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TESTO

1. Il segreto del maestro

don Tonino Bello, Scrivo a voi... Lettere di un vescovo ai catechisti, EDB

Carissimi catechisti,

ogni volta che tornavo nel mio paese, andavo a trovarlo. Ultimamente si era incurvato e gli tremavano le mani. Ma per me è rimasto sempre il maestro di un tempo. Tornavo da lui per un dovere di gratitudine. Ma soprattutto condotto dalla speranza. Chi sa, mi dicevo, che non abbia, come nelle fiabe che ci raccontava in quarta elementare, una noce misteriosa da farmi schiacciare nei momenti difficili!

Di tutti gli insegnanti che ho avuto, lui era l'unico a provare soggezione di me. Me ne accorgevo dall'imbarazzo con cui, nel discorso con me, passava dal “lei” al “tu”. Mi hanno detto anche che era fiero di avermi avuto come discepolo. Forse però non ha mai saputo che se ancora tornavo da lui era perché avevo il presentimento che mi avrebbe aiutato a risolvere, come un tempo, qualche altro complicato problema, per il quale non mi bastavano più le quattro operazioni dell'aritmetica che lui mi aveva insegnato. Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.

Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?

Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.

Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.

Vorrei augurare a tutti voi che i vostri ragazzi provino per voi gli stessi sentimenti che ho provato io per il mio vecchio maestro delle elementari... statene certi: se restate saldi in Gesù e vi animerà una forte passione di trasmettere la sua Verità, essi, i vostri ragazzi di oggi, un giorno verranno a farvi visita. Sì, perché anche se saranno diventati professori dell'università gregoriana, torneranno da voi per recuperare quei frammenti di mistero, di cui non hanno ancora trovato spiegazione neppure sui libri di teologia.

Vi saluto, don Tonino Vescovo
3 marzo 1991

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inviato da Anna Barbi, inserito il 29/12/2018

TESTO

2. Lettera a Carlotta per il giorno della sua Prima Comunione

Anna Marinelli

Cara Carlotta, domani riceverai per la prima volta nella vita una minuscola particola fatta di grano ma che racchiude, per coloro che hanno fede, il Corpo, il Sangue, l'Anima e la Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. Che mistero grande mia adorata Carlotta. Forse dopo il giorno della tua nascita e quello in cui ricevesti il Battesimo questo sarà il giorno, in assoluto, più importante della tua vita.

Non lasciarti distogliere dall'abito bianco, dalla ghirlanda che forse metterai tra i capelli, ai regali che ti aspetti di ricevere, dai parenti che verranno a vederti in chiesa...
La cosa più importante è Gesù, Gesù solo.

Lui, l'immenso incontenibile viene ad abitare nel piccolo muscolo di carne che è il tuo cuore, viene nella tua anima bianca e immacolata, viene nel tuo corpicino esile come un fiore.

Lui, il grande si umilia per amore e diventa piccolo piccolo, come un boccone di pane. Lo Spirito divino prende in prestito la materia del grano (di cui è fatta quella piccola ostia) per condividere con te la sua divinità, la sua grandezza.

Lo so, lo so, che sono parole troppo difficili da comprendere ora, ma ci avrà pensato la tua catechista a farti comprendere l'inspiegabile mistero. Le catechiste hanno dimestichezza a sminuzzare il pane del catechismo e nutrire le vostre angeliche intelligenze per facilitare l'approccio alla comprensione di tale misterioso avvenimento, a prepararvi a tale privilegiato incontro.

Quando riceverai Gesù, abbraccialo stretto stretto, chiudi gli occhi e digli parole d'amore. Digli che lo ami e lo ringrazi di tale visita, di tale dono.

Non guardarti intorno. Non voltarti a vedere se c'è la nonna, se c'è la zia... se la mamma ti sta fotografando... nessuno in quel Momento conta più di Gesù!
Quello è un momento imperdibile!

Non sprecarlo, non sciuparlo, non sminuirlo...In quel momento il tuo corpicino è diventato un tabernacolo vivente, gli angeli ti stanno svolazzando intorno perché dentro di te c'è il loro Signore!

E tu non distrarti, concedigli almeno dieci minuti per ringraziarlo e per pregarlo. Pregalo per la mamma, per il tuo papà, per la nonna, per il nonno che è in Paradiso... per tutti i bambini che non hanno pane, per quelli che non hanno casa, per quelli che attraversano il mare agitato sui gommoni, in cerca di una terra che li accolga. Prega per le tue amichette, prega per i tuoi insegnanti, prega per i tuoi parenti... prega anche per me. So che lo farai e di questo ti ringrazio e ti abbraccio con tutto il mio cuore.

Sai Carlotta, ricordo quel giorno che aspettavamo dietro una porta che ci comunicassero la tua nascita in questo mondo... quel giorno entrasti anche nella mia vita e lì resterai sempre, e non ne uscirai mai più. Ti voglio bene.
Tua zia Anna

prima comunioneeucaristiacatechismomessa

inviato da Anna Marinelli, inserito il 30/06/2017

PREGHIERA

3. Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete   1

Anna Maria Cànopi, Sergio Stevan, Oggi vengo a casa tua, Milano, Paoline, 2000, pagg.8-10

Che io sappia
di essere piccolo come Zaccheo,
Signore Gesù,
- piccolo di statura morale -
ma dammi un po' di fantasia
per trovare il modo
di alzarmi un poco da terra
spinto dal desiderio di vederti passare,
di conoscerti e di sapere chi sei tu per me.

Signore Gesù,
fa' che io mi riconosca
nel primo dei pubblicani, dei peccatori,
quanto al disonesto accumulare
tante cose di mio gusto,
tante false sicurezze;
fa' che io mi riconosca fra i pubblicani,
ma mettimi in cuore una sana inquietudine,
almeno un po' di curiosità
per cercare te!

Signore Gesù,
so che devi passare dalle mie parti,
dove sono io,
tu devi passare di qui: sei venuto apposta!
Ti prego, fammi trovare un albero,
fammi trovare qualcuno
che io ritenga più alto,
migliore di me,
per valermi della sua statura
e cercare di vedere te,
soprattutto per farmi vedere da te,
e sentirmi da te chiamare per nome.

Che stupore!
Come mi conosci? Chi ti ha parlato di me?
Signore Gesù, ti prego, dimmi che oggi
ti vuoi fermare da me in casa mia,
come ospite, come amico che non parte più.

Vieni, Signore Gesù,
a riempire di gioia la mia vita
liberandomi dal peso ingombrante
di ciò che sono
e di ciò che possiedo da solo.
Sì, soprattutto liberandomi
dal peso ingombrante
di ciò che sono - o che ritengo di essere -
e di ciò che egoisticamente possiedo.

Vieni a darmi l'entusiasmo di essere povero
nel cuore e ricco soltanto di te.
Io sono sicuro che mi ascolti,
perché sei già venuto a cercarmi,
e mi hai trovato come tesoro che era perduto;
mi hai riacquistato a prezzo di te stesso...
Tu per me hai fatto questo,
per me che nemmeno ti conoscevo.
Sono piccolo, meschino.

Signore Gesù, pastore grande, pastore buono,
sollevami sulle tue spalle per farmi vedere
anche il volto del Padre.
Che io sappia innalzarmi
soltanto facendomi sollevare da te
che per questo sei venuto:
per i piccoli che ti desiderano
e che ti protendono le braccia
per farsi sollevare da te
fino al cuore dell'eterno Padre
da cui sei venuto a rivelare l'infinito amore.

Allora ogni giorno vivrò con gioia
Il mio incontro con te
- la mia Pasqua - e sarò un continuo grazie,
un "amen-alleluia" senza fine.

GesùZaccheorapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 14/04/2014

PREGHIERA

4. Aiutami a dire di sì - versione completa   2

Michel Quoist

Ho paura di dire di sì, o Signore.
Dove mi condurrai?
Ho paura di avventurarmi,
ho paura di firmare in bianco,
ho paura del sì che reclama altri sì.

Eppure non sono in pace.
Mi insegui, o Signore, sei in agguato da ogni parte.
Cerco il rumore perché temo di sentirti,
ma ti infiltri in un silenzio.
Fuggo dalla via perché ti ho intravisto,
ma mi attendi quando giungo in fondo alla strada.
Dove mi potrei nascondere? Ovunque t'incontro:
non è dunque possibile sfuggirti!

...Ma ho paura di dire di sì, o Signore
Ho paura di darti la mano, tu la tieni nella tua.
Ho paura di incontrare il tuo sguardo, tu sei un seduttore.
Ho paura della tua esigenza, tu sei un Dio geloso.
Sono braccato, ma mi nascondo.
Sono prigioniero, ma mi dibatto,
e combatto sentendomi vinto.
Perché tu sei il più forte, o Signore,
tu possiedi il mondo e me lo sottrai.
Quando tendo le mani per cogliere persone e cose, esse svaniscono ai miei occhi.
Non è una cosa allegra, Signore, non posso prendere nulla per me.
Avvizzisce tra le mie dita il fiore che raccolgo,
muore sulle mie labbra il sorriso che abbozzo,
mi lascia ansante ed inquieto il valzer che ballo.
Tutto mi sembra vuoto,
tutto mi sembra vano,
hai creato il deserto intorno a me.
E ho fame,
e ho sete.
Non mi potrebbe saziare il mondo intero.

Eppure ti amavo, o Signore; che ti ho dunque fatto?
Per te lavoravo, per te mi spendevo.
O gran Dio terribile, che vuoi dunque ancora?

Piccolo, voglio di più per te e per il Mondo.
Prima conducevi la tua azione,
ma io non so che farmene.
Mi invitavi ad approvarla, m'invitavi a sostenerla,
volevi interessarmi al tuo lavoro.
Ma vedi, piccolo, invertivi le parti.
Ti ho seguito con gli occhi, ho veduto la tua buona volontà,
ora Io voglio di più per te.
Non farai più la tua azione, ma la volontà del tuo Padre celeste.

Di': "sì", piccino.
Ho bisogno del tuo sì, così come ho avuto bisogno del sì di Maria per venire sulla terra,
perché io debbo essere nel tuo lavoro,
io debbo essere nella tua famiglia,
io debbo essere nel tuo quartiere,
e non devi esserci tu.
Il mio sguardo penetra e non il tuo,
la mia parola trasporta e non la tua,
la mia vita trasforma e non la tua.
Dammi tutto, abbandonami tutto.
Ho bisogno del tuo sì per sposarti e scendere sulla terra.
Ho bisogno del tuo sì per continuare a salvare il Mondo!

O Signore, ho paura della tua esigenza,
ma chi ti può resistere?
Affinché venga il tuo regno e non il mio,
affinché sia fatta la tua volontà e non la mia,
aiutami a dire di sì.

Clicca qui per la versione breve.

fedefiduciaabbandonovocazionemissionechiamatarapporto con Diopaura

4.5/5 (8 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 23/09/2012

PREGHIERA

5. Signore mi hai afferrato

Michel Quoist

Signore, mi hai afferrato, e non ho potuto resisterti.
Sono corso a lungo, ma tu m'inseguivi.
Prendevo vie traverse, ma tu le conoscevi.
Mi hai raggiunto.
Mi sono dibattuto.
Hai vinto!
Eccomi, o Signore, ho detto sì, all'estremo del soffio e della lotta, quasi mio malgrado;
ed ero là, tremante come un vinto alla mercé del vincitore,
quando su di me ha posato il Tuo sguardo di Amore.

Ormai è fatto, Signore, non potrò più scordarti.
In un attimo mi hai conquistato,
in un attimo mi hai afferrato.
I mie dubbi furono spazzati,
i miei timori svanirono;
perché ti ho riconosciuto senza vederti,
Ti ho sentito senza toccarti,
Ti ho compreso senza udirti.
Segnato dal fuoco del tuo Amore,
ormai è fatto, Signore, non potrò più scordarti.
Ora, ti so presente, al mio fianco, ed in pace lavoro sotto il tuo sguardo di Amore.
Non conosco più lo sforzo di pregare:
mi basta alzare gli occhi dell'anima verso di te per incontrare il tuo sguardo.
E ci comprendiamo. Tutto è chiaro. Tutto è pace.
In certi momenti, grazie o Signore, tu m'invadi irresistibile, come il mare lentamente inonda la spiaggia;
oppure improvvisamente tu mi afferri, come l'innamorato stringe tra le braccia il suo amore.
E non posso più nulla, bisogna che mi fermi.
Sedotto, trattengo il respiro; svanisce il mondo, sospendi il tempo.
Vorrei che questi minuti durassero ore...
Quando ti ritrai, lasciandomi di fuoco e sconvolto da gioia profonda,
non ho un'idea di più, ma so che tu mi possiedi maggiormente.
Alcune mie fibre sono più profondamente toccate,
la ferita s'è allargata, e sono un po' più prigioniero del tuo Amore.

Signore, tu crei ancora il vuoto attorno a me, ma in un modo diverso questa volta.
Per il fatto che sei troppo grande ed eclissi ogni cosa.
Quello che amavo mi sembra inezia, e sotto il fuoco del tuo Amore si sciolgono i miei desideri umani come cera al sole.
Che m'importano le cose!
Che m'importa il mio benessere!
Che m'importa la mia vita!
Non desidero più altro che te,
non voglio più altro che te.

Lo so, gli altri lo dicono: "È pazzo!".
Ma, o Signore, lo sono loro.

vocazionecontemplazionerapporto con Diodesiderio di Diopreghiera

5.0/5 (3 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 21/09/2012

PREGHIERA

6. Maria donna del piano superiore   3

Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, ed. San Paolo

Santa Maria, donna del piano superiore, splendida icona della Chiesa, tu, la tua personale Pentecoste, l'avevi già vissuta all'annuncio dell'angelo, quando lo Spirito Santo scese su di te, e su di te stese la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Se, perciò, ti fermasti nel cenacolo, fu solo per implorare su coloro che ti stavano attorno lo stesso dono che un giorno, a Nazareth, aveva arricchito la tua anima. Come deve fare la Chiesa, appunto. La quale, già posseduta dallo Spirito, ha il compito di implorare, fino alla fine dei secoli, l'irruzione di Dio su tutte le fibre del mondo.

Donale, pertanto, l'ebbrezza delle alture, la misura dei tempi lunghi, la logica dei giudizi complessivi. Prestale la tua lungimiranza. Non le permettere di soffocare nei cortili della cronaca. Preservala dalla tristezza di impantanarsi, senza vie d'uscita, negli angusti perimetri del quotidiano. Falle guardare la storia dalle postazioni prospettiche del Regno. Perché, solo se saprà mettere l'occhio nelle feritoie più alte della torre, da dove i panorami si allargano, potrà divenire complice dello Spirito e rinnovare, così, la faccia della terra.

