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TESTO

21. La preghiera

S. Giovanni Maria Vianney, Omelia per la V Domenica dopo Pasqua

Per mostrarvi il potere della preghiera e le grazie che essa vi attira dal cielo, vi dirò che è soltanto con la preghiera che tutti i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che la pioggia è per la terra. Concimate una terra quanto volete, se manca la pioggia, tutto ciò che farete non servirà a nulla. Così, fate opere buone quanto volete, se non pregate spesso e come si deve, non sarete mai salvati; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di fare ricorso a Dio; le fa temere la sua debolezza.

Il cristiano conta per tutto su Dio solo, e niente su se stesso. Sì, è per mezzo della preghiera che tutti i giusti hanno perseverato. Del resto, ci accorgiamo noi stessi che appena trascuriamo le nostre preghiere, perdiamo subito il gusto delle cose del cielo: pensiamo solo alla terra; e se riprendiamola preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero e il desiderio delle cose del cielo. Sì, se abbiamo la fortuna di essere nella grazia di Dio, o faremo ricorso alla preghiera, o saremo certi di non perseverare per molto tempo nella via del cielo.

In secondo luogo, diciamo che tutti i peccatori debbono, senza un miracolo straordinario che accade rarissimamente, la loro conversione soltanto alla preghiera. Vedete santa Monica, ciò che fa per chiedere la conversione di suo figlio: ora essa è al piede del suo crocifisso a pregare e piangere; ora si trova presso persone che sono sagge, per chiedere il soccorso delle loro preghiere. Guardate lo stesso sant'Agostino, quando volle seriamente convertirsi... Si, per quanto fossimo peccatori, se avessimo fatto ricorso alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che il buon Dio ci perdonerebbe.

Ah!, fratelli miei, non meravigliamoci del fatto che il demonio fa tutto ciò che può per farci tralasciare le nostre preghiere, e farcele dire male; è che capisce molto meglio di noi quanto la preghiera è temibile nell'inferno, e che è impossibile che il buon Dio possa rifiutarci ciò che gli chiediamo per mezzo della preghiera...

Non sono né le lunghe né le belle preghiere che il buon Dio guarda, ma quelle che si fanno dal profondo del cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Dio. Eccovene un bell'esempio. Viene riferito nella vita di san Bonaventura, grande dottore della Chiesa, che un religioso assai semplice gli dice: «Padre, io che sono poco istruito, lei pensa che posso pregare il buon Dio e amarlo?».

San Bonaventura gli dice: «Ah, amico, sono questi principalmente che il buon Dio ama di più e che gli sono più graditi». Questo buon religioso, tutto meravigliato da una notizia così buona, va a mettersi alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: «Venite, amici, ho una buona notizia da darvi; il dottore Bonaventura m'ha detto che noi altri, anche se ignoranti, possiamo amare il buon Dio quanto i dotti. Quale felicità per noi poter amare il buon Dio e piacergli, senza sapere niente!».

Da questo, vi dirò che non c'è niente di più facile che il pregare il buon Dio, e che non c'è nulla di più consolante.

Diciamo che la preghiera è una elevazione del nostro cuore verso Dio. Diciamo meglio, è il dolce colloquio di un bambino con il padre suo, di un suddito con il suo re, di un servo con il suo padrone, di un amico con il suo amico, nel cui cuore depone i suoi dispiaceri e le sue pene.

preghierarapporto con Dioconversionecrescita interiore

inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney, Roma, inserito il 10/03/2011

TESTO

22. Io voglio servire Gesù

Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008, pp. 39-43

Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l'amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora - in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan - Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.

Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa', hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all'ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d'essere d'aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

Shahbaz Bhatti, ucciso a Islamabad il 2/03/2011

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inviato da Qumran2, inserito il 08/03/2011

TESTO

23. Testamento spirituale di frère Christian   1

Padre Christian de Chergé, Testamento spirituale

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l'unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell'indifferenza dell'anonimato.

La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno «grazia del martirio», il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'Islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell'Islam che un certo islamismo incoraggia. E' troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L'Algeria e l'Islam, per me, sono un'altra cosa: sono un corpo e un'anima. L'ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: «Dica adesso quel che ne pensa!». Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'Islam come lui li vede, completamente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!
E anche te, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!
Insc'Allah.

Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994

Testamento spirituale di Padre Christian de Chergé del Monastero di Tibhirine.

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il sedicente «Gruppo Islamico Armato» ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.

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inserito il 07/01/2011

TESTO

24. Che cos'è un sacerdote? Meditazione dettata in occasione di una prima messa

Karl Rahner, Sul sacerdozio

Nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita...

Come popolo dei redenti in Gesù Cristo, noi presentiamo sugli altari della Chiesa il sacrificio della Nuova Alleanza. Anche in un giorno come questo, non possiamo far niente di più di quello che facciamo sempre. Si compie infatti qualcosa che è così alto da non essere suscettibile di reale accrescimento: si fa presente in mezzo a noi il Signore di tutti i secoli, il cuore del mondo e, insieme, l'azione del suo amore che muove le stelle e tutto accoglie nella gloria di Dio.

E tuttavia nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita, finché un giorno la sua vita intera sarà consumata in quel sacrificio, che egli celebra ogni giorno e nella cui accettazione soltanto tutta la realtà terrena trova la propria accettazione nell'infinita maestà di Dio. Perché celebriamo solennemente questo giorno? Forse che la Chiesa vuol indurre i suoi fedeli a concedere, per così dire, anticipati allori ad un giovane, il quale non ha fatto ancora niente altro che offrire a Dio il suo cuore e la sua vita, mentre sarebbe lecito glorificare solo il sacrificio interamente compiuto? No, noi non celebriamo un uomo: celebriamo solo il sacerdozio di Gesù Cristo. Celebriamo la Chiesa, tutta la Chiesa di tutti i redenti, i santificati, i chiamati alla vita eterna: quella di cui noi tutti facciamo parte, sia che siamo preti o 'soltanto' credenti e santificati. Poiché noi tutti apparteniamo all'unico Corpo del Cristo in modo tale che ciò che ad uno viene concesso di grazia, dignità e potenza è grazia ed elevazione per tutti, ed in maniera tale che nel servizio e nella vocazione di uno si manifesta la santa dignità di tutti.

Che cos'è un sacerdote?

Egli è un uomo
Quando Paolo, nella lettera agli Ebrei, parla del prete, la prima cosa che dice è che il prete è scelto fra gli uomini. A tal punto che perfino l'eterno sommo sacerdote Gesù Cristo, nato da donna, soggetto alla legge, pellegrino attraverso la valle di questa realtà peritura, volle essere il figlio dell'uomo, un uomo, trovato in tutto simile a noi. Il prete è un uomo. Non è fatto, dunque, di un legno diverso da quello di cui tutti siete fatti: è vostro fratello. Egli continua a condividere la sorte dell'uomo anche dopo che la destra di Dio, attraverso la mano del vescovo, si è posata su di lui: la sorte dei deboli, la sorte di quelli che sono stanchi, scoraggiati, inadeguati, peccatori. Gli uomini, però, se l'hanno a male, se uno si presenta nel nome di Dio, pur essendo soltanto un uomo: vogliono messaggeri più splendi, araldi più convincenti, cuori più ardenti. Accoglierebbero volentieri dei vittoriosi, di quegli uomini che hanno sempre una risposta a tutto e un rimedio per tutto. Terribile illusione! Quelli che vengono sono deboli, in timore e tremore, uomini che devono anch'essi continuamente pregare: Signore, io credo, aiuta la mia incredulità! che devono anch'essi continuamente battersi il petto: Signore, abbi pietà di me, povero peccatore! Eppure essi proclamano la fede che vince il mondo e portano la grazia, che trasforma i peccatori e i perduti in santi e redenti. Sono uomini quelli che vengono. Vengono e dicono, con la loro povera umanità: vedete, Dio ha misericordia di uomini come noi; vedete, per i poveri e per gli stolti, per i disperati e per i moribondi è sorta la stella della grazia. Dicono, come messaggeri umani dell'eterno Dio: non vi adirate contro di noi! Noi sappiamo di portare il tesoro di Dio in vasi di argilla; sappiamo che la nostra ombra offusca continuamente la divina luce che dobbiamo portarvi. Siate misericordiosi verso di noi, non giudicate, abbiate pietà della debolezza sulla quale Dio ha posato il fardello troppo pesante della sua grazia. Considerate come una promessa per voi stessi il fatto che noi siamo uomini: riconoscete da ciò che Dio non ha orrore degli uomini. Voi avrete un giorno paura e orrore di voi stessi, quando avrete sperimentato anche in voi che cosa è l'uomo, che cosa c'è nell'uomo. Beati voi, allora, che non vi siete scandalizzati dell'uomo che è nel prete. Egli è un uomo, affinché voi crediate che la grazia di Dio può essere concessa all'uomo, al pover'uomo, così com'è.

