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TESTO

281. Il Dare   2

Kahlil Gibran

Allora un uomo ricco disse: Parlaci del Dare.
E lui rispose:
Date poca cosa se date le vostre ricchezze.
E' quando date voi stessi che date veramente.
Che cosa sono le vostre ricchezze se non ciò che custodite e nascondete nel timore del domani?
E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo previdente che sotterra l'osso nella sabbia senza traccia, mentre segue i pellegrini alla città santa?
E che cos'è la paura del bisogno se non bisogno esso stesso?
Non è forse sete insaziabile il terrore della sete quando il pozzo è colmo?
Vi sono quelli che danno poco del molto che possiedono, e per avere riconoscimento, e questo segreto desiderio contamina il loro dono.
E vi sono quelli che danno tutto il poco che hanno.
Essi hanno fede nella vita e nella sua munificenza, e la loro borsa non è mai vuota.
Vi sono quelli che danno con gioia e questa è la loro ricompensa.
Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo rimpianto è il loro sacramento.
E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito.
Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza.
Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra.
E' bene dare quando ci chiedono, ma meglio è comprendere e dare quando niente ci viene chiesto.
Per chi è generoso, cercare il povero è gioia più grande che dare.
E quale ricchezza vorreste serbare?
Tutto quanto possedete un giorno sarà dato.
Perciò date adesso, affinché la stagione dei doni possa essere vostra e non dei vostri eredi.
Spesso dite: "Vorrei dare ma solo ai meritevoli".
Le piante del vostro frutteto non si esprimono così né le greggi del vostro pascolo.
Esse danno per vivere, perché serbare è perire.
Chi è degno di ricevere i giorni e le notti, è certo degno di ricevere ogni cosa da voi.
Chi merita di bere all'oceano della vita, può riempire la sua coppa al vostro piccolo ruscello.
E quale merito sarà grande quanto la fiducia, il coraggio, anzi la carità che sta nel ricevere?
E chi siete voi perché gli uomini vi mostrino il cuore, e tolgano il velo al proprio orgoglio così che possiate vedere il loro nudo valore e la loro imperturbata fierezza?
Siate prima voi stessi degni di essere colui che dà e allo stesso tempo uno strumento del dare.
Poiché in verità è la vita che dà alla vita, mentre voi, che vi stimate donatori, non siete che testimoni.
E voi che ricevete - e tutti ricevete - non permettete che il peso della gratitudine imponga un giogo a voi e a chi vi ha dato.
Piuttosto i suoi doni siano le ali su cui volerete insieme.
Poiché preoccuparsi troppo del debito è dubitare della sua generosità che ha come madre la terra feconda, e Dio come padre.

daregenerositàgratuitàriconoscenza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Daniela Antonini, inserito il 25/02/2006

PREGHIERA

282. A proposito della pace...

Raoul Foullerau

Anno 2000
tempo di paura o primavera d'amore?
Atomo:
trionfo della libertà o patibolo dell'umanità?
Signore, aiutaci!
Detentori ormai di una particella della tua potenza,
eccoci davanti a Te,
deboli, fragili, più poveri che mai,
vergognosi delle nostre coscienze rattoppate e dei nostri cuori a brandelli.
Signore, abbi pietà di noi!
Noi abbiamo costruito chiese,
ma la nostra è una guerra senza fine;
noi abbiamo costruito ospedali,
ma noi, per i nostri fratelli, abbiamo accettato la fame.
Perdono, Signore,
per la natura calpestata, per le foreste assassinate, per i fiumi inquinati...
Perdono per la bomba atomica, il lavoro a catena,
la macchina che divora l'uomo e le bestemmie contro l'Amore.
Noi sappiamo che Tu ci ami,
e che a questo amore noi dobbiamo la vita.
Strappaci dall'asfissia dei cuori e dei corpi.
Che i nostri giorni non siano più deturpati dall'invidia e dall'ingratitudine,
dalle terribili schiavitù del potere.
Donaci la felicità di amare il nostro dovere.
Nel mondo mancano milioni di medici: ispira i tuoi figli a curare;
nel mondo mancano milioni di maestri: ispira i tuoi figli a insegnare;
la fame tormenta i tre quarti della terra: ispira i tuoi figli a seminare;
da cent'anni gli uomini hanno fatto quasi cento guerre: insegna ai tuoi figli ad amarsi.
Perché, Signore,
non vi è amore senza il tuo Amore.
Fa' che ogni giorno, e per tutta la vita,
nella gioia, nel dolore, noi siamo fratelli,
fratelli senza frontiere.
Allora i nostri ospedali saranno anche le tue cattedrali,
e i nostri laboratori i testimoni della tua grandezza.
Nel cuore dei proscritti di un tempo risplenderanno i tuoi tabernacoli.
Allora, non accettando altre tirannie che quella della tua Bontà,
la nostra civiltà martoriata dall'odio, dalla violenza e dal denaro,
rifiorirà nella pace e nella giustizia.
Come l'alba diventa aurora, e poi giorno,
voglia il tuo Amore che i figli del 2000
nascano dalla speranza,
crescano nella pace,
si estinguano infine nella luce,
per ritrovarti, Signore,
tu che sei la Vita.

pacegiustiziaingiustiziadolorecaritàamoresolidarietàimpegnomondialitàfame nel mondo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 07/02/2006

TESTO

283. Lettera a Massimo, ladro zingaro ammazzato

Tonino Bello

A Molfetta, durante una tentata rapina un metronotte, per legittima difesa, sparò e uccise il ladro, uno zingaro. Il Vescovo, Monsignor Tonino Bello, saputa la notizia si recò al cimitero e rimase contristato dalla solitudine del morto: non c'era nessuno alle sue esequie e scrisse una lettera ad un uomo che non l'avrebbe mai letta, a Massimo, il ladro zingaro ammazzato.

Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina, e sono venuto di buon'ora al cimitero a celebrare le esequie per te.

Ma non ho potuto pronunciare l'omelia. Perché alla mia messa non c'era nessuno. Solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni. E il vento gelido che scuoteva le vetrate.

Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.

Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, e durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: «Gesù, ricordati di me!...».

Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a 22 anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che è rotolata nel fango con te!

Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome.

Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello. Oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto.

Ma non per la tua morte. Perché, stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale, forse te la meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente. E lui si è difeso. E stamattina, quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo.

No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita.

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che, sì, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l'icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbrutito e fosco come il tuo, che ha cessato di batter per sempre.

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch'io che, l'altro giorno, quando c'era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo.

Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo.

Perdonaci per l'indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire.

Perdonaci se, ad appena otto giorni dall'inizio solenne del l'anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.

Domani verrò di nuovo al camposanto. E sulla tua fossa senza fiori, in segno di espiazione e di speranza, accenderò una lampada.

caritàsolidarietàamoresolitudinesofferenzaingiustiziapovertàipocrisiasocietà

5.0/5 (1 voto)

inserito il 07/02/2006

TESTO

284. La partenza di Francesco di Assisi

Christian Bobin, Francesco e l'Infinitamente piccolo

Tanta poca immaginazione fa veramente disperare dell'uomo.
Credono di maturare perché hanno dei figli.
Credono di amare perché non osano più tradire la moglie.
Non avranno fatto altro che invecchiare.
Non avranno fatto altro che essere vecchi.
Guardami, me ne vado per i cammini dell'infanzia.

Ti devo un po' di soldi, quelli che ti ho preso per lanciarli a Dio.

Tu che conosci il prezzo delle cose, tu che delle cose non conosci che il prezzo, guarda, mi tolgo i vestiti.

...posso dunque andarmene nudo come una pietra, nudo come un filo d'erba, nudo come la prima stella nel cielo buio.