Santa Maria, donna del piano superiore, aiuta i pastori della Chiesa a farsi inquilini di quelle regioni alte dello spirito da cui riesce più facile il perdono delle umane debolezze, più indulgente il giudizio sui capricci del cuore, più istintivo l'accredito sulle speranze di risurrezione. Sollevali dal pianterreno dei codici, perché solo da certe quote si può cogliere l'ansia di liberazione che permea gli articoli di legge. Fa' che non rimangano inflessibili guardiani delle rubriche, le quali sono sempre tristi quando non si scorge l'inchiostro rosso dell'amore con cui sono state scritte.

Intenerisci la loro mente, perché sappiano superare la freddezza di un diritto senza carità, di un sillogismo senza fantasia, di un progetto senza passione, di un rito senza estro, di una procedura senza genio, di un logos senza sophìa.

Invitali a salire in alto con te, perché solo da certe postazioni lo sguardo potrà davvero allargarsi fino agli estremi confini della terra, e misurare la vastità delle acque su cui lo Spirito Santo oggi torna a librarsi.

Santa Maria, donna del piano superiore, facci contemplare dagli stessi tuoi davanzali i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi della vita: la gioia, la vittoria, la salute, la malattia, il dolore, la morte. Sembra strano: ma solo da quell'altezza il successo non farà venire le vertigini, e solo a quel livello le sconfitte impediranno di lasciarsi precipitare nel vuoto.

Affacciàti lassù alla tua stessa finestra, ci coglierà più facilmente il vento fresco dello Spirito con il tripudio dei suoi sette doni. I giorni si intrideranno di sapienza, e intuiremo dove portano i sentieri della vita, e prenderemo consiglio sui percorsi più praticabili, e decideremo di affrontarli con fortezza, e avremo coscienza delle insidie che la strada nasconde, e ci accorgeremo della vicinanza di Dio accanto a chi viaggia con pietà, e ci disporremo a camminare gioiosamente nel suo santo timore. E affretteremo così, come facesti tu, la Pentecoste sul mondo.

pentecosteSpirito Santochiesamariamadonna

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 12/08/2012

TESTO

7. Padre mio, mi sono affezionato alla terra

Mario Luzi, Via Crucis al Colosseo 1999

Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell'uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l'ho fatto troppo mio o l'ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d'amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l'ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell'eternità.
Ma da questo stato umano d'abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell'iniquità è pagato all'iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

Gesù Cristoumanitàvenerdì santo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Laura Carta, inserito il 25/01/2012

RACCONTO

8. Cosa ti rende felice?   5

Nel corso di un seminario per coppie, chiesero a una delle mogli: "Tuo marito ti rende felice? Ti fa davvero felice?". In quel momento, il marito sollevò la testa, mostrando totale sicurezza. Sapeva che la moglie avrebbe detto sì, perché non si era mai lamentata di qualcosa durante il matrimonio. Tuttavia, la moglie rispose con un sonoro "No!".

"No, mio marito non mi rende felice!". A questo punto il marito stava cercando la porta di uscita più vicina. "Mio marito non mi ha reso felice e non mi rende felice! Sono felice!". E continuò:

"Il fatto che io sia felice o no, non dipende da lui, ma da me. Io sono la sola dalla quale dipende la mia felicità. Io decido di essere felice.In ogni situazione, ogni momento della mia vita, perché se la mia felicità dipendesse da qualche cosa, persona o circostanza sulla faccia della terra, sarei in guai seri.

Tutto ciò che esiste in questa vita è in continua evoluzione: l'essere umano, la ricchezza, il mio corpo, il tempo, la mia testa, i piaceri, gli amici, la mia salute fisica e mentale. E così potrei citare un elenco senza fine... Decido di essere felice! Se la mia casa è vuota o piena: sono felice! Se usciamo insieme o esco da sola: sono felice! Se il mio lavoro è ben pagato o no: sono felice! Sono sposata, ma ero felice quando ero single. Sono contenta per me stessa.

Le altre cose, persone, momenti o situazioni io le chiamo "esperienze che possono o non possono darmi momenti di gioia e di tristezza".

Quando muore qualcuno che amo, io sono una persona felice in un inevitabile momento di tristezza. Imparo dalle esperienze passeggere e vivo quelle che sono eterne come l'amare, perdonare, aiutare, capire, accettare, confortare...

Ci sono persone che dicono: oggi non posso essere felice perché sto male, perché non ho soldi, perché fa molto caldo, perché qualcuno mi ha insultato, perché qualcuno ha smesso di amarmi, perché non riesce a valorizzarmi, perché mio marito non è quello che mi aspettavo, perché i miei figli non mi rendono felice, perché i miei amici non mi rendono felice, perché il mio lavoro è mediocre e così via.

Io amo la vita ma non perché la mia vita è più facile di quella degli altri. E' che ho deciso di essere felice e io come persona sono responsabilità per la mia felicità. Quando prendo questo obbligo, lascio liberi mio marito e chiunque altro dal pesare sulle loro spalle. La vita di tutti è molto più leggera. Ed in questo modo ho un matrimonio felice da molti anni".

Non permettere mai a nessuno una così grande responsabilità come quella di determinare la tua felicità! Essere felici, anche se fa caldo, anche se sei malato, anche non hai soldi, anche se qualcuno ti ha fatto male, anche se qualcuno non ti ama o non ti da il giusto valore.

Basta chiedere a Dio di darci la serenità di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare quelle che possono essere cambiate e la saggezza per riconoscere la differenza tra loro. Non riflettere solo... cambia e sii felice!

cambiamentofelicitàaccettazioneserenitàgioiamatrimoniosposiconvivere

5.0/5 (4 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 08/03/2011

RACCONTO

9. Il Girasole   15

Bruno Ferrero, Tutte Storie, ed. Elledici

In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali.

Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra e a giocherellare con le gocce di rugiada, per farle sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre.

La pianta senza nome, invece, non si perdeva un salo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l'altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po', il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri.

Le piante del giardino cominciarono a considerarlo con rispetto, e anche con un po' d'invidia. «Quello spilungone è un po' matto», bisbigliavano dalie e margherite.

La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l'avrebbe seguito per non abbandonarlo un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all'unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai.

Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. «Si è innamorato del sole», cominciarono a propagare ai quattro venti. «Lo spilungone è innamorato del sole», dicevano ridacchiando i tulipani. «Ooooh, com'è romantico!», sussurravano pudicamente le viole mammole.

La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome «girasole». Glielo misero per prenderlo in giro, ma piacque a tutti, compreso il diretto interessato.

Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva orgoglioso: «Mi chiamo Girasole». Rose, ortensie e dalie non cessavano però di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o, peggio, qualche sentimento molto disordinato. Furono le bocche di leone, i fiori più Coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al girasole.

«Perché guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te», gridarono le bocche di leone per farsi sentire. «Amici», rispose il girasole, «sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po'. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui...».

Come tutti i buoni, il girasole parlava forte e l'udirono tutti i fiori del giardino. E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per «l'innamorato del sole».

cristianoseguire Gesùamare Diovivere per Diocontemplare Dio

2.5/5 (2 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 12/09/2010

TESTO

10. E' possibile pregare o meditare scandendo i tempi della giornata?   2

Jean-Marie Lustiger, Avvenire del 30/11/2008

Ecco i consigli dell'arcivescovo di Parigi: «Obbligatevi a spezzare il ritmo frenetico delle nostre metropoli. Fatelo sui mezzi pubblici e nelle pause del lavoro». Uno scritto inedito del cardinale Francese morto un anno fa.

Come pregare durante il giorno? La tradizione della Chiesa raccomanda di pregare sette volte al giorno. Perché? Una prima ragione è che il popolo d'Israele offriva il proprio tempo a Dio in sette preghiere quotidiane, in momenti fissi, nel Tempio o almeno voltati verso di esso: «Sette volte al giorno io ti lodo» ci rammenta il salmista (Salmo 118,164). Una seconda ragione è che il Cristo stesso ha pregato così, fedele alla fede del popolo di Dio. La terza ragione è che i discepoli di Gesù hanno pregato così: gli apostoli (vedi Atti 3,1: Pietro e Giovanni) e i primi cristiani di Gerusalemme «assidui nelle preghiere» (vedi Atti 2,42; 10,3-4: Cornelio nella sua visione); poi le comunità cristiane e, più tardi, le comunità monastiche. E così anche i religiosi e le religiose, i preti, sono stati chiamati a recitare o a cantare in sette riprese le «ore» dell'«ufficio» (che significa «dovere», «incarico», «missione» di preghiera), facendo una pausa per cantare i salmi, meditare la Scrittura, intercedere per i bisogni degli uomini e rendere gloria a Dio. La Chiesa invita ogni cristiano a scandire la propria giornata con una preghiera ripetuta, deliberata, voluta per amore, fede, speranza.

Prima di sapere se è bene pregare due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte al giorno, un consiglio pratico: associate i momenti di preghiera a gesti fissi, a punti di passaggio obbligati che scandiscono le vostre giornate.

Per esempio: per coloro che lavorano e in genere hanno orari stabili, esiste pure un momento in cui lasciate il vostro domicilio e vi recate al lavoro... a piedi o in auto, in metropolitana o in autobus. A un orario preciso. E ciò vi prende un determinato tempo, sia all'andata sia al ritorno. Perché quindi non associare dei tempi di preghiera a quelli di spostamento?

Secondo esempio: siete madre di famiglia e rimanete a casa, ma avete dei figli da portare e riprendere a scuola in momenti precisi della giornata. Un altro obbligo che segna una pausa: i pasti, anche se a causa di forza maggiore o cattiva abitudine mangiate solo un panino o pranzate in piedi. Perché non trasformare queste interruzioni nella giornata in punti di riferimento per una breve preghiera?

Sì, andate a cercare nella vostra giornata questi momenti più o meno regolari di interruzione delle occupazioni, di cambiamento nel ritmo di vostra vita: inizio e fine del lavoro, pasti, tempi di viaggio ecc.

Associate a questi momenti la decisione di pregare, anche solo per un breve istante, il tempo di fare l'occhiolino a Dio. Datevi l'obbligo rigoroso, qualunque cosa accada, di consacrare quindi anche solo trenta secondi o un minuto a dare un nuovo orientamento alle vostre diverse occupazioni sotto lo sguardo di Dio.
La preghiera così, pervaderà quanto vi sarà dato vivere.

Quando andate al lavoro forse intanto rimuginate sui colleghi che ritroverete, sulle difficoltà da affrontare in un ufficio in cui lavorate in due o in tre; le personalità cozzano maggiormente quando la vicinanza è troppo stretta e quotidiana. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, fa' che io viva questo rapporto quotidiano nella vera carità. Permettimi di scoprire le esigenze dell'amore fraterno nella luce della Passione di Cristo che mi renderà sopportabile lo sforzo richiesto».

Se lavorate in un grande centro commerciale, forse rimuginerete sulle centinaia di volti che vi scorreranno davanti senza che abbiate il tempo di guardarli. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, ti prego per tutte quelle persone che passeranno davanti a me e alle quali cercherò di sorridere.

Anche se non ne ho la forza quando mi insultano e mi trattano come fossi una macchina calcolatrice».

Insomma, approfittate al meglio, durante la vostra giornata, di questi punti di passaggio obbligati, dei momenti in cui disponete di un po' di margine e vi lasciano, se siete vigili, un piccolo spazio di libertà interiore per riprendere fiato in Dio.

Si può pregare nella metropolitana o sui mezzi pubblici? Io l'ho fatto. Ho utilizzato diversi metodi secondo i momenti della mia vita o le circostanze. Ci fu un tempo in cui mi ero abituato a mettere i tappi nelle orecchie per isolarmi e poter avere un minimo di silenzio, tanto ero esasperato dal rumore. Pregavo così, senza per questo tagliar fuori le persone che mi erano attorno visto che potevo ancora essere presente a essi con lo sguardo, senza però scrutarli, senza fissarli, senza essere indiscreto nel modo di guardarli. Il silenzio fisico dell'orecchio mi permetteva di essere ancora più libero nell'accoglienza. In altri periodi, invece, ho vissuto un'esperienza esattamente contraria. Ognuno di noi fa come può, ma in nessun caso dobbiamo ritenere che sia impossibile pregare.

Ecco un altro suggerimento. Scommetto che lungo il vostro tragitto, dalla stazione della metropolitana o dalla fermata dell'autobus fino a casa o al posto di lavoro, potete incontrare, nel raggio di trecento o cinquecento metri, una chiesa o una cappella (una piccola deviazione vi consentirebbe di camminare un po'). A Parigi si può fare. In quella tal chiesa potete pregare in tranquillità o, al contrario, essere continuamente disturbati; può essere adatta o meno alla vostra sensibilità: questo è un altro discorso. Ma c'è una chiesa con il Santissimo Sacramento. Perciò, camminate per qualche centinaio di metri in più; vi ci vorranno dieci minuti, e un po' d'esercizio non farà male alla vostra linea... Entrate in chiesa e andate fino al Santissimo Sacramento. Inginocchiatevi e pregate. Se non potete di più, fatelo per dieci secondi. Ringraziate Dio Padre per il mistero dell'Eucaristia nel quale siete inclusi, per la presenza del Cristo nella sua Chiesa. Lasciatevi andare all'adorazione con il Cristo, nel Cristo, tramite la forza dello Spirito. Rendete grazie a Dio. Rialzatevi.
Fatevi un bel segno della croce e ripartite.

preghierapregaretempoquotidianitàperseveranzafedeltà nella preghiera

4.7/5 (3 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 05/09/2010

TESTO

11. Lungo il Calvario

Anna Rita Mazzocco, Il Cantico di Tommaso, Ed. Morlacchi

C'ero anch'io quella mattina
sulla via della croce.
Eri a poca distanza da me
mentre fra sputi ed insulti
arrancavi verso il posto
dove avevamo decretato
che tu morissi.
Attorno a me la folla.
C'era chi voleva solo curiosare
e chi era capitato lì per caso,
ma c'era anche chi voleva partecipare
per vendicarsi di te
almeno solo con lo sguardo.
L'ennesima profanazione di quel corpo
già ridotto ad un'unica piaga:
la miseria umana.

Non so dirti perché accorsi anch'io
a quella sagra dell'ingiustizia
ma, come Zaccheo, mi feci largo tra la folla
per vedere.
Ed ero in prima fila.
Tutto ciò di cui potrei essere capace era lì
davanti ai miei occhi
sprofondati tra quelle piaghe
che invocavano la morte.

Stavi per passarmi davanti
ma io non volevo più vedere oltre.
Avrei voluto essere lontano
il più lontano possibile da quello scempio
ma ormai non potevo più scappare.
Ero imbottigliato tra la folla
che i soldati romani spingevano indietro
per lasciar passare la giustizia dell'uomo.