Il sacerdote è un messaggero della verità di Dio
Nella verità di Dio c'è qualcosa di inquietante e insieme di beato. Essa è del tutto semplice, e non fa progressi così rapidi come la verità degli uomini, che diventano tanto sapienti da arrivare, da ultimo, alla fabbricazione delle bombe atomiche. Spesso la verità di Dio penetra nei cuori degli uomini, senza che essi lo sappiano: solo in piccola parte la sua venuta si manifesta, per esempio nell'umiltà silenziosa del cuore, in un'oscura nostalgia dello spirito, nella rassegnazione con cui uno accetta le tacite e mai autogiustificantesi disposizioni del destino. Ma quando viene, per quanto piccola, con la forza dello Spirito Santo, essa è tutta presente, e vi è già in essa anche l'inizio dell'amore e della vita eterna. E tutta questa semplice, unica verità di Dio, per mezzo della quale Dio afferma se stesso nel più profondo del cuore dell'uomo, è la Verità, che è presente nel mondo, perché stillata dal cuore trafitto del Cristo Dio. Perciò questa verità vuole farsi carne nella parola umana; vuole penetrare in tutti i pensieri e le parole degli uomini; vuole divenire il tema permanente di una sinfonia infinita, che risuona attraverso tutti gli spazi del cosmo; vuole essere spiegata e proclamata; vuole entrare attraverso le porte dell'udito nel cuore degli uomini; vuole salire e sorgere dal cuore degli uomini, sua più intima dimora, per penetrare anche in tutti i settori della vita umana, per essere predicata da tutti i tetti, per congiungersi, infine, con ogni verità umana, correggendola e purificandola, salvandola e portandola a compimento. Perciò vi sono messaggeri di questa verità, messaggeri umani. Essi vengono con parole umane, ma queste sono ripiene di verità divina. E dicono una cosa antichissima e tuttavia non mai ancora compresa: dicono la verità, che sola non avvizzisce, sola non si logora, sola non si consuma. Dicono Dio: il Dio dell'eterna gloria, il Dio della vita eterna; dicono che Dio stesso è la nostra vita; proclamano che la morte non è la fine; che l'astuzia del mondo è stoltezza e miopia; che vi è un giudizio, una giustizia ed una vita eterna. Dicono sempre la stessa cosa, monotonamente, infinite volte. La dicono a se stessi ed agli altri, poiché gli uni e gli altri devono confessare di non aver ancora mai compreso ciò che viene predicato: Dio, il Dio vivente, il vero Dio, il Dio rivelato, Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo; Dio, che riversa prodigalmente la propria infinità nel nostro cuore, senza che noi ce ne accorgiamo; Dio, che fa della nostra spaventosa precarietà l'inizio della vita eterna - e noi non vogliamo crederlo. Questo dicono i messaggeri. Per questo hanno studiato e meditato; tutto questo si sono sforzati, spesso disperatamente, di far penetrare anche nella meschinità del proprio spirito e nell'angustia del proprio cuore. Eppure non ci sono ancora riusciti: sono ancora apprendisti di Dio. E tuttavia, Dio ordina loro di mettersi a parlare di ciò che essi stessi hanno compreso soltanto a metà. Ed essi cominciano. Balbettano, sono impacciati, sanno bene che tutto ciò che hanno da dire suona così strano, così inverosimile, sulla bocca di un uomo. Ma vanno e parlano. E, oh meraviglia! trovano perfino degli uomini che, attraverso il loro strano discorso, percepiscono la Parola di Dio; uomini nel cui cuore la Parola penetra, giudicando, salvando e portando la serenità, la consolazione e la forza nella debolezza, sebbene siano essi a dirla, e sebbene portino così male il messaggio. Ma Dio è con loro. Con loro, nonostante la loro miseria e il loro peccato. Essi non predicano se stessi, ma Gesù Cristo, predicano nel suo nome, e sono confusi fino in fondo al cuore per ciò che egli ha detto loro: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Ma egli ha detto proprio così. E dunque essi vanno e parlano. Sanno che si può essere un bronzo sonante e un cembalo tintinnante, e che ci si può perdere dopo aver predicato agli altri: ma non si sono scelti da sé. Sono stati chiamati e inviati, e così devono andare e predicare, opportunamente e importunamente. Vanno per i campi del mondo e spargono il seme di Dio: sono pieni di riconoscenza quando un poco ne germoglia, e implorano per sé la misericordia di Dio, affinché non ne rimanga sterile troppo per colpa loro. Seminano fra le lacrime, e per lo più un altro raccoglie ciò che essi hanno seminato. Ma essi lo sanno: la parola di Dio deve diffondersi dovunque e portar frutto, perché essa è la felice Verità di Dio, la luce dei cuori, la consolazione nella morte e la speranza della vita eterna.

Il sacerdote è il dispensatore dei divini misteri
La parola, che Dio ha posto sulla bocca del prete, non è una semplice parola generica, che viene pronunciata nel vago. È la parola di Dio, deve perciò riguardare anche i singoli, nella loro individualità originale e nella loro irrepetibile storicità. Deve essere detta a ciascun uomo in particolare: al mattino della vita, quando egli comincia a creare nel tempo una eternità; nei molti monotoni giorni del suo pellegrinaggio, in cui egli deve cercare faticosamente se stesso, attraverso tutte le vallate e gli errori di una vita umana; nella cupa disperazione della colpa; in quel sacro istante, in cui sembra che, dalla pienezza del tempo che muore, debba venir fuori per sempre il frutto dell'eternità nella morte. In tali istanti, il prete deve dire la parola di Dio, la parola potente e creatrice di Dio, la parola che non dice, bensì opera, la parola sacramentale: io ti battezzo; io ti assolvo dai tuoi peccati; questo è il mio Corpo. Tali parole, pronunziate nel nome del Cristo, il pret le dice applicandole alla concreta situazione dell'uomo. Ed esse apportano ciò che proclamano, operano quello che annunziano, perché sono parole di Dio. Grazie a queste parole sacramentali, il prete è, al tempo stesso, l'uomo più privo di potenza e il più potente, poiché esse non sono assolutamente più parole sue, ma parole interamente del Cristo: egli, però, ha il diritto di dirle, di ripeterle continuamente, di dirle con pazienza e con fede, instancabilmente. Tutte le altre parole, che egli deve pur dire, nella predica e nell'insegnamento, non sono altro che un'eco, una spiegazione, un commento, aggiunto alle eterne parole fondamentali della sua esistenza sacerdotale, che egli pronunzia nell'amministrare i sacramenti, accompagnandole col gesto santo, che utilizza i poveri elementi della terra per celarvi la beatitudine del cielo, fecondandoli con la parola del Cristo. Munito dunque della parola efficace del Cristo, egli dispensa i misteri del Cristo, i sacramenti. Gli uomini, per lo più, vogliono da lui qualcos'altro: il pane, la soluzione dei problemi sociali, ricette per poter essere felici su questa terra. Si irritano e si annoiano, se si continua a ripetere loro sempre soltanto parole, che si devono credere, che producono effetto solo nella divina eternità e il cui valore non si può negoziare sui mercati del mondo. Ma il prete continua a ripetere la sua parola, la parola dei sacramenti. Il loro effetto non si può provare nei laboratori degli uomini, che vogliono riconoscere come reale solo ciò che si manifesta concretamente. Ma l'effetto c'è. E così, da quella parola, ha inizio il destino dei figli di Dio, si compie il perdono dei peccatori, si celebra il banchetto della vita eterna, scaturisce dalle tenebrose profondità della morte la luce che non conosce tramonto. Col suo dono e con la sua offerta dei misteri di Dio, il prete se ne sta, come uno che sia estraneo al mondo, agli angoli delle vie, dinanzi ai quali passa in fretta il corteo interminabile degli uomini e della loro storia, precipitando non si sa bene se verso la morte o verso la vita. Chi si arresta, chi accetta l'offerta di questo viandante tra due mondi che è il prete, costui riceve i misteri di Dio, per lui si realizza nel tempo l'eternità, dalla morte la vita, dalle tenebre la luce, e si fa manifesta la presenza di Dio. E colui che ha il potere di penetrare nella situazione sempre unica del singolo queste parole della presenza e dell'efficacia sacramentale del Dio vivente nello spazio della santa Chiesa, noi lo chiamiamo il prete.

Al sacerdote è affidato il sacrificio
Abbiamo cominciato a parlare dell'opera del prete nel mondo; dobbiamo intraprendere la trattazione, più esplicita di quanto finora sia stata, del mistero che nel Corpo della Chiesa è paragonabile al cuore, in quanto apporta al regolare battito del polso dei singoli membri la forza nutritiva del sangue. Il prete è l'uomo a cui è affidata l'offerta sacrificale della Chiesa, la ripetizione liturgica della Cena del Cristo, e poiché proprio questo è l'aspetto più intimo e supremo dell'esistenza sacerdotale, noi celebriamo solennemente l'inizio di tale vita non già con un battesimo che egli celebri per la prima volta, o con la parola dell'assoluzione che pronunzi per la prima volta, bensì col sacrificio della messa che egli celebra per la prima volta e noi con lui. Qui, in questo momento, tutto si raccoglie: gli uomini, la Chiesa, Dio, il Cristo, il sacrificio della Croce, i vivi e i morti, l'angoscia terrena e la beatitudine celeste. Qui, infatti, il Signore glorioso è in mezzo alla sua comunità: la comunità dei santificati e redenti, che il prete, per mandato ricevuto dal Cristo, con pieni poteri che provengono dall'alto, e non dal basso, conduce dinanzi al trono della Grazia, affinché essa comunità offra il Signore, reso presente mediante la parola del prete, come offerta di tutta la Chiesa, all'eterno Padre, in lode del suo nome e per la salvezza di tutti quelli che celebrano il sacrificio e in esso sono ricordati con amore e fedeltà. Avendone ricevuto facoltà dal Cristo stesso, che ama la sua Chiesa e a lei ha fatto dono del proprio sacrificio, il prete può celebrare in nome di tutti, con tutti e per tutti, il sacrificio dell'eterna riconciliazione. E se è vero che in questa vocazione egli è stato da Dio sollevato più in alto di tutti gli altri, è anche vero che egli è divorato e consumato al massimo, in un puro servizio di Dio, per gli uomini. Egli acquista, in questo momento, il diritto di portare il Corpo del Signore e di prendere il calice della salvezza, riempito del prezzo del riscatto del mondo, non già per essere lui, il prete, innalzato, bensì perché ne venga salvezza per tutto il popolo di Dio. E ciò che, nel giorno della sua prima messa, egli fa', circondato dalla gioia degli altri, lo farà tutti i giorni. Tutti i giorni, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle grigie mattine di ogni giorno, e nelle ore terribili, che non sono risparmiate a nessuna vita. E sempre questa piccola, povera celebrazione racchiuderà in sé il contenuto, e al tempo stesso la soluzione, di tutti gli enigmi dell'esistenza: il Corpo, che venne immolato, e il Sangue, che fu versato per il perdono dei peccati. Sempre, tutto ciò sarà contenuto in questa piccola mezz'ora, perché in essa è presente, come il Sacrificato e il Vittorioso insieme, colui che è in sé l'unità reale dell'enigma e della sua soluzione, l'unità della terra e del cielo, l'unità dell'uomo e di Dio, nella celebrazione di quell'istante unico in cui, sulla Croce, l'estrema lontananza tra loro divenne inseparabile vicinanza.