Abramo si è levato. Gli era stato domandato infinitamente. Gli era stato richiesto di abbandonare la famiglia, il paese, gli amici.

Si domanda sempre infinitamente a chi desidera con un desiderio infinito.
E Abramo si è levato, è partito.

E Mosè, e Davide, e tutti si sono levati, e nel gesto del levarsi han perduto i loro abiti di lingua, i loro abiti d'amicizia, i loro abiti di saggezza, e tutti hanno ricevuto l'infinito nel cuore messo a nudo.

A sua madre che insisteva perché rientrasse a casa, vergognosa di vederlo girovagare con una dozzina di fannulloni, Cristo ha risposto: dov'è la mia vera famiglia, chi sono i miei cari?
E sua madre non ha capito. Allora come potresti capire tu?
Ritorno alla mia vera famiglia.

Ritorno fra quanti son partiti senza più sapere chi fossero, dove andassero.

Oh padre io commerciante, oh padre mio che vorresti impedirmi di crescere, sai quanta violenza occorre per gioire di vera dolcezza?
Non sposo una chimera.

Non è la purezza che voglio. La purezza lascia l'impuro al di fuori di lei, e io non voglio più un di fuori, non voglio più saperne di una chiesa coi suoi angeli nel coro e i suoi diavoli sulla strada, il viso schiacciato contro le vetrate come dei poveri a Natale alle finestre del fornaio.
Voglio solo la vita nuda e fraterna.

Oh padre io ragionevole, padre mio ragionatore, ti hanno insegnato che c'era un posto per ogni cosa, hai dunque creduto che ci fosse anche un rango per ciascuno, e io vengo a dirti che non è così: non saremo in un certo ordine che in paradiso.

Nell'attesa di quel giorno che verrà, che necessariamente verrà, che indubbiamente verrà, nell'attesa di quel giorno in cui saremo pigiati in grembo a Dio come soldi in fondo a una tasca, voglio entrare in tutti i giardini chiusi, scavalcare tutti i muri di pietra, andare ovunque, in disordine.
Ieri sognavo principesse e cavalieri.
Oggi ho trovato qualcosa che è più grande del mio sogno.
L'amore ha risvegliato la mia vita assopita.

Ho trovato la vita e parto incontro a lei, mi batterò per lei e servirò il suo nome.
Parto. Che puoi fare per impedirmelo?

Ti lascio fino all'ultimo dei miei vestiti. Si trattengono le persone con tutto ciò che si dona loro.
Ti ho reso quanto mi hai dato, tranne la vita.
Ma la vita mi viene da qualcosa di superiore a te.

La vita mi viene dalla vita stessa, ed è verso di lei che vado, verso la mia amica dagli occhi di neve, mia piccola fonte, mia sola sposa.
La vita, nient'altro che la vita.
La vita, tutta la vita.

vocazionepartenzastradacoraggiovitachiamata

inviato da Cristina Ardigò, inserito il 06/02/2006

ESPERIENZA

285. Soccorso... stradale

I ragazzi dell'Oratorio (molto pochi) con il Don sono partiti con un pulmino per un viaggio-vacanza. Sono previsti circa 3000 Km. da percorrere passando per la Svizzera, la Normandia e la Bretagna.

Come è "normale" la mamma ed il papà aspettano con ansia le notizie del viaggio, soprattutto il primo giorno, soprattutto per il tempo pessimo.

Finalmente alle 21 circa arriva la telefonata... con la non bella novità: il pulmino si è rotto. Si trovano a 230 Km. da casa e non riescono a trovare una soluzione, che non sia troppo costosa, per proseguire, anzi, la prospettiva è di fare ritorno a casa in treno, perdendo così tutti i soldi già spesi per le prenotazioni dei pernottamenti.

Dopo un primo momento di sbigottimento, con mia moglie e soprattutto con l'altro figlio maggiore, abbiamo elaborato un piano di... soccorso: portare due auto (più una terza per il nostro ritorno) da loro subito il giorno dopo, di buon mattino così che possano proseguire.

Il tempo continua ad essere pessimo, però le previsioni danno miglioramento soprattutto verso la Francia. Vale le pena di provarci.

Trovate le tre auto, abbiamo telefonato per comunicare che ci saremmo visti la mattina dopo con i soccorsi.

Il viaggio è stato difficoltoso sia per il traffico (era un sabato di grande esodo) che per il maltempo. Siamo comunque arrivati all'appuntamento (accompagnati da tanti "Gloria al Padre...") accolti da una festosa gazzarra (cosa rara in un paesino svizzero, tanto che ci guardavano con un certo stupore), ma soprattutto ho potuto vedere l'atteggiamento di gratitudine e, in alcuni, di commozione: potevano proseguire il viaggio che, per loro, rappresentava la vacanza più attesa.

Confesso che anche per me è stato un momento di commozione e di gioia.

Dopo pochi giorni riceviamo una cartolina da Mont Saint Michel con scritto: "Senza di voi non avremmo potuto visitarlo (la mamma è sempre la mamma e il papà non è da meno). E' magnifico. Grazie".

Sarà anche poca cosa, ma la felicità di quei ragazzi mi sarà presente per tanto.

generositàsolidarietà

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Ambrogio Villa, inserito il 05/02/2006

ESPERIENZA

286. "Non ci indurre in tentazione"

Devo premettere che ho scoperto, proprio grazie a quello che ho vissuto e che racconterò, quanto è davvero maestra la Chiesa e quanto poco furba sono io a non aver approfittato in passato dell'insegnamento: "evitare le occasioni prossime di peccato".

Confesso che ho sempre avuto un atteggiamento di sufficienza di fronte a questo ammonimento, poiché confidavo nella mia capacità, alla fine, di fuggire il male ma mi sono sempre sbagliata e stavo per cascarci anche stavolta.

Accendere il televisore nelle sere d'estate talvolta ti mette davanti occasioni prossime di peccato: non c'è niente di interessante ma tu, pur di passare la sera, ti fermi un po' più del necessario davanti al film che è iniziato. Capisci subito che non ha un contenuto di valore, non è bello ma continuerà a proporti una storia strampalata, però densa di scene che offenderanno i tuoi sensi. Aspetti ancora un po' a spegnere, ma poi, finalmente e decisamente lo fai. E magari, come è successo a me, ti accorgi, io credo proprio per aver sfuggito una tentazione prossima di peccato, di quella videocassetta che hai comprato qualche mese prima e che avevi lasciato addirittura in bella vista per ricordarti di guardarla. Sono i due tempi del film che la RAI ha realizzato su papa Giovanni XXIII, che non avevo visto, quando la televisione le aveva programmate, per altri impegni.

Era già tardi per il tempo che avevo sprecato prima con l'inizio di quel film spazzatura, ma sono rimasta alzata fino alla fine del film, presa com'ero dalla bellezza della vita di Papa Giovanni. Che dono quella sera.

Terminato il film mi è venuta subito in mente la Bibbia da Vivere che la nostra comunità parrocchiale vive ogni mese: non l'avevo vissuta direttamente, poiché non era stato per averla ricordata che avevo rifiutato la visione di quel film.

E tuttavia sono stata certa che la Bibbia da Vivere del mese c'entrava in qualche modo con la mia decisione così fruttuosa: ho pensato che la grazia di Dio per me in quel momento mi veniva perché la mia comunità stava vivendo proprio quella frase del Padre Nostro: qualcuno di noi la stava vivendo e per quel qualcuno anch'io ne ho tratto beneficio.

Non dimenticherò questa esperienza e, soprattutto, sono convinta che l'ammonimento "evitare le occasioni prossime di peccato" adesso mi accompagnerà più direttamente di prima e anche che farsi santi insieme, oltre che bello, è davvero un dono inestimabile.