Ora non eri più una macchia di sangue
sulla via del Calvario.
Ora si riconosceva un volto.
Ed eri ancora umano.
Dicono che tu fossi il più bello fra gli uomini
ma io non ti avevo mai visto prima.
Quella mattina però lo eri davvero
talmente bello da non aver il coraggio di guardarti.
E abbassai lo sguardo
per non correre il rischio d'incontrare il tuo.
Come uno struzzo sperai
d'aver scampato il pericolo di quell'incontro.

E mi passasti davanti
ma io non sollevai gli occhi da terra.
Vidi soltanto i tuoi piedi piagati
che sostarono alcuni secondi davanti a me.
Sicuramente dovevi riprendere fiato.
Ma uno schiocco di frusta
Ti richiamò al tuo dovere di vittima...
E così riprendesti sulle spalle il mio peccato
avanzando ancora con fatica.
Ma sui sassi mi lasciasti il tuo ricordo.

Dicono che moristi alle tre
ma io non venni a vedere.
Ero rimasto lungo la via del Calvario
seduto a terra
davanti a quell'impronta di sangue
che mi schiantava il cuore.

passionecroceGesùCristovia crucis

3.0/5 (2 voti)

inviato da Monache Agostiniane Urbino, inserito il 11/08/2010

RACCONTO

12. La bicicletta di Dio   7

In una calda sera di fine estate, un giovane si recò da un vecchio saggio: "Maestro, come posso essere sicuro che sto spendendo bene la mia vita? Come posso essere sicuro che tutto ciò che faccio è quello che Dio mi chiede di fare?". Il vecchio saggio sorrise compiaciuto e disse: "Una notte mi addormentai con il cuore turbato, anch'io cercavo, inutilmente, una risposta a queste domande. Poi feci un sogno. Sognai una bicicletta a due posti. Vidi che la mia vita era come una corsa con una bicicletta a due posti: un tandem. E notai che Dio stava dietro e mi aiutava a pedalare. Ma poi avvenne che Dio mi suggerì di scambiarci i posti. Acconsentii e da quel momento la mia vita non fu più la stessa. Dio rendeva la mia vita più felice ed emozionante. Che cosa era successo da quando ci scambiammo i posti? Capii che quando guidavo io, conoscevo la strada. Era piuttosto noiosa e prevedibile. Era sempre la distanza più breve tra due punti. Ma quando cominciò a guidare lui, conosceva bellissime scorciatoie, su per le montagne, attraverso luoghi rocciosi a gran velocità a rotta di collo. Tutto quello che riuscivo a fare era tenermi in sella! Anche se sembrava una pazzia, lui continuava a dire: «Pedala, pedala!». Ogni tanto mi preoccupavo, diventavo ansioso e chiedevo: «Signore, ma dove mi stai portando?». Egli si limitava a sorridere e non rispondeva. Tuttavia, non so come, cominciai a fidarmi. Presto dimenticai la mia vita noiosa ed entrai nell'avventura, e quando dicevo: «Signore, ho paura...», lui si sporgeva indietro, mi toccava la mano e subito una immensa serenità si sostituiva alla paura. Mi portò da gente con doni di cui avevo bisogno; doni di guarigione, accettazione e gioia. Mi diedero i loro doni da portare con me lungo il viaggio. Il nostro viaggio, vale a dire, di Dio e mio. E ripartimmo. Mi disse: «Dai via i regali, sono bagagli in più, troppo peso». Così li regalai a persone che incontrammo, e trovai che nel regalare ero io a ricevere, e il nostro fardello era comunque leggero. Dapprima non mi fidavo di lui, al comando della mia vita. Pensavo che l'avrebbe condotta al disastro. Ma lui conosceva i segreti della bicicletta, sapeva come farla inclinare per affrontare gli angoli stretti, saltare per superare luoghi pieni di rocce, volare per abbreviare passaggi paurosi. E io sto imparando a star zitto e pedalare nei luoghi più strani, e comincio a godermi il panorama e la brezza fresca sul volto con il delizioso compagno di viaggio, la mia potenza superiore. E quando sono certo di non farcela più ad andare avanti, lui si limita a sorridere e dice: «Non ti preoccupare, guido io, tu pedala!»".

affidamentoaffidarsi a Diofiducia in Diofedeabbandonofiducia

4.5/5 (6 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

13. La pietra azzurra   8

Bruno Ferrero, La vita è tutto quello che abbiamo

Il gioielliere era seduto alla scrivania e guardava distrattamente la strada attraverso la vetrina del suo elegante negozio.

Una bambina si avvicinò al negozio e schiacciò il naso contro la vetrina. I suoi occhi color del cielo si illuminarono quando videro uno di quegli oggetti esposti. Entrò decisa e puntò il dito verso uno splendido collier di turchesi azzurri. "E' per mia sorella. Può farmi un bel pacchetto regalo?".

Il padrone del negozio fissò incredulo la piccola cliente e le chiese: "Quanti soldi hai?".

Senza esitare, la bambina, alzandosi in punta di piedi, mise sul banco una scatola di latta, la aprì e la svuotò. Ne vennero fuori qualche biglietto di piccolo taglio, una manciata di monete, alcune conchiglie, qualche figurina.

"Bastano?" disse con orgoglio. "Voglio fare un regalo a mia sorella più grande. Da quando non c'è più la nostra mamma, è lei che ci fa da mamma e non ha mai un secondo di tempo per se stessa. Oggi è il suo compleanno e sono certa che con questo regalo la farò molto felice. Questa pietra ha lo stesso colore dei suoi occhi".

L'uomo entra nel retro e ne riemerge con una stupenda carta regalo rossa e oro con cui avvolge con cura l'astuccio. "Prendilo" disse alla bambina. "Portalo con attenzione". La bambina partì orgogliosa tenendo il pacchetto in mano come un trofeo.

Un'ora dopo entrò nella gioielleria una bella ragazza con la chioma color miele e due meravigliosi occhi azzurri. Posò con decisione sul banco il pacchetto che con tanta cura il gioielliere aveva confezionato e dichiarò: "Questa collana è stata comprata qui?".
"Si, signorina".
"E quanto è costata?".
"I prezzi praticati nel mio negozio sono confidenziali: riguardano solo il mio cliente e me".
"Ma mia sorella aveva solo pochi spiccioli. Non avrebbe mai potuto pagare un collier come questo!".

Il gioielliere prese l'astuccio, lo chiuse con il suo prezioso contenuto, rifece con cura il pacchetto regalo e lo consegnò alla ragazza. "Sua sorella ha pagato. Ha pagato il prezzo più alto che chiunque possa pagare: ha dato tutto quello che aveva".

gratuitàimportanza delle piccole cosegenerositàvalore delle cose

5.0/5 (3 voti)

inviato da Anna Trevisani, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

14. Un bicchiere di latte - Si raccoglie quello che si semina   2

Un giorno, un ragazzo povero che vendeva merci porta a porta per pagarsi gli studi all'università, si trovò in tasca soltanto una moneta da 10 centesimi, e aveva fame. Decise che avrebbe chiesto qualcosa da mangiare nella prossima casa, ma i suoi nervi lo tradirono quando gli aprì la porta una donna stupenda. Al posto di qualcosa da mangiare chiese un bicchiere d'acqua. Lei pensò che il giovane sembrava affamato, e dunque gli portò un bel bicchiere di latte. Lui lo bevve piano, e allora chiese: "Quanto devo?". "Non mi deve niente", rispose lei. "Mia madre ci ha insegnato che dobbiamo essere sempre caritatevoli con coloro che hanno bisogno di noi". E lui disse: "Allora la ringrazio di cuore!". Quando Howard Kelly andò via da quella casa, non soltanto si sentì più sollevato, ma anche la sua fede in Dio e negli uomini era diventata più forte. Era stato sul punto di arrendersi e di lasciare gli studi a causa della sua povertà.

Qualche anno dopo la donna si ammalò in modo grave. I medici del paese erano preoccupati. Alla fine la inviarono alla grande città. Chiamarono il Dott. Howard Kelly per un consulto. Quando lui sentì il nome del paese da dove proveniva la paziente, sentì negli occhi una luce particolare e una gradevole sensazione. Immediatamente il Dott. Kelly salì dalla hall dell'ospedale fino alla stanza di lei. Vestito con il suo grembiule da dottore entrò a vederla. Capricci del destino, era lei, la riconobbe subito. Ritornò alla stanza determinato a fare tutto il possibile per salvare la sua vita. Da quel giorno seguì quel caso con la maggiore attenzione, lei subì un'operazione a cuore aperto e si recuperò molto lentamente. Dopo una lunga lotta, lei vinse la battaglia! Era finalmente recuperata! Giacché la paziente era fuori pericolo, il Dott. Kelly chiese all'ufficio amministrativo dell'ospedale che gli inviassero la fattura con il totale delle spese, per approvarla. La ricontrollò e la firmò. Inoltre scrisse qualcosa sui margini della fattura e la inviò alla stanza della paziente.

La fattura arrivò alla stanza della paziente, ma lei aveva paura di aprirla, perché sapeva che avrebbe lavorato per il resto della sua vita per pagare il conto di un intervento così complicato. Finalmente la aprì, e qualcosa attirò la sua attenzione. Sui margini della fattura lesse queste parole: "Pagata completamente molti anni fa con un bicchiere di latte Firmato: Dott. Howard Kelly". I suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia e il suo cuore fu felice e benedisse il dottore per averle ridato la vita.

speranzacaritàamoreseminarebenegratuitàgratitudine

4.5/5 (2 voti)

inviato da Marianna Mundo, inserito il 26/06/2010

PREGHIERA

15. Non vi sono che due amori   2

Michel Quoist

Non vi sono che due amori, o Signore,
l'amore di me, l'amore di te e degli altri,
ed ogni qualvolta mi amo, è un po' meno di amore per te e per gli altri,
una perdita d'amore,
perché l'amore è fatto per uscire da me e volare verso gli altri.
Ogni qualvolta ripiega su me, intisichisce; marcisce e muore.
L'amore di me, o Signore, è un veleno che sorbisco ogni giorno,
l'amore di me mi offre una sigaretta e non ne dà al mio vicino,
l'amore di me sceglie la parte migliore e tiene il posto migliore,
l'amore di me accarezza i miei sensi e ruba il pane sulla mensa degli altri,
l'amore di me parla di me e mi rende sordo all'altrui parola,
l'amore di me sceglie ed impone la scelta all'amico,
l'amore di me mi traveste e mi trucca, vuol farmi brillare eclissando gli altri;
l'amore di me mi compatisce e trascura la sofferenza altrui,
l'amore di me diffonde le mie idee e disprezza quelle altrui,
l'amore di me mi trova virtuoso, mi chiama persona per bene,
l'amore di me mi incita a guadagnar denaro, a spenderlo per il mio piacere, ad ammucchiarlo per il mio avvenire,
l'amore di me mi suggerisce di dare ai poveri per addormentare la mia coscienza e vivere in pace.
L'amore di me m'infila le pantofole e mi adagia in poltrona,
l'amore di me è soddisfatto di me e mi addormenta dolcemente.
La cosa più grave, o Signore, si è che l'amore di me è un amore rubato.
Era destinato agli altri, ne avevano bisogno per vivere, per perfezionarsi, ed io l'ho distolto.
Così l'amore di me crea la sofferenza umana,
così l'amore degli uomini per loro stessi crea la miseria umana,
tutte le miserie umane,
tutte le sofferenze umane,
la sofferenza del ragazzo che la madre batte senza motivo e quella dell'uomo che il padrone riprende davanti agli operai;
la sofferenza della ragazza brutta abbandonata nel ballo e quella della sposa che il marito non abbraccia più;
la sofferenza del bambino che si lascia a casa perché ingombra e quella del nonno deriso dai bambini perché troppo vecchio;
la sofferenza dell'uomo ansioso che non s'è potuto confidare e quella dell'adolescente inquieto di cui s'è messo in ridicolo il tormento;
la sofferenza del disperato che si butta in acqua e quella del bandito che si sta per fucilare;
la sofferenza del disoccupato che vorrebbe lavorare e quella del lavoratore che rovina la sua salute per una paga irrisoria;
la sofferenza del padre che raduna la famiglia in una sola stanza accanto ad un villino vuoto e quella della mamma i cui bambini hanno fame mentre si buttano via i resti di un banchetto;
la sofferenza di chi muore solo, mentre i famigliari nella stanza vicina attendono il momento fatale prendendo il caffè.
Tutte le sofferenze,
tutte le ingiustizie, le amarezze, le umiliazioni, le pene, gli odi, le disperazioni,
tutte le sofferenze sono una fame non saziata,
una fame di amore.
Così gli uomini hanno edificato, lentamente a forza di egoismi, un mondo snaturato che schiaccia gli uomini;
così gli uomini trascorrono sulla terra il loro tempo a rimpinzarsi del loro amore avvizzito,
mentre attorno ad essi gli altri muoiono di fame tendendo loro le braccia.
Hanno rovinato l'amore,
ho rovinato il tuo amore, o Signore.
Questa sera ti chiedo di aiutarmi ad amare.
Concedimi, o Signore, di spargere l'amore vero nel mondo.
Fa' che per mezzo mio e dei tuoi figli penetri un po' in tutti gli ambienti, in tutte le società, in tutti i sistemi economici e politici, in tutte le leggi, i contratti, i regolamenti;
fa' che penetri gli uffici, le officine, i quartieri, le case, i cine, i balli;
fa' che penetri il cuore degli uomini e che mai io dimentichi che la lotta per un mondo migliore è una lotta di amore, al servizio dell'amore.
Aiutami ad amare, o Signore,
a non sprecare le mie potenze di amore,
ad amarmi sempre meno per sempre più amare gli altri,
affinché attorno a me nessuno soffra o muoia
per aver io rubato l'amore che ad essi occorreva per vivere.

Figliuolo, mai giungerai a mettere amore a sufficienza nel cuore dell'uomo e nel mondo,
perché l'uomo ed il mondo hanno fame di un amore infinito,
e Dio solo può amare di amore senza limiti.
Ma se vuoi, figliuolo, ti do la mia vita.
Prendila in te.
Io ti do il mio cuore, lo dono ai miei figli:
ama col mio cuore, figliuolo,
e tutti insieme sazierete il mondo, e lo salverete.

amoreuomosofferenzaingiustiziapovertàegoismochiusuraaltruismoamore di sé

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giovanna Martinetti, inserito il 07/12/2009

ESPERIENZA

16. Osiamo dire: Padre nostro...

Alessandro Pronzato, L'uomo riconciliato. Pellegrinaggio nel quotidiano per celebrare la festa della vita, Ed. Gribaudi

Ricordo una Messa celebrata all'ergastolo di Porto Azzurro.
Sentivo avvicinarsi questo momento con un senso di paura.
"...Padre nostro!".

Mi sono fermato. Li ho guardati in faccia, a uno a uno. Oltre cinquecento uomini, a cui avevano ucciso la speranza, condannati a vita. Loro dicono, con un'espressione incisiva: "Ci hanno fermato l'orologio!".

