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ESPERIENZA

61. Storia di una corsa incontro a Gesù

Lorenza e Pier Paolo F.

Questo testo è un estratto di una lettera di Lorenza F., moglie e madre di tre figli, scritta pochi mesi prima di tornare al Padre a causa di una grave malattia di cui era pienamente cosciente.

In settimana santa ho fatto un'esperienza molto forte meditando sugli ultimi giorni di Gesù: "Come sono lontana dalla mentalità del Padre - mi sono detta - devo guardare gli eventi, la storia con i suoi occhi; voglio vivere l'attimo presente dalla prospettiva del Padre". Anche se tra il dire e il fare..., improvvisamente l'andare o lo stare avevano un altro senso.

Con tale animo ad aprile è arrivata la diagnosi. Questa diagnosi non mi spaventa più di tanto in certi momenti, e non sono parole perché, pur tra alti e bassi, vivo in serenità. Il legame con Gesù si è fatto più stretto e dolce e mi sembra doveroso dire che fa tutto Lui e io vivo spesso nel Risorto. Tanto che mi sono anche trovata a ringraziare quella parte del mio corpo che sembra "maligna" e che invece è una porta per il cielo. Il momento è sacro per il distacco da tutto ciò che non è lui.

I medici la pensano ben diversamente: professionalmente sono senz'altro molto competenti, ma talvolta trasmettono ansia,... eppure sono sicura che lo fanno in buona fede.

Così mi sono trovata ad un bivio: da una parte la voce allarmata dei medici, lo smarrimento, il panico e, peggior cosa, la perdita della serenità; dall'altra una voce serena che mi dà la pace.

Per tanti anni, giorni, attimi, la mia volontà è stata interamente rivolta a cercare questa voce, riconoscerla, ascoltarla, non tradirla, e perciò mi chiedo perché adesso dovrebbe essere diverso.

"Non è forse questo quello che importa di più? Quello per cui posso ora ringraziare Dio di avere un certo allenamento?".

Andare dietro a questa voce mi dà serenità e determinazione: le stesse che ho già sperimentato tante volte, quando ci siamo sposati pur senza lavoro, quando abbiamo voluto Andrea con la casa che sembrava un cantiere, quando..., quando ho detto: "Sì, Sì, Sì" a situazioni incomprensibili agli altri.

Chi di noi non ha lasciato le certezze, anche a caro prezzo, per correre dietro a quella voce?

Da parte mia posso dire che dopo per me c'è sempre stata una misura buona, scossa, pigiata, traboccante. (...)

Gesù ci chiede sempre qualcosa di più, forse ha di noi una considerazione migliore di quella che abbiamo noi stessi. Tutto è importante, ma anche relativo a quello che stai vivendo e così oggi non ci siamo nemmeno strappati i capelli quando ci siamo accorti che ci hanno rubato la macchina, per fortuna quella vecchia...

L'incanto di questo periodo di sicuro non è farina del mio sacco. Quella presenza di Gesù che cerchiamo di costruire fra noi con l'amore reciproco è luce, potentissima; è pace, sconfinata, è vita, che scorre nelle vene e rinvigorisce; è relazione, con chiunque; è salute, dell'anima e del corpo; è discernimento, di ciò che è essenziale. E' tanto altro di cui sto godendo grazie a Pier e a tutte voi, per primi, e grazie a chissà quanti.

Gesù (in mezzo) mi fa già vivere quel miracolo che stiamo chiedendo. Conto tantissimo su di voi e voi potete contare su di me.

Lorenza F.

...e questo invece è il ricordo di Lorenza fatto da suo marito Pier Paolo durante la S. Messa di suffragio ad un anno dalla sua morte.

Prima di tutto vorrei ringraziarvi. Per essere venuti, ma soprattutto per tutte le preghiere che avete fatto per noi in quest'anno. Se quanto dirò dopo è vero, è anche grazie a queste.

E' già passato un anno. Il più grosso regalo che ci ha fatto la Lo in quest'anno, e penso di esprimere quello che pensano molti di noi qua, è stato quello non solo di essere presente, ma di farsi sentire presente.

Forse è per questo che la Tere, Fili e Andre non hanno difficoltà a parlare della mamma: perché lei c'è.

Io personalmente vorrei donarvi la cosa più bella che lui mi ha donato con la partenza della Lo: capire un po' di più, e comunque come non l'avevo mai capito, qual è la vita vera e qual è il senso del nostro stare quaggiù: pensando a lei, cercando (a volte con tutte le mie forze) di immaginarmi lei ora, ho capito di più il disegno di Dio su di me e, forse, su tutto ciò che mi sta intorno.

Il suo disegno su di me (su di noi) è quello di stare con lui e con lei per l'eternità, che non vuole solo dire dopo la morte ma già da adesso. Questo se in ogni momento cerco di capire cosa lui vuole che io faccia e cerco di farlo. Come diceva anche la Lo nella sua lettera:

"Non posso non considerare che sento una voce dentro che mi dà la pace; che per tanti anni, giorni, attimi, la mia volontà è stata interamente rivolta a cercare questa voce, riconoscerla, ascoltarla, non tradirla, e perciò mi chiedo perché adesso dovrebbe essere diverso. Non è forse questo quello che importa di più? Quello per cui posso ora ringraziare Dio di avere un certo allenamento?". Andare dietro a questa voce mi dà serenità e determinazione: le stesse che ho già sperimentato tante volte, quando ci siamo sposati pur senza lavoro, quando abbiamo voluto Andrea con la casa che sembrava un cantiere, quando..., quando ho detto:"Sì, Sì, Sì" a situazioni incomprensibili agli altri. Chi di noi non ha lasciato le certezze, anche a caro prezzo, per correre dietro a quella voce? Da parte mia posso dire che dopo per me c'è sempre stata una misura buona, scossa, pigiata, traboccante."

Quando non lo faccio, quando penso a me stesso, non la sento più vicina; e non è lei che se n'è andata, sono io.

Questo è quello che mi ha dato la forza, e continua a darmela, di non pensare con nostalgia a quante cose belle abbiamo fatto insieme, o a cosa potevamo fare e non abbiamo fatto.

Perché ho la certezza di avere ancora tanto tempo, tutta l'eternità, per fare cose infinitamente più belle insieme a lei, con tutti voi, e portare a compimento quello che, a questo punto, mi appare solo come il prologo di una storia bellissima e infinita.

Pier Paolo F.

crocedoloresofferenzarapporto con Diomalattiaparadisovita eterna

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 18/06/2006

TESTO

62. Il dono supremo

Paolo VI, dall'omelia per il Giovedì Santo, 11 aprile 1974

Dove siamo? perché siamo qui riuniti? che cosa stiamo facendo? La celebrazione di questo rito esige da noi un momento d'intensa concentrazione.

È pur vero: essa non è in sostanza che una Santa Messa, quale noi celebriamo ogni giorno e moltiplichiamo in tanti luoghi diversi. Ma oggi questo rito vuole assumere il suo pieno e originario significato. Esso vuole ricordare, anzi rinnovare le sue ragioni costitutive, e acquista per noi, in ogni suo aspetto, un rilievo particolare; noi vogliamo onorare la sua misteriosa e complessa realtà; la sua origine, ch'è l'ultima Cena del Signore; la sua natura, ch'è il sacrificio eucaristico; i suoi rapporti con la Pasqua giudaica, memoriale della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù e poi segno della promessa messianica circa i futuri destini di quel popolo; il suo aspetto innovatore, ch'è l'inaugurazione d'un nuovo Testamento, d'una nuova alleanza, cioè d'un nuovo piano religioso, eminentemente più elevato e più perfetto, fra Dio e l'umanità, mediante il sacrificio d'una vittima unica e nuova, Gesù Cristo stesso.

Noi siamo collocati all'incrocio delle grandi linee traiettorie dei destini storici, profetici e spirituali dell'umanità: qui si conclude l'Antico Testamento; qui si inaugura il Nuovo; qui l'incontro con Cristo, da evangelico e particolare, si fa sacramentale e universalmente accessibile, qui la intenzione fondamentale della sua presenza nel mondo, con la celebrazione dei due misteri essenziali della sua vita nel tempo e sulla terra, l'Incarnazione e la Redenzione, si svela in gesti ed in parole indimenticabili: «Sapendo Gesù, dice infatti il Vangelo, che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Giovanni 13, 1), cioè fino all'estremo limite, fino al dono supremo di Sé.

Questo è il tema sul quale ora dobbiamo fissare la nostra attenzione. Non ne saremo veramente capaci, come non sono capaci i nostri occhi di sostenere lo sguardo diretto della luce del sole. Ma non dovranno questi nostri occhi umani e fedeli stancarsi di contemplare ciò che il misterioso fulgore dell'ultima Cena fa risplendere davanti a noi: i gesti dell'amore che si offre e si dà, e che assumono l'aspetto e la dimensione d'un amore assoluto, divino; l'amore che si esprime nel sacrificio.