Un grazie a tutti quelli che vivono la Bibbia da Vivere nella nostra comunità.

tentazioni

inviato da Don Ambrogio Villa, inserito il 05/02/2006

ESPERIENZA

287. Marocchino

Mi sto dirigendo verso l'ospedale di Borgomanero, provo a parcheggiare l'auto dove non parcheggio di solito. Appena sceso, mi si fa incontro un marocchino sulla cinquantina molto cordiale e per nulla insistente, che mi richiede del farmaco antinfiammatorio per un insistente mal di schiena che lo affligge da tempo. Con me non ne ho e rispondo, forse anche per acquietarmi la coscienza, che lo avrei cercato nei reparti verso cui mi stavo dirigendo all'interno dell'ospedale.

Terminata la mia visita al reparto oncologico, mi appresto a tornare verso l'auto. Naturalmente mi ero scordato di quella richiesta fattami in precedenza e quindi il farmaco non era in mio possesso.

Non so al suo apparire cosa dire. Mi viene spontaneo, era lunedì, garantirgli un mio nuovo passaggio da quelle parti il mercoledì o il giovedì seguenti, ma dovevo ripassarci appositamente e quindi non mi era per nulla "comodo". Decisi, a tal punto, di tornare solo quando si fosse presentata l'occasione buona, magari anche dopo quindici giorni.

Lungo il viaggio di ritorno a casa, mi sovvenne alla memoria una frase, letta e meditata, nella quale, si diceva che S. Chiara, "contava" gli atti di amore compiuti in un giorno. Inoltre mi ricordavo come sia estremamente importante rispettare la parola data, sempre.

E allora, chi era per me in quel dato momento quel marocchino se non Gesù in persona affetto da mal di schiena che chiedeva a "me" quella data medicina, per di più difficile da reperire in quanto distribuita da un'azienda poco presente sul territorio nazionale?

Non so come fare, decido di passare comunque il mercoledì seguente anche se devo allungare la strada. Ma la pomata di quella data marca...?

Il giorno seguente sono all'ospedale di Busto Arsizio. Dopo il mio solito giro mi dirigo all'ora di pranzo verso casa anche per costatare le condizioni di mia moglie. Dirigendomi verso l'auto, passo sotto i portici ove è sito il bar presso il quale i colleghi si fermano per una spuntino. Passo vicino ad un tavolino.Mi arresto di colpo, mi volto e... trovo proprio quel collega di quella data ditta che produce la pomata che mi serve.Faccio presente che quel collega in un anno lo vedrò si e no sette, otto volte. Mi faccio consegnare i campioni di antinfiammatorio, pronto per correre il giorno seguente a Borgomanero. Arrivato intravedo il marocchino, abbasso il finestrino, consegno quanto dovuto ricevendo un grande sorriso ed un "grazie amico". Con rinnovata gioia nel cuore riprendo il mio "solito" giro.

coerenzasolidarietàcarità

inviato da Don Ambrogio Villa, inserito il 05/02/2006

RACCONTO

288. Ambra: tra globalizzazione e universalismo

M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare

In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".

Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".

Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.

Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.

Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.

Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.

Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.

Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.

Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».

pregiudizidiversitàconvivenzarazzismodiscriminazionemulticulturalitàglobalizzazionetolleranzapacepopoliconvivere

5.0/5 (2 voti)

inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 05/01/2006

TESTO

289. Come candele davanti al Tabernacolo   1

San Luigi Orione

San Luigi Orione, con questo suo scritto del 2/2/1938, ci ricorda il compito affidatoci da Gesù di essere la luce del mondo e sottolinea che quella luce si alimenta solo dinanzi al Tabernacolo, dinanzi a Gesù Eucaristia.

Quando si nasce, e ci portano al battesimo, si prende e si accende una di quelle candele benedette e la si mette nelle mani del padrino e della madrina che fanno per noi le promesse... Ma la candela si accende anche quando si muore, nell'atto in cui si raccomanda l'anima, nell'atto in cui essa sta per passare da questo mondo all'altra vita, quando il sacerdote pronuncia le parole: "Presto, o anima, ritorna al Padre che ti ha creato, ritorna al Figlio che ti ha redenta, ritorna allo Spirito che ti ha illuminata, che ti ha riempita di carismi"... La candela che si accende quando si è fatti cristiani sarà presente allorquando dovremo rendere conto del come si è condotta la vita, se veramente ci siamo mostrati veri seguaci di Cristo.

Con il Battesimo, siamo dunque noi stessi come candele accese che dovranno rendere conto della qualità della propria luce.

Le proprietà della candela sono diverse: la candela è diritta, e noi dobbiamo essere diritti, retti, sempre retti, sempre mostrarci retti se vogliamo essere veramente seguaci di Gesù Cristo. Dobbiamo morire pur di essere sempre moralmente retti, se vogliamo veramente essere cristiani.

La candela è bianca e noi dobbiamo mantenere bianca la nostra anima, coltivare nella nostra anima la virtù della purezza che ci fa bianchi all'occhio del Signore; virtù che è il giglio delle virtù, la bella virtù. Virtù che in modo grande splendette nella Vergine Santa...

La candela è ardente, manda luce, è calda. Così deve essere la vita nostra; non tiepida, non smorta, ma calda.

Dobbiamo ardere ed ardere di un amore grande di Dio e del prossimo. Dobbiamo fare sì che il Comandamento dell'amore sia in noi. Facciamolo ardere l'amore nel nostro petto; facciamolo affocare nel nostro cuore. Facciamo splendere la bella virtù... Dobbiamo essere lucerna ardente sicché tutti vedano, nella luce nostra, risplendere la luce di Dio, sentano il Signore, sentano la vita di Dio, la verità di Dio.

Andiamo da Gesù Eucaristia ad imparare la rettitudine, la purezza, una vita calda di amore a Dio e al prossimo.

La candela poi si offre e si consuma, in generale, davanti all'immagine dei Santi e davanti al Santissimo. E così deve ardere, splendere, consumarsi la nostra vita, deve consumarsi davanti a Dio.

La nostra vita sia come la candela che arde, splende e si consuma per amore di Dio e del suo Regno.

candelatestimonianzaessere cristianibattesimogiudiziocoerenza

2.5/5 (2 voti)

inviato da Lia Sirna, inserito il 05/01/2006

PREGHIERA

290. Signore, perché mi hai detto di amare?   2

Michel Quoist

Signore, perché mi hai detto di amare tutti gli uomini,
miei fratelli?
Ho cercato, ma torno a te sgomento...

Signore, ero tanto tranquillo a casa mia,
avevo ordinato la mia vita, mi ero sistemato.
La mia casa era arredata e mi ci trovavo bene.

Solo, andavo d'accordo con me stesso.
Al riparo dal vento, dalla pioggia, dal fango.
Sarei rimasto puro, chiuso nella mia torre.
Ma nella mia fortezza, Signore, hai scoperto una falla,
Mi hai costretto a socchiudere la porta,
Come una raffica d'acqua in viso, mi ha destato il grido degli uomini;
Come un vento burrascoso, mi ha scosso un'amicizia;
Come s'infiltra un raggio di sole, la tua grazia mi ha inquietato
...ed imprudentemente ho lasciato socchiusa la porta.
Signore, ora son perduto!
Fuori gli uomini mi spiavano.
Non sapevo che fossero tanto vicini; in questa casa, in questa via, in quest'ufficio;
il vicino, il collega, l'amico.
Non appena ho socchiuso, li ho visti, con la mano tesa, lo sguardo teso, l'anima tesa che
chiedevano come mendicanti alle porte delle chiese.

