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TESTO
Perdonare non significa dimenticare
Quando perdoniamo una persona, la memoria di quella ferita può rimanere a lungo con noi, anche tutta la vita. Talvolta portiamo questa memoria nel nostro corpo come un segno visibile. Il perdono cambia però la maniera in cui ricordiamo; trasforma la maledizione in benedizione.
Quando perdono i miei genitori per il loro divorzio, i miei figli per la loro mancanza di attenzione, i miei amici per la loro infedeltà nelle crisi, i miei medici per i loro cattivi consigli, non devo più sentirmi la vittima di eventi che non ho potuto dominare.
Il perdono mi consente di fare appello alla mia stessa forza e di non lasciare che questi eventi mi distruggano; li fa diventare eventi che approfondiscono la saggezza del mio cuore.
Il perdono guarisce veramente il ricordo.
Perdonare nel nome di Dio
Siamo tutti persone ferite. Chi ci ferisce? Molto spesso coloro che amiamo e che ci amano. Quando ci sentiamo respinti, abbandonati, maltrattati, manipolati o violati, spesso questo viene soprattutto da persone che ci sono molto vicine: i genitori, gli amici, gli sposi, gli amanti, i figli, i vicini, gli insegnanti, i pastori.
Coloro che ci amano ci feriscono anche. È questa la tragedia della nostra vita, ed è questo che rende così difficile perdonare di cuore. È proprio il nostro cuore ad essere ferito.
Esso grida: «Proprio tu, che credevo mi saresti stato vicino, mi hai abbandonato. Come potrò mai perdonarti per questo?».
Il perdono sembra spesso impossibile, ma niente è impossibile a Dio. Il Dio che vive in noi ci darà la grazia di andare al di là del nostro io ferito per dire: «Nel nome di Dio sei perdonato». Preghiamo per ricevere questa grazia.
Tornare all'amore di Dio
Noi confondiamo spesso l'amore senza condizioni con un'approvazione senza condizioni. Dio ci ama senza condizioni, ma non approva ogni comportamento umano.
Dio non approva il tradimento, la violenza, l'odio, il sospetto e tutte le altre espressioni del male, perché esse contraddicono tutte l'amore che Dio vuole stillare nel cuore umano. Il male è l'assenza dell'amore di Dio. Il male non appartiene a Dio.
L'amore incondizionato di Dio significa che Dio continua ad amarci anche quando diciamo o pensiamo cose malvage.
Dio continua ad aspettarci come un padre amorevole aspetta il ritorno di un figlio smarrito. È importante per noi attenerci alla verità che Dio non rinuncia mai ad amarci, anche quando è rattristato da quel che facciamo.
Questa verità ci aiuterà a tornare all'onnipresente amore di Dio.
perdonomisericordia di Dioamore di Dio
inviato da Eleonora Polo, inserito il 28/11/2002
TESTO
222. San Paolo, non un pazzo qualsiasi
Scout d'Europa, Foggia 2
Vi sono solo due notizie di dominio pubblico su san Paolo.
Uno: è caduto da cavallo.
Due: le sue lettere (tre volte su quattro la seconda lettura domenicale) sono incomprensibili. Beh, almeno difficili.
Fino a poco tempo fa anch'io la pensavo così: Paolo di Tarso? Pessimo cavallerizzo e criptico scrittore. Ora ho qualche notizia in più su costui. Per esempio so che era pazzo.
Non una comune follia, ma una follia lucida, rigorosamente logica e metodica. Era un ebreo. Colto. Ricco. Rispettato. Discendeva dall'elite d'Israele, aveva cultura e autorità: tutte le carte in regola per fare carriera. In effetti, la stava facendo. Stava sterminando una setta giudaica per conto della gerarchia di Gerusalemme, e questo era un ottimo trampolino di lancio. Poi Paolo di Tarso impazzisce. Molla tutto e si mette con quelli che stava catturando. Matto. Completamente andato.
Eppure Paolo ci credeva a quello che faceva. Ci credeva più di tutti gli altri ebrei. Forse ci credeva troppo. Insomma, non è molto simpatico quando inizi a incatenare tutti quelli che la pensano un po' diversamente da te. Il fatto che Paolo sia passato proprio alla fazione opposta ci dice una cosa importante: e cioè che Paolo non era un fossile. Certo, aveva delle idee, e ci teneva parecchio. Ma si lasciava interrogare dai fatti. E, a costo di venire apostrofato "traditore" e "voltabandiera" sapeva cambiare. Anche se questo andava contro il sistema. Era un tipo dinamico, e quando qualcuno gli ha aperto gli occhi sulla realtà non ha avuto paura di dire: "Ok, ragazzi, si cambia registro. Ho fatto qualche errore, ma non rinnego il mio passato. Io sono io, ma adesso che so ho il dovere di agire di conseguenza". Detto fatto.
Paolo ha o non ha avuto una visione sulla strada di Damasco? E' caduto da cavallo? Ha davvero sentito la voce di Gesù che gli parlava? O è solo un genere letterario, una metafora per dire che Paolo ha fatto il salto di qualità?
A dire il vero, non è molto importante.
L'importante sono i fatti.
Quali sono i fatti? Il primo fatto è la pazzia di Paolo: abbia visto o meno il Signore, è fuori discussione che con lui aveva un rapporto intimissimo. I loro pensieri coincidevano, e poiché Dio la pensa un po' diversamente dall'uomo, Paolo parve un pazzo agli occhi di moltissimi.
Paolo si faceva dei grandi viaggi. Materialmente, intendo dire. Per portare quell'annuncio sconvolgente che gli aveva scardinato la vita girò tutto il mondo conosciuto allora. Dall'Oriente all'Occidente, mai stanco, sempre avanti, sempre, attraverso tutte le difficoltà. Viaggiare non era una cosa di piacere, allora. Significava muoversi per lo più a piedi, a cavallo, con carovane, navi. Itinerari lunghi, difficili, sotto un cielo straniero, ma sempre con un motore spirituale a farlo andare avanti. "Non sono ancora giunto abbastanza lontano. C'è ancora gente afflitta ed oppressa che attende una parola di liberazione". San Paolo non va in vacanza, non si prende periodi di riposi, perché se lo facesse... ah! Guai a lui! Sa qual è il compito della sua vita.
Predica in tutti i modi possibili. Non si accontenta di andare di persona nelle città, come gli altri apostoli, ma scrive. Scrive lettere per le comunità che ha cresciuto, aiutato. Sono lettere bellissime, piene di fuoco, di passione, di fervore. Paolo si tiene sempre informato di come stanno i suoi, li sorregge, li conforta. Chiarisce i loro dubbi, li guida con dolcezza. Ma se c'è qualcosa che non funziona, va giù dritto. Ha le idee chiare. Dice sempre quello che pensa, senza guardare in faccia nessuno. Non si lascia zittire dalle minacce. Oh, perché di minacce ne ha avute: dava fastidio a troppa gente in alto. Ma la sua testardaggine non si piegava alle bastonate, ed il suo ardore non si spegneva nemmeno nelle carceri. Non scendeva a compromessi neppure a costo della propria vita.
Paolo è pazzo.
E' pazzo perché è un innovatore.
E' pazzo perché sfida tutte le mentalità del tempo. Paolo ha una mentalità aperta, ha viaggiato, conosce gli uomini. In un mondo di discriminazioni razziali e tra i sessi annuncia che non c'è differenza tra uomo e donna, tra schiavo e padrone, tra ebrei e pagani, che tutti sono uguali, tutti figli di Dio, tutti amati. Paolo fa saltare tutte le caste ed i sistemi di catalogazione degli uomini. Porta un messaggio di tolleranza, anzi di più: un messaggio di amore per tutti gli uomini. "Se non ho l'Amore non sono nulla". Avanti, sempre. Farsi tutto a tutti. Tendere la mano. Proporre e non imporre.