Per la versione completa, clicca qui.

amoredonoeucaristiagiovedì santosacrificioultima cenamessa

inviato da Luca, inserito il 01/05/2006

TESTO

63. La partenza di Francesco di Assisi

Christian Bobin, Francesco e l'Infinitamente piccolo

Tanta poca immaginazione fa veramente disperare dell'uomo.
Credono di maturare perché hanno dei figli.
Credono di amare perché non osano più tradire la moglie.
Non avranno fatto altro che invecchiare.
Non avranno fatto altro che essere vecchi.
Guardami, me ne vado per i cammini dell'infanzia.

Ti devo un po' di soldi, quelli che ti ho preso per lanciarli a Dio.

Tu che conosci il prezzo delle cose, tu che delle cose non conosci che il prezzo, guarda, mi tolgo i vestiti.

...posso dunque andarmene nudo come una pietra, nudo come un filo d'erba, nudo come la prima stella nel cielo buio.

Abramo si è levato. Gli era stato domandato infinitamente. Gli era stato richiesto di abbandonare la famiglia, il paese, gli amici.

Si domanda sempre infinitamente a chi desidera con un desiderio infinito.
E Abramo si è levato, è partito.

E Mosè, e Davide, e tutti si sono levati, e nel gesto del levarsi han perduto i loro abiti di lingua, i loro abiti d'amicizia, i loro abiti di saggezza, e tutti hanno ricevuto l'infinito nel cuore messo a nudo.

A sua madre che insisteva perché rientrasse a casa, vergognosa di vederlo girovagare con una dozzina di fannulloni, Cristo ha risposto: dov'è la mia vera famiglia, chi sono i miei cari?
E sua madre non ha capito. Allora come potresti capire tu?
Ritorno alla mia vera famiglia.

Ritorno fra quanti son partiti senza più sapere chi fossero, dove andassero.

Oh padre io commerciante, oh padre mio che vorresti impedirmi di crescere, sai quanta violenza occorre per gioire di vera dolcezza?
Non sposo una chimera.

Non è la purezza che voglio. La purezza lascia l'impuro al di fuori di lei, e io non voglio più un di fuori, non voglio più saperne di una chiesa coi suoi angeli nel coro e i suoi diavoli sulla strada, il viso schiacciato contro le vetrate come dei poveri a Natale alle finestre del fornaio.
Voglio solo la vita nuda e fraterna.

Oh padre io ragionevole, padre mio ragionatore, ti hanno insegnato che c'era un posto per ogni cosa, hai dunque creduto che ci fosse anche un rango per ciascuno, e io vengo a dirti che non è così: non saremo in un certo ordine che in paradiso.

Nell'attesa di quel giorno che verrà, che necessariamente verrà, che indubbiamente verrà, nell'attesa di quel giorno in cui saremo pigiati in grembo a Dio come soldi in fondo a una tasca, voglio entrare in tutti i giardini chiusi, scavalcare tutti i muri di pietra, andare ovunque, in disordine.
Ieri sognavo principesse e cavalieri.
Oggi ho trovato qualcosa che è più grande del mio sogno.
L'amore ha risvegliato la mia vita assopita.

Ho trovato la vita e parto incontro a lei, mi batterò per lei e servirò il suo nome.
Parto. Che puoi fare per impedirmelo?

Ti lascio fino all'ultimo dei miei vestiti. Si trattengono le persone con tutto ciò che si dona loro.
Ti ho reso quanto mi hai dato, tranne la vita.
Ma la vita mi viene da qualcosa di superiore a te.

La vita mi viene dalla vita stessa, ed è verso di lei che vado, verso la mia amica dagli occhi di neve, mia piccola fonte, mia sola sposa.
La vita, nient'altro che la vita.
La vita, tutta la vita.

vocazionepartenzastradacoraggiovitachiamata

inviato da Cristina Ardigò, inserito il 06/02/2006

TESTO

64. Come candele davanti al Tabernacolo   1

San Luigi Orione

San Luigi Orione, con questo suo scritto del 2/2/1938, ci ricorda il compito affidatoci da Gesù di essere la luce del mondo e sottolinea che quella luce si alimenta solo dinanzi al Tabernacolo, dinanzi a Gesù Eucaristia.

Quando si nasce, e ci portano al battesimo, si prende e si accende una di quelle candele benedette e la si mette nelle mani del padrino e della madrina che fanno per noi le promesse... Ma la candela si accende anche quando si muore, nell'atto in cui si raccomanda l'anima, nell'atto in cui essa sta per passare da questo mondo all'altra vita, quando il sacerdote pronuncia le parole: "Presto, o anima, ritorna al Padre che ti ha creato, ritorna al Figlio che ti ha redenta, ritorna allo Spirito che ti ha illuminata, che ti ha riempita di carismi"... La candela che si accende quando si è fatti cristiani sarà presente allorquando dovremo rendere conto del come si è condotta la vita, se veramente ci siamo mostrati veri seguaci di Cristo.

Con il Battesimo, siamo dunque noi stessi come candele accese che dovranno rendere conto della qualità della propria luce.

Le proprietà della candela sono diverse: la candela è diritta, e noi dobbiamo essere diritti, retti, sempre retti, sempre mostrarci retti se vogliamo essere veramente seguaci di Gesù Cristo. Dobbiamo morire pur di essere sempre moralmente retti, se vogliamo veramente essere cristiani.

La candela è bianca e noi dobbiamo mantenere bianca la nostra anima, coltivare nella nostra anima la virtù della purezza che ci fa bianchi all'occhio del Signore; virtù che è il giglio delle virtù, la bella virtù. Virtù che in modo grande splendette nella Vergine Santa...

La candela è ardente, manda luce, è calda. Così deve essere la vita nostra; non tiepida, non smorta, ma calda.

Dobbiamo ardere ed ardere di un amore grande di Dio e del prossimo. Dobbiamo fare sì che il Comandamento dell'amore sia in noi. Facciamolo ardere l'amore nel nostro petto; facciamolo affocare nel nostro cuore. Facciamo splendere la bella virtù... Dobbiamo essere lucerna ardente sicché tutti vedano, nella luce nostra, risplendere la luce di Dio, sentano il Signore, sentano la vita di Dio, la verità di Dio.

Andiamo da Gesù Eucaristia ad imparare la rettitudine, la purezza, una vita calda di amore a Dio e al prossimo.

La candela poi si offre e si consuma, in generale, davanti all'immagine dei Santi e davanti al Santissimo. E così deve ardere, splendere, consumarsi la nostra vita, deve consumarsi davanti a Dio.

La nostra vita sia come la candela che arde, splende e si consuma per amore di Dio e del suo Regno.

candelatestimonianzaessere cristianibattesimogiudiziocoerenza

2.5/5 (2 voti)

inviato da Lia Sirna, inserito il 05/01/2006

PREGHIERA

65. Signore, perché mi hai detto di amare?   2

Michel Quoist

Signore, perché mi hai detto di amare tutti gli uomini,
miei fratelli?
Ho cercato, ma torno a te sgomento...

Signore, ero tanto tranquillo a casa mia,
avevo ordinato la mia vita, mi ero sistemato.
La mia casa era arredata e mi ci trovavo bene.

Solo, andavo d'accordo con me stesso.
Al riparo dal vento, dalla pioggia, dal fango.
Sarei rimasto puro, chiuso nella mia torre.
Ma nella mia fortezza, Signore, hai scoperto una falla,
Mi hai costretto a socchiudere la porta,
Come una raffica d'acqua in viso, mi ha destato il grido degli uomini;
Come un vento burrascoso, mi ha scosso un'amicizia;
Come s'infiltra un raggio di sole, la tua grazia mi ha inquietato
...ed imprudentemente ho lasciato socchiusa la porta.
Signore, ora son perduto!
Fuori gli uomini mi spiavano.
Non sapevo che fossero tanto vicini; in questa casa, in questa via, in quest'ufficio;
il vicino, il collega, l'amico.
Non appena ho socchiuso, li ho visti, con la mano tesa, lo sguardo teso, l'anima tesa che
chiedevano come mendicanti alle porte delle chiese.

I primi sono entrati in casa mia, Signore. Vi era pure un po' di posto nel mio cuore.
Li ho accolti, li avrei curati, li avrei accarezzati, le mie pecorelle, il mio piccolo gregge.
Saresti rimasto contento, Signore, ben servito, ben onorato, con decoro, con finezza.
Fin lì, era ragionevole...
Ma quelli che seguivano, Signore, gli altri uomini, non li avevo veduti; i primi li nascondevano.
Erano più numerosi, erano più miserabili, mi hanno aggredito senza dar l'allarme.
È stato necessario restringersi, fare posto in casa mia.

Ora, son venuti da ogni dove, a ondate successive, che si sospingevano l'un l'altra,
si urtavano.
Son venuti da ogni dove, dalla città tutta, dalla nazione, dal mondo;
innumerabili, inesauribili.
Non son più isolati, ma a gruppi, in catena, legati gli uni agli altri, mescolati, saldati,
come pezzi di umanità.
Non son più soli, ma carichi di pesanti bagagli;
bagagli d'ingiustizia, bagagli di rancore e di odio, bagagli di sofferenza e di peccato...
Trascinano il Mondo alla loro sequela, con tutto il suo materiale arrugginito e contorto,
o troppo nuovo e mal messo, mal impiegato.