I primi sono entrati in casa mia, Signore. Vi era pure un po' di posto nel mio cuore.
Li ho accolti, li avrei curati, li avrei accarezzati, le mie pecorelle, il mio piccolo gregge.
Saresti rimasto contento, Signore, ben servito, ben onorato, con decoro, con finezza.
Fin lì, era ragionevole...
Ma quelli che seguivano, Signore, gli altri uomini, non li avevo veduti; i primi li nascondevano.
Erano più numerosi, erano più miserabili, mi hanno aggredito senza dar l'allarme.
È stato necessario restringersi, fare posto in casa mia.

Ora, son venuti da ogni dove, a ondate successive, che si sospingevano l'un l'altra,
si urtavano.
Son venuti da ogni dove, dalla città tutta, dalla nazione, dal mondo;
innumerabili, inesauribili.
Non son più isolati, ma a gruppi, in catena, legati gli uni agli altri, mescolati, saldati,
come pezzi di umanità.
Non son più soli, ma carichi di pesanti bagagli;
bagagli d'ingiustizia, bagagli di rancore e di odio, bagagli di sofferenza e di peccato...
Trascinano il Mondo alla loro sequela, con tutto il suo materiale arrugginito e contorto,
o troppo nuovo e mal messo, mal impiegato.

Signore, mi fanno male! Sono ingombranti, sono invadenti.
Hanno troppa fame, mi divorano!

Non posso più far nulla; quanto più entrano e tanto più
spingono la porta e tanto più la porta si apre... Ah, Signore! La mia porta è spalancata!
Non ne posso più! E' troppo per me! Non è più una vita!
E la mia situazione?
E la mia famiglia?
E la mia tranquillità?
E la mia libertà?
Ed io?
Ah! Signore, ho perso tutto, non sono più mio;
Non c'e più posto per me a casa mia.

Non temere nulla, dice Dio, hai guadagnato tutto,
perché mentre gli uomini entravano in casa tua,
io tuo Padre,
io, tuo Dio,
mi sono infiltrato tra loro.

accoglienzasolidarietàamoreimpegnoresponsabilitàpovertàricchezza

inserito il 31/12/2005

ESPERIENZA

291. Jacques Fesch: la drammatica storia di un giovane moderno   1

Chi è Jacques Fesch? E' un giovane moderno, che a 24 anni commette un terribile delitto, epilogo di una vita vuota e senza ideali, piena di egoismo e di capricci. Ecco una veloce cronaca del delitto. Il 24 febbraio 1954 Jacques entra al mattino nel negozio di un cambiavalute e ordina un quantitativo d'oro. L'uomo si fida perché sa che alle spalle del giovane c'è un opadre facoltoso che può pagare. Nel pomeriggio dello stesso giorno Jacquaes torna per prelevare l'oro e approfittando di un momento di disattenzione del cambiavalute lo colpisce alla testa con il calcio della pistola del padre. Il cambiavalute reagisce urlando. Jacques fugge e si nasconde in un palazzo vicino fino a che è riconosciuto da un polizziotto accorso sul posto. All'ingiunzione di fermarsi Jacques spara e uccide l'agente di polizia. Intervengono poi altri agenti che lo catturano.

Perché questo delitto assurdo? Jacques voleva aprire una propria attività e chiede un grosso prestito al padre che glielo rifiuta. Sa che il figlio ha le mani bucate! Allora Jacques decide di compiere una rapina: di procurarsi i soldi con l'inganno.

Che cosa accade in carcere? Viene raggiunto dal cappellano ma egli lo rifiuta dicendo: "Io non ho la fede e non ho bisogno di lei!". Passano i giorni, chiuso tra quattro pareti, solo con la sua disperazione. Ma una notte: "Era una sera, nella mia cella... Nonostante tutte le catastrofi che da alcuni mesi si erano abbattute sulla mia testa, io restavo ateo. Ora quella sera, ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita per le conseguenze del mio delitto; ed è allora che un grido mi scaturì dal petto, un appello di soccorso: "Mio Dio, Mio Dio aiutami!". E instantaneamente, come un vento violento, che passa senza che si sappia dove viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola! Ho creduto e non capivo più come avessi fatto prima a non credere. La grazia mi ha visitato e una grande gioia s'è impossessata di me e soprattutto una grande pace". Quella notte Jacques udì una voce che gli diceva: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Una frase per lui incomprensibile, il cui senso capirà più tardi.

Inizia una nuova vita in Cristo. Il cambiamento di questo giovane è qualche cosa di straordinario: è una testimonianza di quanto Dio può operare. "Ora veramente ho la certezza di cominciare a vivere per la prima volta. Ho la pace e ho dato un senso alla mia vita, mentre prima non ero che un uomo morto!". Jacques organizza la vita in prigione come la vita in un monastero: si dà un orario per la preghiera, legge libri religiosi e la Bibbia, scrive lettere per dare conforto ai suoi famigliari, che stanno vivendo una grossa crisi, vuole soprattutto poter vivere per riparare il male fatto.

Arriva il giorno del processo: il 3 aprile 1957 si apre il processo che si conclude con la sua condanna a morte. In quel momento capisce la frase: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Jacques dopo un iniziale smarrimento vive la sentenza e la condanna come una vocazione ad amare fino in fondo la croce di Gesù. Egli desidera prepararsi spiritulamente alla sua morte e desidera salutare da vero cristiano tutti coloro che lo hanno amato e coloro a cui ha fatto del male. Scrive alla moglie e alla sua piccola figlia di 6 anni, si mette in contatto, tramite il suo avvocato anche con la famiglia del gendarme che lui ha ucciso per chiedere il perdono. Nonostante il grande cambiamento di vita che stupisce lo stesso presidente della Repubblica a cui era stata inoltrata la domanda di grazia, la sentenza viene confermata per il 30 settembre.

Le ultime ore: l'attesa dell'incontro con Gesù. "Ancora soltanto qualche ora di lotta, prima di conoscere Colui che è l'Amore. Oggi sarò in cielo. Cara mamma, innanzi tutto ti devo dire un grosso grazie per tutto l'amore di cui mi hai circondato in questi ultimi mesi... Tu sai che Gesù ha detto nel suo vangelo: Ero carcerato e siete venuti a visitarmi. Con queste righe io ti affido la mia bambina e mia moglie. Proteggile assiduamente. Amale in Dio e sii certa che di lassù io vi proteggerò e veglierò su di voi...". Alle 5,30 del mattino del 30 settembre le guardie carcerarie che sono veute a prenderlo per l'esecuzione capitale, lo trovano in ginocchio e in preghiera accanto al letto rifatto. Si confessa e riceve l'Eucarestia. Abbraccia il crocefisso e si avvia verso la ghigliottina... Le ultime sue parole: "Signore non abbandonarmi, io confido in te!".

confessioneconversionecambiare vitapeccatomisericordia di Dio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 13/12/2005

TESTO

292. Il Segno della Croce

Matteo Salvatti

Che dono, che grande dono, il Segno della Croce! Non dovremmo mai stancarci di ringraziare il Signore per questo gesto di amore verso di noi. Un dono eterno, che mai si esaurisce e che sempre possiamo sfruttare a nostro beneficio.

Con il segno della santa croce noi veniamo inglobati, subito, all'istante, nel grande vortice del paradiso. Siamo già in paradiso, siamo già con Lui! Non c'è istante della vita in cui non possa essere composta questa melodia del cielo. Non c'è problema che non sia immediatamente alleviato da quel gesto. Un gesto universale, perché non esiste preghiera tanto semplice e tanto bella. Una preghiera così universale che ingloba tutti, che si esprime con il solo linguaggio dell'amore, che travalica, supera ogni lingua, così che davanti a quel gesto tutte le nazioni, tutti i continenti si scoprono davvero fratelli.Ogni volta che tracciamo il segno della croce su di noi, ci tocchiamo prima il capo: simbolo della ragione, perché la ragione è essenziale per giungere a Dio, la cui conoscenza non è gioco cieco, avventura spericolata. Poi ci tocchiamo il cuore, perché la fede è l'amore, è l'amore di Dio, è il Suo dono gratuito, senza il quale non possiamo credere, è fondamentale la sua grazia. E infine ci tocchiamo le spalle, perché è il nostro corpo, la nostra responsabilità, la nostra singolarità di persone che alla fine deve accettare Dio. Ognuno lo deve accettare singolarmente, con una adesione personale.