Conclusione
È uomo, il prete, messaggero della Verità di Dio, dispensatore dei divini misteri, capace di rendere presente il sacrificio unico del Cristo. Sorte felice! Certo, ogni uomo ha da Dio la sua vocazione, la sorte a lui assegnata dalla eternità, il suo compito anche nel Corpo del Cristo, che è la Chiesa. Non vi è esistenza profana, per nessuno. Ma ciò che per la maggior parte è quasi soltanto la presenza della divina realtà nel profondo della loro più intima coscienza e nel silenzioso segreto della loro sfera privata, per il prete, chiamato da Dio, erompe da quella profondità per abbracciare tutta la estensione della vita. Tutto, in quella vita, Dio deve consumare e ridurre al servizio della sua signoria onnipotente. Questo è il destino del prete: vivere interamente nella manifesta vicinanza di Dio. Un destino beato e terribile a un tempo. Beato, perché Dio solo è la beatitudine; terribile, perché solo difficilmente l'uomo resiste in mezzo al tremendo splendore di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, che il progetto più sublime rimanga sempre anche il più frammentario. Nessuna meraviglia, che l'alta vocazione nasconda in sé anche il pericolo delle cadute estreme: il pericolo che esser prete voglia dire non dovere esser più uomo; il pericolo della perdita della pietà per gli uomini, dell'inaridirsi della sostanza umana; il pericolo della fuga lontano da Dio, verso la più familiare vicinanza degli uomini; il pericolo del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l'altissimo prezzo richiesto dall'esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Se si esamina attentamente questo destino beato e terribile del prete, si potrebbe rimanere colpiti, e quasi ammutolire per lo spavento, in questa festa, perché qui ha inizio ciò che nessun uomo, da solo, può portare a compimento. Ma noi confidiamo nella grazia di Dio: essa, non già noi, porterà a compimento ciò che ha iniziato. È fedele, infatti, colui che ha chiamato il prete, e non si pente dei doni di grazia che concede. E noi, in questa celebrazione del santo sacrificio, vogliamo pregare per la Chiesa sulla terra, che Dio mandi operai alla sua messe, perché gli operai sono pochi. Preghiamo per i nostri preti, che essi comincino nel timore e nella gioia del Signore e perseverino in fedele servizio sino alla beata fine, che noi tutti attendiamo, e in cui è il termine unico e beato di tutte le vocazioni, nell'infinita celebrazione del sacrificio eterno, in cui il Figlio, e noi in lui, tutto rimettiamo al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Amen.

tratto da www.donboscoland.it

sacerdotepretepresbitericleroanno sacerdotale

inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010

RACCONTO

25. Un piccolo gesto   4

Un giorno, ero un ragazzino delle superiori, vidi un ragazzo della mia classe che stava tornando a casa da scuola. Il suo nome era Kyle e sembrava stesse portando tutti i suoi libri. Dissi tra me e me: "Perché mai uno dovrebbe portarsi a casa tutti i libri di venerdì? Deve essere un ragazzo strano".

Io avevo il mio week-end pianificato (feste e una partita di football con i miei amici), così ho scrollato le spalle e mi sono incamminato.

Mentre stavo camminando vidi un gruppo di ragazzini che correvano incontro a Kyle. Gli corsero addosso facendo cadere tutti i suoi libri e lo spinsero facendolo cadere nel fango. I suoi occhiali volarono via, e li vidi cadere nell'erba un paio di metri più in là. Lui guardò in su e vidi una terribile tristezza nei suoi occhi. Mi rapì il cuore! Così mi incamminai verso di lui mentre stava cercando i suoi occhiali e vidi una lacrima nei suoi occhi. Raccolsi gli occhiali e glieli diedi dicendogli: "Quei ragazzi sono proprio dei selvaggi, dovrebbero imparare a vivere". Kyle mi guardò e disse: "Grazie!". C'era un grosso sorriso sul suo viso, era uno di quei sorrisi che mostrano vera gratitudine.

Lo aiutai a raccogliere i libri e gli chiesi dove viveva. Scoprii che viveva vicino a me così gli chiesi come mai non lo avessi mai visto prima. Lui mi spiegò che prima andava in una scuola privata. Prima di allora non sarei mai andato in giro con un ragazzo che frequentava le scuole private. Parlammo per tutta la strada e io lo aiutai a portare alcuni libri.

Mi sembrò un ragazzo molto carino ed educato così gli chiesi se gli andava di giocare a football con i miei amici e lui disse di sì. Stemmo in giro tutto il week end e più lo conoscevo più Kyle mi piaceva così come piaceva ai miei amici.

Arrivò il lunedì mattina ed ecco Kyle con tutta la pila dei libri ancora. Lo fermai e gli dissi: "Ragazzo finirà che ti costruirai dei muscoli incredibili con questa pila di libri ogni giorno!". Egli rise e mi passo la metà dei libri.

Nei successivi quattro anni io e Kyle diventammo amici per la pelle.

Una volta adolescenti cominciammo a pensare al college, Kyle decise per Georgetown e io per Duke. Sapevo che saremmo sempre stati amici e che la distanza non sarebbe stata un problema per noi. Kyle sarebbe diventato un dottore mentre io mi sarei occupato di scuole di football.

Kyle era il primo della nostra classe e io l'ho sempre preso in giro per essere un secchione. Kyle doveva preparare un discorso per il diploma. Io fui molto felice di non essere al suo posto sul podio a parlare. Il giorno dei diplomi vidi Kyle, aveva un ottimo aspetto. Lui era uno di quei ragazzi che aveva veramente trovato se stesso durante le scuole superiori. Si era un po' riempito nell'aspetto e stava molto bene con gli occhiali. Aveva qualcosa in più e tutte le ragazze lo amavano. Ragazzi qualche volta ero un po' geloso!

Oggi era uno di quei giorni, potevo vedere che era un po' nervoso per il discorso che doveva fare, così gli diedi una pacca sulla spalla e gli dissi: "Ehi ragazzo, te la caverai alla grande!". Mi guardò con uno di quegli sguardi (quelli pieni di gratitudine) e sorrise mentre mi disse: "Grazie".

Iniziò il suo discorso schiarendosi la voce: "Nel giorno del diploma si usa ringraziare coloro che ci hanno aiutato a farcela in questi anni duri. I genitori, gli insegnanti, gli allenatori ma più di tutti i tuoi amici. Sono qui per dire a tutti voi che essere amico di qualcuno è il più bel regalo che voi potete fare. Voglio raccontarvene una".

Guardai il mio amico Kyle incredulo non appena cominciò a raccontare il giorno del nostro incontro. Lui aveva pianificato di suicidarsi durante il week-end. Egli raccontò di come aveva pulito il suo armadietto a scuola, così che la madre non avesse dovuto farlo dopo, e di come si stava portando a casa tutte le sue cose.

Kyle mi guardò intensamente e fece un piccolo sorriso. "Ringraziando il cielo fui salvato, il mio amico mi salvò dal fare quel terribile gesto".

Udii un brusio tra la gente a queste rivelazioni. Il ragazzo più popolare ci aveva appena raccontato il suo momento più debole.

Vidi sua madre e suo padre che mi guardavano e mi sorridevano, lo stesso sorriso pieno di gratitudine.

Non avevo mai realizzato la profondità di quel sorriso fino a quel momento.

Non sottovalutate mai il potere delle vostre azioni.

Con un piccolo gesto potete cambiare la vita di una persona, in meglio o in peggio. Dio fa incrociare le nostre vite perché ne possiamo beneficiare in qualche modo. Cercate il buono negli altri.

"Gli amici sono angeli che ci sollevano in piedi quando le nostre ali hanno problemi nel ricordare come si vola".

amiciziagentilezzaimportanza delle piccole cosesemplicitàbontà

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inviato da Lisa, inserito il 26/06/2010

TESTO

26. Il corpo del Signore   1

San Francesco d'Assisi, Ammonizione I, FF 141-145

Il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se aveste conosciuto me, conoscereste anche il Padre mio; ma da ora in poi voi lo conoscete e lo avete veduto." Gli dice Filippo: "Signore, mostraci il Padre e ci basta". Gesù gli dice: "Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto? Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio" (Gv 14,6-9).

Il Padre abita una luce inaccessibile, e Dio è spirito, e nessuno ha mai visto Dio (cf. 1Tm 6,16; Gv 4,24 e 1,18). Perciò non può essere visto che nello Spirito, poiché è lo Spirito che dà la vita; la carne non giova a nulla (Gv 6,64 Vg). Ma che il Figlio, in ciò in cui è uguale al Padre, non è visto da alcuno in maniera diversa da come si vede il Padre né da come si vede lo Spirito Santo.

Perciò tutti coloro che videro il Signore Gesù secondo l'umanità, ma non videro né credettero, secondo lo Spirito e la divinità, che egli è il vero Figlio di Dio, sono condannati. E così ora tuti quelli che vedono il sacramento, che viene santificato per mezzo delle parole del Signore sopra l'altare nelle mani del sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo Spirito e la divinità, che è veramente il santissimo corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati, perché ne dà testimonianza lo stesso Altissimo, il quale dice: "Questo è il mio corpo e il mio sangue della nuova alleanza (che sarà sparso per molti") (Mc 14,22.24); e ancora: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna" (Gv 6,55 Vg).

E perciò lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e sangue del Signore. Tutti gli altri, che hanno la presunzione di riceverlo senza partecipare dello stesso Spirito, mangiano e bevono "la loro condanna" (cf. 1Cor 11,29). Perciò: "Figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore?" (Sal 4,3) Perché non conoscete la verità e non credete "nel figlio di Dio?" (cf. Gv 9,35).

Ecco, ogni giorno egli si umilia (cf. Fil 2,8), come quando "dalla sede regale" (Sap 18,15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull'altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con la vista del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con occhi spirituali, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero. E in tal modo il Signore è sempre con i suoi fedeli, come egli stesso dice: "Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo" (Mt 28,20).

eucaristiamessa

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inviato da Antonio Antonucci, inserito il 07/12/2009

ESPERIENZA

27. Osiamo dire: Padre nostro...

Alessandro Pronzato, L'uomo riconciliato. Pellegrinaggio nel quotidiano per celebrare la festa della vita, Ed. Gribaudi

Ricordo una Messa celebrata all'ergastolo di Porto Azzurro.
Sentivo avvicinarsi questo momento con un senso di paura.
"...Padre nostro!".