Signore, mi fanno male! Sono ingombranti, sono invadenti.
Hanno troppa fame, mi divorano!

Non posso più far nulla; quanto più entrano e tanto più
spingono la porta e tanto più la porta si apre... Ah, Signore! La mia porta è spalancata!
Non ne posso più! E' troppo per me! Non è più una vita!
E la mia situazione?
E la mia famiglia?
E la mia tranquillità?
E la mia libertà?
Ed io?
Ah! Signore, ho perso tutto, non sono più mio;
Non c'e più posto per me a casa mia.

Non temere nulla, dice Dio, hai guadagnato tutto,
perché mentre gli uomini entravano in casa tua,
io tuo Padre,
io, tuo Dio,
mi sono infiltrato tra loro.

accoglienzasolidarietàamoreimpegnoresponsabilitàpovertàricchezza

inserito il 31/12/2005

ESPERIENZA

66. Jacques Fesch: la drammatica storia di un giovane moderno   1

Chi è Jacques Fesch? E' un giovane moderno, che a 24 anni commette un terribile delitto, epilogo di una vita vuota e senza ideali, piena di egoismo e di capricci. Ecco una veloce cronaca del delitto. Il 24 febbraio 1954 Jacques entra al mattino nel negozio di un cambiavalute e ordina un quantitativo d'oro. L'uomo si fida perché sa che alle spalle del giovane c'è un opadre facoltoso che può pagare. Nel pomeriggio dello stesso giorno Jacquaes torna per prelevare l'oro e approfittando di un momento di disattenzione del cambiavalute lo colpisce alla testa con il calcio della pistola del padre. Il cambiavalute reagisce urlando. Jacques fugge e si nasconde in un palazzo vicino fino a che è riconosciuto da un polizziotto accorso sul posto. All'ingiunzione di fermarsi Jacques spara e uccide l'agente di polizia. Intervengono poi altri agenti che lo catturano.

Perché questo delitto assurdo? Jacques voleva aprire una propria attività e chiede un grosso prestito al padre che glielo rifiuta. Sa che il figlio ha le mani bucate! Allora Jacques decide di compiere una rapina: di procurarsi i soldi con l'inganno.

Che cosa accade in carcere? Viene raggiunto dal cappellano ma egli lo rifiuta dicendo: "Io non ho la fede e non ho bisogno di lei!". Passano i giorni, chiuso tra quattro pareti, solo con la sua disperazione. Ma una notte: "Era una sera, nella mia cella... Nonostante tutte le catastrofi che da alcuni mesi si erano abbattute sulla mia testa, io restavo ateo. Ora quella sera, ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita per le conseguenze del mio delitto; ed è allora che un grido mi scaturì dal petto, un appello di soccorso: "Mio Dio, Mio Dio aiutami!". E instantaneamente, come un vento violento, che passa senza che si sappia dove viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola! Ho creduto e non capivo più come avessi fatto prima a non credere. La grazia mi ha visitato e una grande gioia s'è impossessata di me e soprattutto una grande pace". Quella notte Jacques udì una voce che gli diceva: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Una frase per lui incomprensibile, il cui senso capirà più tardi.

Inizia una nuova vita in Cristo. Il cambiamento di questo giovane è qualche cosa di straordinario: è una testimonianza di quanto Dio può operare. "Ora veramente ho la certezza di cominciare a vivere per la prima volta. Ho la pace e ho dato un senso alla mia vita, mentre prima non ero che un uomo morto!". Jacques organizza la vita in prigione come la vita in un monastero: si dà un orario per la preghiera, legge libri religiosi e la Bibbia, scrive lettere per dare conforto ai suoi famigliari, che stanno vivendo una grossa crisi, vuole soprattutto poter vivere per riparare il male fatto.

Arriva il giorno del processo: il 3 aprile 1957 si apre il processo che si conclude con la sua condanna a morte. In quel momento capisce la frase: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Jacques dopo un iniziale smarrimento vive la sentenza e la condanna come una vocazione ad amare fino in fondo la croce di Gesù. Egli desidera prepararsi spiritulamente alla sua morte e desidera salutare da vero cristiano tutti coloro che lo hanno amato e coloro a cui ha fatto del male. Scrive alla moglie e alla sua piccola figlia di 6 anni, si mette in contatto, tramite il suo avvocato anche con la famiglia del gendarme che lui ha ucciso per chiedere il perdono. Nonostante il grande cambiamento di vita che stupisce lo stesso presidente della Repubblica a cui era stata inoltrata la domanda di grazia, la sentenza viene confermata per il 30 settembre.

Le ultime ore: l'attesa dell'incontro con Gesù. "Ancora soltanto qualche ora di lotta, prima di conoscere Colui che è l'Amore. Oggi sarò in cielo. Cara mamma, innanzi tutto ti devo dire un grosso grazie per tutto l'amore di cui mi hai circondato in questi ultimi mesi... Tu sai che Gesù ha detto nel suo vangelo: Ero carcerato e siete venuti a visitarmi. Con queste righe io ti affido la mia bambina e mia moglie. Proteggile assiduamente. Amale in Dio e sii certa che di lassù io vi proteggerò e veglierò su di voi...". Alle 5,30 del mattino del 30 settembre le guardie carcerarie che sono veute a prenderlo per l'esecuzione capitale, lo trovano in ginocchio e in preghiera accanto al letto rifatto. Si confessa e riceve l'Eucarestia. Abbraccia il crocefisso e si avvia verso la ghigliottina... Le ultime sue parole: "Signore non abbandonarmi, io confido in te!".

confessioneconversionecambiare vitapeccatomisericordia di Dio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 13/12/2005

TESTO

67. A te che soffri   2

A te che in questo momento stai soffrendo: ti chiedo di essere forte, di scoprire la luce che brilla nella tua anima. Sentiti avvolto dalla mia grazia che mai ti abbandona, il mio sguardo è su di te e ti amo infinitamente. Dalla croce pesante del tuo dolore grida il tuo amore verso di me, non perderti d'animo, colora la tua esistenza con i pastelli più incisivi, sappi scoprire la bellezza di essere un vero prodigio e non temere mai nulla, Io ti sono sempre vicino, ti sostengo e guido i tuoi passi dovunque tu andrai... a volte comprendo che ti senti solo e perso tra le mura di un ospedale o della tua casa, ma sappi che io sono seduto accanto a te, ti sussurro all'orecchio dolci parole, ti parlo come ad un amico, a un fratello, a un bimbo... sei una persona splendida per me e mai ti dimenticherò... sei nel mio cuore, ricco di amore e di tenerezza, a volte pensi che sia io a farti soffrire ma come potrei? ti ho fatto di poco inferiore agli angeli, di gloria e di onore ti ho coronato, come potrei farti tutto questo e come mi potrei dimenticare di te?

Figlio mio carissimo, da tempo ho fissato i miei occhi su di te, sei amabile e ricco di tenerezza, soffro con te e per te, vivo con te il dolore che ti consuma e ti stringe dentro l'anima, ma tu sii forte, sii tenace nella tua impresa e a tutti devi saper donare un sorriso, anche quando ti costa... vedo anche come vivi la terapia, il disagio per le tante prestazioni che devi subire, ma abbandonati a me e non temere mai nulla, come un bimbo stretto tra le braccia della sua tenerissima madre, tale sei tu, stretto nell'abbraccio del mio amore e mai ti abbandonerò, perché so che tu mi sai ascoltare, mi sai amare...figlio mio tenerissimo, ho un amore speciale per te, credimi, come la pupilla dei miei occhi, così voglio proteggerti e stringerti a me...

Consegnami il tuo cuore, la tua anima, la tua persona e lasciati abitare dalla mia grazia, solo così potrai essere la mia dimora, abiterò in te e farò di te un raggio della mia presenza..

Grazie di quanto ogni giorno mi regali, grazie di ogni sorriso nella sofferenza e grazie perché nonostante tanto dolore, sai guardare a me con grande amore e speranza...

