoro finiva e a ciascuno restava solo il peso della propria fatica, il canto dell'usignolo ci sollevava e leniva i nostri cuori, ora invece, la sera, c'è un senso di oppressione nell'aria - dice la mucca.
Anche l'usignolo è triste e questa mattina si è rifugiato nel granaio perché è stanco di sentirsi chiedere in continuazione: «Perché non canti più?».
Credendo di essere solo nel granaio, l'usignolo dà sfogo, alla sua amarezza:
- Hanno un bel coraggio, tutti quanti, a venirmi a chiedere perché non canto più! Possibile che non capiscano che la colpa è soltanto loro? Sono stanco di sgolarmi senza una parola di ringraziamento! Perché, devo essere sempre io a rallegrare la vita degli altri, quando nessuno sembra preoccuparsi di rallegrare la mia? Ma adesso lo vedranno; non canterò più una sola nota in questa fattoria, vedremo se incominceranno a capire, e a ringraziare!
- Forse dovresti incominciare a ringraziare tu - lo interrompe una voce che sembra provenire dall'alto.
L'usignolo solleva il capino e vede il pipistrello Bastiano appeso alla trave.
- Ah... ci sei anche tu... - dice l'usignolo imbarazzato - io credevo di essere solo, per questo mi sono sfogato così... Comunque - riprende con sicurezza - lascia che ti dica che la tua osservazione è proprio stupida... o forse non mi hai ascoltato bene...
- Ti ho ascoltato benissimo, invece - dice il pipistrello - e ripeto la mia osservazione: forse dovresti incominciare a ringraziare tu.
- Ma questo è assurdo! - replica l'usignolo con vivacità. - E' esattamente il contrario del buon senso. Insomma, tu vorresti propormi, oltre al danno, anche le beffe! Andare a ringraziarli, per che cosa, poi?
- Perché ti stanno a sentire...
- Ah, questa è bella! Scommetto che tu sei quel tipo, del quale ho sentito parlare, che tutti chiamano Bastian contrario!
- Sono proprio io e, se mi starai a sentire un pochino, forse ti insegnerò qualcosa di nuovo. Ti ho detto che devi incominciare a ringraziare tu e ciò significa che devi metterti dalla parte del torto. Il che non è poi tanto sbagliato, se ci pensi bene. Vedi, la tua tristezza non nasce dal fatto che gli altri non ti ringraziano, ma dal fatto che non ti ringraziano nel modo che tu ti aspetti. Ma, se ci rifletti bene, il fatto che tutti riconoscano che la loro vita era trasformata dal tuo canto è il più bel ringraziamento, per te. Vedi, gli altri donano a loro modo, sei tu che non sai ricevere...
- Ma questo è il mondo rovesciato! - esclama l'usignolo - Ringraziare quando si aspetta di essere ringraziati! Però, anche se mi costa, devo riconoscere che c'è qualcosa di vero nelle tue parole, allora voglio provare a fare come dici tu.
L'usignolo è tornato sul ramo dell'olmo e ha ripreso a cantare.
E il suo canto dice così:
- Grazie, amici miei, perché mi state a sentire. Grazie perché accogliete il mio canto. Io credevo di consolarvi ed eravate voi che mi consolavate.
Credevo di aiutarvi ed eravate voi che mi aiutavate. Credevo di avere bisogno del vostro grazie, mentre eravate voi che avevate diritto al mio. Grazie, amici miei, per tutto questo, grazie!
Mai il canto dell'usignolo era stato più melodioso. Perché l'uccellino ha vinto se stesso dimenticato le sue pretese per rispondere alle richieste dei suoi amici che volevano il suo canto. E la presenza silenziosa di tutti gli abitanti della fattoria sotto l'olmo, le lacrime che scorrono sul muso mansueto della mucca sono il ringraziamento più bello per l'usignolo. Il quale non si stanca di dire a tutti che il grazie più grande deve andare a Bastian contrario che lo ha aiutato a capovolgere la sua situazione.
E così, adesso, c'è sempre qualcuno che fa capolino nel granaio per chiedere consiglio a Bastiano.
Anzi, quando c'è qualche problema nella fattoria tutti dicono: «Andiamo da Bastiano perché ci aiuta a capovolgere questa situazione».