Mi sono fermato. Li ho guardati in faccia, a uno a uno. Oltre cinquecento uomini, a cui avevano ucciso la speranza, condannati a vita. Loro dicono, con un'espressione incisiva: "Ci hanno fermato l'orologio!".

Ho detto: "Scusatemi, ma io non riesco a continuare. Se non mi aiutate voi, io, da solo, a questo incrocio pericoloso della Messa, non ce la faccio ad andare avanti. Sarei costretto a dire una parola che, se prima non si realizza qualcosa di importante tra di noi, suonerebbe come una bestemmia: "Padre nostro...".

"Ho bisogno che mi accettiate come uno di voi, un fratello, niente altro. Soltanto se mi fate questo regalo, se ci scambiamo questa fraternità, se ammettiamo da ambo le parti questa parentela, se mi considerate come uno dei vostri, oseremo dire insieme "Padre nostro!". Altrimenti io non ho il coraggio di pronunciare quella frase. Dio non è soltanto 'mio' Padre. Lui vuol esserlo di tutti. E se non mi presento davanti a lui insieme a tutti voi, nessuno ecluso, mi sento un traditore, un illegittimo... E se voi non mi riconoscete come fratello, Dio se ne va. Non si fa trovare...".

Mai come in quel momento ho scoperto la forca sconvolgente dell'espressione: "Osiamo dire".
Sì, soltanto adesso che ci siamo riconosciuti, accettati come fratelli, possiamo dire, senza paura di bestemmiare: "Padre nostro" (anzi: "Papà", Abbà!).

Siamo mal ridotti, Papà, ma siamo insieme.
Laceri, sporchi, non troppo presentabili, ma ci riconosciamo fratelli.
Ci sentiamo colpevoli "insieme".
Abbamo tutti qualcosa da farci perdonare.
Nessuno di noi è giudice dell'altro.
Nessuno di noi condanna le colpe dell'altro.
Siamo uniti da una comune solidarietà di miseria.
Soltanto per questo "osiamo dire".
E tu, siamo sicuri, ci guardi con benevolenza. Perché noi ci guardiamo senza durezza.
Tu, abbiamo la certezza, ci accetti. Perché noi ci accettiamo vicendevolmente.
Tu non ti vergogni di noi, nonostante tutto. Perché noi non rifiutiamo nessuno.
Ecco, Signore, soltanto dopo che ci siamo caricati sulle spalle questo colossale peso di tutti i nostri fratelli, osiamo dire "Padre nostro!".
E, stavolta, è preghiera.

messapadre nostrocarceresolidarietàfratellanzafraternità

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giovannagioia, inserito il 06/12/2009

RACCONTO

28. Se Gesù bussasse alla porta di casa...   5

Mariangela Forabosco

C'era una volta un paese qualunque, in un posto qualunque, abitato da gente qualunque, che viveva una vita qualunque. Vi accadevano cose belle e cose brutte, come in tutti i paesi qualunque; era un paese dove la vita scorreva apparentemente tranquilla, presa dalle cose di tutti i giorni.
La gente di quel paese qualunque, però, non era poi tanto "qualunque"; infatti era l'erede nientemeno che di un Regno, annunciato tanti secoli prima da un grande Re, il cui nome era Gesù Cristo, sceso dal suo Regno celeste per insegnare agli uomini il modo per entrarci e diventare, così, suoi coeredi. Egli, nel suo soggiorno terrestre, con i suoi discorsi ed il suo comportamento, aveva stravolto le idee umane di Regno, riferite per lo più alla potenza, alla forza, al dominio, spesso al terrore e alla dominazione; aveva invece parlato di pace, amore, fratellanza, uguaglianza, tolleranza, carità. Per aver parlato di ciò, fu crocifisso dagli uomini e furono perseguitati pure i suoi apostoli e i suoi seguaci, chiamati Cristiani. L'annuncio del suo Regno, però, non si interruppe mai, continuò fino ai giorni nostri, giungendo anche in quel paese qualunque, in cui viveva un apostolo qualunque, responsabile della continuazione dell'annuncio e della vita evangelica dei cristiani.

Da tempo, il pastore di quella comunità si era accorto che qualcosa non andava per il suo verso. I Cristiani che frequentavano la chiesa non erano molti, i bambini addirittura pochissimi, le cose di questo mondo stavano prendendo il posto dell'aspettativa del Regno, anche se, a onor del vero, la gente era buona, faceva i fatti suoi, non faceva parlare di sé. Quel pastore, invece, voleva qualcosa di più: voleva realizzare il Regno già quaggiù, facendo sì che nel suo paese qualunque, con la sua gente qualunque, con un apostolo qualunque si compisse quanto il Re Gesù Cristo aveva chiesto agli uomini per avere la sua eredità eterna:"amatevi l'un l'altro come io ho amato voi!"
Un giorno, nel corso di una funzione religiosa, il pastore iniziò il suo sermone così: "Cari fratelli, care sorelle, questa notte ho avuto una visione...".
Un bisbiglio serpeggiò tra i fedeli. "Ha avuto una visione! Che sarà mai?".
"Una visione bellissima", continuò l'apostolo, "ho visto Gesù in tutto il suo splendore!".
"Ha visto Gesù....ma, sarà vero?". "Il nostro apostolo ha visto Gesù!!!". Il brusio tra i fedeli era ormai incontrollabile, mentre tutti tenevano gli occhi incollati al volto dell'Uomo di Dio, in attesa del seguito del suo discorso.
"E' vero, pare impossibile anche a me, umile apostolo, che Gesù si sia degnato di apparirmi, ma è proprio così: Gesù è venuto da me e mi ha lasciato un messaggio per noi tutti, me compreso".
"Un messaggio, anche per noi? E che sarà mai"? si chiedeva la gente, ormai in preda ad una grande curiosità, mista ad un po' di ansia.
"Gesù mi ha detto che la prossima settimana visiterà tutte le case del nostro paese, compresa la mia naturalmente, senza preavviso, e si nasconderà nelle spoglie delle persone, di qualunque persona, può essere la nonna, il figlio, il marito, la moglie, un forestiero, insomma, può essere proprio qualunque sta intorno a noi, capito? Adesso andatevene, raccontate quanto vi ho detto anche a chi non viene in chiesa e sappiate comportarvi di conseguenza. Ricordatevi che Gesù guarda soprattutto se mettete in pratica il suo insegnamento:"Ama gli altri come te stesso".

Potete immaginare il chiacchiericcio e l'emozione della gente all'uscita dalla chiesa. La voce dell'arrivo di Gesù si sparse in un battibaleno in tutto il paese, ne varcò i confini e arrivò in città, e subito reporter dei più famosi giornali e delle stazioni televisive invasero il paese qualunque, insediandosi nei pochi hotel disponibili ed assediandolo con camper, antenne e quant'altro.
Venne il lunedì, e ogni persona del paese passò la giornata a guardarsi intorno, a fissare gli altri con occhi terribilmente fissi, quasi per scorgere, sotto le loro sembianze, la parvenza della presenza di Gesù. Fu una giornata di nervosismo, di scatti repentini, di risposte poco gentili, insomma, fu una giornata poco... "caritatevole". Durante la notte, però, le persone, in un dormiveglia ansioso, ebbero modo di riflettere sul loro comportamento e capirono che non avevano messo per niente in pratica l'insegnamento di Gesù. "Se per caso era in una delle persone che ho incontrato oggi, mamma mia, che figura ho fatto!!!! Domani starò più attento".
Intanto, i giornalisti, la sera del lunedì fecero sapere a mezzo mondo che la venuta di Gesù tra la gente del paese qualunque aveva fatto schizzare i nervi a tutti e le cose erano peggiorate rispetto a prima, ne sapeva qualcosa uno di loro, che era addirittura stato malmenato per aver calpestato le aiuole di un bel giardino, mentre tentava di riprendere una lite famigliare dietro una finestra.

Venne il martedì e il detto "la notte porta consiglio" fu quanto mai veritiero.
La signora Maria, uscita per fare la spesa di buon mattino, incrociò la signora Bice. Come sempre, le venne istintivo di tirare dritto voltando la faccia dall'altra parte (aveva sparlato di lei con la sua amica più cara, quella strega!), ma le balenò il pensiero: "E se è Gesù? Non posso non salutarlo!", e per la prima volta, dopo dieci mesi, le disse, se pur tra i denti: "Buona giornata, Bice!".
La Bice, che era ben peperina, stava per non rispondere al saluto, ma pensò: "E se è Gesù?". Mai avrebbe rinunciato a salutare Gesù, per cui disse sorridendo: "Cara Maria, buona giornata anche a te!!!". E sentirono tutte e due un gran peso che se ne andava e una gran gioia che le rallegrava.
L'infermiera Tina, raggiunto il suo reparto, ne trovò di tutti i colori: si innervosì, rispose alla caposala, stava per adirarsi con un malato difficile quando un pensiero le balenò improvviso: "E se Gesù si fosse nascosto in qualcuna di queste persone? Ma guarda, non ci avevo pensato!". Immediatamente cambiò il proprio atteggiamento, diventò gentile ed affabile con tutti e, di conseguenza, tutti diventarono gentili con lei.
"Mamma, guarda che disegno ho fatto!". "Piantala, che devo vedere la puntata di Demiful...!", rispose secca la donna. Pian piano, però, affiorò nella sua mente un dubbio: "E se Gesù si è nascosto in mio figlio"?. Immediatamente, spense la televisione, rinunciando per la prima volta alla sua telenovela preferita, e chiamò il figlio.
Di giorno in giorno, nel paese qualunque, tra quella gente qualunque, si diffuse in modo dirompente la consapevolezza che il Cristo Re poteva nascondersi nelle spoglie di qualunque persona, chiunque poteva essere Gesù e, di conseguenza, il comportamento di ognuno cambiò: le parole gentili sostituirono gli improperi, ogni persona fu guardata con occhi nuovi, con amore, con più rispetto, i mariti ebbero più riguardo per le mogli, le mogli si sforzarono di capire più profondamente i mariti, i genitori dedicarono più tempo ai figli, gli anziani furono apprezzati per la loro esperienza, i malati furono accuditi con amore e gentilezza, i forestieri furono accolti con disponibilità.
I giornalisti, come sempre pronti a cogliere le minime manifestazioni che facessero notizia, constatarono un crescendo di atteggiamenti positivi: l'armonia si poteva toccare con mano, gli sforzi per migliorare i rapporti con gli altri erano palpabili, insomma, sembrava un paese nuovo, Regno di pace, d'amore, il Regno in terra del Re Gesù Cristo. La notizia positiva si diffuse in mezzo mondo e ogni paese cercò di copiare la ricetta dell'Amore, con la consapevolezza, finalmente, che Gesù è in ogni uomo ed applicando quanto Egli ci disse: "Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avrete fatto a me".