San Paolo è pazzo. Vive di ideali grandi, che sembrano quasi utopie. Sono utopie? Chissà. Ma sempre meglio che razzolare nella mediocrità. Le persone con la vista corta non arrivano lontano. Sopravvivono, ma non Vivono veramente.
Paolo è pazzo.
Ma sono questi pazzi che costruiscono il mondo nuovo.
San Paoloconversionecoerenzamissioneevangelizzazioneapostoli
inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/11/2002
RACCONTO
Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe
In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui! " disse la voce, "sotto al melo...".
"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino...".
"Sono la volpe" disse la volpe.
"Vieni a giocare con me!", le propose il piccolo principe, "sono così triste...".
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! Scusa" fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire 'addomesticare'?".
"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?".
"Cerco gli uomini" disse il piccolo principe.
"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso! Allevano anche le galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?".
"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare"'".
"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...".
"Creare dei legami?".
"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te e neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe (...).
"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana come una musica. E poi, guarda! Vedi laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...".
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".
"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!".
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.
"In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...".
Il piccolo principe ritornò l'indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti".
"Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe.
"E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza...".
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "piangerò".
"La colpa è tua", disse il piccolo principe. "Io non ti volevo fare del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...".
"E' vero" disse la volpe.
"Ma piangerai", disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei sola è più importante di tutte voi, perché è lei che io ho annaffiato, perché è lei che ho riparato col paravento, perché su di lei ho ucciso i bruchi, perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere, perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse.
"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: si vede bene solo col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".
inviato da Marianna, inserito il 25/11/2002
TESTO
224. Quel catino di acqua sporca 1
Accanto al fonte della vita nuova, la Pasqua ci consegna anche un catino d'acqua sporca. ne ha fatto uso il maestro e nessuno ancora lo ha tolto dalla a tavola curandosi di svuotarlo. I discepoli intimoriti, tornando al cenacolo, si sono abbracciati attorno a questa icona del servizio lasciandola lì nel bel mezzo delle loro incerte discussioni.
Anche noi potremmo immaginare quel recipiente sul nostro altare tra le tovaglie ben stirate, i fiori freschi e il cero pasquale: è la memoria dell'ultimo gesto stravagante del nostro giovane Rabbi.
Quando mi domando come sia possibile far innamorare un giovane a Gesù Cristo mi viene in mente la reliquia del catino...
Quel catino è la freschezza di un uomo che quando è a tavola non ce lo si può trattenere seduto a lungo. L'ultima cena non si è risolta nell'ultima abbuffata: quell'Eucarestia ha nutrito i cuori ma non ha appesantito i corpi perché Gesù si è alzato per lavare i piedi come un servo. Il catino con l'acqua sporca ci invita chiaramente a metterci scomodi prendendoci cura degli altri senza indugiare alla "tavola delle lunghe discussioni", senza intrattenerci in quei festeggiamenti dello "stiamo bene tra noi" che odorano di tradimento.
Solo chi è scattante e sa alzarsi da tavola impara a lasciare il posto ad altri, ai più giovani perché è convinto che di pane ce n'è per tutti.
Quel catino è la scioltezza e l'equilibrio di mani allenate ad accarezzare. Ad uno ad uno tutti i piedi dei discepoli hanno provato il ristoro di quel tratto di cui solo l'artista che li ha plasmati è capace. Un corpo agile e disinvolto quello del maestro abituato a nutrire di intelligenza le sue parole ma anche di armoniosa sapienza i suoi movimenti.
Questo equilibrio ci vuole nel chinarsi e rialzarsi senza rovesciare a terra il contenuto di quella bacinella. Il catino con l'acqua sporca ci racconta di poche parole e di tanti piccoli gesti precisi e geniali... insomma un bene fatto bene senza le lentezze e gli appesantimenti delle abitudini. Solo chi è allenato alla scioltezza e alla fermezza dell'amore incondizionato impara ad accarezzare senza trattenere, a ristorare senza possedere... in una danza gioiosa fatta di genuflessioni e umili abbracci.
Quel catino è il coraggio di smascherare la propria bellezza. Sotto la crosta polverosa della sporcizia Gesù ha ridato vigore e candore ai piedi dei suoi messaggeri. Il Cristo ha confermato ad uno ad uno i suoi lavandone i piedi. Il catino con l'acqua sporca ci risveglia alla straordinaria potenza del perdono che non fa conto dell'inadeguatezza ma riporta il cuore allo splendore originario.
Solo chi guarda in faccia all'acqua sporca smette di giudicare e ritrova quel coraggio che non confonde. Solo chi vede il maestro piegato sui propri piedi non ha più dubbi.
La paura di sbagliare non è l'ultima parola, perché ciò che da bellezza è il perdono e l'accoglienza.
Spesso i ragazzi che crescono accanto a noi mettono a fuoco domande, slanci, dubbi, provocazioni... forse ci invitano ad essere una comunità di discepoli che va per il mondo col catino in mano.
serviziocaritàamoremaestrogiovedì santolavanda dei piedi
inviato da Mariangela Molari, inserito il 25/11/2002
RACCONTO
Henry van Dyke, The Story of the Other Wise Man
I Magi, mentre scrutavano la volta celeste, scoprirono una nuova stella che brillò per una notte e poi sparì. Dopo qualche tempo, il cielo fu solcato da una scintilla blu che roteando emetteva splendore di porpora, finché divenne una sfera scarlatta con raggi lucenti e un vivissimo punto centrale bianco. Era il segnale della nascita del Re atteso da secoli. Lo videro i magi di Borsippa. Lo vide anche Artibano, che abitava a Ecbatana, distante dieci giorni di cammino.
Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire per Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Re e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s'inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada.
Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l'infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo aprì gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è lì che deve nascere il Messia, che tu vai cercando».
Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell'undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso 10 giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «T'abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto».
Arabano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto.
Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l'oro, l'incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un'altra via.
Il villaggio pareva deserto: gli uomini erano nei campi e i ragazzi al pascolo delle greggi. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall'Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l'avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto.
Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell'Egitto. Egli sperava di raggiungere la Sacra Famiglia nelle oasi del deserto, sotto le palme o i sicomori, ma invano. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menfi; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all'ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla.
Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poterli trovare. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi».
A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l'ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua.
La città santa brulicava di gente, venuta dalle terre più lontane alla festa del Tempio. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un'agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c'è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei».
Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù, nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?».
Così il buon vecchio seguì la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana, riconosciutolo dal costume per suo connazionale, gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà».
Il vecchio, non possedendo che un'unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto.
Improvvisamente si udì un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case si spalancano e crollano; nuvole di polvere riempiono l'aria; soldati e popolo fuggono terrorizzati.
Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime.
La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non così o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!».
Artibano cessò di parlare. Ma un'altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l'hai fatto a me». Un grande respiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi. Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.
caritàamoreservizioparadisogiudizio universale
inviato da Don Angelo, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
226. La vecchietta che aspettava Dio 9
La vita di ognuno di noi è intessuta di attese. Si tratta di una esperienza importante e di grande valore educativo. Consapevole di ciò, la Chiesa ha fissato un tempo per ravvivare questo 'stato' fondamentale nella vita del cristiano: il tempo dell'Avvento. La storia sottolinea che Dio è sempre sorprendente... è possibile incontrarlo in tanti modi, ma in modo particolare nelle persone che ci avvicinano tutti i giorni.
C'era una volta un'anziana signora che passava in pia preghiera molte ore della giornata. Un giorno sentì la voce di Dio che le diceva: "Oggi verrò a farti visita". Figuratevi la gioia e l'orgoglio della vecchietta. Cominciò a pulire e lucidare, impastare e infornare dolci. Poi indossò il vestito più bello e si mise ad aspettare l'arrivo di Dio.