Tuo Padre Dio

sofferenzaabbandono in Diodolorecroce

inviato da Don Gianni Mattia, inserito il 08/12/2005

PREGHIERA

68. Chiamati a volare

Giuliana Martirani

Parla all'io cuore, Signore.
"Ti sto parlando. Ma perché hai paura?
Eppure non avevi paura di incontrare illustri sconosciuti
che potevano portarti a sfiorare i pantani della vita!
E hai paura di me, l'unico che hai conosciuto meglio di tutti?
Mi hai conosciuto. Non è forse vero?
Puoi forse dire che conosci i pensieri, i sogni e i palpiti di qualcun altro, come conosci i miei?
Sono tanti anni che li racconto personalmente a te.
Quali sogni conosci meglio dei miei?
Ti ho conosciuto, chi ti conosce meglio di me?
Forse qualcuno ha saputo intravedere i tuoi talenti anche quando non si vedevano,
soffocati com'erano da mille croste?
Forse qualcuno ha puntato su di te come ho fatto io, con determinazione e sicurezza?
Io sapevo di te quando tu neanche ti supponevi.
E allora, se io conosco così bene te e tu così bene me, perché hai paura?
Sono forse un fantasma?
Ti ha fatto compagnia un fantasma durante le notti di paura e solitudine?
E' forse un fantasma quello che, con le mani della provvidenza, ti ha mandato cibo, casa e vestiti per te e i tuoi figli?
Tu dici: - Può essere fantasia, autosuggestione tutto ciò?
E se fosse tutto una follia? -
Io ti rispondo: E' forse una follia andare insieme sul monte della felicità,
o era una follia affidarsi ciecamente a gente più cieca di te?
E' forse una follia la dimensione dello spirito sulla quale voglio farti volare,
o non è forse più follia restare terra terra quando invece il Padre nostro
ci ha fatto giganti spirituali con ali per volare?
Non aver paura, non è una follia. Solo resta tranquillo, seguimi, attaccati alle mie ali
e comincia a volare con me.
Quando ti vedrò sicuro nel volo, solo allora ti lascerò volare da solo!
Ma dovrai volare da solo, perché non posso fare la balia per sempre.
Devi diventare adulto e aiutarmi perché è per diffondere l'amore
che mi sono fatto conoscere da te, è per essere amato e per far conoscere agli altri,
attraverso il rapporto d'amore mio e tuo, che l'amore di Dio è una seria e concreta.
Perché vedano e, vedendo, ne abbiano voglia anche loro.
Per questo mi sono fatto conoscere da te".

rapporto con Dioconversioneevangelizzazionetestimonianzamissionecrescitainteriorità

inviato da Leo, inserito il 10/10/2005

TESTO

69. Un decalogo per il papà   4

Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano, marzo 2005

1°. Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull'amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori "per dovere". E l'educazione è sempre un "gioco di squadra". Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un'intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in "cambio", il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po' di spazio per sé.

2°. Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa "voi siete il primo interesse della mia vita". Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l'assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l'aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E' anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.

3°. Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa', alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo "coscienza" ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.

4°. Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto "no", che è il modo migliore per comunicare: "ho cura di te".

5°. Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l'ascolto, l'accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: "Qualunque cosa capiti, sono qui per te!". Di qui nasce nei figli quell'atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.

6°. Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l'isola accogliente per i "naufraghi della giornata". E' fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d'incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell'affetto. Nel passato il padre era il portatore dei "valori", e per trasmettere i valori ai figli basta imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?

7°. Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo " di fuori". Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l'attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.

8°. Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: "Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand'ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L'amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni... Mi ha tolto l'affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo".

9°. Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati, trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.

10°. Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l'immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un'impronta indelebile.

papàpadregenitorifamigliafiglieducazioneeducare

inviato da Gianni Andrea Granzotto, inserito il 29/09/2005

TESTO

70. La lacrima di Dio

Mons. Antonio Riboldi

Deve essere stato per un'impazienza non più sopportabile che un giorno Dio Padre, fissando lo sguardo sugli uomini che si erano fatti curvi per la schiavitù, con dentro il cuore la siccità disperata del deserto, proprio come orfani destinati a non conoscere amore, disse dentro di Sé: "Basta!".

Con braccio potente raccolse tutte le stelle piccole e grandi che sono nel firmamento e con esse scrisse queste parole agli uomini: "VI AMO!" a lettere così grandi che occuparono tutto il cielo e tutti gli uomini le potessero leggere: tutti, proprio tutti...

Per la grande pietà o per il grande amore che gli riempivano il cuore, nello scrivere "Vi amo" cadde dagli occhi di Dio una lacrima che scivolò sulle stelle bagnandole tutte e facendole splendere di più e dalle stelle la lacrima andò a posarsi su una mangiatoia a Betlemme e si chiamò quel giorno Natale di Gesù, Figlio di Dio, nato da Maria Vergine.

Quella lacrima schizzò sugli occhi spenti degli uomini e questi finalmente guardarono in su e lessero: "VI AMO". Scoppiò una gran gioia e si cantò pace nel cuore di tanti. Ancora oggi gli uomini sono stanchi, soli ed aridi fino ad uno smarrimento ed un'angoscia che avvolge tutta di una coltre di tristezza che nasconde tanto il cielo da disperare che esista ancora.

Ma a Natale, ogni Natale, le stelle obbedienti si allineano per riscrivere: "VI AMO".

E torna a piovere sulla terra una lacrima di tenerezza del Padre: una lacrima che cerca ancora gli occhi spenti degli uomini per posarsi in loro come in "nuova mangiatoia di Gesù", perché il mondo sia un irrefrenabile scroscio di sorrisi.

Io a Natale apro gli occhi in su perché voglio riempirmi gli occhi di quella lacrima e piangendo di gioia come Maria.

Prego: «Guarda, Signore, me e tutti i miei amici che sono la più grande cesta, la stupenda immensa cesta, che porto sulle spalle: esaudisci, Signore, ridònati a noi perché ne abbiamo bene: senza di Te, stiamo male, ma tanto male.

Insegnaci a cercarti e tu mostrati quando ti cerchiamo.

Che ti cerchiamo, Signore, desiderandoti e ti desideriamo cercandoti. Che ti troviamo amandoti e ti amiamo trovandoti (S. Anselmo)».

nataleamore di Dio

inviato da Don Fabio Fioraso, inserito il 07/01/2005

ESPERIENZA

71. Il Sacerdote

Chi è che ci prepara l'Eucaristia e ci dona Gesù?
E' il Sacerdote.
Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebberero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli.

E chi è il Sacerdote?
E' l'"Uomo di Dio". Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima ("Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio": Eb 5,4), lo separa da tutti gli altri ("segregato per il Vangelo": Rm 1,1), lo segna con un carattere sacro che durerà in eternamente ("Sacerdote in eterno": Eb 5,6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote "scelto fra gli uomini è costituito a prò degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1-2).

Vergine, povero, crocifisso
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell'anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l'intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. E' per questa conformità a Gesù che egli è "Ministro di Cristo fra genti" (Rm 15, 16), guida e maestro delle anime (Mt 28, 20).
Lo Spirito Santo configura l'anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che "il Sacerdote all'altare opera nella stessa Persona di Gesù" (S. Cipriano), ed "è il padrone di tutto Dio" (S. Giovanni Crisostomo).

Rispetto e venerazione
Sappiamo che S. Francesco d'Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi "Signori", poiché in essi vedeva solamente "il Figlio di Dio"; in particolare venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote.
Il S. Curato d'Ars diceva: "Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?".
Sappiamo, del resto, che l'atto di venerazione di baciare le mani del Sacerdote è stato premiato da Dio con veri miracoli. Nella vita di S.Ambrogio, si legge che un giorno, appena celebrata la S. Messa, il Santo fu avvicinato da una donna paralitica che volle baciargli le mani. La poveretta riponeva grande fede in quelle mani che avevano consacrato l'Eucaristia: e fu guarita all'istante. Lo stesso, a Benevento, una donna paralitica da quindici anni, chiese al Papa Leone IX di poter bere l'acqua da lui adoperata durante la S. Messa per l'abluzione delle dita. Il Santo Papa accontentò l'inferma in questa richiesta umile come quella della Cananea che chiese a Gesù "le briciole che cadono dalla mensa dei padroni" (Mt 15, 27). E fu subito guarita anche lei.
"Se io incontrassi - diceva il S. Curato d'Ars - un Sacerdote e un Angelo, saluterei prima il Sacerdote, poi l'Angelo... Se non ci fosse il Sacerdote, a nulla gioverebbe la Passione e la Morte di Gesù... A che servirebbe uno scrigno ricolmo d'oro, quando non vi fosse chi lo apre? Il Sacerdote ha le chiavi dei tesori celesti..."
Ma questa sublimità di grandezza comporta responsabilità enormi che pesano sulla povera umanità del Sacerdote; umanità in tutto identica a quella di ogni altro uomo. "Il Sacerdote - diceva S. Bernardo - per natura è come tutti gli altri uomini, per dignità è superiore a qualsiasi altro uomo della terra, per condotta deve essere emulo degli Angeli".
Per questo Padre Pio diceva: "Il Sacerdote o è un santo o è un demonio". O santifica, o rovina. San Giovanni Bosco diceva che "un prete o in paradiso o in inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero o col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio".
Veneriamo il Sacerdote e siamogli grati perché ci dona Gesù; ma soprattutto preghiemo per la sua altissima missione, che è la missione stessa di Gesù: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Missione divina che fa girar la testa e impazzire di amore, a rifletterci fino in fondo. Il Sacerdote è assimilato al Figlio di Dio, e il Santo Curato d'Ars diceva che "solo in cielo misurerà tutta la sua grandezza. Se già sulla terra lo intendesse, morrebbe non di spavento, ma di amore... Dopo Dio, il Sacerdote è tutto".

sacerdotesacerdozioprete

inviato da Anna Lollo, inserito il 07/01/2005

ESPERIENZA

72. Dalla droga alla consacrazione

Orizzonti news 10/2003

Per ventidue anni ho vissuto nell'inferno della droga, della solitudine, della malattia, della morte... Mio padre è morto quando avevo cinque anni, mia madre faceva la prostituta, due fratelli più grandi si bucavano, così io a tredici anni ho cominciato a bucarmi, a quattordici anni mi hanno detto che ero sieropositivo... un trauma!