Ho detto: "Scusatemi, ma io non riesco a continuare. Se non mi aiutate voi, io, da solo, a questo incrocio pericoloso della Messa, non ce la faccio ad andare avanti. Sarei costretto a dire una parola che, se prima non si realizza qualcosa di importante tra di noi, suonerebbe come una bestemmia: "Padre nostro...".

"Ho bisogno che mi accettiate come uno di voi, un fratello, niente altro. Soltanto se mi fate questo regalo, se ci scambiamo questa fraternità, se ammettiamo da ambo le parti questa parentela, se mi considerate come uno dei vostri, oseremo dire insieme "Padre nostro!". Altrimenti io non ho il coraggio di pronunciare quella frase. Dio non è soltanto 'mio' Padre. Lui vuol esserlo di tutti. E se non mi presento davanti a lui insieme a tutti voi, nessuno ecluso, mi sento un traditore, un illegittimo... E se voi non mi riconoscete come fratello, Dio se ne va. Non si fa trovare...".

Mai come in quel momento ho scoperto la forca sconvolgente dell'espressione: "Osiamo dire".
Sì, soltanto adesso che ci siamo riconosciuti, accettati come fratelli, possiamo dire, senza paura di bestemmiare: "Padre nostro" (anzi: "Papà", Abbà!).

Siamo mal ridotti, Papà, ma siamo insieme.
Laceri, sporchi, non troppo presentabili, ma ci riconosciamo fratelli.
Ci sentiamo colpevoli "insieme".
Abbamo tutti qualcosa da farci perdonare.
Nessuno di noi è giudice dell'altro.
Nessuno di noi condanna le colpe dell'altro.
Siamo uniti da una comune solidarietà di miseria.
Soltanto per questo "osiamo dire".
E tu, siamo sicuri, ci guardi con benevolenza. Perché noi ci guardiamo senza durezza.
Tu, abbiamo la certezza, ci accetti. Perché noi ci accettiamo vicendevolmente.
Tu non ti vergogni di noi, nonostante tutto. Perché noi non rifiutiamo nessuno.
Ecco, Signore, soltanto dopo che ci siamo caricati sulle spalle questo colossale peso di tutti i nostri fratelli, osiamo dire "Padre nostro!".
E, stavolta, è preghiera.

messapadre nostrocarceresolidarietàfratellanzafraternità

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giovannagioia, inserito il 06/12/2009

PREGHIERA

17. Crediamo nel tuo amore   2

Giovanni Paolo II, Le mie preghiere, a cura di Santino Spartà, Ed. Mondolibri

Padre misericordioso,
Signore della vita e della morte.
Il nostro destino è nelle tue mani.
Guardaci con bontà
e guida la nostra esistenza
con la tua Provvidenza,
piena di sapienza e di amore.
Ravviva in noi, o Signore,
la luce della fede
affinché accettiamo il mistero
di questo immenso dolore,
e crediamo che il tuo amore
sia più forte della morte.
Guarda, o Signore,
con bontà l'afflizione di coloro
che piangono la morte di persone care:
figli, padri, fratelli, parenti, amici.
Sentano essi la presenza di Cristo
che consolò la vedova di Naim
e le sorelle di Lazzaro,
perché egli è la risurrezione e la vita.
Trovino il conforto dello Spirito,
la ricchezza del tuo amore,
la speranza della tua provvidenza
che apre sentieri
di rinnovamento spirituale
e assicura a quelli che lo amano
un futuro migliore.
Aiutaci a imparare
da questo mistero di dolore
che siamo pellegrini sulla terra,
che dobbiamo essere sempre preparati,
perché la morte
può giungere all'improvviso.
Ricordaci che dobbiamo seminare sulla terra
ciò che raccoglieremo
moltiplicato nella gloria,
affinché viviamo, guardando sempre a te,
Padre e Giudice
dei vivi e dei morti,
che alla fine ci giudicherai nell'amore.
Ti ringraziamo, Padre,
perché nella fede
il dolore ci avvicina di più a te,
e in esso cresce la fratellanza e la solidarietà
di tutti coloro che aprono il cuore
al prossimo bisognoso.
Da questo luogo
che conserva i resti mortali
di tanti nostri fratelli
ascolta la nostra preghiera:
"Da' loro, o Signore,
il riposo eterno e risplenda
per essi la luce perpetua.
Riposino in pace.
E a noi che continuiamo a vivere,
pellegrini in questa valle di lagrime,
da' la speranza di riunirci a te,
nella tua casa paterna,
dove tuo Figlio Gesù
ci ha preparato un posto
e la Vergine Maria ci guida
verso la comunione dei Santi".
Amen.

defuntimortevitaeternità

4.0/5 (3 voti)

inviato da Giovanna Gioia, inserito il 11/06/2009

TESTO

18. Verso dove?

Aldo Rabino, Vivere non è un assurdo

Com'è facile parlare dell'oppressione dei popoli, della violenza! Le chiacchiere sono un alibi per nascondere il pensiero; ma, molto più, per seppellire i fatti. Il grido "ho fame", "ho sete", "non ho casa", "sono nudo" ha sempre attraversato la terra e turbato il cuore dei ricchi, ma era un'emozione necessaria per dare uno sfondo alla festa.
Parlare, sentire, commuoversi è facile.

Difficile è scendere nel concreto, lasciare la superficie e calarsi a fondo nella realtà. Cos'è che c'impedisce, ci frena, ci paralizza? Se ci riflettiamo bene è la paura di non poter più - imboccata la strada di una scelta radicale per i poveri - tornare indietro. Eppure la fede senza le opere è morta, non si può dire d'essere cristiano senza una scelta radicale, con tutto ciò che di scomodo questa comporta.

Cristo è stato esplicito - "Andate, predicate, battezzate" - lui ha vissuto nella propria carne il sapore della testimonianza, del logorio, il patimento di dover essere accolti a sassate, di essere derisi e infine di essere messi a Morte. Credere nei poveri è lavorare, è un buttarsi dentro.

Non servono le mie o le tue idee. Serve il mio e il tuo impegno, messi insieme e vissuti in mezzo ai poveri. L'uomo del duemila non ha bisogno di parole ma di fatti, di cose concrete. Il mondo soffre per la guerra e la fame. Ma forse soffre più per la mancanza di gesti vivi, di realtà concrete, di piccole cose e attenzioni. Ma qual è la meta? Aiutare i poveri, quelli che hanno realmente bisogno, coloro che un po' tutti insieme abbiamo emarginato e messi da parte.

L'aiutare i poveri richiede atti di amore continuati, esige un buttarsi via, stando con loro. Non sono cose da dire ma da fare. Troppe volte sono state predicate, dimenticando che la vera sensibilizzazione è cio che Facciamo e cio che siamo. Alla base di questa conversione ci sta il lavoro; il lavoro duro che è fatica, che è sudore. "Lavoro non chiacchiere". Ciò che mette in crisi gli altri è il fare noi le cose, stando nel duro, anziché fare chiacchiere dure o discorsi da duri. Il gioco è questo: "perdere un po' alla volta noi stessi per aiutare poco alla volta gli altri".

È una strada dura, ci parrà di soffocare, ma alla fine saremo contenti di non aver chiuso la vita in passivo. Allora finalmente saremo uomini!

impegnoresponsabilitàamorepoveripovertà

inviato da Anna Lollo, inserito il 21/08/2007

PREGHIERA

19. Lungo il Calvario

Anna Rita Mazzocco, Cantico di Tommaso

C'ero anch'io quella mattina
sulla via della croce.
Eri a poca distanza da me
mentre fra sputi ed insulti
arrancavi verso il posto
dove avevamo decretato
che Tu morissi.
Attorno a me la folla.
C'era chi voleva solo curiosare
e chi era capitato lì per caso
ma c'era anche chi voleva partecipare
per vendicarsi di Te
almeno solo con lo sguardo.
L'ennesima profanazione di quel corpo
già ridotto ad un'unica piaga:
la miseria umana.

Non so dirti perché accorsi anch'io
a quella sagra dell'ingiustizia
ma, come Zaccheo, mi feci largo tra la folla
per vedere.
Ed ero in prima fila.
Tutto ciò di cui potrei essere capace era lì
davanti ai miei occhi
sprofondati tra quelle piaghe
che invocavano la morte.

Stavi per passarmi davanti
ma io non volevo più vedere oltre.
Avrei voluto essere lontano
il più lontano possibile da quello scempio
ma ormai non potevo più scappare.
Ero imbottigliato tra la folla
che i soldati romani spingevano indietro
per lasciar passare la giustizia dell'uomo.

Ora non eri più una macchia di sangue
sulla via del Calvario.
Ora si riconosceva un volto.
Ed eri ancora umano.
Dicono che tu fossi il più bello fra gli uomini
ma io non ti avevo mai visto prima.
Quella mattina però lo eri davvero
talmente bello da non aver il coraggio di guardarti.
E abbassai lo sguardo
per non correre il rischio d' incontrare il tuo.
Come uno struzzo sperai
d'aver scampato il pericolo di quell'incontro.

E mi passasti davanti
ma io non sollevai gli occhi da terra.
Vidi soltanto i tuoi piedi piagati
che sostarono alcuni secondi davanti a me.
Sicuramente dovevi riprendere fiato.
Ma uno schiocco di frusta
ti richiamò al tuo dovere di vittima...
E così riprendesti sulle spalle il mio peccato
avanzando ancora con fatica.
Ma sui sassi mi lasciasti il tuo ricordo.

Dicono che moristi alle tre
ma io non venni a vedere.
Ero rimasto lungo la via del Calvario
seduto a terra
davanti a quell'impronta di sangue
che mi schiantava il cuore.

preghieravenerdì santopassione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Rita Mazzocco, inserito il 19/08/2007

PREGHIERA

20. Preghiera per i laici   1

Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici"

O Vergine santissima,
Madre di Cristo e Madre della Chiesa,
con gioia e con ammirazione,
ci uniamo al tuo Magnificat,
al tuo canto di amore riconoscente.

Con te rendiamo grazie a Dio,
«la cui misericordia si stende
di generazione in generazione»,
per la splendida vocazione
e per la multiforme missione
dei fedeli laici,
chiamati per nome da Dio
a vivere in comunione di amore
e di santità con lui
e ad essere fraternamente uniti
nella grande famiglia dei figli di Dio,
mandati a irradiare la luce di Cristo
e a comunicare il fuoco dello Spirito
per mezzo della loro vita evangelica
in tutto il mondo.

Vergine del Magnificat,
riempi i loro cuori
di riconoscenza e di entusiasmo
per questa vocazione e per questa missione.

Tu che sei stata,
con umiltà e magnanimità,
«la serva del Signore»,
donaci la tua stessa disponibilità
per il servizio di Dio
e per la salvezza del mondo.
Apri i nostri cuori
alle immense prospettive
del Regno di Dio
e dell'annuncio del Vangelo
ad ogni creatura.

Nel tuo cuore di madre
sono sempre presenti i molti pericoli
e i molti mali
che schiacciano gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Ma sono presenti anche
le tante iniziative di bene,
le grandi aspirazioni ai valori,
i progressi compiuti
nel produrre frutti abbondanti di salvezza.

Vergine coraggiosa,
ispiraci forza d'animo
e fiducia in Dio,
perché sappiamo superare
tutti gli ostacoli che incontriamo
nel compimento della nostra missione.
Insegnaci a trattare le realtà del mondo
con vivo senso di responsabilità cristiana
e nella gioiosa speranza
della venuta del Regno di Dio,
dei nuovi cieli e della terra nuova.

Tu che insieme agli Apostoli in preghiera
sei stata nel Cenacolo
in attesa della venuta dello Spirito di Pentecoste,
invoca la sua rinnovata effusione
su tutti i fedeli laici, uomini e donne,
perché corrispondano pienamente
alla loro vocazione e missione,
come tralci della vera vite,
chiamati a portare molto frutto
per la vita del mondo.

Vergine Madre,
guidaci e sostienici perché viviamo sempre
come autentici figli e figlie
della Chiesa di tuo Figlio
e possiamo contribuire a stabilire sulla terra
la civiltà della verità e dell'amore,
secondo il desiderio di Dio
e per la sua gloria.
Amen.

laiciimpegnoresponsabilitàlaicato

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inviato da Anna Barbi, inserito il 24/05/2007

TESTO

21. Inizia un altro giorno

Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, Gribaudi ed, Torino, 1990

Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.

Incontrerà
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.

Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gl'inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.

Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.

Benedetto questo nuovo giorno che è Natale per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.

missioneresponsabilitàtestimonianzaevangelizzazione

4.5/5 (2 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 25/08/2006

TESTO

22. La croce di Cristo, nostra salvezza

S. Teodoro Studita, Discorso sull'adorazione della croce; PG 99, 691-694, 695, 698-699

O dono preziosissimo della croce! Quale splendore appare alla vista! Tutta bellezza e tutta magnificenza. Albero meraviglioso all'occhio e al gusto e non immagine parziale di bene e di male come quello dell'Eden.

E' un albero che dona la vita, non la morte, illumina e non ottenebra, apre l'udito al paradiso, non espelle da esso.

Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno. Su quel legno sale il Signore, come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso.

Prima venimmo uccisi dal legno, ora invece per il legno recuperiamo la vita. Prima fummo ingannati dal legno, ora invece con il legno scacciamo l'astuto serpente. Nuovi e straordinari mutamenti! Al posto della morte ci viene data la vita, invece della corruzione l'immortalità, invece del disonore la gloria.

Perciò non senza ragione esclama il santo Apostolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).

Quella somma sapienza che fiorì dalla croce rese vana la superba sapienza del mondo e la sua arrogante stoltezza. I beni di ogni genere, che ci vennero dalla croce, hanno eliminato i germi della cattiveria e della malizia. All'inizio del mondo solo figure e segni premonitori di questo legno notificavano ed indicavano i grandi eventi del mondo. Stai attento, infatti tu, chiunque tu sia, che hai grande brama di conoscere. Noè non ha forse evitato per sé, per tutti i suoi familiari ed anche per il bestiame, la catastrofe del diluvio, decretata da Dio, in virtù di un piccolo legno? Pensa alla verga di Mosè. Non fu forse un simbolo della croce? Cambiò l'acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi, percosse il mare e lo divise in due parti, ricondusse poi le acque del mare al loro normale corso e sommerse i nemici, salvò invece coloro che erano il popolo legittimo. Tale fu anche la verga di Aronne, simbolo della croce, che fiorì in un solo giorno e rivelò il sacerdote legittimo. Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna.

