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1. Auguri di Natale non in serie

don Tonino Bello

Carissimi,
formulare gli auguri di Natale dovrebbe essere la cosa più semplice di questo mondo. Invece, quest'anno sto provando tanta difficoltà. Ho scritto e riscritto cento volte l'attacco di questa lettera, ma mi è parso di dire sempre delle cose estremamente banali. Come sono banali certi presepi bell'e confezionati che si acquistano ai grandi magazzini. Saranno anche attraenti con i loro svolazzi di angeli e con i loro muschi di plastica. Ma sono freddi. Perché fatti in serie.
Ecco: è proprio la «serialità» che mi mette in crisi. Ho l'impressione, cioè, di esporre anch'io la mia merce preconfezionata, e poi lasciare che ognuno si serva da solo, come nei self-service di certi ristoranti.
È qui lo sbaglio: nella pretesa di voler trovare delle formule standard, buone per tutti. Invece, a Natale, non si possono porgere auguri indistinti.

Dire buon Natale a te, Ignazio, che vivi immobilizzato da anni, dopo quel terribile incidente stradale che ti ha ridotto a un rudere, è molto diverso che dire Buon Natale a te, Franco, che hai fatto spese pazze per rinnovarti l'attrezzatura sciistica, e il 25 dicembre lo passerai in montagna, dove hai già prenotato l'albergo per la settimana bianca. Tu, Ignazio, la stella cometa del presepe non la vedi neanche, perché non puoi muovere la testa dal guanciale. E, allora, devo descrivertela io, e dirti che essa fa luce anche per te, e assicurarti che Gesù è venuto a dare senso alla tua tragedia e che, nella Notte Santa, anzi, ogni notte della tua vita, egli trasloca dalla mangiatoia per venirti accanto e farsi scaldare da te. Tu, Franco, la stella cometa non la vedi perché non hai tempo per pensare a queste cose, e in testa hai ben altre stelle. E, allora, devo provocartene io la nostalgia, e dirti che le lampade dei ritrovi mondani dove consumi le tue notti e i tuoi soldi, non fanno luce sufficiente a dar senso alla tua vita.

Dire buon Natale a te, Katia, che il 26 andrai all'altare con Cosimo, è molto diverso che dire buon Natale a Rosaria, che il mese scorso ha firmato la separazione consensuale, dopo che Gigi se n'è andato con un'altra. Perché a te, Katia, basterà l'invito a vedere nel presepe la celebrazione nuziale suprema di Dio che prende in sposa l'umanità, e già ti sentirai coinvolta nel mistero dell'incarnazione. A te, Rosaria, invece, che per la prima volta le feste le passerai sola in casa, e che non hai voglia neppure di andare a pranzo dai tuoi, occorrerà tutta la mia discrezione per farti capire che non è molto dissimile il ripudio subito da Gesù nella notte santa. Buon Natale, Rosaria. E buon Natale anche a Gigi, perché, scorgendo nel bambino del presepe il mistero della fedeltà di Dio, torni presto a casa.

Dire buon Natale a te, carissimo Nicola, che mi sei tanto vicino con la tua amicizia ma anche tanto lontano con l'ateismo che professi, è molto diverso che dire buon Natale a te, don Donato, che le parole di santità, tu sei bravo a dirmele più di quanto io non sappia fare con te. Perché tu, don Donato, hai un cuore che trabocca di tenerezza, e quando parli del Verbo che scende sulla terra e diventa l'Emmanuele, cioè il Dio con noi, si vede che ci credi a quello che dici, e daresti la vita perché anche gli altri ponessero lo sguardo su quel pozzo di luce che rischia di accecare i tuoi occhi. Mentre tu, Nicola, davanti al presepe resti impassibile, e il bue e l'asino ti fanno sorridere, e l'incanto di quella notte ti sembra una fuga dalla realtà, e rassomigli tanto a qualcuno di quei pastori (qualcuno ci deve essere pur stato!) che, all'apparizione degli angeli, non si è neppure scomposto ed è rimasto a scaldarsi davanti al fuoco del suo scetticismo. Non voglio forzare la tua coscienza: ma sei proprio sicuro che, quel bambino non abbia nulla da dirti, e che questo mistero (che tu vorresti confinare tra le favole) di Dio fatto uomo per amore, sia completamente estraneo al tuo bisogno di felicità? Auguri, comunque, perché la tua irreprensibile onestà umana trovi nella culla di Betlemme la sua sorgente e il suo estuario.