Le cose sono andate sempre peggio. In carcere ho dovuto crescere in fretta, per difendermi dai grandi, e si è creata in me una grande rabbia, cattiveria. Qualche anno dopo mia madre è morta ed io sono rimasto solo, dopo tre anni muore anche mio fratello di AIDS... allora sono crollato, mi sono lasciato andare definitivamente alla droga ed a tutto ciò che mi addormentava il cervello. Sono andato avanti così per anni, senza capire che senso avesse per me vivere; ho incominciato a stare male fisicamente, a vedere tanti amici morire per overdose, per malattia, ad essere sempre più solo e ad odiare tutti. Per schivare il carcere sono entrato in una comunità, ci sono rimasto per sedici mesi, ma non è cambiato nulla, come sono uscito sono ricaduto subito, ho riprovato qualche anno dopo presso un'altra struttura, ma ci sono rimasto ancora meno, solo quattro mesi, e così mi sono arreso.

Nel 2000 sono stato ricoverato in ospedale per una polmonite, ho subito un piccolo intervento per introdurre una vena artificiale, e per uno sbaglio ho contratto un'epatite Delta fulminante. Dopo una settimana, appena uscito dal coma, mi sono trovato di fronte un prete, che mi ha dato l'estrema unzione; non potevo muovermi, e sono scoppiato a piangere, cosa che credevo di non saper più fare... Avrei dovuto capire tante cose, in quel momento, invece sono ritornato subito al mio "mondo".

Due anni fa la mia compagna, con cui vivevo da diversi anni, anche lei tossicodipendente sieropositiva, si è suicidata. Non ho mai desiderato morire come in quei giorni.

E' allora che qualcuno mi ha parlato di Nuovi Orizzonti, ma non ne volevo sapere, poi per fare un favore a qualcuno ci sono entrato; non è stato facile, ma non posso dimenticarmi l'amore che mi ha dato Lolli (Loredana, che insieme a Giulio e la figlioletta Miriam sono ora in Brasile, ndr), tutto ciò che mi ha insegnato, poi Alessandra, che non si è mai arresa, ed è riuscita a farmi abbandonare a Dio ed a far sì che Lui potesse cambiarmi.

Ora, nonostante tutti i problemi che ho, mi sento felice, vivo, amato; questa casa la sento la mia famiglia, ho deciso di fare le promesse di consacrazione, perché sento di voler donare questa mia vita a tutte le persone che soffrono come ho sofferto io e non sanno che c'è Qualcuno che ci ama infinitamente.

Non so perché mi mette nel cuore tutte queste cose, ma voglio testimoniarle a tutti.

Grazie!

sofferenzadrogasperanzavita nuova

inviato da Alfonso Gargano, inserito il 05/10/2004

TESTO

73. Dolcezza senza spine

Ai tiepidi raggi del sole pomeridiano trionfavano per tutto il bosco i colori dell'autunno e Mirella, una giovanissima castagna ancora ben chiusa nel suo riccio, se li godeva compiaciuta, dondolandosi con sicurezza in cima al ramo più alto del Castagno Valerio.

«Che vista fantastica!», pensava tra sé, contemplando le pendici del monte e l'intera vallata baciata dal sole autunnale; «Un panorama meraviglioso, davvero meraviglioso...», sussurrava estasiata.

- Mai quanto te! - mormorò una voce suadente che proveniva dal basso; Mirella si chinò per vedere chi avesse parlato e scorse la Vespa Rachele, che con il suo inconfondibile ronzio le fu rapidamente accanto.

- Guarda che spine, che magnifiche spine! Mai visto un riccio come il tuo! Spine aguzze come punte di lancia, affilate come spade, fitte come un esercito schierato a battaglia! Altro che il mio pungiglione! La tua sì che è una bella difesa, una vera corazza! Abbine sempre cura e tientela cara: sia questo il tuo tesoro e il tuo vanto! - e con la stessa fulminea rapidità con cui era comparsa, sfrecciò via ronzando.

Mirella rimase un po' perplessa: da quando era nata non aveva fatto altro che guardarsi attorno, ammirando una dopo l'altra le infinite meraviglie di cui di giorno in giorno si scopriva circondata. Non aveva mai badato al suo riccio, né si preoccupava di come fossero le sue spine. Ora però, lusingata dai complimenti di Rachele, cominciò a farci caso e nel giro di breve tempo si convinse di essere effettivamente una gran bella castagna, anzi, forse proprio la più bella tra tutte quelle che Valerio poteva contare sui suoi rami.

«Non a caso abito sui ramo più alto e ricevo per prima il bacio del sole!» - ripeteva tra sé - «Perfino le foglie, per farmi spazio; si stanno ritirando una alla volta, volando via silenziose... certo per permettere a tutti di ammirare meglio me!», concludeva convinta.

- Attenta, figlia mia! - la riprese un giorno babbo Valerio - Bada bene di non montare in superbia! Non sei nata per essere ammirata, ma per...

- Ci mancavano solo le prediche del vecchio padre! - lo interruppe brontolando Mirella - Sei proprio incontentabile, papà! Anziché andare orgoglioso di una figlia così bella, ti metti a fare critiche e osservazioni!

Babbo Valerio rimase in silenzio; «Capirà a sue spese quello che non vuole ascoltare da me», pensò addolorato, e con un profondo sospiro rivolse lo sguardo al cielo: fosche nubi si stavano addensando e già oscuravano le cime dei monti vicini. Raffiche di vento gelido si abbatterono ben presto sul bosco, che per tutta la notte fu flagellato da un violento temporale.

Il mattino seguente, Mirella si svegliò contusa e indolenzita. «Dove sono?», si chiese stupefatta guardandosi attorno: si trovava infatti malamente adagiata tra vecchie foglie fradice di pioggia, in mezzo ad una vasta pozzanghera che lambiva le radici del Castagno Valerio.

- Benvenuta tra noi, Mirella! - le disse amichevolmente il Fungo Tebaldo, un porcino grassoccio dall'aria assai cordiale, circondato da una nidiata di figlioletti di varia statura. - Dopo aver sperimentato l'ebbrezza dei rami più alti, era conoscerai anche gli amici della terra!

Mirella si guardò intorno con aria schifiltosa: non era per niente contenta di trovarsi tutta inzaccherata in mezzo al fango e soprattutto temeva per la salute e la bellezza del suo riccio. Senza curarsi di rispondere al fungo Tebaldo si specchiò preoccupata nell'acqua melmosa della pozzanghera. «Ahimè!» - esclamò rabbrividendo - «Cosa mi è successo?». Una profonda ferita aveva spaccato la buccia verdastra del suo amato riccio, lasciando intravedere il guscio d'un bel marrone lucido.

- Niente di grave, piccola! - cercò di rassicurarla il Lombrico Gustavo - È assolutamente normale che una castagna prima o poi esca dal riccio! Non vorrai per caso startene rinchiusa lì dentro per sempre?

- Viscido e molle come sei, ti conviene startene alla larga senza ironizzare sulle mie sventure - ribatté con asprezza Mirella - Altrimenti assaggerai le mie spine e ti passerà la voglia di fare lo spiritoso!

- Via, via. Gustavo non intendeva offenderti - soggiunse la Lumaca Giannina - ma solo tranquillizzarti. E poi, permettimi di dirti con tutta franchezza che saresti molto più bella senza quell'enorme casco spinoso.

- Vuoi dire che quaggiù non vanno di moda le spine? - chiese con interesse Mirella.

- Assolutamente no! Apprezziamo molto di più tutto ciò che è morbido e tenero - intervenne gentilmente Luciana, la moglie del Fungo Tebaldo - e se vuoi un consiglio schiettamente femminile il colore del tuo guscio è così lucido e bello che ci guadagneresti soltanto a metterlo in mostra anziché tenerlo nascosto!

Mirella si lasciò persuadere e pian piano uscì spontaneamente dal riccio, abbandonandolo per sempre. Nel giro di pochi giorni fece amicizia con tutti gli abitanti del Sottobosco ed era certa che la simpatia che le dimostravano fosse dovuta in massima parte alla splendente lucentezza del suo guscio, di cui era assai fiera. Un mattino, però, quando il sole era da poco spuntato e i suoi raggi cominciavano a filtrare tra i rami degli alberi, il silenzio del bosco fu rotto da un insolito calpestio e dal vociare confuso di un gruppo di ragazzi. Erano degli scout e portavano in spalla pesanti zaini, tra le mani invece sporte e cestini. Avanzavano allegramente, cantando e fischiettando e in breve furono nei pressi del Castagno Valerio.

- Alt! Fermi tutti! - gridò il capo scout, poi si curvò ed esclamò compiaciuto: - Che meraviglia, ragazzi! Venite a vedere!

Mirella pensò subito che si trattasse di lei, dell'eccezionale splendore del suo guscio castano, e cominciò a gongolare, immaginandosi già di essere portata a valle ed esposta nella vetrina di qualche prestigiosa boutique di città. «Speriamo che si tratti di una gioielleria...», fantasticava tra sé, ma i suoi sogni di gloria furono drasticamente interrotti quando si accorse che tutti gli scout non si stavano minimamente curando né di lei né del suo guscio, ma unicamente del Fungo Tebaldo.