Ma il segno della croce non testimonia solo la fede: il segno della croce testimonia anche la carità. Noi ci tocchiamo il capo, perché dobbiamo conoscere Dio con le parole, tramite la Sua rivelazione, tramite la Sua parola rivelata, ma ci tocchiamo anche il cuore, perché poi dobbiamo saper meditare, come Maria, tutto nell'amore, e infine ci tocchiamo per due volte le spalle: perché tutto deve trasformarsi in carità operosa, altrimenti tutto diventa sterile.

Il segno della santa croce: tracciamo su di noi il segno della croce di Gesù, il vessillo glorioso, la nostra salvezza. Con quel gesto noi abbracciando noi stessi con le nostre stesse braccia abbracciamo Gesù e ci doniamo completamente e totalmente a Lui, accettiamo apertamente la Sua Croce.

Il segno della Santa Croce: l'orgoglio dei cristiani: quel gesto da compiere tutti i giorni, più volte al giorno, in tutte le circostanze. Anche quando la malattia impedisce la parola o neppure ci si può alzare dal letto, quel gesto fatto con fede quanta pace dona, quanta gioia, quanti miracoli ottiene!

crocesegno di croce

inviato da Matteo Salvatti, inserito il 09/12/2005

TESTO

293. Il mistero del male. La bellezza che salva

Abbé Pierre

La situazione del mondo è tale, che ci è impossibile non interrogare Dio. Dio che è eterno Amore, Amore infinito. Personalmente, nei miei 93 anni ormai, avendo anche avuto l'occasione di vedere e di toccare con mano, in ogni angolo della terra, tante miserie, tante ingiustizie, tanti mali, tanti crimini, tanti delitti di ogni sorta, più di una volta ho osato chiedere: "Dio mio, ma perché? A che gioco stai giocando? Forse al massacro dell'umanità?". Ho letto da qualche parte che anche Woody Allen, lui pure ferito da questa crudele realtà, ha esclamato: "se Dio esiste, spero abbia una spiegazione di tutto questo...".

E' comprensibile non capire questa "assenza" di Dio, e gridargli con tutto l'Amore e anche la rabbia che abbiamo dentro di noi: "Signore basta! Quanti miliardi di persone innocenti devono ancora soffrire e morire ingiustamente?". Certo, amo Dio profondamente e credo con tutte le mie forze che Lui può tutto, anzi è Tutto, ma non posso stare zitto. Di questa situazione del mondo, non capisco nulla. Non capisco nulla, ma a differenza di Woody Allen che "spera", io sono che Dio ha una spiegazione.

Credo nella perfezione infinita di Dio, ma nello stesso tempo mi interrogo, devo interrogarmi sul perché di questa sofferenza così ingiusta e detestabile.

E so benissimo che mentre io sento il bisogno, il dovere di gridare a Dio: "Mio Dio, basta!", Lui pure, a sua volta, avendoci dotati di intellligenza e di responsabilità, potrebbe gridarci ugualmente: "Basta!". E chiederci conto di come mai, anziché utilizzare la nostra intelligenza, le nostre risorse e le nostre conoscenze per alimentare sulla terra solo paure e guerre, per disumani sfruttamenti dei più deboli, per rompere l'armonia del creato spezzando le regole che regolano l'ambiente, non mettiamo le nostre qualità migliori al servizio dell'umanità, cominciando dai più deboli e dai più sofferenti. Gridiamo pure "Basta" a Dio, ma sappiamo anche ascoltare i suoi "Basta"... questo non ci impedisce di vedere la bellezza e la bontà che pur esitono nel mondo: nella vita che comincia, ovunque e comunque, nell'immensità del mare, nell'incanto delle stelle, soprattutto nella gioia del sorriso dei bimbi... questi doni che Dio ci fa di continuo possono essere una prima spiegazione alle nostre giuste interpellanze di Dio. E devono essere anche le ragioni per dare, da parte nostra, la risposta alle interpellanze di Dio nei nostri confronti. Non possiamo dimenticare che la prima risposta di Dio ai nostri interrogativi sull'esistenza del male nel mondo è la reale presenza di Gesù nell'Eucaristia. Questa presenza esige coerenza nella vita di noi cristiani. Pur non dandoci la risposta, l'Eucaristia ci indica da che parte stare, concretamente, in questo mondo minato dall'odio, dal terrorismo, dalla miseria e dalla sofferenza, non solo materiale, di troppo miliardi di figli di Dio. Innocenti. Ci dà la forza di non scoraggiarci, pur così terribilmente fragili. Ci rende capaci, se lo vogliamo, di donarci tutti agli altri, ben sapendo che non possiamo essere felici prendendo ma donandoci senza riserva, senza altri calcoli, senza speculazione alcuna, agli altri. E non dimentichiamo che lo spirito di Dio soffia. Dove e come vuole. Una "sveglia" per tutti gli umani.

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inviato da Don Giovanni Benevenuto, inserito il 09/12/2005

TESTO

294. A te che soffri   2

A te che in questo momento stai soffrendo: ti chiedo di essere forte, di scoprire la luce che brilla nella tua anima. Sentiti avvolto dalla mia grazia che mai ti abbandona, il mio sguardo è su di te e ti amo infinitamente. Dalla croce pesante del tuo dolore grida il tuo amore verso di me, non perderti d'animo, colora la tua esistenza con i pastelli più incisivi, sappi scoprire la bellezza di essere un vero prodigio e non temere mai nulla, Io ti sono sempre vicino, ti sostengo e guido i tuoi passi dovunque tu andrai... a volte comprendo che ti senti solo e perso tra le mura di un ospedale o della tua casa, ma sappi che io sono seduto accanto a te, ti sussurro all'orecchio dolci parole, ti parlo come ad un amico, a un fratello, a un bimbo... sei una persona splendida per me e mai ti dimenticherò... sei nel mio cuore, ricco di amore e di tenerezza, a volte pensi che sia io a farti soffrire ma come potrei? ti ho fatto di poco inferiore agli angeli, di gloria e di onore ti ho coronato, come potrei farti tutto questo e come mi potrei dimenticare di te?

Figlio mio carissimo, da tempo ho fissato i miei occhi su di te, sei amabile e ricco di tenerezza, soffro con te e per te, vivo con te il dolore che ti consuma e ti stringe dentro l'anima, ma tu sii forte, sii tenace nella tua impresa e a tutti devi saper donare un sorriso, anche quando ti costa... vedo anche come vivi la terapia, il disagio per le tante prestazioni che devi subire, ma abbandonati a me e non temere mai nulla, come un bimbo stretto tra le braccia della sua tenerissima madre, tale sei tu, stretto nell'abbraccio del mio amore e mai ti abbandonerò, perché so che tu mi sai ascoltare, mi sai amare...figlio mio tenerissimo, ho un amore speciale per te, credimi, come la pupilla dei miei occhi, così voglio proteggerti e stringerti a me...

Consegnami il tuo cuore, la tua anima, la tua persona e lasciati abitare dalla mia grazia, solo così potrai essere la mia dimora, abiterò in te e farò di te un raggio della mia presenza..

Grazie di quanto ogni giorno mi regali, grazie di ogni sorriso nella sofferenza e grazie perché nonostante tanto dolore, sai guardare a me con grande amore e speranza...