E Bastiano dice a uno:
- Forse dovresti incominciare a perdonare tu...
E a un altro:
- Forse l'unica cosa da fare è non fare nulla...
E a un altro ancora: - se vuoi essere il primo, sii l'ultimo; se vuoi essere amato, ama; se vuoi essere compreso, comprendi; se vuoi essere ascoltato, ascolta; se vuoi essere esaltato, umiliati; se sei nelle tenebre, parla agli altri della luce.
E a poco a poco, tutti incominciano a vedere le cose come le vede Bastiano, cioè rovesciate.
Che è spesso l'unico modo per vederle veramente diritte.
E l'unico modo per dare un senso a cose che a volte sembrano esserne prive.
Perché, rovesciare le cose, significa non guardarle più con il nostro occhio, non misurarle più con il nostro metro, che si chiama egoismo, ma guardarle con gli occhi degli altri e misurarle con il metro del prossimo che è la carità.
Perché, rovesciare le cose, significa avere compreso che esistono pensieri che non assomigliano ai nostri pensieri, che esistono delle vie che non sono le nostre vie.
Ma sono le uniche vie che conducono alla Pace.
gratitudineperdonofare il primo passo
inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002
TESTO
69. Le cose che ho imparato nella vita 1
Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:
Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. E per questo, bisognerà che tu la perdoni.
Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
Che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
Che la pazienza richiede molta pratica.
Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.
Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.
Forse Dio vuole che incontriamo un po' di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così quando finalmente la incontriamo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.
La miglior specie d'amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire un parola, e quando vai via senti come se è stata la miglior conversazione mai avuta.
E' vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un'ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole un vita per dimenticarlo.
Non cercare le apparenze, possono ingannare.
Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante un giornataccia.
Trova quello che fa sorridere il tuo cuore. Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
La felicità è ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l'importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.
L'amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un thé.
Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride e ognuno intorno a te pianga.
inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, Il canto del grillo
Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava a casa spossato e pieno di malumore. Guardava con astio la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini del bar.
"Quelli sì che stanno bene", brontolava l'uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d'uva nel torchio. "Non sanno cosa vuol dire tribolare... Tutte rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!".
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell'uomo. E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa.
"Ah, sei tu, Signore?" disse l'uomo, quando lo vide. "Non provare a rabbonirmi. Lo sai bene quant'è pesante la croce che mi hai imposto". L'uomo era più imbronciato che mai.
Il Signore gli sorrise bonariamente."Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare un'altra scelta", disse.
L'uomo si trovò all'improvviso dentro una enorme grotta azzurra. L'architettura era divina. Ed era tempestata di croci: piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte.
"Sono le croci degli uomini", disse il Signore,"scegline una". L'uomo buttò con malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita.
Provò una croce leggerina. ma era lunga e ingombrante. Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e sacrificio.
Un'altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell'uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi.
Afferrò una croce d'argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e abbandono. La posò subito. Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.
Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po' logorata dall'uso. Non era troppo pesante, né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L'uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante. "Prendo questa!", esclamò. Ed uscì dalla grotta.
Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce. E in quell'istante l'uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta. E che portava da tutta la vita.
"Come in un sogno mattutino, la vita si fa sempre più luminosa a mano a mano che la viviamo, e la ragione di ogni cosa appare finalmente chiara" (Ricther).
accettazione di sésofferenzacrocedolore
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 03/05/2002
TESTO
71. Dieci consigli per ben litigare 1
1. Litigare: tenendo l'altro al centro della propria attenzione.
2. Ascoltarsi: significa cercare di captare le parole e i sentimenti che si trovano dietro le parole. Significa recepire con tutta la propria persona quello che l'altro trasmette e lasciare che questi esprima pienamente, nella massima libertà e sincerità, quello che pensa e sente su un determinato argomento. Significa evitare di intervenire sempre, senza lasciare spazio al partner per dire la sua.
3. Capire bene: il messaggio che viene comunicato, in modo obiettivo, senza prenderlo come una critica o come mancanza di amore e di rispetto.
4. Focalizzare: correttamente il vero problema, ossia determinare con chiarezza qual è il vero nocciolo dell'argomento. Capita di iniziare a discutere o a litigare su una questione e da questa ne derivano in fila tante altre, fino a che non si parla più del primo oggetto del discorso.