- È un porcino! - dichiarò con sicurezza il capo e dopo averlo colto delicatamente lo mostrò a tutti i ragazzi, che si affollarono intorno a lui per guardarlo da vicino.

- Avanti, ora! Continuiamo la raccolta! - E subito gli scout si sparpagliarono tra gli alberi facendo a gara a chi raccoglieva più castagne: fu così che anche Mirella finì senza tanti complimenti dentro un canestro di vimini insieme a numerose compagne.

Quella sera, mentre il falò rischiarava coi suoi bagliori la radura dove si erano accampati gli scout, Mirella domandò preoccupata: - Che ne sarà di noi, amiche mie?

- Saremo finalmente liberate! - rispose con gioia Donatella, l'anziana del gruppo.

- Liberate? E da che? Vuoi forse dire che ci lasceranno andare?

- Ma no! Ciascuna di noi sarà finalmente liberata da questo odioso guscio che ci tiene prigioniere impedendoci di essere veramente noi stesse!

- Ma io non mi sento affatto prigioniera! - esclamò inorridita Mirella - E poi non ho nessuna intenzione di perdere il mio guscio: è così bello! Non sono affatto disposta a lasciarlo!

Mentre ancora stava parlando, una ruvida mano raccolse dal canestro una manciata di castagne, tra cui anche lei, e dopo aver aperto un coltellino a serramanico cominciò ad inciderle ad una ad una.

- Ahi! - strillò disperata la povera Mirella, mentre una profonda ferita solcava irrimediabilmente il suo amato guscio. «Sono perduta...» pensava tristemente - «E il peggio è che le mie compagne non mi capiscono! Ci fosse almeno papà Valerio o il Fungo Tebaldo a consolarmi... e invece mi sento così sola».

In quel momento, però, a piangere di malinconia sulla propria solitudine non era solo Mirella: anche Martino, un lupetto di otto anni alle prese con la sua prima uscita di branco, non aveva nessuna voglia di cantare con i compagni seduti attorno al falò e pensava con tanta nostalgia alla sua mamma. Guardava fisso a terra e non alzò gli occhi nemmeno quando si levò un coro di applausi e di gioiose esclamazioni: una padella forata era stata posta sul fuoco con la prima razione di castagne, e tra queste c'era anche Mirella. Alla vista del fuoco e delle scintille, la poveretta rabbrividì di terrore, dicendo per sempre addio al suo caro guscio che nel giro di breve tempo rimase secco e mezzo carbonizzato.

- Coraggio, Martino! - disse amorevolmente Silvana, una dei capi, vedendo la tristezza del suo lupetto e prendendolo in braccio.
- Voglio la mia mamma... singhiozzò lui imbronciato.

- La mamma è contentissima che tu sia qui, Martino! E domani sera, quando la rivedrai, avrai molte cose belle da raccontarle. Per esempio, adesso c'è una sorpresa che ti aspetta.
- Che cos'è? chiese incuriosito Martino.

- Si chiamano caldarroste e sono proprio le castagne che abbiamo raccolto insieme stamattina. Prova ad assaggiarne una!

Il bimbo stese la mano e la prima che gli capitò fu proprio Mirella, che aveva sentito tutto ed era piena di compassione per il povero lupetto. «Come vorrei consolarlo! So benissimo anch'io cosa vuol dire sentirsi soli e tristi!». Così pensando non si accorse nemmeno che Silvana le aveva completamente spaccato e tolto il guscio: non rimaneva altro che la polpa, calda, dorata e fragrante.

- Assaggia, Martino! Sentirai com'è dolce e tenera! Ti piacerà molto più delle palatine e dei pop-corn che ti dà la mamma quando guardi i cartoni animati alla televisione!

Martino non si fece pregare: era la prima castagna che assaporava e gli parve così dolce e gustosa che dimenticò in un baleno tutte le sue malinconie.

- Che buona! - esclamò sorridendo, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. Poi, con gli occhi che scintillavano di gioia al riverbero del falò, si mise a cantare all'unisono con gli altri ragazzi.

E Mirella? Si era ormai completamente dissolta, ma aveva l'impressione che le si fosse sciolto anche quel carico di tristezza che la opprimeva. «Avevi ragione, papà Valerio!» - pensò. - «Non sono nata per essere ammirata, ma... per lasciarmi mangiare!».

E per la prima volta nella sua vita si sentì felice. Veramente felice.

Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29)

consegnarsidono di séamoresacrificio

inviato da Don Silvano Zanella, inserito il 05/10/2004

TESTO

74. Fervore natalizio   1

Melinda Tamàs-Tarr, Osservatorio Letterario, Ferrara e l'Altrove

Le melodie delle voci angeliche
risuonan ancora nel mio cuore
come un dolce accordo finale
a mezzanotte della masse di Natale.
Nel mio povero animo festoso
nasce un inspiegabile sentimento
come se fosse un sussurro del Cielo
per gridar fortemente al Mondo intero:
«È nato il piccolo Bambino Santo
il Salvatore nostro: Gesù Cristo...»

Come da piccola, anche adesso
L'aspetto con gran raccoglimento
calcolando le ore ed ogni minuto
che mi separano dal grande evento.
In tutti gli anni nel periodo d'Avvento
i miei genitori raccontavan col mistero
la storia della nascita di Gesù Bambino
che venne al nostro mondo cattivo
a liberarci e portarci un giorno
dal Buon Padre Eterno nel Suo Impero...
Alla notte della Vigilia in ogni anno
festeggiamo il Suo compleanno
con lo stesso spirito dei Re Magi
ed anche noi riceviamo alcuni doni.
Quando si sente il melodico tintinnio
s'entra nella stanza in cui splende l'albero
ch'è pieno di luci e tante decorazioni,
sotto c'è il Presepe con i nostri regali.

Che magia si sente nel nostro animo
davanti a questo splendido albero
ed i nostri occhi si fermano sul viso
dell'unico festeggiato: Bambin Divino...
Tutto questo è un bel mondo fatato:
s'ha paura anche a prender un respiro
per non rompere quest'incantesimo
che ha assediato il nostro spirito,
si ha l'impressione del Gran Paradiso
d'esser circondati d'un coro angelico...

È arrivato il momento della preghiera
poi recitare una sacra canzoncina
in cui lodiamo il piccolo Bimbo Santo...
«È arrivata finalmente l'aspettata notte,
ed in alto splendono le luci delle stelle,
l'albero del nostro Gesù bambino
l'hanno portato gli Angeli del Cielo.
Ti ringraziamo Bambino di Betlemme
per il grand'amore del Tuo Cuore
e con il coro d'Angeli del Cielo
il Tuo Santo Nome oggi lodiamo.
Anche se passerà questo natale
Resta sempre con noi, per favore,
Ti ringraziamo d'amare ancora
questa nostra piccola famiglia!...»

II^ classificata al Concorso «Natale a Vada 1995» dell'Accademia Italiana «Gli Etruschi», 1995. Dalla p. 233 dell'Antologia «La gatta sul divano», Edizione Lisi, 1996. e dall'Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove.

natale

4.0/5 (1 voto)

inviato da Melinda TamàS-Tarr, inserito il 27/07/2004

ESPERIENZA

75. Il mio cammino con Gesù crocifisso e abbandonato

E.l.

E' iniziato così il mio cammino con Gesù Crocifisso e abbandonato.

Ero seduta di fronte al mio neurologo che con il volto preoccupato leggeva i risultati degli accertamenti da me eseguiti perché da tempo avevo dei proplemi alla vista e alle articolazioni, tanto da non riuscire a camminare bene. Mi aveva accompagnato una mia carissima amica.

Il neurologo mi guardava e comincia a parlare con termini medici a me poco chiari. Allora lo interrompo e gli dico: "Senti, parlami chiaramente, non ho problemi ad accettare qualunque sia la diagnosi". Mi guarda ancora quasi impacciato e mi dice: "Purtroppo è una forma di sclerosi multipla".

La mia amica rimane quasi senza respiro, io non faccio certo salti di gioia, ma in quel momento guardo un piccolo crocifisso posto nel muro dietro la scrivania del dottore. Non ascolto più le sue parole, il mio dialogo è con Gesù crocifisso e abbandonato che in quel momento mi chiama a condividere con Lui la croce della sofferenza, come il Cireno che sulla strada del Calvario prende la croce di Gesù.

Quella sera non dissi niente a mia figlia e mio marito, ma ho preso il Vangelo e leggo il discorso della montagna che Gesù fa alla folla e dice: "...beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli operatori di pace, beati i poveri di spirito perché di loro sarà il regno de cieli...". Con quete parole ho messo nelle mani di Gesù le mie preoccupazioni, la mia sofferenza e la croce è diventata "un giogo leggero e soave" perché Gesù dice ancora: "venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò".