Tuo Padre Dio

sofferenzaabbandono in Diodolorecroce

inviato da Don Gianni Mattia, inserito il 08/12/2005

RACCONTO

295. Sassi   3

Un giorno, un anziano professore della "Scuola Nazionale di Amministrazione Pubblica" (ENAP) fu assunto per tenere un corso sulla Pianificazione efficace del proprio tempo a un gruppo di una quindicina di dirigenti di grandi compagnie nordamericane.

Il corso costituiva una delle 5 materie della loro giornata di formazione. Il vecchio professore disponeva solo di un'ora per il suo corso. Stando in piedi, davanti a quest'elite (pronta a prender nota di tutto quello che l'esperto avrebbe insegnato) l'anziano insegnante li guardò uno ad uno, lentamente, poi disse:
"Oggi faremo un'esperienza".

E tirò fuori da sotto la cattedra che li separava un grosso recipiente (che conteneva più di 4 litri) che posò delicatamente davanti a sé. Subito dopo tirò fuori una dozzina di sassi, grandi come una palla da tennis, e li pose con delicatezza, uno per uno, dentro al grande vaso. Quando fu pieno, di modo che non era più possibile aggiungerci un altro sasso, domandò ai suoi allievi: "Secondo voi, il vaso è pieno?".
Essi risposero in coro: "Sì".

Il vecchio attese qualche secondo e poi domandò: "Veramente?". Allora si piegò e tirò fuori da sotto il tavolo un recipiente contenente del granigliato di marmo. Con minuzia, versò il granigliato nel vaso e i pezzettini andarono ad infilarsi fra un sasso e l'altro... fino alla base.

Sollevando lo sguardo verso il suo uditorio, domandò di nuovo: "E adesso è pieno?". Questa volta i suoi brillanti allievi cominciarono a comprendere, e uno di essi disse:
"Probabilmente, no".

"Bene" - riprese l'insegnante. Si piegò di nuovo, e questa volta tirò fuori un sacchetto di sabbia. Con precisione, versò la sabbia nel vaso. La sabbia riempì gli interstizi lasciati liberi dai sassi e dal granigliato.
Ancora una volta, domandò: "E adesso, il vaso è pieno?".

E questa volta, senza esitare, tutti gli allievi risposero in coro: "No!".

"Bene!", disse il vecchio. E come i suoi prestigiosi allievi si attendevano, prese la caraffa d'acqua che era sulla cattedra e riempì il vaso fino al bordo. Sollevando lo sguardo verso il gruppo, l'insegnante domandò: "Qual è la grande verità che ci dimostra questo esperimento?".

Il più audace degli allievi, riflettendo sul soggetto della materia, disse con orgoglio: "Questo dimostra che, anche quando crediamo che la nostra agenda sia completamente piena, se lo si vuole veramente, possiamo aggiungere ancora qualche appuntamento, qualcosa da fare".

"No - rispose il vecchio prof. - non si tratta di questo. La grande verità che ci dimostra quest'esperienza è la seguente: Se noi non infiliamo i sassi per primi nel vaso, non potremo mai farceli stare tutti, dopo!".

Ci fu un profondo silenzio. Ciascuno prendeva coscienza dell'evidenza di questa verità.

Il vecchio prof., allora, aggiunse: "Quali sono i grandi sassi nella vostra vita? La salute? La Famiglia? Gli amici? Realizzare i vostri sogni? Fare quello che vi piace? Imparare? Difendere una causa? Riposarsi? Dare ad ogni cosa il suo tempo? O... qualsiasi altra cosa? Quello che dovete imparare, è l'importanza di mettere i GROSSI SASSI in primo piano, nella vostra vita, se no rischierete di fallire! Se darete la precedenza alle quisquiglie (il granigliato, la sabbia) riempirete la vita di stupidaggini e non avrete abbastanza tempo da consacrare agli elementi importanti della vostra vita. Allora, non dimenticate di porvi la domanda: Quali sono le grosse pietre della mia vita? E in seguito, mettetele nel vaso!".

Con un gesto amicale della mano, il professore salutò il suo auditorio e abbandonò lentamente l'aula.

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/11/2005

PREGHIERA

296. Chiamati a volare

Giuliana Martirani

Parla all'io cuore, Signore.
"Ti sto parlando. Ma perché hai paura?
Eppure non avevi paura di incontrare illustri sconosciuti
che potevano portarti a sfiorare i pantani della vita!
E hai paura di me, l'unico che hai conosciuto meglio di tutti?
Mi hai conosciuto. Non è forse vero?
Puoi forse dire che conosci i pensieri, i sogni e i palpiti di qualcun altro, come conosci i miei?
Sono tanti anni che li racconto personalmente a te.
Quali sogni conosci meglio dei miei?
Ti ho conosciuto, chi ti conosce meglio di me?
Forse qualcuno ha saputo intravedere i tuoi talenti anche quando non si vedevano,
soffocati com'erano da mille croste?
Forse qualcuno ha puntato su di te come ho fatto io, con determinazione e sicurezza?
Io sapevo di te quando tu neanche ti supponevi.
E allora, se io conosco così bene te e tu così bene me, perché hai paura?
Sono forse un fantasma?
Ti ha fatto compagnia un fantasma durante le notti di paura e solitudine?
E' forse un fantasma quello che, con le mani della provvidenza, ti ha mandato cibo, casa e vestiti per te e i tuoi figli?
Tu dici: - Può essere fantasia, autosuggestione tutto ciò?
E se fosse tutto una follia? -
Io ti rispondo: E' forse una follia andare insieme sul monte della felicità,
o era una follia affidarsi ciecamente a gente più cieca di te?
E' forse una follia la dimensione dello spirito sulla quale voglio farti volare,
o non è forse più follia restare terra terra quando invece il Padre nostro
ci ha fatto giganti spirituali con ali per volare?
Non aver paura, non è una follia. Solo resta tranquillo, seguimi, attaccati alle mie ali
e comincia a volare con me.
Quando ti vedrò sicuro nel volo, solo allora ti lascerò volare da solo!
Ma dovrai volare da solo, perché non posso fare la balia per sempre.
Devi diventare adulto e aiutarmi perché è per diffondere l'amore
che mi sono fatto conoscere da te, è per essere amato e per far conoscere agli altri,
attraverso il rapporto d'amore mio e tuo, che l'amore di Dio è una seria e concreta.
Perché vedano e, vedendo, ne abbiano voglia anche loro.
Per questo mi sono fatto conoscere da te".

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inviato da Leo, inserito il 10/10/2005

TESTO

297. La croce di Cristo, nostra salvezza

S. Teodoro Studita, Discorso sull'adorazione della croce; PG 99, 691-694, 695, 698-699

O dono preziosissimo della croce! Quale splendore appare alla vista! Tutta bellezza e tutta magnificenza. Albero meraviglioso all'occhio e al gusto e non immagine parziale di bene e di male come quello dell'Eden.

E' un albero che dona la vita, non la morte, illumina e non ottenebra, apre l'udito al paradiso, non espelle da esso.

Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno. Su quel legno sale il Signore, come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso.

Prima venimmo uccisi dal legno, ora invece per il legno recuperiamo la vita. Prima fummo ingannati dal legno, ora invece con il legno scacciamo l'astuto serpente. Nuovi e straordinari mutamenti! Al posto della morte ci viene data la vita, invece della corruzione l'immortalità, invece del disonore la gloria.

Perciò non senza ragione esclama il santo Apostolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).