Ed è così che il pastore qualunque della gente qualunque del paese qualunque riuscì a realizzare sulla terra il Regno di Dio, obbedendo alla richiesta che recitiamo sempre nel Padre Nostro: "Venga il tuo regno!".
E nascendo la PACE in ogni cuore, nacque la pace in tutta la terra!

regno di DiopaceamorefratellanzaGesùCristo Recarità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 13/09/2009

TESTO

29. Le beatitudini oggi   1

Tonino Bello, Alle porte del regno

Ce l'hanno spiegata con mille sfumature, e vien quasi da pensare che ogni biblista abbia un suo modo di leggere questa pagina delle beatitudini: l'unica che vorremmo salvare, se di tutti i libri della terra si dovesse sottrarre all'incendio solo il Vangelo e di tutto il Vangelo si dovesse preservare dalle fiamme soltanto una sequenza di venti righe.

Si intuisce subito che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse ultraterrene.

Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita, senza essere riusciti mai ad afferrare per intero. Fanno riferimento a quel senso di benessere pieno di gioia totalizzante che esiste solo nei nostri sogni. Traducono, come nessun altro frasario umano, le nostre nostalgie di futuro, e ci proiettano verso quei cieli nuovi e terre nuove in cui la settimana si accorcia a tal punto da conoscere solo il sabato eterno.

Imprigionano il "non ancora" - sempre abbozzato e mai esploso pienamente - di quel "risus paschalis" che ora sperimentiamo solo nella smorfia delle nostre troppo rapide convulsioni di letizia per cedere subito il posto all'amarezza del pianto.

Non ci vuol molto a capire, insomma, che sotto queste sentenze veloci del discorso della montagna c'è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso "regno dei cieli", la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Sì, Gesù vuol dare una risposta all'istanza primordiale che ci assedia l'anima da sempre. Noi siamo fatti per essere felici. La gioia è la nostra vocazione. E' l'unico progetto, dai nettissimi contorni, che Dio ha disegnato per l'uomo. Una gioia raggiungibile, vera, non frutto di fabulazioni fantastiche, e neppure proiezione utopica del nostro decadentismo spirituale.

Beati: provocazione all'impegno

Che cosa significhi il termine "beati" è difficile spiegarlo.

C'è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole del Signore per utilizzarle a scopi di imbonimento sociale. Quasi Gesù avesse inteso dire: state buoni, poveri, perché la misura della vostra felicità futura sarà inversamente proporzionale alla misura della vostra felicità presente. Anzi, quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell'altra.

E' questo un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all'inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe dei beni del cielo, contribuisce a mantenere in vigore un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi dal momento che a costoro, proprio per mezzo delle lacrime, viene offerto il prezzo per potersi pagare, in contanti, il regno di Dio. C'è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati... per sostenerli con la speranza dei beni del cielo. Quasi Gesù avesse inteso dire: se a un certo punto vi sentite sfiniti per le ingiustizie che patite, tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Guardate a quel che vi toccherà un giorno, e questo miraggio di beatitudine vi spronerà a camminare, così come il desiderio del riposo accelera e sostiene i passi di chi, stanchissimo, sta tornando verso casa.

Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma pur sempre alienante e banale. Perché punta sull'idea della compensazione. Perché con la lusinga della meta, non spinge la gente a mutare le condizioni della strada. Perché se non proprio a rassegnarsi, induce a relativizzare la lotta, ad arrendersi senza troppa resistenza, a vedere i segni della ineluttabilità perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana e a leggere i soprusi dell'uomo come causa di forza maggiore.

E c'è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Che consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane, come per dire: complimenti, c'è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano, tant'è che i primi assegnatari delle case del regno siete voi che dormite sui marciapiedi, e i primi a cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi che ora avete fame.

Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti o dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie ma vi assicura i primi posti nella classifica generale dei meriti.

Auguri a tutti voi che state sperimentando l'amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c'è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.

Rallegratevi voi che, in un mondo sporco di doppi sensi e sovraccarico di ambiguità camminate con cuore incontaminato, seguendo una logica che appare spesso in ribasso nella borsa valori della vita terrena ma che sarà un giorno la logica vincente.

Su con la vita voi che, sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile anche sulla terra: non lasciatevi scoraggiare dal sorriso dei benpensanti, perché Dio stesso avalla la vostra testardaggine.

Gioia a voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto!

Perché di essi sarà...

Il significato preciso della parola "beati", comunque, lasciamolo spiegare agli studiosi. Così pure lasciamo agli studiosi la fatica di spiegarci il significato dei destinatari delle beatitudini.

Se i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli oppressi, gli operatori di pace... siano categorie distinte di persone o variabili dell'unica categoria dei "poveri", ci interessa fino a un certo punto.

E neppure ci interessa molto sapere se i poveri "in spirito" siano una sottospecie aristocratica di miserabili o coincidano con quei poveri banalissimi che ci troviamo ogni giorno tra i piedi.
Tre cose, comunque, ci sembra di poter dire con sicurezza.

Anzitutto, che il discorso delle beatitudini ha a che fare col discorso della felicità. Non solo perché sembra quasi che ci presenti le uniche porte attraverso le quali è possibile accedere nello stadio del regno.

Sicché chi vuole entrare nella "gioia" per realizzare l'anelito più profondo che ha sepolto nel cuore, deve necessariamente passare per una di quelle nove porte: non ci sono altri ingressi consentiti nella dimora della felicità Ma anche perché la croce, la sofferenza umana, la sconfitta... vengono presentate come partecipazione all'esperienza pasquale di Cristo che, attraverso la morte, è entrato nella gloria.

E allora; se il primo titolare delle beatitudini è lui, se è il Cristo l'archetipo sul quale si modellano tutti i suoi seguaci, è chiaro che il dolore dei discepoli, come quello del maestro, è già contagiato di gaudio, il limite racchiude in germe i sapori della pienezza, e la morte profuma di risurrezione!

La seconda cosa che ci sembra di poter affermare è che, in fondo, queste porte, pur differenti per forma, sono strutturate sul medesimo telaio architettonico, che è il telaio della povertà biblica. A coloro che fanno affidamento nel Signore, e investono sulla sua volontà tutte le "chances" della loro realizzazione umana, viene garantita la felicità da una cerniera espressiva che non lascia dubbi interpretativi: "...perché di essi sarà..."

Quel "...perché di essi sarà..." rappresenta il titolo giuridico di possesso incontestabile, che garantisce tutti i poveri nel diritto nativo di avere non solo la "legittima" ma l'intero asse patrimoniale del regno. E' un passaggio indicatore di una disposizione testamentaria così chiara che nessuno può avere il coraggio di impugnare. E', insomma, il timbro a secco che autentica in modo indiscutibile il contenuto di uno straordinario rogito notarile.

La terza cosa che possiamo dire è che, se vogliamo avere parte all'eredità del regno, o dobbiamo diventare poveri, o, almeno, i poveri dobbiamo tenerceli buoni, perché un giorno si ricordino di noi.

Insomma, o ci meritiamo l'appellativo di "beati" facendoci poveri, o ci conquistiamo sul campo quello di "benedetti", amando e servendo i poveri.

Ce lo suggerisce il capitolo venticinque di Matteo, con quel "Venite, benedetti dal Padre mio: ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".

E' la scena del giudizio finale, pilastro simmetrico a quello delle beatitudini, che sorregge quell'arcata di impegno che ha la chiave di volta nell'opzione dei poveri.

Beati o benedetti

Veniamo a sapere, dunque, che, come titolo valido per l'usufrutto del regno, esiste un'alternativa al titolo di "povertà": quello della "solidarietà" con i poveri. Diventare, cioè, così solidali con loro da esserne il prolungamento. Fare tutt'uno con loro, così da esserne considerati quasi la protesi.

Se si vuole entrare nel regno della felicità perciò occorre vistare il passaporto o col titolo di "beati" o col titolo di "benedetti".

E' splendida l'esortazione che al termine della messa nuziale viene pronunciata sugli sposi: "Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre".
"Beati... perché di essi sarà...".
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi..."

Non potrà mai dimenticare lo stupore di Mons. Gasparini, vescovo missionario nel Sidamo, quando un giorno, indicandomi un gruppo di bambini etiopi, dagli occhi sgranati per fame, dalle gambe filiformi, devastati dalle mosche sul corpo scheletrito, mi disse quasi sottovoce: "Vedi: che questi bambini siano figli di Dio non mi sorprende più di tanto. E neppure che siano fratelli di Gesù Cristo. Ma ciò che mi sconcerta e mi esalta è che questi poveri siano eredi del paradiso! Sembra un assurdo. Ma è proprio per annunciare quest'assurdo, che sono felice di aver speso tutta la mia vita in mezzo a questa gente". "Beati... perché di essi..."
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi...".

Il Signore ci conceda che, nel mazzo delle carte d'identità racchiuse da quei due pronomi personali, un giorno, col visto d'ingresso, poco importa se con la sigla "beati" o con la sigla "benedetti", egli possa trovare anche la nostra.
E ci riconosca. Alle porte del regno.

beatitudiniregno di Diobeatipovertàsolidarietà

inviato da Qumran2, inserito il 06/08/2009

ESPERIENZA

30. Nonostante tutto ci credo

Ilenia Greco

Mia madre è morta il 6 aprile di quest'anno e sinceramente con lei ha cessato di vivere anche parte di me! Il vuoto immenso che si era incarnato nel mio corpo, nella mia mente e soprattutto all'interno del mio cuore, era tanto grande da togliermi ogni emozione, ogni sensazione bella e brutta... perché per me lei era tutto ciò che apparentemente mi rendeva felice.