Dopo un po', qualcuno bussò alla porta. La vecchietta corse ad aprire. Ma era solo la sua vicina di casa che le chiedeva in prestito un pizzico di sale. La vecchietta la spinse via: "Per amore di Dio, vattene subito, non ho proprio tempo per queste stupidaggini! Sto aspettando Dio, nella mia casa! Vai via!". E sbattè la porta in faccia alla mortificata vicina.
Qualche tempo dopo, bussarono di nuovo. La vecchietta si guardò allo specchio, si rassettò e corse ad aprire. Ma chi c'era? Un ragazzo infagottato in una giacca troppo larga che vendeva bottoni e saponette da quattro soldi. La vecchietta sbottò: "Io sto aspettando il buon Dio. Non ho proprio tempo. Torna un'altra volta!". E chiuse la porta sul naso del povero ragazzo.
Poco dopo bussarono nuovamente alla porta. La vecchietta aprì e si trovò davanti un vecchio cencioso e male in arnese. "Un pezzo di pane, gentile signora, anche raffermo... E se potesse lasciarmi riposare un momento qui sugli scalini della sua casa", implorò il povero.
"Ah, no! Lasciatemi in pace! Io sto aspettando Dio! E stia lontano dai miei scalini!" disse la vecchietta stizzita. Il povero se ne partì zoppicando e la vecchietta si dispose di nuovo ad aspettare Dio.
La giornata passò, ora dopo ora. Venne la sera e Dio non si era fatto vedere. La vecchietta era profondamente delusa. Alla fine si decise ad andare a letto. Stranamente si addormentò subito e cominciò a sognare. Le apparve in sogno il buon Dio che le disse: "Oggi, per tre volte sono venuto a visitarti, e per tre volte non mi hai ricevuto".
avventoincarnazionerapporto con Diopovertàcaritàsolidarietàamore
inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
TESTO
227. Educazione alla povertà 1
Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la prima beatitudine.
Non è vero che si nasce poveri.
Si può nascere poeti, ma non poveri.
Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti.
Dopo una trafila di studi, cioè.
Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi.
Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile. Tanto difficile, che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l'insegnamento di questa disciplina.
Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al capitolo ottavo, c è un passaggio fortissimo: "Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi".
E' un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare, che se l'è portato con sé in tutte le trasferte come il documento più significativo della sua identità: "Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il nido; ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo".
Se l'è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona, se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà del Maestro, afferma: "Ella con Cristo salì sulla croce".
Non c'è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante carriera.
E ce l'ha voluta insegnare.
Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà ci si educa e ci si allena. E, a meno che uno non sia un talento naturale, l'apprendimento di essa esige regole precise, tempi molto lunghi, e, comunque, tappe ben delineate.
Proviamo a delinearne sommariamente tre.
Povertà come annuncio
A chi vuole imparare la povertà, la prima cosa da insegnare è che la ricchezza è cosa buona.
I beni della terra non sono maledetti. Tutt'altro. Neppure i soldi sono maledetti.
Continuare a chiamarli sterco del diavolo significa perpetuare equivoci manichei che non giovano molto all'ascetica, visto che anche i santi, di questo sterco, non hanno disdegnato di insozzarsi le tasche.
I beni della terra non giacciono sotto il segno della condanna. Per ciascuno di essi, come per tutte le cose splendide che nei giorni della creazione uscivano dalle mani di Dio, si può mettere l'epigrafe: "ed ecco, era cosa molto buona".
Se la ricchezza della terra è buona, però, c'è una cosa ancora più buona: la ricchezza del Regno, di cui la prima è solo un pallidissimo segno. Ecco il punto. Ci vorrà fatica a farlo capire agli apprendisti. Ma è il nodo di tutto il problema. Farsi povero non deve significare disprezzo della ricchezza, ma dichiarazione solenne, fatta con i gesti del paradosso e perciò con la rinuncia, che il Signore è la ricchezza suprema.
Un po' come rinunciare a sposarsi in vista del Regno non significa disprezzare il matrimonio, ma annunciare che c'è un amore più grande di quello che germoglia tra due creature. Anzi, dichiarare che questo piccolo amore è stato scelto da Dio come segno di quell'altro più grande. Sicché, chi non si sposa sembra dire ai coniugi: "Splendida la vostra esperienza. Ma non è tutto. Essa è solo un segno. Perché c'è un'esperienza di amore ancora più forte, di cui voi attualmente state vivendo solo un lontanissimo frammento, e che un giorno saremo tutti chiamati a vivere in pienezza".
Analogamente, farsi povero significa accendere una freccia stradale per indicare ai viandanti distratti la dimensione "simbolica" della ricchezza, e far prendere coscienza a tutti della realtà significata che sta oltre. Significa, in ultima analisi, divenire parabola vivente della "ulteriorità".
In questo senso, la povertà, prima che rinuncia, è un annuncio. E' annuncio del Regno che verrà.
Povertà come rinuncia
E' la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi.
in realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica.
Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. E' la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole.
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio.
Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere.
Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".
Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. Chi desidera stare con gli ultimi, per sollecitarli a camminare alla sequela di Cristo, deve necessariamente alleggerirsi dei "tir" delle sue stupide suppellettili.
Chi vuol fare entrare Cristo nella sua casa, deve abbandonare l'albero, come Zaccheo, e compiere quelle conversioni "verticali" che si concludono inesorabilmente con la spoliazione a favore dei poveri.
E' la gioia, quindi, che connota la rinuncia cristiana: non il riso.
La testimonianza, non l'ostentazione.
Come avvenne per Francesco, innamorato pazzo di madonna Povertà. Come avvenne per i suoi seguaci, che si spogliarono non per disprezzo, ma per seguire meglio il maestro e la sua sposa: "O ignota ricchezza, o ben verace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì la sposa piace!".
Povertà come denuncia
Di fronte alle ingiustizie del mondo, alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può tacere.
Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo, dell'accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali.
Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte per fame di cinquanta milioni di persone all'anno, mentre per la corsa alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro.
Ebbene, quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella "Sollicitudo rei socialis", ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato? Quella della povertà!
Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.
E' un'educazione che bisogna compiere, tornando anche ai paradossi degli antichi Padri della Chiesa: "Se hai due tuniche nell'armadio, una appartiene ai poveri". Non ci si può permettere i paradigmi dell'opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. Le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del Calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.
La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta.
Ma c'è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.
Ed ecco la povertà intesa come condivisione della sofferenza altrui. E' la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio, o turpe occasione per scalate rampanti.
Povertà che si fa martirio: tanto più credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona.
Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, sì è fatto povero fino al lastrico dell'annientamento.
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara.
Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine.
povertàricchezzaingiustiziacelibatovita eternaparadisoserviziocaritàregno dei cieliregno di Diorinuncia
inviato da Eleonora Polo, inserito il 18/11/2002
TESTO
228. Gesù non ha buona memoria 3
Gesù non ha buona memoria.
Sulla Croce durante la sua agonia il ladrone gli chiede di ricordarsi di lui quando sarebbe entrato nel suo regno. Se fossi stato io gli avrei risposto, "non ti dimenticherò, ma i tuoi crimini devono essere espiati, con almeno 20 anni di purgatorio", invece Gesù gli rispose "Oggi sarai con me in Paradiso".
Aveva dimenticato i peccati di quell'uomo. Lo stesso avviene con Maddalena e con il figliol prodigo. Gesù non ha memoria, perdona ogni persona, il suo amore è misericordioso.
Gesù non conosce la matematica, lo dimostra la parabola del Buon Pastore. Aveva cento pecore, una di loro si smarrì e senza indugi andò a cercarla lasciando le altre 99 nell'ovile. Per Gesù uno equivale a 99 e forse anche di più.
Gesù poi non è buon filosofo.