5. Non rifarsi al passato: non riportare, cioè, episodi che ormai fanno parte del "museo coniugale". E' inutile tirar fuori quello che può essere accaduto prima del matrimonio o prima dell'attuale litigio.
6. Riflettere bene: prima di replicare o lanciare accuse. Spesso la mancanza di riflessione è segno di mancanza di maturità, di poca obiettività e di una certa aggressività. Non si devono formulare accuse fondate solo su intuizioni, sospetti o sentito dire.
7. Dimostrare buona volontà: affermando il proprio desiderio di trovare qualche soluzione per uscire dalla situazione. Ciò significa discutere, cercare insieme ed essere disponibili ad accettare insieme una soluzione non propria. Si può sempre arrivare al compromesso.
8. Elencare le soluzioni e le alternative proposte, esaminarle insieme, non solo in base al sentimento, ed esprimere con sincerità ciò che si pensa a favore o contro questa o quell'altra soluzione. Tenere conto del bene di entrambi come coppia e come famiglia. Occorre per questo una buona dose di saggezza, di umiltà e di sacrificio.
9. Decidere insieme la soluzione: non significa arrendersi, ma cercare il bene migliore per tutti, anche se costa. In mancanza di unanimità, uno dei due deve delegare l'altro con la facoltà di decidere. Si può anche stabilire in quali situazioni deve decidere il marito o la moglie. A volte è necessario ricorrere a una terza persona o a un consultorio per verificarsi insieme.
10. Dimenticare e perdonare: questa deve essere la caratteristica del coniuge cristiano. Dimenticare ciò che è successo significa decidere di chiuderlo nel "museo coniugale" senza più tirarlo fuori. Perdonare con tutto il cuore, perché ci sono state e ci saranno ancora situazioni in cui anche noi possiamo sbagliare. Non rifiutare né di dare né di ricevere perdono.
famigliacoppiamatrimoniolitigiperdono
inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 03/05/2002
TESTO
Quando dopo un'uscita faticosa ed impegnativa rifletti sui risultati ottenuti non indugiare, non aspettare: inginocchiati e ringrazia Dio per ciò che ti ha permesso di vivere e sperimentare, prega per i tuoi ragazzi, per le loro speranze i loro sogni e le loro sofferenze.
Quando ti sembra di aver dato il massimo della tua intelligenza, competenza, disponibilità e creatività, non dimenticare di donare senza limiti entusiasmo gioia e amore.
Quando accetti di essere un capo, ricordati di accettare un capo sopra di te.
Quando fai coraggiosa proposta di vita in cui credi, vivila intensamente con tutta la tua generosità.
Quando un problema ti assilla, la tristezza sta per avere il sopravvento, la paura ti assale, non fuggire nel frastuono delle parole o nella polverizzazione di mille esperienze, taci e nel silenzio della solitudine, ascolta.
Quando ti accorgi di ripetere esperienze già fatte, discorsi orecchiati, attività già vissute, impara a sognare: proiezione per il futuro.
Quando ti senti soddisfatto per ciò che hai fatto e ciò che sei riuscito ad ottenere non voltarti e non attendere: riparti subito.
Quando sai imporre le tue idee con chiarezza e determinazione, con dialettica e convinzione, rifletti e medita con serietà sulle idee e proposte contrarie alle tue.
Quando un ragazzo ti parla, non sottovalutare mai la ricchezza del dialogo e dell'incontro, anche il più banale.
Quando hai la sensazione che tutto vada bene, che non ci siano problemi, che ciò che hai fatto e che fai è giusto, sappi che sei fuori strada, qualcosa non va sei tu.
Quando capisci che la tua presenza è inutile, la tua strada coi ragazzi l'hai percorsa, ciò che dovevi dire l'hai detto, sappi salutare e senza voltarti riprendere il tuo zaino per continuare il tuo cammino da solo. Incontrerai altra gente da aiutare, da ascoltare, da amare, per ricevere il dono più grosso che Dio ci ha dato in questa vita: l'amore che è felicità.
Quando credi di sapere già, di conoscere tutto, di non aver bisogno degli altri, non fare il capo. Meglio la tua incertezza, la tua titubanza, la tua modestia, ostinatamente orientate verso la ricerca della verità.