Dire buon Natale a te, Corrado, che vivi nella casa di riposo, e la sera ti lasci cullare dalle nenie pastorali, e te ne vai sulle ali della fantasia ai tempi di quando eri bambino, e la tua anima brulica di ricordi più di quanto i tratturi del presepe non brulichino di percorelle, e pensi che questo sarà forse il tuo ultimo Natale, e ti raffiguri già il momento in cui Gesù lo contemplerai faccia a faccia con i tuoi occhi... è molto diverso che fare gli auguri a te, Antonietta, che hai vent'anni e tutti dicono che non sei più quella di una volta, e l'altro giorno mi hai confidato che non fai più parte del coro e che forse quest'anno non ti confesserai neppure. Buon Natale, Antonietta. Pregherò perché tu possa trovare cinque minuti per piangere da sola davanti alla culla, e in quel pianto tu possa sperimentare le stesse emozioni di quando la semplice carta stagnola del presepe ti faceva trasalire di felicità.

Un conto è dire buon Natale a te, Gianni, che stai in ospedale e oggi anche i medici se ne sono andati e tu non vedi l'ora che arrivi il momento delle visite per poter parlare con qualcuno, e un conto è dire buon Natale a te, Piero, che in carcere nessuno verrà a trovare dopo che ne hai combinate di tutti i colori perfino a tuo padre e a tua madre. Auguri a tutti e due, comunque, e ai vostri compagni di corsia o di cella: Gesù Cristo vi restituisca la salute del corpo e quella dello spirito.

Buon Natale a te, Carmela, che sei rimasta vedova. A te, Marina, che sei felice perché le cose vanno bene. A te, Michele, che ti disperi perché le cose vanno male. A te, Mussif, e a tutti i profughi albanesi che vivono insieme nella casa di accoglienza. A te, Sahid, che guardi alla televisioni gli spettacoli dell'Unicef sui bambini irakeni e slavi decimati dalla fame, e, per un'associazione di immagini non certo molto strana, pensi ai tuoi figli che hai lasciato in Tunisia.

Dopo che l'ho poggiata sull'altare, profumata d'incenso e grondante ancora di benedizioni divine, voglio dare la mano a tutti, sicuro che nessuno tirerà indietro la sua.

Perché a Natale, felice o triste che sia, fedele o miscredente, miserabile o miliardario, ognuno avverte, chi sa per quale mistero, che di quel bambino «avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia», una volta che l'ha conosciuto, non può più fare a meno.

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5.0/5 (1 voto)