Questo dialogo con Gesù scaturisce dalla preghiera e meditazione della sua Parola, mi aiuta a liberare lo spirito da ogni cosa che mi impedisce di entrare in comunione con il Padre sempre pronto ad ascoltarci e risollevarci. L'apostolo Luca nella prima domenica di avvento ci dice "vegliate e pregate, alzate il capo non lasciatevi appessantire dagli eventi della vita". Ma gettiamo ogni preoccupazione nelle mani di Dio ed egli ci soleverà. Solo così si può accogliere Gesù che per amore nostro nasce nella povertà e umiltà, Dio mi ama e ci ama di un amore infinito, sono felice di averlo incontrato, in modo particolare, in questo momento di prova.

Ogni giorno offro a Lui la mia malattia, la mia sofferenza per tutti gli ammalati, chi si sente solo, i giovani, affinché possiamo riscoprire la tenerezza dell'amore di un Padre che non ci abbandona mai.

doloresofferenzacrocesacrificio

inviato da E.l., inserito il 22/12/2003

RACCONTO

76. La benedizione   1

Bruno Ferrero, Solo il vento lo sa

Nella comunità dell'Arca dove aveva deciso di vivere, dopo una vita passata nel mondo universitario, un giorno il celebre padre Henri Nouwen fu avvicinato da una handicappata della comunità che gli disse: "Henri, mi puoi benedire?". Padre Nouwen rispose alla richiesta in maniera automatica, tracciando con il pollice il segno della croce sulla fronte della ragazza.

Invece di essere grata, lei protestò con veemenza: "No, questa non funziona. Voglio una vera benedizione!". Padre Nouwen si accorse di aver risposto in modo abitudinario e formalistico e disse: "Oh, scusami... ti darò una vera benedizione quando saremo tutti insieme per la funzione".

Dopo la funzione, quando circa una trentina di persone erano sedute in cerchio sul pavimento, padre Nouwen disse: "Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale. Lei sente di averne bisogno adesso".

La ragazza si alzò e andò verso il sacerdote, che indossava un lungo abito bianco con ampie maniche che coprivano sia le mani che le braccia. Spontaneamente Janet lo abbracciò e pose la testa contro il suo petto. Senza pensarci, padre Nouwen la avvolse con le sue maniche al punto di farla quasi sparire tra le pieghe del suo abito.

Mentre si tenevano l'un l'altra padre Nouwen disse: "Janet, voglio che tu sappia che sei l'Amata Figlia di Dio. Sei preziosa agli occhi di Dio. Il tuo bel sorriso, la tua gentilezza verso gli altri della comunità e tutte le cose buone che fai, ci mostrano che bella creatura tu sei. So che in questi giorni ti senti un po' giù e che c'è della tristezza nel tuo cuore, ma voglio ricordarti chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amata da Dio e da tutte le persone che sono qui con te". Janet alzò la testa e lo guardò; il suo largo sorriso dimostrò che aveva veramente sentito e ricevuto la benedizione.

Quando Janet tornò al suo posto, tutti gli altri handicappati vollero ricevere la benedizione. Anche uno degli assistenti, un giovane di ventiquattro anni, alzò la mano e disse: "E io?". "Certo", rispose padre Nouwen. "Vieni".

Lo abbracciò e disse: "John, è cosi bello che tu sia qui. Tu sei l'Amato Figlio di Dio. La tua presenza è una gioia per tutti noi. Quando le cose sono difficili e la vita è pesante, ricordati sempre che tu sei Amato di un amore infinito". Il giovane lo guardò con le lacrime agli occhi e disse: "Grazie, grazie molte".

La sensazione di essere maledetti spesso colpisce più facilmente che la sensazione di essere benedetti. Dobbiamo riscoprire il senso e la bellezza della benedizione. E quando le cose sono difficili e la vita è pesante ricordati chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amato da Dio e da tutte le persone che sono con te.

amorebenedizionerapporto con Dio

inviato da Maurizio Seghieri, inserito il 16/12/2003

TESTO

77. Nuovi schiavi del mondo

Desmond Tutu, traduzione Guiomar Parada

Oggi la maggior parte del Terzo Mondo è tenuta in ostaggio da una schiavitù altrettanto orribile, nelle sue conseguenze devastanti, di quella del passato. La maggior parte del Terzo Mondo è stremato sotto il peso del più invalidante e stremante debito internazionale. Le statistiche sono impressionanti: in Etiopia 100.000 bambini muoiono ogni anno di malattie facili da prevenire, mentre il governo spende per ripagare il debito quattro volte quello che spende per la spesa sanitaria.

Spesso ci è difficile capire le statistiche e gli giriamo le spalle. E' tutto così impersonale. Proviamo a personalizzarlo un poco. Immaginate il vostro piccolo, non vaccinato contro il morbillo o la difterite, che lentamente si spegne davanti ai vostri occhi senza che voi possiate fare alcunché, perché non ci sono medicinali a disposizione.

I paesi poveri sono costretti alla povertà, all'ignoranza, alla malattia, alla fame e alla morte. Le risorse che dovrebbero essere impegnate per costruire strade e dighe, per le scuole e per pagare i maestri, per comperare libri e per l'assistenza sanitaria, sono deviate, con conseguenze disastrose, per ripagare debiti che non diminuiscono, ma anzi aumentano per via dei crescenti tassi d'interesse e della svalutazione delle valute di questi paesi poveri. Anche se economicamente fosse una cosa logica, e non lo è, certamente non è logico dal punto di vista morale.

I paesi poveri non sono in grado di spezzare le catene che li hanno schiavizzati in maniera così rovinosa. Noi che seguiamo il Falegname di Nazareth sappiamo che quando si dà da mangiare agli affamati e da vestire ai poveri, lo si fa per Lui ed Egli ci ha esortato a perdonare i nostri debitori per essere perdonati dal nostro Padre in cielo. Ma più chiaramente siamo vincolati dalla lezione del Capitolo 25 del Levitico, che decreta che ogni 50 anni gli schiavi siano messi in libertà, che i debiti siano cancellati e che la proprietà ipotecata ritorni ai proprietari legittimi senza vincoli, per dare una opportunità alle persone di ricominciare da capo, di iniziare nuovamente, nello spirito della nostra fede che è la fede di sempre nuovi inizi quando si è perdonati. Le cancellazioni del debito si sono già verificate nel passato; nei confronti della Germania dopo la guerra, e gli Usa hanno cancellato 7 miliardi di dollari all'Egitto a seguito dell'operazione Desert Storm.

I paesi poveri, sollevati dal vincolo del debito, potrebbero sviluppare economie robuste che potrebbero diventare anche vigorosi mercati di consumo. Siamo fatti per essere uniti. In Africa diciamo che "una persona è una persona attraverso altre persone". Siamo legati da una delicata rete di interdipendenza. Crediamo nell'ubuntu, la mia umanità è dentro alla tua umanità. Ubuntu parla di generosità, di compassione, di ospitalità, di condivisione. Io sono perché voi siete. Se io vi disumanizzo, allora, che lo voglia o no, mi disumanizzo anch'io. Liberare il Terzo Mondo da questa nuova forma di schiavitù vi permetterà di rendere migliore la vostra propria umanità e camminerete a testa alta, anche voi liberati.

(l'autore è premio Nobel per la pace)

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inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003

PREGHIERA

78. Preghiera per la pace

Carlo Maria Martini

O Dio nostro Padre, ricco di amore e di misericordia, noi vogliamo pregarti con fede per la pace, addolorati e umiliati come siamo a causa degli episodi di violenza che hanno insanguinato e insanguinano Gerusalemme, città il cui nome evoca subito il mistero di morte e di risurrezione del tuo Figlio, di Gesù che ha donato la sua vita per riconciliare ogni uomo e ogni donna di questo mondo con te, con se stessi, con tutti i fratelli. Città santa, città dell'incontro eppure città da sempre contesa, da sempre crocifissa e sulla quale il tuo Figlio, i profeti e i santi hanno invocato la pace.

Noi vogliamo pregarti con fede per la pace in tanti altri paesi del mondo, per i numerosi focolai di lotte e di odio; vogliamo pregarti per gli aggressori e per gli aggrediti, per gli uccisi e gli uccisori, per tutti i bambini che non hanno potuto conoscere il sorriso e la gioia della pace.

E' vero, Signore, che noi stessi siamo responsabili del venire meno della pace, e per questo ti supplichiamo di accogliere il nostro accorato pentimento, di donarci una volontà umile, forte, sincera per ricostruire nella nostra vita personale e comunitaria rapporti di verità, di giustizia, di libertà, di carità, di solidarietà. Ti confessiamo i nostri peccati personali e sociali: il nostro attaccamento al benessere, i nostri egoismi, le infedeltà e i tradimenti a livello familiare, la pigrizia e lo sciupio delle energie vitali per cose vane e frivole, dannose, il nostro voltare la faccia di fronte alle miserie di chi ci sta vicino o di chi viene da lontano. Vivendo così, non abbiamo forse pensato di renderci responsabili della distruzione di quell'edificio invisibile che è la pace. La pace terrestre è riflesso della tua pace che tu ci doni e ci affidi, nasce dal tuo amore per l'uomo e dal nostro amore per te e per tutti i fratelli.