Quella somma sapienza che fiorì dalla croce rese vana la superba sapienza del mondo e la sua arrogante stoltezza. I beni di ogni genere, che ci vennero dalla croce, hanno eliminato i germi della cattiveria e della malizia. All'inizio del mondo solo figure e segni premonitori di questo legno notificavano ed indicavano i grandi eventi del mondo. Stai attento, infatti tu, chiunque tu sia, che hai grande brama di conoscere. Noè non ha forse evitato per sé, per tutti i suoi familiari ed anche per il bestiame, la catastrofe del diluvio, decretata da Dio, in virtù di un piccolo legno? Pensa alla verga di Mosè. Non fu forse un simbolo della croce? Cambiò l'acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi, percosse il mare e lo divise in due parti, ricondusse poi le acque del mare al loro normale corso e sommerse i nemici, salvò invece coloro che erano il popolo legittimo. Tale fu anche la verga di Aronne, simbolo della croce, che fiorì in un solo giorno e rivelò il sacerdote legittimo. Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna.

La morte fu uccisa dalla croce e Adamo fu restituito alla vita. Della croce tutti gli apostoli si sono gloriati, ogni martire ne venne coronato, e ogni santo santificato. Con la croce abbiamo rivestito Cristo e ci siamo spogliati dell'uomo vecchio. Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore.

crocesalvezzaredenzione

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inviato da Anna Barbi, inserito il 02/10/2005

TESTO

298. Terza Lettera a Timoteo   2

Francesco Lambiasi

La seguente lettera è uno "pseudoepigrafo paolino", sulla conversione missionaria del prete; è una simpatica e profonda lettera rivolta da un vescovo ai preti di oggi.

Carissimo fratello Timoteo,

da circa un mese sei parroco in Santa Maria del terzo Millennio. Come non ricordare la solenne e commovente "presa di possesso"? L'unica pecca che stava per guastare la festa fu proprio quella bruttissima espressione - "presa di possesso" - che il cancelliere vescovile voleva implacabilmente inserire nel verbale da conservare nell'archivio Diocesano e in quello parrocchiale. Ti ho letto nel lampo degli occhi che stavi per scattare - per dire con la vostra brutalità giovanile che non ti sentivi affatto un vassallo in atto di prendere possesso del suo ambìto feudo. Intervenni io, un po' a gamba tesa, e spiegai alla tanta gente in festa che tu, la parrocchia, non l'avresti mai e poi mai vista come un "tuo" possesso, ma solo come un dono immeritato e preziosissimo, e a quel punto mi permisi un'autocitazione, presa dalla mia seconda lettera ai cristiani di Corinto: noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia.

Mi telefonasti la sera dopo, e mi dicesti: "Che bella parrocchia! E c'è anche la luna!". Da allora non ti ho più visto né sentito, ma dato che siamo al primo... "trigesimo" di quel felice inizio, ho pensato bene di scriverti questa breve lettera, perché vorrei che la tua gioia di essere parroco crescesse di giorno in giorno.

Sì, lo so: questo miracolo della beatitudine è purtroppo un po' raro tra noi pastori, ma non è improbabile e niente affatto impossibile. Ed è proprio di questo che vorrei parlarti. Stai sereno, non ti rifilo un trattato di ascetica e mistica sulla carità pastorale. Ti vorrei parlare solo di una condizione assolutamente irrinunciabile - "sine qua non", si diceva ai miei tempi - perché il miracolo si avveri. Sarai un parroco felice nella misura in cui sarai un vero missionario. Non si scappa: o missionari o... dimissionari.

E' una conversione profonda, che bisogna rinnovare ogni giorno. Ogni mattina, prima di mettere i piedi fuori dal letto, beato te se dirai: "Grazie, Signore, per avermi creato, fatto cristiano, e grazie per avermi fatto questi piedi belli per il vangelo". Scrivi sullo specchio in sagrestia, o almeno in quello del bagno: "Non sono un professionista del sacro, né un insegnante della fede: sono un annunciatore del vangelo". Quando ero a Corinto io avevo scritto sulla porta della stanzetta nella casa di Aquila e Priscilla: Non sono stato mandato qui a battezzare, ma ad evangelizzare.
Ricordi la grammatica di base del missionario, che ti ho insegnato quando prima di essere tuo vescovo, ti ho fatto da rettore in seminario? E' una grammatica costruita su un quadrilatero di certezze che devono rimanere solide più delle fondamenta della tua splendida chiesetta romanica:

- La parola di Dio è come l'acqua e la neve, se cade...
- La Parola non è lontana, ma molto vicina al cuore, anzi è dentro. Basta trovare il modo per far scattare il contatto...
- "Come agnelli tra i lupi" non è per farci sbranare, ma per far accogliere il messaggio: quanto più siamo deboli umanamente...
- A noi tocca il compito di annunciare. E' il Signore che veglia sulla sua parola perché si realizzi...

Stai attento, Timoteo: devi essere severo nel vigilare che questo spirito missionario non venga aggredito da virus micidiali, quali l'IO-latria del prete che pensa: "Come me non c'è nessuno: prima di me e dopo di me, non ci sarà nessuno uguale a me!". Perciò niente cose alla "W il parroco!". Un altro virus che fa strage in casa nostra è quello dello stress da pastorale: correre, competere, confliggere e alla fine... l'eterno riposo! Ma non c'è da scherzare neanche con la depressio clericalis (si chiama così anche quando infetta i laici): la si vede come un messaggio scritto sulla maglietta in quei "nostri" che vanno in giro con l'aria fritta di chi sembra dire: "fateme 'na flebo". Ti ripeto: devi essere severo. E se lo sarai con te, potrai vigilare anche sullo spirito missionario dei "vicini". Per esempio i gruppi - dal coro a quello liturgico, a quello catechistico e caritativo, dall'AC ai carismatici - non devono essere luoghi di potere o gradini per emergere (è un pericolo sempre in agguato), ma sviluppare il servizio al vangelo. Allora la tua - la vostra - parrocchia non sarà una scuola in cui si spiega il cristianesimo o, peggio ancora, un ufficio di controllo della fede dei parrocchiani, ma riuscirete a far circolare la parola di Dio per le strade, in modo che la gente la incontri.

E con gli altri? Quelli che si servono della parrocchia per continuare abitudini e consuetudini sociali; quelli che la ignorano: cosa puoi esigere se non hanno le motivazioni? Allora ringrazia Dio tutte le volte che càpitano a messa. Tutte le volte che ti portano i figli al catechismo. Tutte le volte che ti chiedono i sacramenti, per sé o per i figli, o il funerale per il caro estinto. Anche se per le loro motivazioni non proprio di fede. Tutte le volte! Non è una disgrazia: è un dono di Dio che vengano, quando saresti tu che dovresti andare a cercarli.

Accogliendoli così come sono, non farai finta che abbiano le tue motivazioni. Quindi non li rimproveri e non li ricatti, non imponi loro dei compiti come se avessero le tue motivazioni, non parli loro e non fai prediche come se avessero la fede. Ti comporti da missionario: entri nella loro situazione, cerchi di capire le loro domande e i loro interessi, parli la loro lingua, proponi con libertà e chiarezza il messaggio, non imponi loro dei fardelli che nemmeno tu riesci a portare.
Per finire, permettimi di ricordarti alcune regole che ti potranno servire per misurare il tuo spirito missionario.