Era giovane, bella, di umore per lo più allegro, ma non aveva dentro di sè la luce, la sintonia col suo prossimo, lo spirito feroce che deve avere una giovane donna: non conosceva bene Dio!

Quando se n'è andata da questa terra mia madre ha smesso di soffrire, di rincorrere qualche cosa che la tormentava, si, una pace che in lei non era mai esistita: la pace e l'armonia che io trovo nella mia fede in Cristo!

L'ho conosciuto proprio quel giorno, il 6 aprile del 1999, o meglio, lo conoscevo già ma non mi rendevo conto che era solo per sentito dire, che non ero mai stata veramente in grado di accettarlo dentro di me con tutta la sua importanza, la sua bontà e tutta la sua fiducia che, ora, solo grazie a lui, mi aiutano a vivere.

Quando ho fatto i conti con la realtà e ho capito che la mamma non era più presente in questo mondo, ho provato a chiedermi perché proprio io dovevo soffrire così, sentirmi straziata dal dolore per un'altra simile mancanza, visto che il papà l'avevo già perso... ma ho capito che il perché non c'era, perché in realtà la sofferenza non doveva esistere, ed è impossibile, come sappiamo tutti, trovare una risposta a qualche cosa che non c'è.

Giuro che non mi sono mai sentita sola nemmeno per un attimo, anzi, mi sono sentita profondamente capita, stretta fra le braccia del Signore, e ho capito lì, in quel momento, in quell'ospedale che mia madre era malata ed aveva ormai spento la fiammella della sua anima e la sua sofferenza senza Dio era tanto più grande della mia senza di lei.

Dio l'ha capita e l'ha chiamata a sè, rendendo me certa e più fiduciosa che mai della sua presenza, del suo grande amore...

Per le mie convinzioni mi sono sentita dare dell'esaurita, della pazzerella, della superficiale, ma io non sento queste parole perché sono dettate da menti e cuori che parlano così perché non hanno conosciuto Dio... altrimenti capirebbero che io non sono inconsapevole di quel che mi è successo, anzi ancora a volte piango per la mancanza della mamma; ma ho capito, riesco a darmi una ragione, a vivere ancora perché mi sento protetta e perché mi è stato concesso il dono della vita che è una cosa grandissima, infinita, inspiegabile.

Vorrei che tante altre persone la pensassero come me, vorrei che abbandonassero il Dio denaro, il Dio successo, il Dio spreco e si affidassero al Dio molto più semplice, umile ed indubbiamente molto più ricco di qualsiasi altra invenzione umana.

Le persone che si ritengono felici e atee, sono le persone che mi fanno più pena, perché non riescono a guardare oltre loro stesse!

Chi non crede, non professa alcuna opera che il Nostro Signore ci insegna, vive per se stesso e se fa qualcosa per il prossimo con consapevolezza eccessiva, lo fa con lo scopo anche a volte implicito di sentirsi gratificato dagli altri. Chi agisce spinto dalla fede vede come unico scopo il bene altrui, l'atto buono destinato ad aiutare un figlio di Dio come lui. Sì, figlio di Dio.

Questa espressione è stupenda, perché lega tutti gli uomini del mondo sotto uno stesso Cielo, nel cuore grande di uno stesso Padre e tu sai che chiunque incontri lungo il tuo cammino è figlio del tuo unico Padre e puoi solo sperare che come te se ne renda conto e non si senta abbandonato e ferito.

Scrivendo queste righe cresce in me il bisogno di trasmettere la mia gioia, il mio messaggio pulito a chiunque legga... provo il desiderio e forse anche la presunzione di far capire che si può trovare Dio in qualunque momento e in qualsiasi luogo.

L'uomo non può vivere solo per se stesso, non può vivere giorno per giorno con la concezione che con la fine di questa vita ci sarà la fine di tutto; perché se grande è questo nostro mondo terreno, ancora più grande è il "Regno dei Cieli".

Sarebbe stupido vivere questi quattro giorni consapevoli che poi non ci sarà più nulla, perché io personalmente sentirei di avere vissuto per nulla, di essere nata per caso, e mi sentirei inutile se la mia anima morisse con il mio corpo, poiché di me tutto scomparirebbe.

Trovare Dio significa anche andare verso l'eternità, l'immensità, la profondità... e ognuno di noi può farlo, in qualunque momento, anche fuori dalla Chiesa, perché non è solo lì che si vive il Signore. In Chiesa si riuniscono i fedeli la domenica e durante tutte le principali festività, ma quanti dei presenti, durante la Messa, si mettono realmente davanti a Dio? Quanti sentono fra quei muri freddi il calore dell'amore del Padre?

Io ho iniziato a farlo, la domenica seguo la Messa perché sento il bisogno di conoscere, di venire a contatto in modo particolare con gli insegnamenti e i dettami di Gesù, di tutti coloro che prima di me gli hanno voluto bene...

Fra il profumo dell'incenso e di cera, immersa nelle note dei canti che io stessa intono, trovo uno strano modo di star bene con me stessa e con gli altri, mi sento pulita, svuotata dal peso che a volte la vita ci carica in spalla; sento tutti quanti vicini, uniti per uno stesso scopo: imparare Dio.

Questo è un compito della Chiesa, del Giubileo del 2000: far sentire le persone tutte uguali, sotto uno stesso Padre, accettando comunque le indiscutibili differenze fra uno e l'altro.

speranzaaccoglienzafiducia in Dio

inviato da Romina Bernardinis, inserito il 19/07/2009

TESTO

31. Uno per uno fa sempre uno. Verso la Pasqua, casa della Trinità   1

Tonino Bello, Omelie e scritti quaresimali, vol.II, Ediz. Archivio Diocesano Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e Luce e vita, Molfetta, 1994, pagg.336-338

Carissimi fratelli,

l'espressione me l'ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt'altro che banale.

Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.

Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.

E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l'altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l'altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile...

Colsi l'occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: "Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c'è una Persona che si aggiunge all'altra e poi all'altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l'altra.

E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario' così dominante in ‘casa Trinità' che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l'uomo per gli altri".

Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.

Peccato: perché, tra l'altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l'uomo è icona della Trinità ("facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza") e che pertanto, per quel che riguarda l'amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l'accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.

Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.

Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.

* * *

Cari fratelli, lo so che la Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, e che non è lecito comprimerne la ricchezza alla semplice funzione di analogia. Ma se oggi c'è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali.

Altro che "relazioni". L'acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d'incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio. L'isola sperduta, più dell'arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l'altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente.

Coraggio.

Irrompe la Pasqua!

E' il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri. E' l'intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull'erba. E' l'incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa. E' il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E' la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo. E' la festa degli ex-delusi della vita, nel cui cuore all'improvviso dilaga la speranza.

Che sia anche la festa in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria.

Vostro

+ don Tonino, Vescovo

trinitàamore fraternorapporti interpersonalipadrefiglioSpirito santopasqua

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inviato da Qumran2, inserito il 18/07/2009

TESTO

32. Confessio Fidei - Narratio amoris   1

Bruno Forte, Confessare la fede narrando l'Amore

Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento trinitario di Pasqua:

Credo in te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell'Amore,
tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l'Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per te,
imprimendo in noi la nostalgia del tuo Amore,
e contagiandoci la tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.

Credo in te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell'Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l'amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell'Amore,
l'Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazareth, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell'amore,
e fanno di noi, nella sequela di te,
coloro che hanno creduto all'Amore,
e vivono nell'attesa della Tua venuta.

Credo in te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l'unità e la pace
dell'Amato e dell'Amante,
nel dialogo eterno dell'Amore.
Tu sei l'estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l'amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l'unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da te suscitata nell'amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
tu che unisci il tempo e l'eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
tu che apri il cuore di Dio
all'accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell'Amore, che non conosce tramonto.
In te ci è data l'acqua della vita,
in te il pane del cielo,
in te il perdono dei peccati
in te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.

Credo in te, unico Dio d'Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell'Amore.
In te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in te
e di abitare in me.
Amen!

credoDioamore di DiofedePadreFiglioSpirito Santo

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inviato da Qumran2, inserito il 15/07/2009

PREGHIERA

33. Preghiera a Maria per i sacerdoti   1

Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, donna dell'Ascolto e del Servizio, a te ci rivolgiamo per preparare con la nostra preghiera l'anno dedicato alla santificazione dei sacerdoti.

Ti affidiamo ciascuno di loro, come Gesù sulla croce ti ha affidato il discepolo Giovanni. Ti chiediamo di accompagnarli con la tua bontà materna, perché ogni giorno ripetano il loro "sì" a Dio, come tu stessa hai fatto a Nazaret e in tutta la tua vita, fin sotto la croce e oltre.

Tu eri presente con gli apostoli nel cenacolo e con loro hai invocato e poi accolto il dono dello Spirito, che li ha resi coraggiosi testimoni del tuo Figlio, crocifisso e risorto, e li ha sostenuti nell'annunciare il Vangelo ad ogni creatura. Tu stessa li hai accompagnati con la tua preghiera, e la tenerezza di Madre.

Accompagna anche i nostri sacerdoti, soprattutto quando intraprendono strade nuove e non facili per annunciare anche nel nostro tempo la bellezza dell'amore del Padre. Aiutali ad essere autentici e fedeli, generosi e misericordiosi, puri di cuore e solleciti verso ogni persona.

Sostienili nelle giornate difficili, e aiutali a rialzarsi quando sperimentano la debolezza della loro risposta.

Fa' che siano attenti ascoltatori della Parola del tuo Figlio e annunciatori instancabili di questo tesoro che il Cristo ha affidato alla Chiesa perché sia seme gettato nei solchi dell'umanità.

Sostieni chi fatica ad essere fedele, e dona la consolazione che aiuta a superare i momenti difficili. Invoca con loro e per loro lo Spirito perché siano servitori della comunità sull'esempio e con la forza del Figlio tuo, che si è fatto servo per amore e ha indicato nel servizio uno dei modi per renderlo presente e vivo in mezzo ai suoi.