Quando ti poni degli obiettivi educativi, cercali sempre nel profondo del tuo cuore ed illuminali con la ricchezza della tua intelligenza.
Quando le cose non vanno, quando tutto ti sembra crollarti addosso, quando ti viene voglia di mandare tutto all'aria, non disperare, tieni duro, non piegarti in ginocchio se non per pregare.
Quando ti accorgerai che gioie e dolori dei tuoi ragazzi ti interrogano continuamente e ti fanno gioire e soffrire, con loro ringrazia Dio per questo dono immenso che ti ha dato.
Quando sei un capo, non cessare mai di meravigliarti e di stupirti sempre di tutto e di tutti. Allena il tuo occhio, la tua mente ed il tuo cuore a scoprire, anche nelle cose vecchie, quelle nuove che le circostanze diverse mettono in evidenza, per cogliere il bello e l'inedito di ogni istante.
Quando la tua presenza offusca o adombra qualcuno o qualcosa, sforzati di essere trasparente tu stesso ed allora la luce passerà senza riflessi.
Quando... lascia che la Grazia di Dio riempia i vuoti che inevitabilmente tu lasci.
inviato da Maria Vitali, inserito il 30/04/2002
PREGHIERA
73. La pace dipende anche da me
Non costruisco la pace quando non apprezzo lo sforzo, la virtù degli altri;
quando pretendo l'impossibile, quando sono indifferente al bene e al male degli altri;
non costruisco la pace quando lavoro per due per poter comprare e mantenere il superfluo,
mentre c'è chi non trova lavoro e non ha il necessario, l'indispensabile per vivere;
non costruisco la pace quando non perdono, quando non chiedo scusa,
quando non faccio il primo passo per riconciliarmi, anche se mi sento offesa o credo di aver ragione;
non costruisco la pace quando lascio solo chi soffre e mi scuso dicendo: «Non so cosa dire, cosa fare, non lo conosco»;
non costruisco la pace quando chiudo la porta del cuore, quando chiudo le mani, la bocca e non faccio niente per unire, conciliare, scusare;
non costruisco la pace quando penso solo ai fatti miei, al mio interesse e tornaconto, al mio benessere e ai miei beni;
non costruisco la pace quando rispondo: «non ho tempo» e tratto il prossimo come uno scocciatore, un rompiscatole;
non costruisco la pace quando mi metto volentieri e di preferenza dalla parte di chi ha potere, ricchezza, sapienza, furbizia,
anziché dalla parte del debole, dell'indifeso, del dimenticato, dalla parte di colui il cui nome non è scritto sull'agenda di nessuno;
non costruisco la pace quando non aiuto il colpevole a redimersi;
non costruisco la pace quando taccio di fronte alla menzogna, all'ingiustizia, alla maldicenza, alla disonestà, perché non voglio noie;
non costruisco la pace quando non compio il mio dovere sia nel luogo di lavoro che verso i miei familiari;
non costruisco la pace quando sfrutto il mio prossimo in stato di dipendenza, inferiorità, indigenza, malattia;
non costruisco la pace quando rifiuto la croce, la fatica;
non costruisco la pace quando dico no alla vita;
non costruisco la pace quando non mi metto in ginocchio per invocarla, per ottenerla, per viverla.
Allora quand'è che costruisco la pace?
Quando al posto del «no» metto un «sì»
quando al posto del rancore, metto il perdono
quando al posto della morte, metto la vita,
quando al posto dell'io, metto Dio.
La pace è un tuo dono, Signore.
Per ottenerla occorre pregare, amare, soffrire.
Occorre pagare di persona. Scomparire.
Eccomi o Signore.
Fammi seminatrice di pace.
Signore, donaci la tua pace.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002
RACCONTO
Jerry era il tipo di persona che si ama e si odia.
Era sempre di buon umore ed aveva sempre qualcosa di positivo da dire.
Quando qualcuno gli domandava come stava, rispondeva: "Se stessi meglio, scoppierei!".
Era un manager unico, con un gruppo di camerieri che lo seguivano ogni volta che prendeva la gestione di un nuovo ristorante. Il motivo per cui i camerieri lo seguivano era che Jerry aveva un grande atteggiamento positivo. Era un motivatore naturale, se un dipendente aveva la luna storta, Jerry era lì a spiegargli come guardare al lato positivo della situazione.