1. Non maledire i tempi correnti: è arrivato al capolinea il cristianesimo dell'abitudine e sta rinascendo il cristianesimo per scelta, per innamoramento.
2. Non anteporre nulla all'annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto. Afferra ogni situazione, ogni problema, ogni interesse e riportalo lì, al centro di tutta la fede.
3. Annuncia il cristianesimo delle beatitudini e non vergognarti mai del vangelo della croce: Cristo non toglie nulla e dà tutto!
4. Il vangelo è da proporre, non da imporre. Non imporlo mai a nessuno, neanche ai bambini, soprattutto ai bambini: gli resterebbe un ricordo negativo per tutta la vita.
5. Non amareggiarti per l'indifferenza dei "lontani" e non invocare mai il fuoco dal cielo perché li consumi, ma fa' festa anche per uno solo di loro che si converte.
6. Ricorda: il kerygma non è come un chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Il messaggio cristiano non è da ripetere meccanicamente, è da reinterpretare nella mentalità e nella lingua della gente: vedi s. Paolo. Scusami: guarda me...
7. Sogna una parrocchia che sia segno e luogo di salvezza, non club di perfetti.
8. Non credere di comunicare il vangelo da solo! Almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72! Creare un gruppo di parrocchiani veri per evangelizzare i presunti tali.
9. Ricordati che i laici non vanno usati come ausiliari utili, ma vanno aiutati a diventare collaboratori corresponsabili.
10. Non ridurti mai a vigile del traffico intraparrocchiale: tu non sei il coordinatore delle attività o il superanimatore di gruppi, ma sei una vera guida, sei il primo evangelizzatore.

Ti auguro di credere sempre nella presenza forte e dolce dello Spirito Santo e ti raccomando di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani.

Caro Timoteo, ti ripeto quanto ti scrissi nella mia prima Lettera: Custodisci con cura tutto quanto ti è stato affidato. Evita le chiacchiere contrarie alla fede. E ti raccomando pure quanto ti scrissi nella seconda Lettera: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inopportuna, rimprovera, raccomanda e incoraggia con tutta la tua pazienza.

La grazia sia con te e con tutti i fedeli della tua comunità, anche con quelli che ancora non sei riuscito ad incontrare!

Paolo, missionario di Gesù Cristo

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inserito il 01/10/2005

TESTO

299. L'agnello immolato ci strappò dalla morte

Melitone di Sardi, vescovo, Omelia sulla Pasqua» capp. 65-67; SC 123, 95-101

Molte cose sono state predette dai profeti riguardanti il mistero della Pasqua, che è Cristo, «al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Gal 1, 5, ecc.).

Egli scese dai cieli sulla terra per l'umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.

Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e le membra del nostro corpo con il suo sangue.

Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto.

Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.

Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell'agnello fu sgozzato.
Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.

Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e, risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione.

Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro.

pasquaredenzionestoria della salvezza

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inviato da Anna Barbi, inserito il 29/09/2005

TESTO

300. Un decalogo per il papà   4

Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano, marzo 2005

1°. Il primo dovere di un padre verso i suoi figli è amare la madre. La famiglia è un sistema che si regge sull'amore. Non quello presupposto, ma quello reale, effettivo. Senza amore è impossibile sostenere a lungo le sollecitazioni della vita familiare. Non si può fare i genitori "per dovere". E l'educazione è sempre un "gioco di squadra". Nella coppia, come con i figli che crescono, un accordo profondo, un'intima unione danno piacere e promuovono la crescita, perché rappresentano una base sicura. Un papà può proteggere la mamma dandole in "cambio", il tempo di riprendersi, di riposare e ritrovare un po' di spazio per sé.

2°. Il padre deve soprattutto esserci. Una presenza che significa "voi siete il primo interesse della mia vita". Affermano le statistiche che, in media, un papà trascorre meno di cinque minuti al giorno in modo autenticamente educativo con i propri figli. Esistono ricerche che hanno riscontrato un nesso tra l'assenza del padre e lo scarso profitto scolastico, il basso quoziente di intelligenza, la delinquenza e l'aggressività. Non è questione di tempo, ma di effettiva comunicazione. Esserci, per un papà vuol dire parlare con i figli, discorrere del lavoro e dei problemi, farli partecipare il più possibile alla sua vita. E' anche imparare a notare tutti quei piccoli e grandi segnali che i ragazzi inviano continuamente.

3°. Un padre è un modello, che lo voglia o no. Oggi la figura del padre ha un enorme importanza come appoggio e guida del figlio. In primo luogo come esempio di comportamenti, come stimolo a scegliere determinate condotte in accordo con i principi di correttezza e civiltà. In breve, come modello di onestà, di lealtà e di benevolenza. Anche se non lo dimostrano, anche se persino lo negano, i ragazzi badano molto di più a ciò che il padre fa', alle ragioni per cui lo fa. La dimostrazione di ciò che chiamiamo "coscienza" ha un notevole peso quando venga fornita dalla figura paterna.

4°. Un padre dà sicurezza. Il papà è il custode. Tutti in famiglia si aspettano protezione dal papà. Un papà protegge anche imponendo delle regole e dei limiti di spazio e di tempo, dicendo ogni tanto "no", che è il modo migliore per comunicare: "ho cura di te".

5°. Un padre incoraggia e dà forza. Il papà dimostra il suo amore con la stima, il rispetto, l'ascolto, l'accettazione. Ha la vera tenerezza di chi dice: "Qualunque cosa capiti, sono qui per te!". Di qui nasce nei figli quell'atteggiamento vitale che è la fiducia in se stessi. Un papà è sempre pronto ad aiutare i figli, a compensare i punti deboli.

6°. Un padre ricorda e racconta. Paternità è essere l'isola accogliente per i "naufraghi della giornata". E' fare di qualche momento particolare, la cena per esempio, un punto d'incontro per la famiglia, dove si possa conversare in un clima sereno. Un buon papà sa creare la magia dei ricordi, attraverso i piccoli rituali dell'affetto. Nel passato il padre era il portatore dei "valori", e per trasmettere i valori ai figli basta imporli. Ora bisogna dimostrarli. E la vita moderna ci impedisce di farlo. Come si fa a dimostrare qualcosa ai figli, quando non si ha neppure il tempo di parlare con loro, di stare insieme tranquillamente, di scambiare idee, progetti, opinioni, di palesare speranze, gioie o delusioni?

7°. Un padre insegna a risolvere i problemi. Un papà è il miglior passaporto per il mondo " di fuori". Il punto sul quale influisce fortemente il padre è la capacità di dominio della realtà, l'attitudine ad affrontare e controllare il mondo in cui si vive. Elemento anche questo che contribuisce non poco alla strutturazione della personalità del figlio. Il papà è la persona che fornisce ai figli la mappa della vita.

8°. Un padre perdona. Il perdono del papà è la qualità più grande, più attesa, più sentita da un figlio. Un giovane rinchiuso in un carcere minorile confida: "Mio padre con me è sempre stato freddo di amore e di comprensione. Quand'ero piccolo mi voleva un gran bene; ci fu un giorno che commisi uno sbaglio; da allora non ebbe più il coraggio di avvicinarmi e di baciarmi come faceva prima. L'amore che nutriva per me scomparve: ero sui tredici anni... Mi ha tolto l'affetto proprio quando ne avevo estremamente bisogno. Non avevo uno a cui confidare le mie pene. La colpa è anche sua se sono finito così in basso. Se fossi stato al suo posto, mi sarei comportato diversamente. Non avrei abbandonato mio figlio nel momento più delicato della sua vita. Lo avrei incoraggiato a ritornare sulla retta via con la comprensione di un vero padre. A me è mancato tutto questo".

9°. Il padre è sempre il padre. Anche se vive lontano. Ogni figlio ha il diritto di avere il suo papà. Essere trascurati, trascurati o abbandonati dal proprio padre è una ferita che non si rimargina mai.

10°. Un padre è immagine di Dio. Essere padre è una vocazione, non solo una scelta personale. Tutte le ricerche psicologiche dicono che i bambini si fanno l'immagine di Dio sul modello del loro papà. La preghiera che Gesù ci ha insegnato è il Padre Nostro. Una mamma che prega con i propri figli è una cosa bella, ma quasi normale. Un papà che prega con i propri figli lascerà in loro un'impronta indelebile.

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inviato da Gianni Andrea Granzotto, inserito il 29/09/2005

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