La morte fu uccisa dalla croce e Adamo fu restituito alla vita. Della croce tutti gli apostoli si sono gloriati, ogni martire ne venne coronato, e ogni santo santificato. Con la croce abbiamo rivestito Cristo e ci siamo spogliati dell'uomo vecchio. Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore.

crocesalvezzaredenzione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 02/10/2005

TESTO

23. L'agnello immolato ci strappò dalla morte

Melitone di Sardi, vescovo, Omelia sulla Pasqua» capp. 65-67; SC 123, 95-101

Molte cose sono state predette dai profeti riguardanti il mistero della Pasqua, che è Cristo, «al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Gal 1, 5, ecc.).

Egli scese dai cieli sulla terra per l'umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse le passioni della carne. Con lo Spirito immortale distrusse la morte omicida.

Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mondo come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e le membra del nostro corpo con il suo sangue.

Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto.

Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno. Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.

Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell'agnello fu sgozzato.
Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.

Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e, risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione.

Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro.

pasquaredenzionestoria della salvezza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/09/2005

TESTO

24. Amici

Vinìcius De Moraes

Ho amici che non sanno quanto sono miei amici. Non percepiscono tutto l'amore che sento per loro né quanto siano necessari per me.

L'amicizia è un sentimento più nobile dell'amore. Questo fa sì che il suo oggetto si divida tra altri affetti, mentre l'amore è imprescindibile dalla gelosia, che non ammette rivalità.

Potrei sopportare, anche se non senza dolore, la morte di tutti i miei amori, ma impazzirei se morissero tutti i miei amici!

Anche quelli che non capiscono quanto siano miei amici e quanto la mia vita dipenda dalla loro esistenza...

Non cerco alcuni di loro, mi basta sapere che esistono. Questa semplice condizione mi incoraggia a proseguire la mia vita. Ma, proprio perché non li cerco con assiduità, non posso dir loro quanto io li ami. Loro non mi crederebbero.

Molti di loro, leggendo adesso questa "crônica" non sanno di essere inclusi nella sacra lista dei miei amici. Ma è delizioso che io sappia e senta che li amo, anche se non lo dichiaro e non li cerco.

E a volte, quando li cerco, noto che loro non hanno la benché minima nozione di quanto mi siano necessari, di quanto siano indispensabili al mio equilibrio vitale, perché loro fanno parte del mondo che io faticosamente ho costruito, e sono divenuti i pilastri del mio incanto per la vita.

Se uno di loro morisse io diventerei storto. Se tutti morissero io crollerei. E' per questo che, a loro insaputa, io prego per la loro vita.

E mi vergogno perché questa mia preghiera è in fondo rivolta al mio proprio benessere. Essa è forse il frutto del mio egoismo.

A volte mi ritrovo a pensare intensamente a qualcuno di loro. Quando viaggio e sono di fronte a posti meravigliosi, mi cade una lacrima perché non sono con me a condividere quel piacere...

Se qualcosa mi consuma e mi invecchia è perché la furibonda ruota della vita non mi permette di avere sempre con me, mentre parlo, mentre cammino, vivendo, tutti i miei amici, e soprattutto quelli che solo sospettano o forse non sapranno mai che sono miei amici.
Un amico non si fa', si riconosce.

amicizia

inviato da Anna Lollo, inserito il 19/06/2005

TESTO

25. Ama la tua parrocchia   2

Paolo VI, omelia inaugurazione parrocchia N.S. di Lourdes, Roma 23-2-1964

Collabora, prega e soffri per la tua parrocchia, perché devi considerarla come una madre a cui la Provvidenza ti ha affidato: chiedi a Dio che sia casa di famiglia fraterna e accogliente, casa aperta a tutti e al servizio di tutti. Da' il tuo contributo di azione perché questo si realizzi in pienezza. Collabora, prega, soffri perché la tua parrocchia sia vera comunità di fede: rispetta i preti della tua parrocchia anche se avessero mille difetti: sono i delegati di Cristo per te. Guardali con l'occhio della fede, non accentuare i loro difetti, non giudicare con troppa facilità le loro miserie perché Dio perdoni a te le tue miserie. Prenditi carico dei loro bisogni, prega ogni giorno per loro.

Collabora, prega, soffri perché la tua parrocchia sia una vera comunità eucaristica, che l'Eucaristia sia "radice viva del suo edificarsi", non una radice secca, senza vita. Partecipa all'Eucaristia, possibilmente nella tua parrocchia, con tutte le tue forze. Godi e sottolinea con tutti tutte le cose belle della tua parrocchia. Non macchiarti mai la lingua accanendoti contro l'inerzia della tua parrocchia: invece rimboccati le maniche per fare tutto quello che ti viene richiesto. Ricordati: i pettegolezzi, le ambizioni, la voglia di primeggiare, le rivalità sono parassiti della vita parrocchiale: detestali, combattili, non tollerarli mai!

La legge fondamentale del servizio è l'umiltà: non imporre le tue idee, non avere ambizioni, servi nell'umiltà. E accetta anche di essere messo da parte, se il bene di tutti, ad un certo momento, lo richiede. Solo, non incrociare le braccia, buttati invece nel lavoro più antipatico e più schivato da tutti, e non ti salti in mente di fondare un partito di opposizione!

Se il tuo parroco è possessivo e non lascia fare, non farne un dramma: la parrocchia non va a fondo per questo. Ci sono sempre settori dove qualunque parroco ti lascia piena libertà di azione: la preghiera, i poveri, i malati, le persone sole ed emarginate. Basterebbe fossero vivi questi settori e la parrocchia diventerebbe viva. La preghiera, poi, nessuno te la condiziona e te la può togliere.

Ricordati bene che, con l'umiltà e la carità, si può dire qualunque verità in parrocchia. Spesso è l'arroganza e la presunzione che ferma ogni passo ed alza i muri. La mancanza di pazienza, qualche volta, crea il rigetto delle migliori iniziative.

Quando le cose non vanno, prova a puntare il dito contro te stesso, invece che contro il parroco o contro i tuoi preti o contro le situazioni. Hai le tue responsabilità, hai i tuoi precisi doveri: se hai il coraggio di un'autocritica, severa e schietta, forse avrai una luce maggiore sui limiti degli altri.

Se la tua parrocchia fa pietà la colpa è anche tua: basta un pugno di gente volenterosa a fare una rivoluzione, basta un gruppo di gente decisa a tutto a dare un volto nuovo ad una parrocchia. E prega incessantemente per la santità dei tuoi preti: sono i preti santi la ricchezza più straordinaria delle nostre parrocchie, sono i preti santi la salvezza dei nostri giovani.

Alcuni nostri utenti hanno messo in dubbio che la frase sia attibuibile al Papa Paolo VI, infatti sul sito vaticano viene riportata l'omelia indicata ma senza questa parte: e a quel tempo l'intervento a braccio non sembra pensabile.

parrocchiaimpegnolaicipretiserviziocollaborazionecorresponsabilitàpastorale

inviato da Anna Barbi, inserito il 06/06/2005

ESPERIENZA

26. Il Sacerdote

Chi è che ci prepara l'Eucaristia e ci dona Gesù?
E' il Sacerdote.
Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebberero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli.

E chi è il Sacerdote?
E' l'"Uomo di Dio". Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima ("Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio": Eb 5,4), lo separa da tutti gli altri ("segregato per il Vangelo": Rm 1,1), lo segna con un carattere sacro che durerà in eternamente ("Sacerdote in eterno": Eb 5,6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote "scelto fra gli uomini è costituito a prò degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1-2).

Vergine, povero, crocifisso
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell'anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l'intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. E' per questa conformità a Gesù che egli è "Ministro di Cristo fra genti" (Rm 15, 16), guida e maestro delle anime (Mt 28, 20).
Lo Spirito Santo configura l'anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che "il Sacerdote all'altare opera nella stessa Persona di Gesù" (S. Cipriano), ed "è il padrone di tutto Dio" (S. Giovanni Crisostomo).

Rispetto e venerazione
Sappiamo che S. Francesco d'Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi "Signori", poiché in essi vedeva solamente "il Figlio di Dio"; in particolare venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote.
Il S. Curato d'Ars diceva: "Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?".
Sappiamo, del resto, che l'atto di venerazione di baciare le mani del Sacerdote è stato premiato da Dio con veri miracoli. Nella vita di S.Ambrogio, si legge che un giorno, appena celebrata la S. Messa, il Santo fu avvicinato da una donna paralitica che volle baciargli le mani. La poveretta riponeva grande fede in quelle mani che avevano consacrato l'Eucaristia: e fu guarita all'istante. Lo stesso, a Benevento, una donna paralitica da quindici anni, chiese al Papa Leone IX di poter bere l'acqua da lui adoperata durante la S. Messa per l'abluzione delle dita. Il Santo Papa accontentò l'inferma in questa richiesta umile come quella della Cananea che chiese a Gesù "le briciole che cadono dalla mensa dei padroni" (Mt 15, 27). E fu subito guarita anche lei.
"Se io incontrassi - diceva il S. Curato d'Ars - un Sacerdote e un Angelo, saluterei prima il Sacerdote, poi l'Angelo... Se non ci fosse il Sacerdote, a nulla gioverebbe la Passione e la Morte di Gesù... A che servirebbe uno scrigno ricolmo d'oro, quando non vi fosse chi lo apre? Il Sacerdote ha le chiavi dei tesori celesti..."
Ma questa sublimità di grandezza comporta responsabilità enormi che pesano sulla povera umanità del Sacerdote; umanità in tutto identica a quella di ogni altro uomo. "Il Sacerdote - diceva S. Bernardo - per natura è come tutti gli altri uomini, per dignità è superiore a qualsiasi altro uomo della terra, per condotta deve essere emulo degli Angeli".
Per questo Padre Pio diceva: "Il Sacerdote o è un santo o è un demonio". O santifica, o rovina. San Giovanni Bosco diceva che "un prete o in paradiso o in inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero o col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio".
Veneriamo il Sacerdote e siamogli grati perché ci dona Gesù; ma soprattutto preghiemo per la sua altissima missione, che è la missione stessa di Gesù: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Missione divina che fa girar la testa e impazzire di amore, a rifletterci fino in fondo. Il Sacerdote è assimilato al Figlio di Dio, e il Santo Curato d'Ars diceva che "solo in cielo misurerà tutta la sua grandezza. Se già sulla terra lo intendesse, morrebbe non di spavento, ma di amore... Dopo Dio, il Sacerdote è tutto".

sacerdotesacerdozioprete

inviato da Anna Lollo, inserito il 07/01/2005

TESTO

27. La fiera del giorno dei morti   2

Tonino Lasconi, Popotus, 30/10/2004

La visita al cimitero, pensieri, preghiere e fiori per i nostri cari che non ci sono più: un incontro che non si esaurisce il 2 novembre.

Amo i cimiteri. Ci vado spesso. Non solo in quelli dove riposano i miei cari ma anche in quelli che incontro viaggiando. Sono un luogo dove mi piace riflettere, meditare, pregare. Questo perché amo la vita. Il pensiero dei defunti mi ricorda, senza ombra di dubbio, che la vita è un passaggio, spesso, purtroppo, breve. Per questo va vissuta senza sprecarne un solo istante con la noia, con la banalità, con la volgarità, con ciò che può rattristarla, impoverirla, metterla in pericolo.

Quando sono lì, penso: «Se ci ricordassimo sempre che non vivremo cinquemila anni, saremmo più saggi. Adopereremmo meglio le nostre capacità, i nostri sentimenti, il nostro tempo, i nostri soldi, i nostri giorni». Metto dei fiori nelle tombe dei miei cari e in quelle abbandonate dai parenti. I fiori - lo so - non servono ai defunti, ma a me. A noi. Sono un segno bellissimo che dice: «Da questa morte rinasce una vita nuova, più bella e profumata di prima». E prego. La preghiera serve ai defunti e a noi. Ci ricorda che, tra noi e loro, gli affetti, la compagnia, l'amicizia continuano, perché davanti a Dio siamo tutti contemporanei, ci abbraccia tutti con un unico sguardo.

E noi camminiamo tutti insieme verso di lui, aiutandoci l'un l'altro. Volete che una madre non cammini ancora accanto ai suoi figli rimasti quaggiù? Che un amico non ti rimanga accanto? Nemmeno a pensarci! Quando esco dal cimitero, mi sento ricaricato, stimolato a vivere con più grinta e intensità. Non però negli ultimi giorni di ottobre e nei primi di novembre. In questi giorni non vado più al cimitero, perché l'ultima volta che l'ho fatto ho creduto di trovarmi in una fiera: chiacchiericcio, confusione, risate, paragoni sciocchi tra le tombe e i fiori più belli, curiosità stupide, telefonini che squillano dappertutto, commento sul costo dei fiori... Uno spettacolo triste! Sapete cosa farei? Chiuderei i cimiteri dal 25 ottobre all'8 di novembre. Perché quelli che ci vanno per amore dei defunti e di se stessi ci andrebbero comunque durante l'anno, ogni volta che possono. Quelli «della fiera» se ne starebbero a casa loro. Meglio così! Tanto, andare in un cimitero per non pensare, per non pregare, per non meditare non serve né ai defunti né tanto meno ai vivi.

mortedefunticomunione dei santiparadisoeternitàvita eterna

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 06/11/2004

RACCONTO

28. La donna   2

Quando il Signore fece la donna era il suo sesto giorno di lavoro, facendo straordinari. Apparve un angelo e disse: «Perché usi tanto tempo nel fare questo?»

E il Signore rispose: «Hai visto il formulario delle specifiche che possiede? Deve essere completamente lavabile ma non di plastica, ha duecento parti mobili e tutte sostituibili, funziona a caffè e resti di pranzo, ha un grembo nel quale stanno due bambini allo stesso tempo, possiede un bacio che può curare qualsiasi cosa, da un ginocchio sbucciato ad un cuore rotto ed ha sei paia di mani».

L'angelo era sorpreso da tutti i requisiti che la donna possedeva. «Sei paia di mani! Non è possibile!»
«Il problema non sono le mani, sono i tre paia di occhi che le madri devono avere», rispose il Signore.
«Tutto questo nel modello standard?», chiese l'Angelo.

Il Signore assentì con il capo. «Sì, un paio d'occhi servono affinché possa vedere attraverso una porta chiusa chiedendo ai figli cosa stanno facendo, nonostante lo sappia. Un altro paio sono nella parte posteriore della testa per vedere cose che ha bisogno di conoscere nonostante nessuno pensi che sia necessario.Il terzo paio sono nella parte anteriore della testa. Questi servono quando vede i figli smarriti e guardandoli dice loro che li capisce e li ama comunque senza bisogno di dire una parola».

L'Angelo cercò di fermare il Signore: «Questo è un carico troppo grande per la donna!».
«Ascolta il resto delle specifiche!», protestò il Signore. «Si cura da sola quando è ammalata, può alimentare una famiglia con qualsiasi cosa e può far sì che un bambino di nove anni resti sotto la doccia».