Una donna ha dieci dracme ne perde una quindi accende la lucerna per cercarla, quando la trova chiama le sue vicine e dice loro "Rallegratevi con me perché ho ritrovato la dracma che avevo perduto". E' davvero illogico disturbare le amiche solo per una dracma, e poi far festa per il ritrovamento. Per di più invitando le sue amiche per far festa, spendendo ben di più di una dracma. In questo modo Gesù spiega che c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.
Gesù è un avventuriero.
Chiunque voglia raccogliere il consenso della gente si presenta con molte promesse, mentre Gesù promette a chi lo segue processi e persecuzioni, eppure da 2000 anni constatiamo che non si è esaurita la schiera di avventurieri che hanno seguito Gesù.
Gesù non conosce né finanza né economia.
Nella parabola degli operai della vigna, il padrone paga lo stesso stipendio a chi lavora al mattino e a chi inizia a lavorare il pomeriggio. Ha fatto male i conti? Ha commesso un errore? No, lo fa di proposito, perché Gesù non ci ama rispetto ai nostri meriti o per i nostri meriti, il suo amore è gratuito e supera infinitamente i nostri meriti. Gesù ha i "difetti" perché ama.
L'amore autentico non ragiona, non calcola, non misura, non innalza barriere, non pone condizioni, non costruisce frontiere e non ricorda offese.
perdonomisericordiaconfessionericonciliazioneGesù Cristoamore di Diorapporto con Dio
inviato da Anna Barbi, inserito il 30/09/2002
TESTO
Quando sei venuto al mondo, lei ti ha accolto tra le braccia,
tu l'hai ringraziata gridando.
Quando avevi 1 anno, lei ti ha dato da mangiare e ti ha pulito,
tu l'hai ringraziata piangendo per notti intere.
Quando avevi 2 anni, lei ti insegnò a camminare,
tu la ringraziasti scappando quando ti chiamava.
Quando avevi 3 anni, lei ti preparava da mangiare con amore,
tu la ringraziavi facendo cadere i piatti sul pavimento.
Quando avevi 4 anni, lei ti comprò alcuni pennarelli colorati,
tu la ringraziasti scrivendo sui muri della sala da pranzo.
Quando avevi 5 anni, lei ti vestiva bene per le occasioni speciali,
tu la ringraziavi camminando nelle pozzanghere della via.
Quando avevi 6 anni, lei ti accompagnava a scuola,
tu la ringraziavi gridandole: non voglio andare!
Quando avevi 7 anni, lei ti regalò un pallone,
tu la ringraziasti calciandolo nella finestra del vicino.
Quando avevi 8 anni, lei ti comprò un gelato,
tu la ringraziasti rovesciandolo sulla sua gonna.
Quando avevi 9 anni, lei ti pagò le lezioni di piano,
tu la ringraziasti non frequentandole.
Quando avevi 10 anni, lei ti scarrozzava in macchina
da tutte le parti: a scuola, alla partita di calcio,
alle feste di compleanno e ad ogni altra festa,
tu la ringraziavi scendendo sempre dalla macchina senza mai voltarti indietro.
Quando avevi 11 anni, lei accompagnava te e i tuoi amici al cinema,
tu la ringraziavi dicendole di sedersi in un'altra fila.
Quando avevi 12 anni, ti consigliò di non guardare alla tv certi programmi,
tu la ringraziasti sperando che lei se ne stesse a lungo fuori casa.
Quando avevi 13 anni, lei ti regalò un giaccone in pelle,
tu la ringraziasti dicendole che non aveva gusto.
Quando avevi 14 anni, ella ti pagò un mese di vacanze estive in campeggio,
tu la ringraziasti dimenticandoti di mandarle una cartolina.
Quando avevi 15 anni, tornava dal lavoro e avrebbe voluto abbracciarti,
tu la ringraziasti chiudendo a chiave la tua stanza.
Quando avevi 16 anni, ti insegnò a guidare la sua macchina,
tu la ringraziasti usandola ogni volta che potevi.
Quando avevi 17 anni, lei aspettava una telefonata importante,
tu la ringraziasti occupando il telefono tutta notte.
Quando avevi 18 anni, lei pianse alla festa del tuo diploma,
tu la ringraziasti restando alla festa fino all'alba.
Quando avevi 19 anni, lei ti pagò le tasse dell'università,
ti accompagnò al campus trasportando i tuoi bagagli,
tu la ringraziasti salutandola fuori della tua stanza,
per non vergognarti davanti ai tuoi amici.
Quando avevi 20 anni, ti domandò se stavi uscendo con una ragazza,
tu la ringraziasti dicendole: non ti interessa!
Quando avevi 21 anni, lei ti propose alcune strade per il futuro,
tu la ringraziasti dicendole: non voglio essere come te!
Quando avevi 22 anni, ti abbracciò alla festa di laurea,
tu la ringraziasti chiedendole una vacanza premio per l'Europa.
Quando avevi 23 anni, lei ti diede dei mobili per il tuo primo appartamento,
tu la ringraziasti dicendo ai tuoi amici che erano brutti.
Quando avevi 24 anni, conobbe la tua futura sposa,
e le domandò dei progetti per il futuro,
tu la ringraziasti gridandole ferocemente: taci!
Quando avevi 27 anni, ti aiutò a pagar le spese del matrimonio,
e piangendo ti diceva che ti amava moltissimo,
tu la ringraziasti trasferendoti in un altro paese.
Quando avevi 30 anni, lei ti diede alcuni consigli per tuo figlio appena nato,
tu la ringraziasti dicendo che le cose non erano più come una volta.
Quando avevi 40 anni, ti chiamò per ricordarti il compleanno di papà,
tu la ringraziasti dicendo che eri molto occupato.
Quando avevi 50 anni, lei si ammalò e necessitò di cure,
tu la ringraziasti discutendo sugli obblighi dei genitori verso i figli.
Improvvisamente, un giorno, lei morì.
Tutto ciò che non avevi fatto per lei, ti cadde addosso come fulmine e tempesta.
Prenditi un momento per pensare. Rendi onore e omaggio, dimostra quanto ami colei che chiami mamma.
Non c'è sostituto alcuno per lei. E anche se non sempre la si può considerare la migliore amica, anche se il suo modo di pensare non s'accorda con il tuo, lei è sempre la mamma.
Domandati: hai avuto tempo per star con lei, per ascoltare le sue lamentele, per alleviare le sue stanchezze?
Sii prudente e generoso. Portale il debito rispetto.
Quando lei avrà lasciato questo mondo, ti resteranno solo bei ricordi di colei che hai chiamato mamma.
amoregratuitàfamigliagenitorimammamaternitàfigli
inviato da Rovaris Pinuccio, inserito il 16/09/2002
TESTO
Henri J. M. Nouwen, Nel nome di Gesù
Prima di costituirlo pastore del suo gregge Gesù domandò a Pietro: "Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più degli altri?". Poi gli domandò una seconda volta: "Mi ami tu?", e una terza volta ripeté la stessa domanda: "Mi ami tu?". Anche noi dobbiamo porre questa domanda al centro del nostro ministero cristiano, perché è proprio essa che ci permette di essere da un lato inutili, e dall'altro veramente fiduciosi in noi stessi.
Basta guardare Gesù. Il mondo non si curò minimamente di Lui, e Gesù fu crocifisso e sepolto. Il suo messaggio di amore fu rigettato da un mondo assetato di potere, efficienza e dominio. Ma ecco che Gesù risuscito, con le ferite nel suo corpo glorificato, appare ad alcuni amici che hanno occhi per vedere, orecchie per udire e cuore per comprendere. Questo Gesù rigettato, sconosciuto, ferito, chiede semplicemente: "Mi ami tu? Mi ami davvero?". Lui che si era preoccupato solo di annunciare l'amore incondizionato di Dio ha una sola domanda da fare: "Mi ami tu?".