Trovavo il suo stile molto strano e quindi un giorno gli dissi "Adesso basta! Spiegami come fai ad essere sempre cosìpositivo, qualunque cosa succeda?".
"Oggi hai una scelta da fare: puoi decidere di essere di buon umore o di cattivo umore, e scelgo di essere di buon umore. Tutti i giorni mi capita qualcosa di spiacevole, posso fare la vittima oppure imparare qualcosa dai problemi, io scelgo di imparare. Ogni giorno qualcuno viene da me a lamentarsi, io posso scegliere di subire passivamente le sue lamentele o di trovare il lato positivo della cosa, beh, io scelgo sempre il lato positivo della vita".
"Si, vabhé, dissi io, "ma non è sempre cosi facile!".
"Sì invece," disse Jerry, "la vita è tutta fatta di scelte. A parte le necessità più o meno fisiologiche in ogni situazione c'è una scelta da fare.
Sei tu a scegliere come reagire in tutte le situazioni, a decidere come la gente può influire sul tuo umore.
Sei tu che scegli se essere di buon umore o di cattivo umore, e quindi in definitiva come vivere la tua vita".
Per molto tempo dopo quell'incontro, ripensai a quello che Jerry aveva detto, poi un giorno lasciai il business della ristorazione e mi dedicai ad un'altra attività in proprio; mi persi di vista con Jerry ma spesso ripensai a lui quando mi trovavo nella situazione di scegliere nella vita invece che subirla.
Diversi anni dopo, venni a sapere che Jerry aveva commesso un errore imperdonabile per un gestore di ristorante: aveva lasciato la porta posteriore del ristorante aperta una mattina, ed era stato attaccato da tre rapinatori armati; mentre cercava di aprire la cassaforte, le sue mani sudate e tremanti dalla paura non riuscivano a trovare la combinazione ed i rapinatori, presi dal panico, gli avevano sparato ferendolo gravemente. Fortunatamente Jerry era stato soccorso rapidamente e portato immediatamente al pronto soccorso.Dopo 18 ore di intervento chirurgico ed alcune settimane di osservazione, Jerry era stato dimesso dall'ospedale con frammenti di pallottole ancora nel suo corpo.
Incontrai Jerry circa sei mesi dopo l'incidente, quandi gli chiesi come andava mi disse: "Se stessi meglio, scoppierei. Vuoi dare un'occhiata alle cicatrici?". Declinai l'invito, ma gli chiesi che cosa gli era passato per la testa durante la terribile esperienza. "La prima cosa che pensai fu che avrei dovuto chiudere la porta posteriore del ristorante" mi disse Jerry, "poi, quando ero già stato colpito e mi trovavo per terra, mi ricordai che avevo due scelte: potevo scegliere di vivere o di morire".
"Ma non avevi paura. Non sei svenuto?".
Jerry continuò: "Gli infermieri furono bravissimi. Continuavano a dirmi che andava tutto bene. Ma fu quando mi portarono sulla barella in sala operatoria e vidi le espressioni sulle faccie dei dottori e degli assistenti, che mi spaventai veramente, potevo leggere nei loro occhi 'quest'uomo è già morto!'... dovevo assolutamente fare qualcosa".
"E cosa hai fatto?" gli domandai.
"C'era questa infermiera veramente grassa che continuava a farmi domande, e mi chiese se ero allergico a qualche cosa. 'Sì!, io risposi, a quel punto tutti dottori e le assistenti si fermarono ad aspettare che finissi la mia risposta... Io presi un respiro profondo e con tutte le mie forze gli gridai 'Sono allergico alle pallottole!'... Mentre ancora ridevano aggiunsi: 'Sto scegliendo di vivere. Operatemi come se fossi un vivo, non come fossi già morto'".
Jerry è sopravvissuto grazie alle capacità dei chirurghi, ma anche grazie al suo atteggiamento positivo.
Ho imparato da lui che tutti i giorni abbiamo la scelta di vivere pienamente.
Un attegiamento positivo, alla fine, vale più di tutto il resto.
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inviato da Barbara, inserito il 08/04/2002