L'Angelo si avvicinò e toccò la donna: «Però, l'hai fatta tanto morbida, Signore!».
«Lei è morbida e dolce» disse il Signore, «però allo stesso tempo l'ho fatta forte. Non hai alcuna idea di quanto possa essere resistente e di quanto possa sopportare».
«Potrà pensare?» chiese l'Angelo.
Il Signore rispose: «Non solo sarà capace di pensare ma anche di ragionare e di negoziare».

L'Angelo notò qualcosa, si stirò e toccò la guancia della donna.
«Oh! Sembra che questo modello abbia una perdita. Gliel'ho detto che stava cercando di metterci troppe cose!».
«Questa non è una perdita, obiettò il Signore, questa è una lacrima!».
«E a cosa servono le lacrime?» chiese l'Angelo.
Il Signore disse: «Le lacrime sono la forma nella quale esprime la sua allegria, il suo dolore, il disincanto, la solarità, il suo orgoglio».

L'Angelo era impressionato. «Sei un genio Signore! Hai davvero pensato a tutto, visto che le donne sono veramente meravigliose!».

E il Signore aggiunse: «Le donne hanno una forza che meraviglia gli uomini. Crescono i figli, sopportano le difficoltà, portano carichi pesanti, tacciono quando vorrebbero gridare. Cantano quando vorrebbero piangere. Piangono quando sono felici e ridono quando sono nervose. Litigano per ciò in cui credono. Si sollevano contro le ingiustizie. Non accettano un NO come risposta quando credono che esista una soluzione migliore. Se sono in ristrettezze comprano le scarpe nuove per i figli e non per se stesse. Accompagnano dal medico un amico spaventato. Amano incondizionatamente. Trionfano. Hanno il cuore rotto quando muore un amico. Soffrono quando perdono un membro della famiglia ma riescono ad essere forti quando non c'è più nulla da cui trarre energia. Sanno che un abbraccio ad un bacio possono aggiustare un cuore rotto. Le donne sono fatte di tutte le misure, le forme ed i colori. Amministrano, volano, camminano o ti mandano e-mail per dirti quanto ti amano. Le donne fanno più che trasmettere luce, portano allegria e speranza, compassione ed ideali. Le donne hanno infinite cose da dire e da dare. Sì, il cuore delle donne è meraviglioso».

donnamadrefiglifamiglia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giovanna Carosini, inserito il 29/07/2004

PREGHIERA

29. Signore aiutami a dire "sì"   1

Novello Pederzini

Ho paura a dirti di "sì", Signore.
Non so ancora che cosa vuoi e dove mi vuoi portare. Ho paura che tu mi voglia condurre proprio là dove io non voglio andare.
Ho paura che tu mi spinga per strade a me non gradite, di firmare una carta in bianco, di dirti un "sì" che poi reclama altri "sì"...
Mi fai paura, Signore, anche se sento di amarti.
Ho paura del tuo sguardo, perché esso è irresistibile. Ho paura della tua esigenza, perché sei un Dio geloso. Ho paura del tuo amore, perché sei troppo misterioso e impegnativo.
E con queste paure, mi dibatto in contraddizioni e in angosce a non finire.
Sono incerto sulle mie scelte, insicuro nelle mie decisioni, e sempre più insoddisfatto di ciò che sono e di ciò che faccio.
Ma che cosa vuoi da me, Signore?
Dio terribile, che cosa vuoi ancora?

Tu mi dici:
Piccolo, voglio ridimensionare la tua vita.
Fino ad ora, sei stato tu a decidere.
Più o meno, hai sempre fatto quello che volevi, e poi pretendevi che io ti seguissi, cercando una convalida alle tue decisioni.
Ma non puoi continuare così.
Devi capire che hai invertito le parti: hai giocato quel ruolo di protagonista che spetta gelosamente a Me.
Non lo debbo dire "sì" a te, ma tu a Me.
A me spettano l'iniziativa e tutte le scelte che ti riguardano.
Io devo essere il centro di ogni tua cosa e, soprattutto, del tuo cuore.
Mi devi seguire docilmente.
Mi devi consegnare la tua volontà.
Mi devi dare tutto.
Ho bisogno del tuo "sì", come ebbi bisogno del "sì" di Maria per venire, come uomo, sulla terra.
Dimmi un sì come me lo disse Lei: deciso, incondizionato, fidente, affettuoso.
Fidati di me.

Signore, aiutami a comprendere che tu non hai bisogno delle mie sufficienze; a capire che io non sono poi tanto importante e necessario.
Fammi capire che a nulla giova continuare a discutere, a contestare, a resisterti.
Infondimi forza e decisione perché possa aderire al tuo progetto.
E perché venga il tuo regno e non il mio, perché sia fatta la tua volontà e non la mia, aiutami a dire "Si", ma subito,
e con amore.

abbandono in Diorapporto con Dioabbandonovocazionechiamataprogetto di Dio

3.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Lollo, inserito il 28/07/2004

PREGHIERA

30. L'ospedale

Michel Quoist, Preghiere

Nel pomeriggio ho visitato un malato all'ospedale.
Di padiglione in padiglione, ho dovuto percorrere questa
Città della passione, indovinando i drammi nascosti
dai muri chiari e dai fiori delle aiuole.
Ho dovuto attraversare una prima sala;
camminavo sulla punta dei piedi cercando il malato,
li sfioravo con lo sguardo tutti, così come l'infermiere
tocca delicatamente una piaga per non far soffrire.
Mi sentivo a disagio,
come un non-iniziato sperduto in un tempio misterioso,
come un pagano nella navata di una chiesa.
In fondo alla seconda sala ho trovato il mio malato,
e davanti a lui ho pronunziato parole confuse, non sapendo che dire.

Signore, la sofferenza mi dà fastidio, mi opprime.
Non comprendo perché Tu la permetta.
Perché, o Signore?
Perché questo piccolo innocente, che da una settimana geme, atrocemente ustionato?
Quell'uomo che da tre giorni e tre notti agonizza invocando la mamma?
Quella donna dal cancro, che trovo invecchiata di dieci anni in un mese?
Quell'operaio caduto dalla sua impalcatura, fantoccio rotto poco prima dei vent'anni?
Quello straniero, povero relitto isolato, ridotto a piaga purulenta?
Quella ragazza ingessata e distesa su un asse da più di trenta anni?

Perché, o Signore?
Non comprendo.
Perché nel Mondo questa sofferenza
che urta,
chiude,
nausea,
spezza?
Perché questa mostruosa ed orrenda sofferenza,
che colpisce ciecamente, senza dare spiegazioni,
Si abbatte ingiustamente sul buono risparmiando il cattivo,
Sembra indietreggiare, respinta dalla scienza, ma ritorna
sotto altra forma, più potente e più sottile? Non comprendo.
La sofferenza è odiosa e mi fa paura,
Perché infatti quelli, Signore, e non gli altri?
Perché quelli e non io?

Figliuolo, non l'ho voluta io, tuo Dio, la sofferenza;
l'han voluta gli uomini.
L'hanno introdotta nel Mondo introducendo il peccato,
perché il peccato è un disordine ed il disordine fa male.
Ad ogni peccato, vedi,
corrisponde qualche parte nel Mondo e nel Tempo una sofferenza
E, più vi è peccato, più vi è sofferenza.
Ma io son venuto, io le ho prese tutte le vostre sofferenze
così come lo ho preso tutti i vostri peccati.
Io le ho prese ed io le ho sofferte prima di voi,
le ho voltate, trasfigurate. Ne ho fatto un tesoro:
esse sono un male, ancora, ma un male che serve,
perché delle vostre sofferenze io ho fatto la Redenzione.

La sofferenza è un mistero, che sola può rischiarare la luce della fede. Il male nel Mondo non è voluto da Dio. Gli uomini hanno disprezzato il suo Piano (peccato), hanno squilibrato l'uomo e l'universo e fatto nascere la sofferenza. Ma il Cristo è venuto a riparare il disordine. Della sofferenza inutile ha fatto lo strumento stesso della Redenzione.

Sopportava veramente le nostre sofferenze ed era accasciato dai nostri dolori. E noi lo stimavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri peccati, schiacciato per le nostre iniquità. Sopra di lui è il castigo che ci salva, e per le sue piaghe noi siamo stati risanati (Isaia 53,4.5).

sofferenzamaleredenzionesacrificiodolore

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 28/07/2004

PREGHIERA

31. Preghiera del sacerdote la domenica sera   3

Michel Quoist, Preghiere

Signore, stasera, sono solo.
A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa,
le persone se ne sono andate,
ed io sono rientrato in casa,
solo.

Ho incontrato la gente che tornava da passeggio.
Sono passato davanti al cinema che sfornava la sua porzione di folla.
Ho costeggiato le terrazze dei caffè, in cui i passanti,
stanchi, cercavano di prolungare la gioia di vivere una domenica di festa.
Ho urtato i bambini che giocavano sul marciapiede,
i bambini o Signore,
i bambini degli altri, che non saranno mai i miei.

Eccomi, Signore
solo.
Il silenzio mi incomoda,
la solitudine mi opprime.

Signore, ho 35 anni,
un corpo fatto come gli altri,
braccia nuove per il lavoro,
un cuore riservato all'amore,
ma ti ho donato tutto.
È vero, tu ne avevi bisogno.
Io ti ho dato tutto ma è duro, o Signore.

È duro dare il proprio corpo: vorrebbe darsi ad altri.
È duro amare tutti e non serbare alcuno.
È duro stringere una mano senza volerla trattenere.
È duro far nascere un'affetto, ma per donarlo a Te.
È duro non essere niente per sé per esser tutto per loro.
È duro essere come gli altri, fra gli altri, ed esser un'altra.
È duro dare sempre senza cercare di ricevere.
È duro andare incontro agli altri, senza che mai qualcuno ti venga incontro.
È duro soffrire per i peccati degli altri, senza poter rifiutare di accoglierli e portarli.
È duro ricevere i segreti, senza poterli condividere.
È duro sempre trascinare gli altri e non mai potere, anche solo un'istante, farsi trascinare.
È duro sostenere i deboli senza potersi appoggiare ad uno forte
È duro essere solo,
solo davanti a tutti,
Solo davanti al Mondo.
Solo davanti alla sofferenza,
alla morte,
al peccato.

Figlio, non sei solo,
io sono con te,
Sono te.
Perché avevo bisgono di un'umanità in più
per continuare la Mia Incarnazione e la Mia Redenzione.
Dall'eternità Io ti ho scelto,
ho bisogno di te.

Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire,
Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare,
Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire,
Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare,
Ho bisogno di te per continuare a salvare,
Resta con Me, Figlio mio.

Eccomi, Signore;
ecco il mio corpo,
ecco il mio cuore,
ecco la mia anima.
Concedimi d'essere tanto grande da raggiungere il Mondo,
tanto forte da poterlo portare,
tanto puro da abbracciarlo senza volerlo tenere.
Concedimi d'essere terreno d'incontro,
ma terreno di passaggio,
strada che non ferma a sé,
perché non vi è nulla di umano da cogliervi
che non conduca a te.

Signore, stasera, mentre tutto tace e nel mio cuore sento
duramente questo morso della solitudine,
mentre il mio corpo urla a lungo la sua fame di piacere,
mentre gli uomini mi divorano l'anima ed io mi sento incapace di saziarli,
mentre sulle mie spalle il mondo intero pesa con tutto il suo peso di miseria e di peccato,
io ti ripeto il mio sì, non in una risata, ma lentamente, lucidamente, umilmente.
Solo, o Signore davanti a te,
nella pace della sera.

I fedeli sono esigenti verso il loro prete. Hanno ragione. Ma devono sapere che è duro essere prete. Chi si è donato nella piena generosità della sua giovinezza rimane un uomo, ed ogni giorno in lui l'uomo cerca di riprendere quel che ha donato. È una lotta continua per restare totalmente disponibile al Cristo e agli altri.

Il prete non ha bisogno di complimenti o di regali imbarazzanti: ha bisogno che i cristiani, di cui ha in modo speciale la cura, amando sempre più i loro fratelli, gli provino che non ha dato invano la sua vita. E poiché rimane un uomo, può aver bisogno una volta d'un gesto delicato di amicizia disinteressata... una domenica sera in cui è solo.

Seguitemi ed io vi farò pescatori di uomini. (Mc 1,17)
Non voi avete scelto me, ma io ho sceto voi e vi ho destinati ada ndare a portare frutto, un frutto che rimanga. (Gv 15,16)
Dimentico del cammino percorso, mi protendo in avanti, corro verso la meta, per conseguire lassù il premio della vocazione di Dio nel Cristo Gesù. (Fil 3,13-14)

sacerdoziopretesacerdotesolitudineoffertà di sédonazione

inviato da Anna Barbi, inserito il 27/07/2004

TESTO

32. A coloro che soffrono nel corpo

Tonino Bello, Pietre di scarto, ed. La Meridiana 1993

Carissimi, non scrivo per consolarvi. Anche perché so bene quanto fastidio vi diano le declamazioni di coloro che sentendosi sempre in dovere di spendere qualche parola con voi, ricorrono ai prontuari dei più indisponenti fraseggi. Non è di compatimento che avete bisogno. Prima di tutto, perché il compatimento è una spartizione fittizia del dolore. Poi, perché vi toglie la fierezza di rimaner soli sulla croce. E infine, perché rischia di fermarsi alla soglia delle parole. Al paraplegico che sta inchiodato su una sedia a rotelle, che sollievo può dare il sermone di circostanza fatto da chi magari, subito dopo, deve correre in palestra per una partita di basket? All'handicappato che ti interpella sui grandi perché della vita, e vuole rendersi conto delle ragioni misteriose che stanno all'origine della sfortuna, che conforto possono recare i luoghi comuni tratti dai repertori della compassione? A chi è ridotto all'impotenza da una malattia irreversibile o da un improvviso declino della salute, o da un fatale incidente sulla strada, e ti pone la scomoda domanda del «che ci sto a fare più sulla terra?», quale aiuto possono dare maldestre citazioni bibliche?

Davanti a chi soffre l'atteggiamento più giusto sembrerebbe il silenzio. Però anche il silenzio può essere frainteso o come segno di imbarazzo, o come tentativo di rimozione del problema. E allora tanto vale parlarne. Semmai con pudore, chiedendovi scusa per ogni parola di troppo.

Dire che con il vostro dolore contribuite alla salvezza del mondo, può sembrarvi letteratura consolatoria. Ricorrere alle frasi fatte degli occhi che vedono bene solo attraverso le lacrime, può essere inteso come insulto gratuito, almeno come un ritrovato sterile della saggezza umana. Accennarvi che, in fondo, ognuno si porta dentro il suo carico di dolori e che, tutto sommato, non siete poi così soli come sempre, potrebbe accrescere il vostro sdegno. Aggiungere che un giorno sarete schiodati pure voi dalla croce, può apparire uno scampolo di quell'eloquenza mistificatoria che non convince nessuno.