Gesù non chiede: "C'è molta gente che ti prende sul serio? Hai intenzione di compiere grandi cose? Hai già qualche risultato da farmi vedere?". Chiede invece: "Sei innamorato di Gesù?". Forse potremmo formulare la domanda anche in altro modo: "Conosci il Dio incarnato?". E' un cuore che non conosce sospetti, vendette, risentimenti, né tanto meno odi. E' un cuore che vuole solo dare amore ed essere ricambiato con amore. E' un cuore che soffre immensamente perché vede la grandezza del dolore umano e l'ostinazione a non fidarsi del cuore di un Dio che vuole offrire consolazione e speranza.
Il leader cristiano del futuro è uno che conosce intimamente il cuore di Dio, diventato "cuore di carne" in Gesù. Conoscere il cuore di Dio significa annunciare e rivelare in modo coerente, radicale e quantomai concreto che Dio è amore, e solo amore, e che la paura, l'isolamento o la disperazione che possono tormentare l'anima umana sono prove che certamente non vengono da Dio. Tutto questo può sembrare molte evidente e forse banale, ma ben pochi sanno che Dio li ama senza condizioni e senza limiti. Questo amore incondizionato e illimitato è quello che l'evangelista Giovanni chiama il "primo" amore di Dio. "Amiamo Dio", egli dice, "perché Dio ci ha amati per primo"(1 Gv 4,19). L'amore che spesso ci lascia dubbiosi, delusi, arrabbiati e offesi è il "secondo" amore: e cioè accettazione, affetto, simpatia, incoraggiamento e sostegno dei genitori, insegnanti, coniugi, amici. E sappiamo tutti che è un amore quantomai, limitato, violato e fragile. Sotto le numerose espressioni di questo secondo amore si nasconde sempre la possibilità di rigetto, ritiro, castigo, ricatto, violenza e perfino odio. Molti film e drammi contemporanei ritraggono le ambiguità e ambivalenze delle relazioni umane, e non esistono amicizie, matrimoni, comunità in cui le tensioni e gli sforzi del secondo amore non si rivelino in tutta la loro gravità. Si direbbe anzi che gli aspetti piacevoli della vita di ogni giorno nascondano molte ferite aperte che si chiamano abbandono, tradimento, rigetto, rottura, perdita. Tutto questo è, per così dire, l'ombra inseparabile del secondo amore e rivela l'oscurità che non abbandona mai completamente il cuore umano.
L'essenza della buona novella sta proprio qui: nell'annuncio che il secondo amore è solo un pallido riflesso del primo amore, e che il primo amore ci viene offerto da un Dio in cui non ci sono ombre.
gratuitàamoreamore di Diorapporto con Dio
inviato da Polda, inserito il 08/09/2002
ESPERIENZA
Padre Mariano, Vivere il quotidiano con fedeltà, a cura di Giovanni Barra, Ed. Gribaudi
Padre Mariano raccontò una volta, in uno dei suoi famosi colloqui in TV, questa singolare storia di una vocazione..
Era una signorina dell'alta società romana. Era fidanzata e stava per sposarsi. Mancavano pochi mesi.
Già l'appartamento era pronto, tutto bello, tutto sorridente. Si preparava un matrimonio veramente sontuoso.
Questa signorina stava in villeggiatura ai Castelli Romani. Tutte le sere scendeva giù nel paesino, da una sua villa, per prendere alla posta la lettera del suo fidanzato che in quegli ultimi mesi, per ragione di lavoro, stava in Alta Italia e le scriveva tutti i giorni.
Essa imbucava la sua cartolina o lettera e ritirava quella di lui.
"Quella sera imbucai la solita lettera. - raccontava, ormai anziana la protagonista. - Era estate, faceva caldo, ero stanca...
La cassetta delle lettere stava sopra la parete della chiesa parrocchiale e mi venne la tentazione (perché proprio di una tentazione si trattava per me, che non mettevo piede in chiesa da più di quindici anni) di entrare in quella chiesa per riposarmi un po' al fresco.
Mi avviai verso la porta della chiesa e, mentre camminavo, mi passa per la testa un'idea (ma che idea bizzarra!), una domanda, che mai
mi ero fatta:
- Quest'uomo, al quale io sto per dedicare tutta la mia vita, mi vorrà poi bene davvero?.
- Perché no? (mi rispondevo tra me e me) Mi ha dato anelli, gioielli, ha preparato la casa per me...
Una seconda domanda mi passò poi per la testa:
- Ma quest'uomo, domani se fosse necessario, per il mio bene, un sacrificio anche grave da parte sua, sarebbe disposto a farlo?
- Io penso di sì, (continuavo a rispondermi) perché l'anno scorso non è andato a quella crociera per starmi vicino, l'anno prima lo stesso... Insomma, qualche sacrificio per amor mio, lo ha già fatto. E altri li farà certamente in seguito...
Entro in chiesa, e nella semioscurità, mentre mi sto orientando per cercare un banco per sedermi, mi passa per la mente la domanda più assurda, la più stupida che possa passare per la mente di una fidanzata, che sta per sposarsi:
- Ma quest'uomo, se dovesse dare la sua vita per me, sarebbe capace di farlo?
- Che cretina, che stupida, - mi dissi proprio così - ma se dà la vita... non lo sposo più!
Ero evidentemente stanca... e come fuori di me, mi siedo, alzo la testa e vedo, là sopra il pulpito di quella povera chiesa, un Crocifisso.
Io non sono una visionaria, e nemmeno una sognatrice, ma in quel momento mi sono sentita dire da quel Crocifisso:
"Io ho dato la mia vita per te!".
Fu tale lo sconvolgimento della mia anima, tale il rovesciamento dei valori, inesplicabile, istantaneo, che io scattai in piedi e dissi a me stessa: - Sarò suora carmelitana!
E non ci furono ritorni.
Io non avrei più potuto sposarmi, non mi sarei più sentita di farlo perché avevo 'sentito' questa affermazione, alla quale non avevo mai pensato prima e ormai la mia vita dovevo impegnarla per Lui.
E sono cinquant'anni e più che sono suora carmelitana e sono felicissima. E, se ho un rincrescimento, è quello di non aver ancora saputo rendere al Signore, se non in minima parte, quello che Lui mi ha dato".
vocazionechiamataprogetto di Dioamore di Diorapporto con Dio
inviato da Don Natale Trevisan, inserito il 29/08/2002
RACCONTO
232. La vecchia signora scorbutica 4
Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù
Sul tavolino da notte di una vecchia signora ricoverata in un ospizio per anziani, il giorno dopo la sua morte, fu ritrovata questa lettera. Era indirizzata alla giovane infermiera del reparto.
«Cosa vedi, tu che mi curi? Chi vedi, quando mi guardi? Cosa pensi, quando mi lasci? E cosa dici quando parli di me?
Il più delle volte vedi una vecchia scorbutica, un po' pazza, lo sguardo smarrito, che non è più completamente lucida, che sbava quando mangia e non risponde mai quando dovrebbe.
E non smette di perdere le scarpe e calze, che docile o no, ti lascia fare come vuoi, il bagno e i pasti per occupare la lunga giornata grigia.
È questo che vedi!
Allora apri gli occhi. Non sono io.
Ti dirò chi sono.
Sono l'ultima di dieci figli con un padre e una madre. Fratelli e sorelle che si amavano.
Una giovane di 16 anni, con le ali ai piedi, sognante che presto avrebbe incontrato un fidanzato. Sposata già a vent'anni.
Il mio cuore salta di gioia al ricordo dei propositi fatti in quel giorno.
Ho 25 anni ora e un figlio mio, che ha bisogno di me per costruirsi una casa.