Cambia il nostro cuore, Signore, perché siamo noi i primi ad avere bisogno di un cuore pacifico. Purificaci, per il mistero pasquale del tuo Figlio, da ogni fermento di ostilità, di partigianeria, di partito preso; purificaci da ogni antipatia, da ogni pregiudizio, da ogni desiderio di primeggiare.

Facci comprendere, o Padre, il senso profondo di una preghiera vera di pace, di una preghiera di intercessione e di espiazione simile a quella di Gesù su Gerusalemme. Preghiera di intercessione che ci renda capaci di non prendere posizione nei conflitti, ma di entrare nel cuore delle situazioni insanabili diventando solidali con entrambe le parti in contesa, pregando per l'una e per l'altra. Noi vogliamo abbracciare con amore tutte le parti in causa, fiduciosi soltanto nella tua divina potenza. Se noi preghiamo perché tu dia vittoria all'uno o all'altro, questa preghiera tu non l'ascolti; se ci mettiamo a giudicare l'uno o l'altro, la nostra supplica tu non l'ascolti.

Manda il tuo santo Spirito su di noi per convertirci a te! Non ci illudiamo di superare le nostre inquietudini interiori, i rancori che ci portiamo dentro verso un popolo o verso un altro se non lasciamo spazio allo Spirito di gioia e di pace che vuole pregare in noi con gemiti inenarrabili. E' lo Spirito che ci fa accogliere quella pace che sorpassa ogni nostra veduta e diventa decisione ferma e seria di amare tutti i nostri fratelli, in modo che la fiamma della pace risieda nei nostri cuori e nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e si irradi misteriosamente sul mondo intero sospingendo tutti verso una piena comunione di pace. E' lo Spirito che ci aiuta a penetrare nella contemplazione del tuo Figlio crocifisso e morto sulla croce per fare di tutti un popolo solo.

E tu, Maria, Regina della pace, intercedi affinché il sorriso della pace risplenda su tanti bambini sparsi nelle varie parti del mondo, segnate dalla violenza e dalla guerriglia; veglia sulla tua terra, su Gerusalemme, suscita nei suoi abitanti desideri profondi e costruttivi di pace, desideri di giustizia e di verità. Noi ti promettiamo di non temere le difficoltà e i momenti oscuri e difficili, purché tutta l'umanità cammini nella pace e nella giustizia, così che si avveri pienamente la parola del profeta Isaia: "Ho visto le vostre vie e voglio sanarle [...] Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io guarirò tutti".

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inviato da Gianmarco Marzocchini, inserito il 01/04/2003

TESTO

79. Il mio Dio

Juan Arias

Il mio Dio non è un Dio duro, impenetrabile,
insensibile, stoico, impassibile.
Il mio Dio è fragile.
E' della mia razza.
E io della sua.
Lui è uomo e io quasi Dio.
Perché io potessi assaporare la divinità
Lui amò il mio fango.

L'amore ha reso fragile il mio Dio.
Il mio Dio ebbe fame e sonno e si riposò.
Il mio Dio fu sensibile.
Il mio Dio si irritò, fu passionale,
e fu dolce come un bambino.

Il mio Dio fu nutrito da una madre,
ne sentì e bevve tutta la tenerezza femminile.
Il mio Dio tremò dinnanzi alla morte.
Non amò mai il dolore, non fu mai amico
della malattia. Per questo curò gli infermi.
Il mio Dio patì l'esilio,
fu perseguitato e acclamato.

Amò tutto quanto è umano, il mio Dio:
le cose e gli uomini, il pane e la donna;
i buoni e i peccatori.
Il mio Dio fu un uomo del suo tempo.
Vestiva come tutti,
parlava il dialetto della sua terra,
lavorava con le sue mani,
gridava come i profeti.

Il mio Dio fu debole con i deboli
e superbo con i superbi.
Morì giovane perché era sincero.
Lo uccisero perché lo tradiva la verità che era
nei suoi occhi.
Ma il mio Dio morì senza odiare.
Morì scusando più che perdonando.

Il mio Dio è fragile.
Il mio Dio ruppe con la vecchia morale
del dente per dente,
della vendetta meschina,
per inaugurare la frontiera di un amore
e di una violenza totalmente nuova.

Il mio Dio gettato nel solco,
schiacciato contro terra,
tradito, abbandonato, incompreso,
continuò ad amare.
Per questo il mio Dio vinse la morte.
E comparve con un frutto nuovo tra le mani:
la Resurrezione.
Per questo noi siamo tutti sulla via
della Resurrezione:
gli uomini e le cose.

E' difficile per tanti il mio Dio fragile.
Il mio Dio che piange,
il mio Dio che non si difende.

E' difficile il mio Dio abbandonato da Dio.
Il mio Dio che deve morire per trionfare.
Il mio Dio che fa di un ladro e criminale
il primo santo della sua Chiesa.
Il mio Dio giovane che muore
con l'accusa di agitatore politico.
Il mio Dio sacerdote e profeta
che subisce la morte come la prima vergogna
di tutte le inquisizioni della storia.

E' difficile il mio fragile amico della vita.
Il mio Dio che soffrì il morso
di tutte le tentazioni.
Il mio Dio che sudò sangue
prima di accettare la volontà del Padre.

E' difficile questo mio Dio,
questo mio Dio fragile,
per chi pensa di trionfare soltanto vincendo,
per chi si difende soltanto uccidendo,
per chi salvezza vuol dire sforzo e non regalo,
per chi considera peccato quello che è umano,
per chi il santo è uguale allo stoico
e Cristo a un angelo.

E' difficile il mio Dio Fragile
per quelli che continuano a sognare un Dio
che non somigli agli uomini.

NataleincarnazioneumanitàGesùCristorapporto con Diosolidarietà

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 09/02/2003

TESTO

80. Perfetta letizia

San Francesco d'Assisi

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il cruciava, chiamò frate Leone il quale andava un poco innanzi, e disse così: "Frate Leone, avvegnadio ch'e frati minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e buona edificazione, nondimeno scrivi, e nota diligentemente, che non è ivi perfetta letizia".

E andando più oltre, santo Francesco il chiamò la seconda volta: "O frate Leone, benché 'l frate minore illumini i ciechi, distenda gli attratti, cacci i demoni, renda l'udire a' sordi, l'andare a' zoppi, il parlare a' mutoli e (maggior cosa è) risusciti il morto di quattro dì, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".

E andando un poco, santo Francesco grida forte: "O frate Leone, se 'l frate minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienzie e tutte le scritture, sì ch'e sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio i segreti delle coscienzie e degli animi, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".

Andando un poco più oltre, santo Francesco ancora chiamò forte: "O frate Leone, pecorella di Dio, benché 'l frate minore parli con lingua d'angeli e sappi i corsi delle stelle e le virtù dell'erbe e fossongli rivelati tutti i tesori della terra e cognoscesse le nature degli uccelli e de' pesci e di tutti gli animali e degli uomini e degli arbori e delle pietre e delle radici e dell'acque, scrivi che non ci è perfetta letizia".

E andando anche un pezzo, santo Francesco chiama forte: "O frate Leone, benché 'l frate minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gl'infedeli alla fede di Cristo, scrivi che non è ivi perfetta letizia".
E durando questo modo di parlare bene due

...E durando questo modo di parlare ben di due miglia, Frate Lione con grande ammirazione il domandò: «Padre, io ti prego dalla parte di Dio, che tu mi dica dov'è perfetta letizia».

E Santo Francesco sì gli rispose: «Quando noi saremo a Santa Maria degli Angeli, cosi bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo, e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo alla porta; e il portinaio verrà adirato e dirà: "Chi siete voi?", e noi diremo: "Noi siamo due de' vostri Frati". E colui dirà: "Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de' poveri; andate via"; e non ci aprirà, e faracci star di fuori alla neve e all'acqua, col freddo e con la fame insino alla notte; allora se noi tanta ingiura e tanta crudeltate sosterremo pazientemente senza turbarsene e senza mormorare di lui; e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci cognosca, e che Iddio il fa parlare contra a noi: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi perseveriamo picchiando, e egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate, dicendo: "Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, che qui non mangerete né albergherete". Se noi questo sosterremo con pazienza e con allegrezza e con amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi, pur costretti dalla fame e dal freddo, più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l'amore di Dio con grande pianto, che ci apra e mettaci dentro; e quello più scandalizzato dirà: "Costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come sono degni"; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto e piglieracci per lo cappuccio e getteracci in terra e involgeracci nella neve, e batteracci nodo a nodo con quello bastone: se noi tutto questo sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E però odi la conclusione: sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e disagi. Imperocché in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, perché non sono nostri, ma di Dio; onde dice l'Apostolo: "Che hai tu, che tu non abbi da Dio?"... Ma nella croce della tribolazione ben ci possiamo gloriare, perocché questo è nostro; e perciò dice l'Apostolo: "Io non mi voglio gloriare, se non nella croce del Nostro Signor Gesù Cristo"».

letiziacrocesofferenzaumiltàgioialibertà

5.0/5 (1 voto)

inviato da Emilio Centomo, inserito il 11/12/2002

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