Ma dirvi che sulla croce un giorno ci è salito un uomo innocente, e che sul retro della croce c' è un posto vuoto dove un altro innocente è chiamato a fare compagnia ai rantoli di Cristo, appartiene al messaggio inquietante, e pur dolcissimo, che un Ministro della parola non può né accorciare, né mettere tra parentesi.

Chiamalo, il tuo Signore: è un nome breve. Non può non sentirti: è inchiodato appena dietro di te. Forse un giorno quel posto sarà mio. O lo è già da adesso, ed è solo l'esemplarità del vostro martirio più grande che me ne rende agevole il tormento.

Il mattino di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, voi sarete più veloci di tutti, e ci precederete come Giovanni. E forse vi fermerete sulla soglia, per farci vedere le bende per terra e il sudario piegato in disparte.

È l'ultima carità che ci aspettiamo da voi. Un abbraccio.

crocehandicapsofferenzaCristodolore

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 20/12/2003

TESTO

33. Stola e grembiule (versione lunga)

Tonino Bello, Stola e grembiule, Ed. Insieme, Terlizzi, 1993

Forse a qualcuno può sembrare un'espressione irriverente, e l'accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio.

Si, perché di solito la stola richiama l'armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d'incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami. Non c'è novello sacerdote che non abbia in dono dalle buone suore del suo paese, per la prima messa solenne, una stola preziosa.

Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla né di casule, né di amitti, né di stole, né di piviali.

Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale.

Chi sa che non sia il caso di completare il guardaroba delle nostre sacrestie con l'aggiunta di un grembiule tra le dalmatiche di raso e le pianete di samice d'oro, tra i veli omerali di broccato e le stole a lamine d'argento!

La cosa più importante, comunque, non è introdurre il "grembiule" nell'armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l'altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile...

Nel nostro linguaggio canonico, ai tempi del seminario, c'era una espressione che oggi, almeno così pare, sta fortunatamente scomparendo: "diritti di stola". E c'erano anche delle sottospecie colorate: "stola bianca" e "stola nera". Ci sarebbe da augurarsi che il vuoto lessicale lasciato da questa frase fosse compensato dall'ingresso di un'altra terminologia nel nostro vocabolario sacerdotale: "doveri di grembiule"! Questi doveri mi pare che possano sintetizzarsi in tre parole chiave: condivisione, profezia, formazione politica.

Speriamo che i seminari formino i futuri presbiteri ai "doveri di grembiule" non solo con la stessa puntigliosità con cui li informavano sui "diritti di stola", ma con la stessa tenacia, col medesimo empito celebrativo e con l'identico rigore scientifico con cui li preparano ai loro compiti liturgici.

serviziogiovedì santocaritàlavanda dei piedisacerdozio

inviato da Anna Barbi, inserito il 27/08/2003

RACCONTO

34. La finestra   2

Due uomini, entrambi molto malati, occupavano la stessa stanza d'ospedale.

A uno dei due uomini era permesso mettersi seduto sul letto per un'ora ogni pomeriggio per aiutare il drenaggio dei fluidi dal suo corpo.

Il suo letto era vicino all'unica finestra della stanza. L'altro uomo doveva restare sempre sdraiato. Infine i due uomini fecero conoscenza e cominciarono a parlare per ore. Parlarono delle loro mogli e delle loro famiglie, delle loro case, del loro lavoro, del loro servizio militare e dei viaggi che avevano fatto.

Ogni pomeriggio l'uomo che stava nel letto vicino alla finestra poteva sedersi e passava il tempo raccontando al suo compagno di stanza tutte le cose che poteva vedere fuori dalla finestra. L'uomo nell'altro letto cominciò a vivere per quelle singole ore nelle quali il suo mondo era reso più bello e più vivo da tutte le cose e i colori del mondo esterno. La finestra dava su un parco con un delizioso laghetto. Le anatre e i cigni giocavano nell'acqua mentre i bambini facevano navigare le loro barche giocattolo. Giovani innamorati camminavano abbracciati tra fiori di ogni colore e c'era una bella vista della città in lontananza. Mentre l'uomo vicino alla finestra descriveva tutto ciò nei minimi dettagli, l'uomo dall'altra parte della stanza chiudeva gli occhi e immaginava la scena. In un caldo pomeriggio l'uomo della finestra descrisse una parata che stava passando. Sebbene l'altro uomo non potesse vedere la banda, poteva sentirla. Con gli occhi della sua mente così come l'uomo dalla finestra gliela descriveva. Passarono i giorni e le settimane.

Un mattino l'infermiera del turno di giorno portò loro l'acqua per il bagno e trovò il corpo senza vita dell'uomo vicino alla finestra, morto pacificamente nel sonno. L'infermiera diventò molto triste e chiamò gli inservienti per portare via il corpo.

Non appena gli sembrò appropriato, l'altro uomo chiese se poteva spostarsi nel letto vicino alla finestra. L'infermiera fu felice di fare il cambio, e dopo essersi assicurata che stesse bene, lo lasciò solo.

Lentamente, dolorosamente, l'uomo si sollevò su un gomito per vedere per la prima volta il mondo esterno. Si sforzò e si voltò lentamente per guardare fuori dalla finestra vicina al letto. Essa si affacciava su un muro bianco. L'uomo chiese all'infermiera che cosa poteva avere spinto il suo amico morto a descrivere delle cose così meravigliose al di fuori da quella finestra. L'infermiera rispose che l'uomo era cieco e non poteva nemmeno vedere il muro. ''Forse, voleva farle coraggio.'' disse.

Vi è una straordinaria felicità nel rendere felici gli altri, anche a dispetto della nostra situazione. Un dolore diviso è dimezzato, ma la felicità divisa è raddoppiata.
Se vuoi sentirti ricco conta le cose che possiedi che il denaro non può comprare.
L'oggi è un dono, è per questo motivo che si chiama presente.

dono di séfelicitàgioiadonaresacrificio

inviato da Anna Barbi, inserito il 27/08/2003

RACCONTO

35. Il gigante egoista   1

Oscar Wilde

Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
- Quanto siamo felici qui! - si dicevano.

Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni. Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino.
- Che fate voi qui? - esclamò con voce berbera, e i bambini scapparono.
- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante - lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro.
Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso: GLI INTRUSI SARANNO PUNITI.
Era un gigante molto egoista.

I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
- Com'eravamo felici! - dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini. Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimenticarono di fiorire. Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
- La primavera ha dimenticato questo giardino - esclamarono - perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
- E' un posto delizioso - disse - dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino. Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
- Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire - disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco: - Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante. Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.

Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo. La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
- Credo che finalmente la primavera sia venuta - disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi, felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline. Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena.

Solo in un angolo regnava ancora l'inverno. Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato. Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
- Arrampicati piccolo - disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino. A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
- Come sono stato egoista! - disse. - Ora so perché la primavera non voleva venire. Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini.
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto. Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. - Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.

A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
- Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: - Il bambino che io ho messo sull'albero?.
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
- Non lo sappiamo - risposero i bambini - se n'è andato.
- Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire - disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste. Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più. Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
- Quanto mi piacerebbe vederlo - diceva sovente.

Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare; sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.
- Ho molti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli.

Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.

Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente. Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato.
Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino. Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
- Chi ha osato ferirti? - perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
- Chi ha osato ferirti? - esclamò il gigante - dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
- No - rispose il bambino - queste sono soltanto le ferite dell'amore.
- Chi sei? - chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino. Il bambino gli sorrise e disse:
- Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.

bambiniamoretenerezzapazienzaegoismochiusuraaperturagentilezzadonocondivisionebambinisperanzadisperazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Lianza, inserito il 29/01/2003

TESTO

36. Hanno rubato Gesù bambino   1

Laura De Luca, Bingo Davvero, ed. Paoline

Gli altri ci sono tutti.
I pastori, le pecore.
L'acquaiola, il pescatore,
l'angelo sopra la grotta.
Ma hanno rubato Gesù bambino.
C'è la stalla, tutta in ordine,
ci sono l'asino e il bue,
c'è Maria e naturalmente Giuseppe.
Ci sono le case, le palme,
la fontanella e il cielo stellato.
Ma hanno rubato Gesù bambino.

Guardate meglio,
guardate dentro la grotta,
la mangiatoia è vuota,
dove sarà scivolato?
Se l'hanno rubato
forse gli avranno fatto male.
Maria sorride. Ma a chi,
se sulla paglia non c'è nessuno?
E Giuseppe è chinato.
Ma su cosa? lo sa soltanto lui.
Hanno rubato Gesù bambino.
A chi rivolgono l'asino e il bue
i loro fiati di gesso?
Non c'è nessuno lì dentro,
da riscaldare.
Magi, avete fatto un viaggio inutile,
tornatevene a casa,
perché Gesù Bambino lo hanno rubato.
La stella non ha nessuna strada da indicare,
la grotta nessun segreto da proteggere,
e l'angelo
nessuna buona notizia da annunciare.

Hanno rubato Gesù Bambino.
Forse lo ha preso un profugo
prima di lasciare casa sua,
prima di salire su una di quelle navi
cariche di tanti profughi come lui.
Forse è finito nella tasca del giubbotto
di un condannato a morte,
e ora dorme beato accanto a quel cuore
che tra poco non batterà più.
Dormi, bimbo rubato,
dormi nella sacca del povero monaco perseguitato.
È lui che ti ha portato via?
Oppure sei finito nella capanna di paglia
del povero missionario?
Cosa ci fai, così bianco e rosa
in un paese dove i bambini sono tutti neri?
Hanno rubato Gesù Bambino.
Forse l'ha preso il bimbo soldato
per farsi passare la paura,
quando imbraccia il fucile,
e t'ha confuso per giocattolo.
Gioca, Gesù bambino,
tu e il fucile, due giocattoli come altri,
nelle mani del bimbo soldato.

Hanno rubato Gesù Bambino.
nessuno sa dove è finito.
Forse sul comodino
di quel vecchio signore solo,
accanto alle medicine,
e alle foto dei figli,
che lo hanno abbandonato.
Forse lo stringe nel pugno un torturato,
per aggrapparsi a una cosa qualunque,
una cosa che lo leghi alla vita.

Hanno rubato Gesù Bambino.
Cercatelo attentamente:
nei ripostigli, nei cuori,
tra le carte degli uomini d'affari
che andavano quella mattina
dentro le Twin Towers,
nelle tasche dei vigili del fuoco,
tra le pieghe dei caffettani, dei beduini,
nelle sacche degli extracomunitari,
e fra le pagine dei libri di scuola...

Cercate,
cercate attentamente,
perché hanno rubato Gesù bambino
perché Gesù bambino
appartiene al mondo
perché il mondo è davvero
il suo presepe più grande.

Gesù bambinoCristoGesùpresepeNataleincarnazionesolidarietà

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/01/2003

RACCONTO

37. Eliogabalo e matusalemme   1

Bruno Ferrero, Novena di Natale

Il piccolo e zoppo Matusalemme ed Eliogabalo (detto Gabalo) erano due ragazzi poveri della città. Avevano sempre vissuto, dalla nascita, nel collegio dei ragazzi poveri. "Sai che domani è Natale?" chiese Gabalo, un giorno che tutti e due stavano spalando la neve dall'ingresso dell'istituto. "Ah, davvero?" rispose Matusalemme. "Spero proprio che la signora Pynchurn non se ne accorga. Diventa particolarmente antipatica nei giorni di festa!". L'antipatica signora Pynchum era la direttrice dell'istituto dei poveri, ed era temuta da tutti.

Matusalemme proseguì: "Gabalo, tu credi che Babbo Natale ci sia davvero?". "Certo che c'è". "E allora perché non viene mai qui alla casa dei poveri?". "Beh", rispose Gabalo, "noi stiamo in una strada tutte curve, lo sai no? Forse Babbo Natale non riesce a trovarla". Gabalo cercava sempre di mostrare a Matusalemme il lato bello delle cose, anche quando non c'era!

Proprio in quel momento un'automobile investì un povero cane che cadde riverso sulla neve. Gabalo corse subito in suo aiuto e vide che aveva una zampa rotta. Fece una stecca e fasciò strettamente la zampa del cane. Gabalo lesse sul collare che il cane apparteneva al dottor Carruthers, un medico famoso nella città. Lo prese in braccio e si avviò verso la casa dei dottore.

Il dottore aveva una gran barba bianca lo accolse con un sorriso e gli chiese chi aveva immobilizzato e steccato così bene la zampa dei cane.

"Perbacco, io, signore", rispose Gabalo e gli raccontò di tutti gli altri animali ammalati che aveva guarito. "Sei un ragazzo davvero in gamba!" gli disse alla fine il dottor Carruthers guardandolo negli occhi. "Ti piacerebbe venire a vivere da me e studiare per diventare dottore?".

Gabalo rimase senza parole. Andare lontano dalla signora Pynchum e non essere più uno "della Casa dei Poveri", diventare un dottore! "Oh, oh s-s-sì, signore! Oh...". Improvvisamente la gioia svanì dai suoi occhi. Se Gabalo se ne andava, chi si sarebbe preso cura del piccolo e zoppo Matusalemme? "Io... io vi ringrazio, signore" disse. "Ma non posso venire, signore! E prima che il dottore scorgesse le sue lacrime corse fuori dalla casa".

Quella sera, il dottor Carruthers si presentò all'istituto con le braccia cariche di pacchetti. Quando Matusalemme lo vide cominciò a gridare: "E' arrivato Babbo Natale!". Il dottore scoppiò a ridere e, mentre consegnava al ragazzo un pacchetto dai vivaci colori, notò che zoppicava e gli fece alcune domande. Dopo un attimo, il dottor Carruthers disse: "Conosco un ospedale in città dove potrebbero guarirti. Hai parenti o amici?". "Oh, sì", rispose subito Matusalemme, "ho Gabalo!". Il dottore lanciò uno sguardo penetrante a Gabalo. "E' per lui che non hai voluto venire a stare da me, figliuolo". "Beh, io... io sono tutto quello che lui possiede", rispose Gabalo. Il dottore, profondamente commosso, disse: "E se prendessi anche Matusalemme con noi?".

Questa volta a Gabalo non importò che tutti vedessero le sue lacrime, e Matusalemme si mise a battere le mani dalla gioia. Naturalmente non sapeva che sarebbe guarito e che un giorno Gabalo sarebbe diventato un chirurgo famoso. Tutto quello che sapeva era che Babbo Natale aveva trovato la strada per la casa dei poveri e che lo portava via con Gabalo.

Natalepovertàamiciziasolidarietàamore

inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002

TESTO

38. Lettera al "fratello marocchino"   1

Tonino Bello

Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di marocchino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!

La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell'Eritrea, dell'Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.

Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un'anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tempo i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri risparmi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? E' viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormentato? Scrivi anche tu lettere d'amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della brugheria?

Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili. Sfruttati, sottopagati, ricattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scattare il "foglio di via" obbligatorio.

Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l'ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere della tua miseria.

Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.

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inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002

RACCONTO

39. La volpe e l'amicizia

Antoine de Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe

In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
"Sono qui! " disse la voce, "sotto al melo...".

"Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino...".
"Sono la volpe" disse la volpe.

"Vieni a giocare con me!", le propose il piccolo principe, "sono così triste...".

"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah! Scusa" fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
"Che cosa vuol dire 'addomesticare'?".

"Non sei di queste parti, tu", disse la volpe, "che cosa cerchi?".
"Cerco gli uomini" disse il piccolo principe.

"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E' molto noioso! Allevano anche le galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi le galline?".

"No", disse il piccolo principe. "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare"'".

"E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"...".
"Creare dei legami?".

"Certo", disse la volpe. "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te e neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro.

Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo".
"Comincio a capire", disse il piccolo principe (...).

"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana come una musica. E poi, guarda! Vedi laggiù, in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticata. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...".

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: "Per favore... addomesticami", disse.

"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose".

"Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe. "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!".
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti", rispose la volpe.

"In principio tu ti siederai un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po' più vicino...".
Il piccolo principe ritornò l'indomani.

"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe. "Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti".
"Che cos'è un rito?" disse il piccolo principe.

"Anche questa è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe.

"E' quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza...".

Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "piangerò".

"La colpa è tua", disse il piccolo principe. "Io non ti volevo fare del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...".
"E' vero" disse la volpe.
"Ma piangerai", disse il piccolo principe.
"È certo", disse la volpe.
"Ma allora che ci guadagni?"

"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano". Poi soggiunse: "Va' a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose. "Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse. "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo". E le rose erano a disagio. "Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora. "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei sola è più importante di tutte voi, perché è lei che io ho annaffiato, perché è lei che ho riparato col paravento, perché su di lei ho ucciso i bruchi, perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere, perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse.

"Addio", disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: si vede bene solo col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".

amiciziaamorelegami

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inviato da Marianna, inserito il 25/11/2002

TESTO

40. Gesù non ha buona memoria   3

Cardinale Van Thuan

Gesù non ha buona memoria.
Sulla Croce durante la sua agonia il ladrone gli chiede di ricordarsi di lui quando sarebbe entrato nel suo regno. Se fossi stato io gli avrei risposto, "non ti dimenticherò, ma i tuoi crimini devono essere espiati, con almeno 20 anni di purgatorio", invece Gesù gli rispose "Oggi sarai con me in Paradiso".
Aveva dimenticato i peccati di quell'uomo. Lo stesso avviene con Maddalena e con il figliol prodigo. Gesù non ha memoria, perdona ogni persona, il suo amore è misericordioso.

Gesù non conosce la matematica, lo dimostra la parabola del Buon Pastore. Aveva cento pecore, una di loro si smarrì e senza indugi andò a cercarla lasciando le altre 99 nell'ovile. Per Gesù uno equivale a 99 e forse anche di più.

Gesù poi non è buon filosofo.
Una donna ha dieci dracme ne perde una quindi accende la lucerna per cercarla, quando la trova chiama le sue vicine e dice loro "Rallegratevi con me perché ho ritrovato la dracma che avevo perduto". E' davvero illogico disturbare le amiche solo per una dracma, e poi far festa per il ritrovamento. Per di più invitando le sue amiche per far festa, spendendo ben di più di una dracma. In questo modo Gesù spiega che c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Gesù è un avventuriero.
Chiunque voglia raccogliere il consenso della gente si presenta con molte promesse, mentre Gesù promette a chi lo segue processi e persecuzioni, eppure da 2000 anni constatiamo che non si è esaurita la schiera di avventurieri che hanno seguito Gesù.

Gesù non conosce né finanza né economia.
Nella parabola degli operai della vigna, il padrone paga lo stesso stipendio a chi lavora al mattino e a chi inizia a lavorare il pomeriggio. Ha fatto male i conti? Ha commesso un errore? No, lo fa di proposito, perché Gesù non ci ama rispetto ai nostri meriti o per i nostri meriti, il suo amore è gratuito e supera infinitamente i nostri meriti. Gesù ha i "difetti" perché ama.
L'amore autentico non ragiona, non calcola, non misura, non innalza barriere, non pone condizioni, non costruisce frontiere e non ricorda offese.

perdonomisericordiaconfessionericonciliazioneGesù Cristoamore di Diorapporto con Dio

inviato da Anna Barbi, inserito il 30/09/2002

TESTO

41. Lettera alla Parrocchia

Centro di Orientamento Pastorale [COP], a conclusione della 52ma Settimana di aggiornamento pastorale a Bergamo; Settimana, luglio 2002

Cara parrocchia,

sappiamo che più o meno consapevolmente molti, anche tra i cristiani, non ti ritengono oggi un riferimento necessario per la loro vita e che in certe zone d'Italia non sei più il centro dell'esperienza di un popolo.

Sappiamo che, per molti, rischi di essere soltanto una stazione di servizio distributrice di sacramenti e di elemosine e che, per alcuni gruppi, sei poco più di una base logistica.

Sappiamo tuttavia che molte associazioni, gruppi e movimenti trovano in te non solo un luogo di accoglienza e di ospitalità, ma la casa e la scuola dove crescere nella fede, per essere missionari nella città degli uomini.

Sappiamo che la fatica del rinnovamento nella fedeltà al Vangelo può togliere anche a te un po' di respiro ed entusiasmo.

Sappiamo che vorresti essere una comunità di celebrazione, di carità e di annuncio, ma che, a volte, ti mancano persone, parole di incoraggiamento e gesti di sostegno.

Sappiamo, infine, che potresti essere una delle molte comunità che sono senza pastore, ma noi non ti molliamo, anzi scommettiamo sulla tua grande capacità di rigenerarti, come hai fatto tante volte nella storia.

Non siamo nostalgici, vogliamo - con te e per te - essere creativi.

Non possiamo fare a meno di te, perché è nel tuo essere Chiesa tra le case, porzione di quella grande comunità che è la Chiesa universale, che noi apprendiamo a fare comunione; è tra le tue mura, chiese, cappelle, tessuti di relazione che incontriamo la comunità, sacramento cui è affidata la Parola che genera per tutti salvezza.

Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo compiere oggi il percorso necessario di Parola, rito e carità che ci unisce a Cristo.

Non possiamo fare a meno di te, perché è nella celebrazione eucaristica che troviamo il sostegno decisivo per la nostra fede, la sorgente per la nostra sete di senso, la forza per una convivenza nella giustizia e nella pace.

Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo imparare, da laici, consacrati e da preti, come si fa a essere laici, consacrati e preti in mezzo alla gente.

Siamo convinti che ancora molte persone si accostano a te con domande semplici di umana comprensione, di pietà e di condivisione e tu hai ancora per ciascuno parole e gesti di speranza e di fiducia.

Siamo convinti che con te si viene ancora a misurare l'incredulità fragile di molti uomini e donne, la loro nostalgia di Dio, il loro stesso rancore per l'inganno e le trappole in cui sono caduti e tu hai sempre un percorso di fede da ricominciare.

Siamo convinti che il Vangelo che proponi (e come lo proponi) in fedeltà allo Spirito che guida la Chiesa è la risposta ultima alle grandi domande dell'uomo.

Ti vogliamo aiutare a farti cantiere di formazione nei tuoi gesti solenni e quotidiani, nella tua assemblea domenicale, nell'accompagnare con il sacramento la vita che nasce, muore, esplode nella gioia, si affatica nel lavoro, si misura nella malattia.

Ti vogliamo aiutare a farti scuola di comunione anche nelle varie forme associative (pensiamo ad esempio, all'Azione Cattolica) generate da quella fantasia cristiana che tanta ricchezza di crescita spirituale, di fede e di apostolato ha portato alla vita delle nostre comunità. Ti vogliamo aiutare a farti punto di speranza nella capacità di incontrarti con le domande anche più petulanti e disperate, perché le sappia far diventare percorsi di vita e di fede.

Ti vogliamo aiutare a farti segno di quel "totalmente altro" che chiede di mescolarci nella società e di essere presenti nelle istituzioni abitandole da cristiani capaci di mostrare il Volto di Cristo, crocifisso e risorto, figlio dell'uomo e figlio di Dio, che tu ci aiuti a contemplare.

Ti vogliamo aiutare a vivere pienamente, con responsabilità e con gioia la dimensione Diocesana, ad aprirti alla collaborazione con tutte le altre parrocchie, superando ogni autosufficienza.

Ti vogliamo aiutare a confrontarti con un territorio che cambia per l'arrivo di altre culture e altre religioni, a portare al tuo interno per offrirla sull'altare dell'Eucaristia la vita quotidiana dei tuoi fedeli vita di famiglia, vita di lavoro e di disoccupazione, vita di italiani e di stranieri, vita culturale, politica, apertura al mondo intero.

Ti vogliamo aiutare a osare nella verità il dialogo con ogni ricerca di Dio e per questo ti chiediamo di essere esigente con noi stessi perché l'accoglienza e l'ascolto siano il frutto di una fede pensata. Cara parrocchia chiedici di più, sapremo darti anche di più e soprattutto lascia sempre trasparire sul tuo volto l'immagine beatificante del Volto di Dio.

parrocchialaicicollaborazioneresponsabilitàcorresponsabilitànuova evangelizzazione

inviato da Anna Barbi, inserito il 24/09/2002

ESPERIENZA

42. La danza del bambino

Teresio Bosco, Madre Teresa di Calcutta, biografia

C'è un episodio, nella vita di madre Teresa, che sconvolge molte convinzioni e lascia pensosi, forse uno degli episodi-chiave per capire questa figura. Lo raccontò lei stessa.

«Durante una notte passata nella stazione di Howrah, a Calcutta, verso mezzanotte quando i treni sono tutti fermi per qualche ora, arrivò una poverissima famiglia che veniva di solito a dormire alla stazione. Erano una madre e quattro figli, dai cinque agli undici anni. La madre era una buffa', piccola cosa avvolta in un sari bianco di cotone, sottile per quella notte di novembre, con i capelli rasi a zero, stranamente per una donna. Aveva con sé dei recipienti di latta, qualche straccetto e dei pezzi di pane, tutto quanto possedeva per sé e per i suoi figli. Erano mendicanti. La stazione era la loro casa.

I bambini, tre ragazze e un bimbo che era il più piccolo, erano come la madre pieni di vivacità. A quell'ora, in piena notte, sedettero tutti su un marciapiede della stazione presso le rotaie, vicino ad altre innumerevoli famiglie e mendicanti solitari che già dormivano tutt'intorno, e fecero il loro pasto serale di pane secco, probabilmente quanto era avanzato a un rivenditore che verso sera lo aveva ceduto a un prezzo bassissimo. Ma non fu un pasto triste. Essi parlavano, ridevano e scherzavano. Sarebbe difficile trovare una riunione di famiglia più felice di quella.

Quando il breve pasto fu finito, andarono tutti a una pompa con grande allegria, si lavarono, bevettero e lavarono i loro recipienti di latta. Poi stesero con cura i loro stracci per dormire vicini, e un pezzo di lenzuolo per coprirsi tutti.

E fu allora che il ragazzino fece qualcosa di assolutamente meraviglioso: si mise a danzare.

Saltava e rideva fra i binari, rideva e cantava sommesso con incontenibile gioia.

Una simile danza, in una simile ora, in così assoluta miseria!».

Madre Teresa affermò tante volte che per noi occidentali, tristi nella nostra ricchezza, rintanati nelle nostre lussuose caverne, il povero è un «profeta». Pur nella miseria dove la nostra economia scaltra l'ha esiliato, egli ci insegna dei valori grandi che noi abbiamo dimenticato: l'amore per gli altri, la gioia che nasce dal gustare le piccole cose, l'amicizia, la capacità di entusiasmarsi per qualche cosa.

«Noi lo aiutiamo ad uscire dalla miseria. Ma lui ci regala qualcosa di più: ci insegna una maniera diversa di vivere: servirsi delle cose, ma non diventare prigionieri delle cose, credere che ci sono valori assai più importanti del denaro: l'amore, il calore della famiglia, il sorriso dei bambini, l'amicizia, la gioia...».

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inviato da Marianna Sebastiani, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

43. Il segreto del paradiso   1

Bruno Ferrero, L'importante è la rosa

Una volta un samurai grosso e rude andò a visitare un piccolo monaco. "Monaco", gli disse "insegnami che cosa sono l'inferno e il paradiso!".

Il monaco alzò gli occhi per osservare il potente guerriero e rispose con estremo disprezzo: "Insegnarti che cosa sono l'inferno e il paradiso? Non potrei insegnarti proprio niente. Sei sporco e puzzi, la lama del tuo rasoio si è arrugginita. Sei un disonore, un flagello per la casta dei samurai. Levati dalla mia vista, non ti sopporto".

Il samurai era furioso. Cominciò a tremare, il volto rosso dalla rabbia, non riusciva a spiccicare parola. Sguainò la spada e la sollevò in alto, preparandosi a uccidere il monaco.
"Questo è l'inferno", mormorò il monaco.

Il samurai era sopraffatto. Quanta compassione quanta resa in questo ometto che aveva offerto la propria vita per dargli questo insegnamento, per dimostrargli l'inferno! Lentamente abbassò la spada, pieno di gratitudine e improvvisamente colmo di pace.

"E questo è il paradiso", mormorò il monaco.

Dopo una lunga ed eroica vita, un valoroso samurai giunse nell'aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un'occhiata anche all'inferno. Un angelo lo accontentò e lo condusse all'inferno.

Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt'intorno, erano smunti, pallidi e scheletriti da far pietà.

"Com'è possibile?", chiese il samurai alla sua guida. "Con tutto quel ben di Dio davanti!".

"Vedi: quando arrivano qui, ricevono tutti due bastoncini, quelli che si usano come posate per mangiare, solo che sono lunghi più di un metro e devono essere rigorosamente impugnati all'estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca".

Il samurai rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppur una briciola sotto i denti. Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso.

Qui lo attendeva una sorpresa. Il Paradiso era un salone assolutamente identico all'inferno. Dentro l'immenso salone c'era l'infinita tavolata di gente; un'identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti degli stessi bastoncini lunghi più di un metro, da impugnare all'estremità per portarsi il cibo alla bocca.

C'era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia. "Ma com'è possibile?", chiese il samurai.

L'angelo sorrise. "All'inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché si sono sempre comportati così nella vita. Qui, al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino".
Paradiso e inferno sono nelle tue mani. Oggi.

paradisoinfernoaltruismoamoreegoismoserviziogenerositàcaritàdonare agli altri

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inviato da Marianna Sebastiani, inserito il 08/05/2002