Una donna di 30 anni, mio figlio cresce in fretta, siamo legati l'uno all'altra da vincoli che dureranno. Quarant'anni, presto lui se ne andrà. Ma il mio uomo veglia al mio fianco.
Cinquant'anni, intorno a me giocano daccapo dei bimbi.
Rieccomi con dei bambini, io e il mio diletto.
Poi ecco i giorni bui, mio marito muore. Guardo al futuro fremendo di paura, giacché i miei figli sono completamente occupati ad allevare i loro.
E penso agli anni e all'amore che ho conosciuto. Ora sono vecchia. La natura è crudele, si diverte a far passare la vecchiaia per pazzia. Il mio corpo mi lascia, il fascino e la forza mi abbandonano. E con l'età avanzata laddove un tempo ebbi un cuore vi è ora una pietra.
Ma in questa vecchia carcassa rimane la ragazza il cui vecchio cuore si gonfia senza posa. Mi ricordo le gioie, mi ricordo i dolori, e sento daccapo la mia vita e amo.
Ripenso agli anni troppo brevi e troppo presto passati. E accetto l'implacabile realtà "che niente può durare".
Allora apri gli occhi, tu che mi curi, e guarda non la vecchia scorbutica... Guarda meglio e mi vedrai».
Quanti volti, quanti occhi, quante mani incrociamo, ogni giorno. Che cosa guardiamo? Le rughe, le ostilità, i dubbi, le durezze. Se imparassimo invece a guardare i sogni, i palpiti, gli amori spesso così accuratamente nascosti?
anzianitàvecchiaianon giudicarevedere oltre le apparenzegiudizio
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 29/08/2002
TESTO
233. Ho vissuto una intensa esperienza di Dio 2
Note di Pastorale Giovanile, n. 1/ gennaio 1999
Carissimo amico o amica,
Voglio farti qualche confidenza sulla mia relazione con Dio. Dio occupò il centro della mia vita. Per arrivare a quest'esperienza dovetti fare un notevole sforzo di personalizzazione e di interiorizzazione e mettere in gioco tutte le dimensioni della mia persona: intelligenza, sentimenti, atteggiamenti. E ti posso assicurare che sempre mi sentii pienamente me stesso.
Dio occupò il centro della mia vita come un Padre che mi amava intensamente, con un amore somigliante a quello che sente una madre quando il suo figlio sta per nascere, per questo osai chiamarlo "papà"; Questo amore di Dio - Padre fu la roccia ferma su cui appoggiai sempre la mia vita.
Mi costò molto far capire alla gente che Dio ama gratuitamente, cioè, senza che in noi ci siano motivi speciali perché lui ci ami: essere buoni, bravi, intelligenti, ecc. Per questo narrai le parabole, come quella del padre che accoglie il suo figlio che se n'era andato da casa o quella dei lavoratori della vigna che ricevono lo stesso stipendio anche se non hanno lavorato tutti le stesse ore.
Non è stato facile convincere quella donna samaritana a cui chiesi di darmi un po' d'acqua, che Dio è come una fonte d'acqua che toglie la sete per sempre. Basta relazionarsi con lui in Spirito e verità. Per questo, sentii una grande necessità di lodarlo, di rendergli grazie, soprattutto, quando vidi che le mie parole sul Regno di Dio arrivavano al cuore della gente semplice.
Riconosco che davanti ai grandi avvenimenti - la chiamata degli apostoli, il discorso sul monte, ecc. - mi piaceva passare la notte pregando da solo con Lui, ascoltavo il suo filo di voce dentro di me, vedevo una presenza amorosa nelle persone a cui dovevo parlare e guarire il giorno dopo. Il cielo pieno di stelle della Palestina faceva più maestosa e bella la sua presenza.
Arrivai addirittura a dire, non senza un po' di paura di non essere capito e di scandalizzare i farisei e gli scribi di Israele, che il mio cibo era fare la volontà del Padre mio, anzi che Dio e io eravamo la stessa cosa.
Non credere che questo fare la volontà di Dio fosse, qualcosa di facile. L'ansia di potere e di fama bussavano continuamente alla mia porta, soprattutto quando la gente mi perseguitava per farmi re. Molte volte, ho avuto la sensazione di usare Dio, di fare di Lui un idolo secondo la mia misura e convenienza.
Ci sono stati dei momenti in cui il cammino è diventato più duro. Ci sono stati momenti di solitudine e di sconfitta a causa dell'incomprensione e dell'abbandono dei miei amici. Vivere la relazione con Dio come Padre fu allora un'esperienza dolorosa, soprattutto nel momento della verità, quando la mia vita scorreva inesorabilmente verso la morte.
Nell'orto degli ulivi, il sudore e il sangue inzupparono la mia tunica. Dio rimaneva muto di fronte alla mia passione e alla mia morte. La gente ai piedi della croce mi ricordava con ironia che sempre avevo chiamato Dio Padre e sulla croce arrivai a dubitare di Lui. Però finalmente vinsi la tentazione. Mi misi nel buio tunnel della morte convinto di una cosa sola: Dio era mio Padre e Lui sapeva cosa farsene della mia vita.
Il giorno di Pasqua fu, e continua ad essere, la prova che lui non era nel torto. Quel giorno Dio gridò all'umanità intera e continua a farlo fino ad oggi, che la Croce è la fonte da dove sgorga la vita; che il chicco di grano, se non muore, non produce frutto; che una candela deve consumarsi pian piano se vuole illuminare; che il sale per dare sapore deve sciogliersi; che il lievito deve mescolarsi con la massa fino a scomparire per fare un buon pane per tutti, soprattutto per i più poveri ed emarginati.
Gesù di Nazareth
Gesù CristoDiorapporto con Dio
inviato da Don Giovanni Cuccu, inserito il 22/08/2002
TESTO
234. Buon Natale, tanti auguri... scomodi!
Non obbedirei al mio dovere di Vescovo, se vi dicessi "Buon Natale" senza darvi disturbo.
Io, invece, vi voglio infastidire.
Non posso, infatti, sopportare l'idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla "routine" di calendario. Mi lusinga, addirittura, l'ipotesi che qualcuno li possa respingere al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora!
Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un'esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l'inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe, che nell'affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
Gli angeli che annunziano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l'aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio per fame.
I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell'oscurità e la città dorme nell'indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere "una gran luce", dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano. Che i ritardi dell'edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
I pastori che vegliano nella notte, "facendo la guardia al gregge" e scrutando l'aurora, vi diano il senso della storia, l'ebbrezza delle attese, il gaudio dell'abbandono in Dio. E poi vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l'unico modo per morire ricchi.
Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 12/06/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua, Elledici
Una volta un cardellino fu ferito a un'ala da un cacciatore. Per qualche tempo riuscì a sopravvivere con quello che trovava per terra. Poi, terribile e gelido, arrivò l'inverno.
Un freddo mattino, cercando qualcosa da mettere nel becco, il cardellino si posò su uno spaventapasseri. Era uno spaventapasseri molto distinto, grande amico di gazze, cornacchie e volatili vari.
Aveva il corpo di paglia infagottato in un vecchio abito da cerimonia; la testa era una grossa zucca arancione; i denti erano fatti con granelli di mais; per naso aveva una carota e due noci per occhi.
"Che ti capita, cardellino?", chiese lo spaventapasseri, gentile come sempre.
"Va male. - sospirò il cardellino - Il freddo mi sta uccidendo e non ho un rifugio. Per non parlare del cibo. Penso che non rivedrò la primavera".
"Non aver paura. Rifugiati qui sotto la giacca. La mia paglia è asciutta e calda".
Così il cardellino trovò una casa nel cuore di paglia dello spaventapasseri. Restava il problema del cibo. Era sempre più difficile per il cardellino trovare bacche o semi. Un giorno in cui tutto rabbrividiva sotto il velo gelido della brina, lo spaventapasseri disse dolcemente al cardellino.