inserito il 19/02/2018

TESTO

2. Introduzione alla Via Crucis

Don Angelo Saporiti, Riflessione sull'amore di Madre Teresa

Oggi fra la gente del mondo, Gesù vive la propria passione.
La Via Crucis si ripete oggi come duemila anni fa nei giovani, nei sofferenti, negli affamati, nelle persone malate e portatrici di handicap.
Noi oggi siamo qui per vivere la Via Crucis di Gesù.
La Via Crucis è fatta di stazioni.
Stazione significa "sosta" "fermata".
Significa per noi "esserci", stare lì vicino a quella situazione, a quella persona, a quella sofferenza...
Vivere la Via Crucis significa esserci.
E allora noi siamo lì?
Siamo lì in quel bambino che mangia un pezzo di pane, briciola dopo briciola, perché sa che, quando quel tozzo di pane sarà finito, non ce ne sarà più e avrà di nuovo fame?
Siamo lì con quel bambino?
Siamo lì con quelle migliaia di persone che ogni giorno muoiono, non solo per un tozzo di pane, ma per un po' d'amore, di considerazione, di giustizia...
Siamo lì?
Siamo lì quando i nostri giovani cadono, come Gesù è caduto più volte per noi?
Siamo lì come era lì Simone il Cireneo, a risollevarli, a prendere su di noi la loro fatica, la loro delusione, la loro depressione?
Siamo lì con gli alcolizzati, i senzatetto, i senza lavoro, i senza famiglia, i vecchi, gli esclusi...
Queste sono alcune stazioni della Via Crucis.
Le altre sono dentro di noi. Le conosciamo bene:
sono il nostro rapporto difficile con il marito, la moglie,
i nostri conflitti con i figli adolescenti,
le nostre incomprensioni con i parenti,
le nostre liti con i vicini,
i nostri volti duri con gli amici,
i nostri preconcetti con i compagni,
il nostro disimpegno sociale e cristiano,
il nostro correre tutta la giornata senza avere un orientamento,
le nostre scuse per non trovare mai il tempo per pregare, per stare un po' in silenzio, per meditare, per conoscere meglio Gesù, per incontralo...
Non possiamo far finta di non vedere queste stazioni della nostra Via Crucis.
La Via Crucis è una via di consapevolezza del mio peccato personale e una presa di coscienza del nostro peccato sociale, come comunità civile e come Chiesa.
Iniziamo ad andare dietro a Gesù sulla via dolorosa.
Precorriamo la Via Crucis, passo dopo passo, con consapevolezza, con lucidità, con coscienza, con trasparenza. Lasciamoci andare all'amore di Dio.
Chiediamo a Gesù il dono delle lacrime e il dono del cambiamento della nostra vita.
Gesù è morto per noi per dirci che non c'è amore più grande di quello che dona la vita.
Lui ci darà la forza, perché Gesù è la nostra forza!

Via Crucissolidarietà

4.0/5 (2 voti)

inviato da Don Angelo Saporiti, inserito il 05/08/2012

TESTO

3. Prossimo

Don Ricciotti Saurino, Canne d'organo

Eppure ero convinto di essere proprio così, mentre leggevo sul display del salumiere il numero precedente al mio, e mi dicevo: "Sono il prossimo!" Anche l'infermiera della sala di attesa del dottore, con aria soddisfatta mi ha detto qualche volta: "Lei è il prossimo!" Perfino negli uffici pubblici all'invito "avanti il prossimo" mi hanno riconosciuto come tale.

Ora in chiesa, dove siamo tutti fratelli, mi sento decisamente rispedito in coda alla fila.

A nulla vale esibire il biglietto con il numero alto di frequenze, essere arrivato in anticipo ad ogni suono di campana, dimostrare di aver occupato per trenta anni il solito posto, portare la testimonianza delle persone alle quali ho stretto la mano migliaia di volte al segno della pace. Mi sento dire: "Non sei prossimo!"

Grido all'ingiustizia e preferisco la fila dal salumiere e quella nella sala di attesa dove è riconosciuto il mio diritto.

Oso chiedere qualche chiarimento e qualcuno mi dice che i numeri progressivi sono stati aboliti da tempo e le unità di misura tradizionali, in metri e centimetri, non erano affidabili e precisi per tale valutazione.

Come al solito - penso - la simpatia e l'arbitrio di qualcuno dichiara volta per volta chi è il prossimo.

Avrei dovuto scegliermi un valido compagno di viaggio e stargli vicino. Forse una persona in vista o forse proprio il sacerdote, ma mi dicono che anche questo sistema non garantisce nulla, neppure la vicinanza fisica ti assicura la "prossimità" evangelica.

Eppure i nuovi banchi della chiesa splendono grazie al mio olio, l'organo suona una musica esaltata dal mio vino e persino la vetrata raffigurante il buon samaritano si è realizzata per il pronto intervento della mia borsa. Dove arrivo io si capovolgono le cose, difatti ho sentito dire con ironia che semmai posso ritenermi prossimo alla canna d'organo, al banco o alla vetrata.