Aiutali a spezzare per tutti il Pane della Parola e dell'Eucaristia e ad essere compagni di viaggio per tutti coloro che cercano nel Vangelo la risposta alle tante domande della vita, il sollievo alle tante sofferenze che spesso ci rendono tristi.

Accompagnali tutti con il tuo amore di Madre; o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!

mariasacerdotisacerdoziopretipresbiteri

1.0/5 (1 voto)

inviato da Don Remigio Menegatti, inserito il 19/06/2009

PREGHIERA

34. Crediamo nel tuo amore   2

Giovanni Paolo II, Le mie preghiere, a cura di Santino Spartà, Ed. Mondolibri

Padre misericordioso,
Signore della vita e della morte.
Il nostro destino è nelle tue mani.
Guardaci con bontà
e guida la nostra esistenza
con la tua Provvidenza,
piena di sapienza e di amore.
Ravviva in noi, o Signore,
la luce della fede
affinché accettiamo il mistero
di questo immenso dolore,
e crediamo che il tuo amore
sia più forte della morte.
Guarda, o Signore,
con bontà l'afflizione di coloro
che piangono la morte di persone care:
figli, padri, fratelli, parenti, amici.
Sentano essi la presenza di Cristo
che consolò la vedova di Naim
e le sorelle di Lazzaro,
perché egli è la risurrezione e la vita.
Trovino il conforto dello Spirito,
la ricchezza del tuo amore,
la speranza della tua provvidenza
che apre sentieri
di rinnovamento spirituale
e assicura a quelli che lo amano
un futuro migliore.
Aiutaci a imparare
da questo mistero di dolore
che siamo pellegrini sulla terra,
che dobbiamo essere sempre preparati,
perché la morte
può giungere all'improvviso.
Ricordaci che dobbiamo seminare sulla terra
ciò che raccoglieremo
moltiplicato nella gloria,
affinché viviamo, guardando sempre a te,
Padre e Giudice
dei vivi e dei morti,
che alla fine ci giudicherai nell'amore.
Ti ringraziamo, Padre,
perché nella fede
il dolore ci avvicina di più a te,
e in esso cresce la fratellanza e la solidarietà
di tutti coloro che aprono il cuore
al prossimo bisognoso.
Da questo luogo
che conserva i resti mortali
di tanti nostri fratelli
ascolta la nostra preghiera:
"Da' loro, o Signore,
il riposo eterno e risplenda
per essi la luce perpetua.
Riposino in pace.
E a noi che continuiamo a vivere,
pellegrini in questa valle di lagrime,
da' la speranza di riunirci a te,
nella tua casa paterna,
dove tuo Figlio Gesù
ci ha preparato un posto
e la Vergine Maria ci guida
verso la comunione dei Santi".
Amen.

defuntimortevitaeternità

4.0/5 (3 voti)

inviato da Giovanna Gioia, inserito il 11/06/2009

TESTO

35. Sete di risurrezione   1

Mariangela Forabosco

E' arrivata la Primavera ed ogni anno, in natura, si ripete puntuale il miracolo della rinascita, e tutte le creature rinnovano in sé l'energia vitale per dimostrare e donare, ad un mondo distratto ed indifferente, la potenza creatrice e amorosa del Creatore.

Passeggiando in giardino, davanti al mistero di una piccolissima gemma che diventa un turgido bocciolo, quasi geloso di svelare la meraviglia dei suoi petali, mi afferra uno stupore crescente.

C'è un giardino, però, in cui non è necessario aspettare la primavera per vedere realizzati i miracoli della creazione ed è il " cuore dell'uomo".

Dio ha creato l'uomo e la donna per "sete d'amore", perché, essendo lui amore, non poteva fare a meno di amare e di essere amato. Ed ecco il miracolo: uomo e donna, creati a sua immagine, ricevono il suo amore e sono chiamati a diventarne messaggeri e testimoni, per diffonderlo a chi sta loro accanto e al mondo intero.

Le vite che si donano diventano, così, veicolo dell'Amore di Dio e vanno a saziare l'incontenibile e misteriosa sete d'amore delle creature, come un fiore sbocciato e donato sazia la sete di bellezza e di armonia.

L'uomo, però, non ha accolto il dono dell'Amore di Dio, che significa donarsi, perdonarsi, compatirsi, comprendersi, ed ha messo al primo posto l'amore per se stesso e per gli idoli creati dalle sue stesse mani, diventandone schiavo (Salmo 113 B, 4-8). Allora Dio, non potendo fare a meno di amare l'uomo e di essergli fedele, ha giocato l'ultima carta per salvarlo ed è sceso in terra nella Persona del Figlio, Gesù Cristo, facendosi "peccato" ( cfr. 2 Corinzi 5,21 ) lui stesso, Innocente, per liberare l'umanità dal peccato e dalla morte. Gesù, sulla terra, ha camminato con gli uomini ed ha parlato del Padre che è nei Cieli come del "nostro Padre" ( Matteo 6,9 ) che, dalla creazione, non vuole forzare i figli ad amarlo, avendoli resi liberi di accettare o rifiutare il suo amore. Il Padre, però, non smette mai di aspettare che i figli tornino per lasciarsi amare da lui, per poter dire loro parole d'amore e fare festa ( Luca 15, 11-24 )! Gli uomini, ancora una volta, non hanno saputo e voluto rispondere con l'amore alla richiesta d'amore del loro Creatore e così l'hanno ucciso: hanno crocifisso l'amore, pensando di poter togliere di mezzo l'imbarazzante "Rabbì " che parlava di cose troppo scomode per le coscienze: pace, perdono, conversione, riconciliazione, giustizia, dignità umana, strane beatitudini che fanno "vincere" i poveri, gli ultimi, gli affamati, i perseguitati..., amore addirittura per i nemici, misericordia, dono totale di se stessi agli altri fino a perdere la propria vita...
"Il mondo non lo riconobbe" (Giovanni 1,10).

Ognuno di noi c'era, quel venerdì che chiamiamo Santo, sul Calvario, ed ognuno di noi, con la parte del proprio cuore in cui vince l'avidità, la gelosia, l'invidia, la lussuria, il risentimento, la rabbia, ha battuto i chiodi nelle mani e nei piedi dell'Innocente. "Dio è morto", ha scritto qualcuno. Si, Dio è morto facendo suo il peccato e la morte dell'uomo, ma non poteva finire così, con il buio di quel venerdì e col silenzio di quel sabato. Se Dio fosse morto, tutta la creazione sarebbe morta, io sarei morta, la primavera sarebbe morta.

No! Dio ha trascinato in sé la morte e l'ha distrutta, trasformandola in vita, nella sua vita, che è immortale, incorruttibile (Corinzi 15, 20-27, 53-55). Essendo vero uomo, Gesù ha, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, innalzato a sé ogni uomo, ogni vita umana (Giovanni 3,14-17) donando ognuno di noi all'abbraccio misericordioso del Padre, che dalla creazione non aspetta altro che ritorniamo a lui, bisognosi del suo perdono e, a nostra volta, capaci di perdonare.

La sete d'amore di Dio lo ha portato a farsi lui stesso creatura, affinché nel cuore dell'uomo si continuasse a compiere il miracolo per cui era stato creato: l'amore vissuto, rinnovato, donato, gratuito, generoso, spassionato, umile, felice, sofferto, offerto, coraggioso, sorridente, radicale, ingenuo, totale.

La capacità di amarsi viene solo da Dio e se ci allontaniamo da lui, nostra unica fonte del vero amore, perdiamo la capacità di amare e accadono le cose che quotidianamente tutti vediamo e di cui ci lamentiamo. "La società va male", diciamo, "è tutta colpa della società...".

No, sono io, siamo noi che abbiamo perso il contatto con la fonte della vera vita, diventando schiavi dei vitelli d'oro che ci siamo costruiti.

L'uomo, però, ha fame d'amore, continua a cercare qualcuno o qualcosa da amare, perché è Dio stesso che ha posto nel nostro cuore il seme del suo amore.

Che fare? Perché non provare a diventare "distributori" consapevoli di amore? Perché abbiamo così tanta paura di amare? Perché temiamo di assecondare il nostro bisogno di Risurrezione? Perché non ci opponiamo alla tentazione di seguire la corrente, che ci invita a privilegiare i pensieri e le scelte di morte?

Noi cristiani siamo tali perché crediamo in Cristo, il Vivente, il Risorto, Colui grazie al quale siamo destinati, a nostra volta, ad essere eternamente viventi e risorti: perché, allora, non scegliere di vivere secondo la Sua Parola, che è Parola di vita eterna? (Giovanni 6, 67-69)

Se i genitori, ad esempio, avessero il coraggio di raccontare ai loro figli le meraviglie che ogni giorno compie in noi l'Amore di Dio, se vivessero la Risurrezione nelle scelte di vita quotidiane, se trasmettessero loro la Speranza che deriva dalla Risurrezione di Cristo, allora ogni giorno sarebbe Pasqua, ogni giorno l'amore vincerebbe e non saremmo sconvolti da tante notizie che parlano di delitti in famiglia, di ragazzi che filmano violenze sui coetanei più deboli, di famiglie distrutte da odi e rancori, di stragi del sabato sera...L'elenco non finirebbe mai, ma io propongo che ognuno di noi, nel suo piccolo, anziché soffermarsi sulle cose negative, faccia l'elenco di tutte le cose belle che ogni giorno ci vengono donate. Cerchiamo poi di arricchire l'elenco con le cose belle, dettate dall'amore, che nel nostro quotidiano possiamo fare. Facciamo crescere, nel giardino del nostro cuore, la parte divina che Dio ha preso da sé e ci ha donato.

Scegliamo consapevolmente di soddisfare la nostra "sete di Risurrezione", affinché il Signore, nostro Dio, possa dirci parole di bene e d'Amore per l'eternità.

risurrezioneamoreparolafamiglia

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 02/06/2009

TESTO

36. Lettera sulla preghiera   7

Bruno Forte, Messaggio per la Quaresima 2007

Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.

Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall'amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall'amore. Ora, l'amore nasce dall'incontro e vive dell'incontro con l'amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l'amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all'amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l'eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l'aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po' del tuo tempo a Dio. All'inizio, l'importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un'icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica...). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te "Abbà, Padre!". Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.

Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre - Madre nell'amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l'anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.

Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l'esperienza della vita vissuta nell'orizzonte dell'alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.

All'inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all'inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.

Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il "Magnificat" di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall'eloquenza silenziosa delle tue opere.

Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo "perso". Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l'unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.

Verrà l'ora della "notte oscura", in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l'ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l'ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d'amore, inondata dalla gioia della presenza dell'Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.

Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d'uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d'acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall'amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l'audacia dell'amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.

Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l'amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l'unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell'amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l'iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.

Pregando, s'impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l'urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell'Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l'eternità.

Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.

preghierapregare

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inviato da Qumran2, inserito il 30/04/2009

TESTO

37. Il primo presepe

Johann Jorgensen

La santa sera tutto era pronto, a Greccio, come frate Francesco aveva desiderato; verso l'ora di mezzanotte, tutto il popolo di quei pressi era convenuto intorno al presepe per festeggiare la nascita del Signore. Come ci racconta Tomaso da Celano: «Greccio era diventata una nuova Betlemme; la foresta risuonava di voci melodiose e le rocce echeggiavano ai canti della folla». Ognuno portava torce accese, mentre, vicino al presepe, stavano i frati coi loro ceri; tanto che i boschi erano rischiarati come fosse pieno giorno. Sulla mangiatoia che serviva d'altare, un prete lesse la messa, perché il divino fanciullo fosse presente, sotto le specie del pane e del vino, al modo stesso che lo era stato corporalmente a Betlemme. Ci fu pure un istante in cui Giovanni Vellita ebbe l'impressione di vedere un vero bambino coricato nella mangiatoia, ma che sembrava morto, o, per lo meno, addormentato. Ed ecco che frate Francesco si avvicina al bambino e lo prende teneramente tra le braccia; ed ecco che anche il bambino si sveglia, sorride a frate Francesco, e, con le sue piccole mani, gli accarezza le guance barbute e la stoffa grigia della sottana! Visione che, del resto, non aveva nulla di stupefacente per messer Vellita: poiché egli conosceva già parecchi cuori, in cui, allo stesso modo, Gesù era stato morto, o per lo meno addormentato, fino al giorno in cui frate Francesco, con la sua parola e il suo esempio, non l'aveva risvegliato e risuscitato.

Dopo la lettura del Vangelo, frate Francesco, in veste di diacono, si avanzò verso la folla. «Sospirando profondamente, ci dice Celano, accasciato sotto la pienezza della sua pietà, e traboccante di meravigliosa gioia, il santo di Dio si drizzò presso la mangiatoia. E la sua voce, la sua voce forte e dolce, la sua voce chiara e sonora, trascinò gli uditori a ricercare il bene supremo».

Frate Francesco predica alla folla. «Con parole d'una dolcezza squisita, parla del povero re nato quella notte che è il Signore Gesù, nella città di David. E, ogni volta che vuole pronunciare il nome di Gesù, ecco che egli è tutto arso dal fuoco del suo amore, e che, invece di dirgli questo nome, lo chiama teneramente il Bambino di Betlemme! E, questa parola Betlemme, la dice col tono d'un agnello belante; e quando ha proferito il nome di Gesù, lascia scivolare la lingua sulle labbra, come per assaporare la dolcezza che quel nome ha sparso dietro di sé, passando su quelle labbra. E non fu che molto tardi che terminò quella santa notte di vigilia, e che ciascuno, con il cuore pieno di gioia, se ne ritornò alla sua casa».

«In seguito, questo luogo, dove era stato piantato il presepe, fu consacrato al Signore con l'erezione di un tempio; e sopra la mangiatoia fu alzato un altare in onore del nostro beato Padre Francesco: così che, là dove poco prima le bestie senza ragione mangiavano il fieno dalla greppia, oggi gli uomini, per la salute delle loro anime e del loro corpo, ricevono l'Agnello immacolato, Nostro Signore Gesù Cristo, che, spinto da ineffabile amore, ha dato la sua carne per la vita del mondo, e che, col Padre e lo Spirito Santo, vive e regna in somma grandezza per tutti i secoli dei secoli. Così sia!».

natalepresepepresepioSan Francesco

inviato da Franco Canzian, inserito il 19/12/2007

TESTO

38. Cos'è per me la preghiera

Don Gasparino, Domande difficili, Città Nuova editrice

Credo che la preghiera non sia tutto, ma che tutto cominci dalla preghiera: perché l'intelligenza umana è troppo corta e la volontà dell'uomo troppo debole: perché l'uomo che agisce senza Dio non dà mai il meglio di sè. Credo che Gesù Cristo, donandoci il Padre Nostro, ci abbia voluto insegnare che la preghiera è amore.

Credo che si possa pregare tacendo, soffrendo, lavorando; ma il silenzio è preghiera solo se si ama, la sofferenza è preghiera solo se si ama, il lavoro è preghiera solo se si ama.

Credo che non sapremo mai con esattezza se la nostra è preghiera o non lo è.

Ma esiste un test infallibile della preghiera: è riuscire a crescere nell'amore, nel distacco dal male, nella fedeltà all'amore di Dio.

Credo che impara a pregare solo chi impara a tacere davanti a Dio, a resistere al silenzio di Dio.

Credo che tutti i giorni dobbiamo chiedere al Signore il dono della preghiera, perché chi impara a pregare impara a vivere.

Ma cosa significa pregare? Forse, nessuno sarà mai capace di dare una risposta esauriente, perché è un problema che parte dal mistero dell'uomo e si perde nel mistero di Dio.

Forse, sarebbe più facile dire ciò che non è pregare.

Pregare non è recitare.
Il teatro non serve a Dio. Recitar formule ci fa dei robot e i robot non possono piacere a Dio, perché Dio ci ha fatti figli e ci considera figli.

Pregare non è dire parole.
Dio non ne ha bisogno e l'uomo può comunicare con lui con mezzi più semplici che le parole.

Pregare non è dialogare.
Si dialoga con un eguale, non quando c'è un abisso invalicabile e si manca di strumenti adeguati per comunicare con lui.

Pregare non è dilettarsi dei bei sentimenti e dei bei pensieri.
A Dio non si raccontano storie; davanti a Dio siamo quello che siamo e le belle parole, i bei pensieri non cambiano la situazione reale del nostro intimo.

Pregare non è nemmeno riflettere.
Anche se la riflessione è il potere più straordinario dell'uomo. Per Dio il nostro riflettere non conta di più di una pausa vegetativa.

È il nostro amore che Dio aspetta.
Pregare forse è solo questo: lasciarsi amare da Dio e rendersene conto, godere e sforzarsi di rispondere, perché non sappiamo mai come e quando comunichiamo con Dio. Ma sforzarsi è già andare a lui. E' già amare.

preghiera

inviato da Qumran2, inserito il 21/11/2006

TESTO

39. Inizia un altro giorno

Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, Gribaudi ed, Torino, 1990

Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.

Incontrerà
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.

Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gl'inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.

Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.

Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.

missioneresponsabilitàtestimonianzaevangelizzazione

4.5/5 (2 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 25/08/2006

TESTO

40. Missione-vocazione

Madeleine Delbrel

Le due vie sono sempre esistite.
Sempre il Signore dirà agli uni: "A causa di me e del mio amore tu avrai una moglie, dei figli, una casa, dei beni da amministrare da parte mia nel mondo".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Tu non avrai che me e io sarò il tuo tutto".
Sempre il Signore dirà agli uni:
"Io so ciò che ti conviene, ti darò ogni giorno la tua pena il tuo pane quotidiano, perché dovunque tu sarai ci sia anche la mia croce".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Prendi la tua croce e seguimi".
Prendila con le tre braccia della povertà, dell'obbedienza e della castità.
Perché? Perché questo io voglio: che tu mi ami e che noi amiamo il mondo insieme.
La maggior parte di coloro ai quali Cristo tiene un tal discorso stanno sotto vesti scure, bianche o nere, discepoli d'un santo che fu attraverso il tempo compagno di strada del Signore.
Altri sono persone come voi e come me, persone affondate il più a fondo possibile nello spessore del mondo, separate da questo mondo da nessuna regola nessun voto nessun abito nessun convento.
Povere, ma simili alle persone d'ogni luogo. Pure, ma simili a persone di qualsiasi ambiente.
Obbedienti, ma simili a persone di qualsiasi paese.
Sono per tutto e per tutti: ne troverete che insegnano, che emanano leggi, che curano e consolano, che lavorano in officina.
Per essi un mondo vale l'altro e un'anima un'altra anima. Ma non tediateli con metodi e tecniche.
Non dite loro: "Qui è meglio aver l'aria un po' ricca: riuscirete meglio"; "Là è meglio sposarvi, sarete un apostolo migliore"; o ancora: "Sappiate ciò che volete, e mirateci".
Essi vi risponderanno:
"Non si possono seguire due strade. Ci date delle ricette che non fanno per noi".
Se noi siamo un po' malconci, se noi facciamo in questo mondo la figura degli accampati, è perché la nostra ricetta è di non possedere altro che il Signore. Se noi non abbiamo focolare, se a casa nostra né marito né moglie né figli ci attendono, è perché il Signore ci possiede e da Lui solo noi vogliamo essere posseduti.
Se noi non abbiamo programma è perché il nostro Padre del Cielo l'ha scritto prima per noi e ci basta ricevere i suoi ordini giorno per giorno.
Non dite loro che la croce è dannosa, un po' morbosa e un po' malsana, che il mondo ha bisogno di ritrovare il volto della gioia e non dei penitenti.
Vi risponderanno:
"Noi vi parleremo della gioia quando l'avremo imparata sulla croce dove ritroviamo il nostro amore.
La nostra gioia è d'un prezzo così esorbitante che è stato necessario per acquistarla vendere ciò che possedevamo e tutto noi stessi".
Quelli della prima chiamata, devono essere numerosi, perché il mondo è grande e il suo battesimo è lungo.
Ma quelli della seconda chiamata, bisogna che ve ne siano almeno alcuni per dare agli uomini, questi adulti fanciulli, l'edizione visiva della vita di Gesù:
Gesù, che è la "Missione" stessa.

missionevocazionelaicitàconsacrazionelaici

inviato da Cristina, inserito il 18/07/2006

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