"Cardellino, mangia i miei denti: sono ottimi granelli di mais".
"Ma tu resterai senza bocca".
"Sembrerò molto più saggio".
Lo spaventapasseri rimase senza bocca, ma era contento che il suo piccolo amico vivesse. E gli sorrideva con gli occhi di noce.
Dopo qualche giorno fu la volta del naso di carota.
"Mangialo. E' ricco di vitamine", diceva lo spaventapasseri al cardellino.
Toccò poi alle noci che servivano da occhi. "Mi basteranno i tuoi racconti", diceva lui.
Infine lo spaventapasseri offrì al cardellino anche la zucca che gli faceva da testa.
Quando arrivò la primavera, lo spaventapasseri non c'era più. Ma il cardellino era vivo e spiccò il volo nel cielo azzurro.
"Mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo" (Matteo 26,26).
amoredonaresacrificioaltruismoeucaristiadono di sé
inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002
ESPERIENZA
padre Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione
Ad un giovane medico indiano, induista e profondamente religioso, venne offerta una borsa di studio per l'università di Roma: avrebbe potuto specializzarsi in chirurgia. Nella sua città non c'era nessun chirurgo. Egli ne fu felicissimo, evidentemente per la specializzazione, ma anche per un motivo religioso: avrebbe incontrato persone di altre religioni e avrebbe potuto pregare con loro. E' una nota culturale ed eclettica comune agli Indù. Per loro tutte le religioni sono ugualmente valide e tutte, per vie diverse, portano allo stesso fine. Nessuna religione può pretendere di essere l'unica vera e di conseguenza non ha senso convertirsi da una all'altra. La pensava così anche Gandhi, che ammirava Cristo e fece proprio il discorso della montagna, ma non pensò mai di divenire cristiano e condannò l'opera dei missionari cattolici. Si legge in un libro indù: "Il cristiano non deve diventare un indù, né un buddista. Un indù, o un buddista, non deve diventare un cristiano. Ognuno deve assimilare lo spirito altrui e conservare nel tempo stesso la propria individualità" (Vivekananda).
Durante il viaggio il nostro medico entrò nelle moschee e pregò con i musulmani. Incontrò gli ebrei e volle pregare con loro nelle sinagoghe. A Roma, si riprometteva di pregare anche con i cristiani. Non conosceva nulla del cristianesimo. Aveva intuito solo che i cristiani a volte si radunano in edifici particolarmente belli, per pregare insieme.
Fu così che una domenica si unì alla folla che entrava in S. Andrea della Valle. Era per la Messa, ma lui non la conosceva: era unicamente animato da una grande attenzione per poter pregare con i cristiani. Ad un certo momento vide tutti frugare nelle tasche e offrire del denaro, mentre una processione si mosse dal fondo della chiesa: venivano portati dei pani e dei vasi, che il sacerdote accolse ed elevò sull'altare con somma dignità. Pensò: "Si vede che i cristiani, quando pregano, donano qualche cosa".
Non aveva portato nulla con sé. Si sentì indotto a supplire con una preghiera: "Signore, lavorerò per i poveri".
Ora diventato chirurgo, è nella sua città natale, Madras, ed è il primario dell'ospedale. E' famoso per questo: non si concede tempo libero, e dopo il normale turno quotidiano si attarda ancora nel suo studio per ricevere i poveri, e li riceve gratuitamente!
Lo Spirito Santo aveva trovato la via aperta per comunicarsi a lui e ispirargli il dono di sé.
Questo medico insegna la partecipazione: a Messa non si va "come estranei o muti spettatori" (Sacrosanctum Concilium 47). Ma soprattutto insegna che la Messa si proietta sulla vita. Il medico induista non fu più quello di prima: quella Messa lo fece missionario dell'amore.
La Messa ci fa "sacrificio a Dio gradito", cioè persone nuove, toccate da Lui. La Messa ci ha chiamati, ci ha trasformati e ci invia. Messa e vita; Messa e missione, dunque!
L'esperienza dell'Eucarestia non si chiude alle spalle con le porte della chiesa dopo la celebrazione, ma "va'" in tutto il mondo. Ci è stato detto: "La Messa è finita". Il suo genuino significato è: "La Messa non è finita". "Si scioglie l'assemblea perché ognuno torni alle sue occupazioni lodando e benedicendo Dio".
La carica eucaristica è tale che riscopre il suo vero nome: missione.
E' la missione della pace, come suggerisce l'augurio liturgico: "andate in pace!".
EucaristiamissionetestimonianzasacrificioMessaoffertorio
inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002
TESTO
237. Un buongiorno un po' speciale... 2
Buongiorno....
Quando ti sei svegliato questa mattina ti ho osservato e ho sperato che tu mi rivolgessi la parola anche solo poche parole, chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che era accaduto ieri.
Però ho notato che eri molto occupato a cercare il vestito giusto da metterti per andare a lavorare. Ho continuato ad aspettare ancora mentre correvi per la casa per vestirti e sistemarti e io sapevo che avresti avuto del tempo anche solo per fermarti qualche minuto e dirmi: "Ciao". Però eri troppo occupato.
Per questo ho acceso il cielo per te, l'ho riempito di colori e di dolci canti di uccelli per vedere se così mi ascoltavi però nemmeno di questo ti sei reso conto.
Ti ho osservato mentre ti dirigevi al lavoro e ti ho aspettato pazientemente tutto il giorno. Con tutte le cose che avevi da fare, suppongo che tu sia stato troppo occupato per dirmi qualcosa.
Al tuo rientro ho visto la tua stanchezza e ho pensato di farti bagnare un po' perché l'acqua si portasse via il tuo stress. Pensavo di farti un piacere perché così tu avresti pensato a me ma ti sei infuriato e hai offeso il mio nome, io desideravo tanto che tu mi parlassi, c'era ancora tanto tempo.
Dopo hai acceso il televisore, io ho aspettato pazientemente, mentre guardavi la TV, hai cenato, però ti sei dimenticato nuovamente di parlare con me, non mi hai rivolto la parola.
Ho notato che eri stanco e ho compreso il tuo desiderio di silenzio e così ho oscurato lo splendore del cielo, ho acceso una candela, in verità era bellissimo, ma tu non eri interessato a vederlo.
Al momento di dormire credo che fossi distrutto. Dopo aver dato la buona notte alla famiglia sei caduto sul letto e quasi immediatamente ti sei addormentato. Ho accompagnato il tuo sogno con una musica, i miei animali notturni si sono illuminati, ma non importa, perché forse nemmeno ti rendi conto che io sono sempre lì per te.
Ho più pazienza di quanto immagini. Mi piacerebbe pure insegnarti ad avere pazienza con gli altri, ti amo tanto che aspetto tutti i giorni una preghiera, il paesaggio che faccio è solo per te.
Bene, ti stai svegliando di nuovo e ancora una volta io sono qui e aspetto senza niente altro che il mio amore per te, sperando che oggi tu possa dedicarmi un po' di tempo.
Buona giornata...
Tuo papà Dio.
preghieraDioamore di Diorapporto con Dio
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 02/06/2002
PREGHIERA
238. Signore, liberami da me stesso! 1
Signore, mi senti?
Soffro tremendamente. Asserragliato in me stesso,
prigioniero di me stesso. Non sento che la mia voce,
non vedo che me stesso, e dietro di me non v'è che sofferenza.
Signore, mi senti?
Liberami dal mio corpo, che è tutto brama,
e tutto quello che tocca con i suoi innumerevoli grandi occhi,
con le sue mille mani tese, è solo per coglierlo e cercare di calmare la sua insaziabile fame.
Signore, mi senti?
Liberami dal mio cuore, tutto gonfio di amore,
ma, mentre credo di amare pazzamente, intravvedo rabbioso che ancora amo me stesso nell'altro.
Signore, mi senti?
Liberami dal mio spirito, pieno di se stesso, delle sue idee,
dei suoi giudizi; non sa dialogare, perché non lo colpisce altra parola fuorché la sua.
Solo, mi annoio, mi detesto, mi disgusto,
e mi rigiro nella mia sudicia pelle come il malato nel suo letto bruciante da cui vorrebbe scappare.
Tutto mi sembra brutto, mostruoso, senza luce,
...perché non posso veder nulla se non attraverso me.
Mi sento disposto ad odiare gli uomini ed il mondo intero,
...per dispetto, perché non li posso amare.
Vorrei uscire,
Vorrei camminare, correre verso un altro paese.
So che esiste la gioia, l'ho vista raggiare sui volti.
So che brilla la luce, l'ho vista illuminare gli sguardi.
Ma Signore, non posso uscire,
insieme amo e odio la mia prigione,
perché la mia prigione sono io
ed io mi amo,
mi amo, o Signore, e mi faccio ribrezzo.
Signore, non trovo neppure più la porta di casa mia.
Mi trascino tastoni, accecato,
urto nelle mie stesse pareti, nei miei propri limiti,
mi ferisco.
Ho male, ho troppo male, e nessuno lo sa, perché nessuno è entrato in casa mia.
Sono solo, solo.
Signore, Signore, mi senti?
Signore, indicami la mia porta,
prendi la mia mano, apri,
indicami la Via,
la via della gioia, della luce.
...Ma...
Ma, o Signore, mi senti Tu?
Figliuolo, Io ti ho sentito.
Mi fai compassione.
Da tanto tempo spio le tue imposte chiuse, aprile,
la Mia luce ti rischiarerà.
Da tanto tempo Io sono davanti al tuo uscio sprangato, aprilo,
mi troverai sulla soglia.
Io ti attendo, gli altri ti attendono,
ma bisogna aprire,
ma bisogna uscire da te.
Perché rimanere prigioniero di te stesso?
Sei libero.
Non ho chiuso Io la tua porta,
non posso riaprirla Io,
...perché sei tu dall'interno a tenerla solidamente sprangata.
peccatoconversionelibertàrapporto con Dio
inviato da Mariangela Molari, inserito il 01/06/2002
PREGHIERA
239. Preghiera di un uomo che ha sofferto molto
Signore, è ormai molto tempo che mi è stato inflitto l'ultimo colpo. Veniva dopo tanti altri...
Non ho più niente da perdere, o, per lo meno, ben poca cosa. Forse, verrà finalmente la pace?
Vorrei che venisse; dolcemente, come il sonno.
Fa', Signore, che non infastidisca mai gli altri con le mie pene. Dopo tutto, che importanza hanno, per loro, i miei dolori? Concedimi di non indignarmi mai, per il fatto che nulla di quanto mi ha ferito li commuove. E' normale. Come potrebbero comprendere?
Fa' che dopo tutto quello che ho sofferto, non trovi strano che nel mondo vi siano ancora fiori e raggi di sole. E delle famiglie unite e degli amori felici e delle convivenze serene. E dei fanciulli che vivono.
Salvami dall'imporre le mie miserie.
Signore, salvami dal frugare nel passato, e dal voler rivivere le ore dolorose di una vita ormai finita...
Salvami dal contemplare continuamente nel fondo di me stesso quei volti amati, quei sorrisi perduti, e tutta quella antica felicità, che ha durato una sola stagione.
Salvami dallo scrutare le mie miserie.
Signore, proteggimi anche dalla tenebrosa gioia della disperazione.
Fa' che non assomigli mai a quel vecchio re doloroso, nella tragedia di Shakespeare, che si incantava senza fine alla tempesta e al vento e a tutte le sventure che piombavano nella vita.
La mia sofferenza non ha un bel titolo di gloria.
Salvami dal cantare le mie pene.
Signore, rendimi calmo e staccato da tutto, ma senza indifferenza. Che io sia aperto e buono, maturato dalla sofferenza, pronto a dare agli altri quello che non ho avuto.
Non mi resta niente. A che cosa ancora mi potrei aggrappare? Eppure io vorrei che la gioia di ogni uomo trovasse come un'eco nel mio cuore purificato.
Piuttosto che soffrire senza utilità per nessuno e aggravare ulteriormente le tristezze del mondo, vorrei che da tutte le lacrime che ho versato, mi venisse il potere di comprendere gli altri, fino nell'intimo del loro essere, là dove sono veramente se stessi, là dove aspettano l'amore.
Vorrei che il mio dolore servisse a qualcosa.
E quando niente vi avrà consolato...
...dite:
«Padre nostro che sei nei cieli;
Sia santificato il tuo nome
Venga il tuo regno.
Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano.
Rimetti a noi i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori.
E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.
Amen».
solitudinesofferenzacrocedoloresolidarietàcompassione
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 01/06/2002
RACCONTO
In principio i colori non esistevano, Dio aveva già creato il mondo, il cielo, il mare, le, montagne, le piante, i fiori e gli animali. Era tutto a posto, ma tutto in bianco e nero. La fantasia del Creatore però non poteva accontentarsi di un mondo così monotono e triste, e dal suo Amore fece esplodere la brillantezza del verde, lo splendore del giallo, la profondità del blu, il calore del rosso e tutti gli altri colori così belli e diversi che è impossibile descriverli.
Appena nati i colori erano pieni di entusiasmo e scorrazzavano felici a prendere posesso del creato, ma le cose non erano per niente semplici: l'azzurro riempì subito il cielo e il giallo colorò il sole, ma presto arrivò il grigio e li scacciò, portando un sacco di nuvole, poi cadde la notte e venne il blu e poi il nero. Il verde andò sulle foglie e sulle piante ma quando arrivò l'autunno dovette cedere il posto al giallo, al marrone, al rosso...
I colori cominciarono a litigare tra di loro, perché non erano capaci di stare insieme, ognuno voleva tutto per sé e non accettava le presenza degli altri: anche gli animali si trovavano a cambiare il colore della pelliccia o delle piume, con strani accostamenti oppure macchie e striature a causa della guerra tra i colori.
Poco alla volta la situazione peggiorò fino a diventare insostenibile: tutto cambiava di colore vorticosamente e non si poteva fissare gli occhi un attimo su qualcosa che subito cambiava di colore. I colori stessi, in origine così vivi e brillanti, avevano perso la loro bellezza e procuravano nausea.
"Ora basta! - disse il Padreterno - non posso lasciare il mondo in questo stato!", e con tutto l'impegno di cui era capace creò l'arcobaleno. Era più bello di qualunque cosa si potesse mai immaginare, e subito i colori smisero la loro folle giostra per fermarsi a contemplare la nuova creatura... poi tutti vollero farne parte, e con immensa meraviglia scoprirono che c'era un posto preciso per ciascuno: il rosso accanto al giallo, in mezzo l'arancione, poi il verde, l'azzurro il blu... con mille altre nuove sfumature una più bella dell'altra!
Era incredibile, ma i colori avevano fatto pace. Dopo la tempesta che aveva sconvolto il creato ora andavano tutti d'accordo, con gioia si cedevano il passo l'un l'altro, si prendevano per mano in accostamenti da sogno, si abbracciavano contenti per creare nuove tinte; il mondo era colorato dall'armonia dell'Amore.
Anche oggi i colori vivono in pace ed armonia; talvolta per ricordare l'origine della loro concordia (o per insegnarla ad altri) si riuniscono festanti nell'arcobaleno: la gioia dei nostri occhi e del nostro cuore, magico ponte che unisce il cielo e la terra, l'anima e il corpo, il passato e il futuro.
armoniapaceconviverecomunitàmulticulturalità
inviato da Mariangela Molari, inserito il 28/05/2002