Che disdetta, in una chiesa affollata sono prossimo alla canna dell'organo, equidistante dalle altre, sempre presente e indipendente... Ma io voglio essere prossimo di qualcuno, perché a costui sarà affidata l'ultima arringa in mio favore davanti al trono di Dio!

Ho sbirciato sul foglietto della domenica che bisogna prendersi cura, portare a cuore una persona, se vuoi essere prossimo.

Mi sono girato intorno per vedere se ci fosse qualcuno che ho preso a cuore. Ho scrutato tutti i volti presenti, ma, tranne qualche simpatia, non ne ho trovato uno del quale mi sarei preso cura.

Con la mente ho vagato all'esterno della Chiesa, sono entrato nelle case di persone amiche e non ho trovato uno per il quale fossi disposto a pagare di persona. Ho fatto restaurare le canne dell'organo, ma non ho trovato una persona alla quale avrei restaurato la vita.

In verità occasioni non sono mancate, ma sinceramente... una volta ho ritenuto non fosse mia competenza, un'altra non ne valeva la pena, un'altra ancora non era il momento, e poi... non se lo meritava, pensavo che mentisse, se fosse stato un altro... e così ho dribblato coraggiosamente fino ad oggi.

Ora bisogna che mi dia da fare, - mi sono detto - e ho scelto un gruppo di volontari che non restaurano chiese, ma persone. Anche tra questi è stata forte la tentazione di farlo per vantarmene con gli amici, con i colleghi e qualche volta mi è sorto il dubbio se lo facessi per me stesso o perché veramente portavo a cuore il bisogno dell'altro.

Ho cominciato ad amarlo disinteressatamente, profondendo non solo le mie energie, ma anche le mie risorse e solo allora ho capito di essere prossimo quando non sono più riuscito a misurare la distanza, perché più che vicino alle mie braccia, era vicino al mio cuore. E' proprio vero che l'unità di misura della vicinanza del prossimo non è il metro: non posso misurare ciò che fa parte della mia vita, ciò che è dentro il mio cuore.

Ho scoperto anche che si può essere prossimo del lontano e senza mai averlo conosciuto: ho seguito un missionario, un seminarista. Se ogni cristiano avesse il suo prossimo staremmo meglio tutti, uniti da una catena di solidarietà.

Voglio farmi prossimo a qualcuno e ciò mi basta, se poi qualcuno vuole avermi a cuore, la cosa non può che farmi piacere.

Ho deciso, non restauro più canne d'organo, è meglio restaurare il mantice che le fa vivere, vibrare e suonare.

prossimosolidarietàvicinanza

inserito il 06/12/2009

TESTO

4. Le beatitudini oggi   1

Tonino Bello, Alle porte del regno

Ce l'hanno spiegata con mille sfumature, e vien quasi da pensare che ogni biblista abbia un suo modo di leggere questa pagina delle beatitudini: l'unica che vorremmo salvare, se di tutti i libri della terra si dovesse sottrarre all'incendio solo il Vangelo e di tutto il Vangelo si dovesse preservare dalle fiamme soltanto una sequenza di venti righe.

Si intuisce subito che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse ultraterrene.

Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita, senza essere riusciti mai ad afferrare per intero. Fanno riferimento a quel senso di benessere pieno di gioia totalizzante che esiste solo nei nostri sogni. Traducono, come nessun altro frasario umano, le nostre nostalgie di futuro, e ci proiettano verso quei cieli nuovi e terre nuove in cui la settimana si accorcia a tal punto da conoscere solo il sabato eterno.

Imprigionano il "non ancora" - sempre abbozzato e mai esploso pienamente - di quel "risus paschalis" che ora sperimentiamo solo nella smorfia delle nostre troppo rapide convulsioni di letizia per cedere subito il posto all'amarezza del pianto.

Non ci vuol molto a capire, insomma, che sotto queste sentenze veloci del discorso della montagna c'è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso "regno dei cieli", la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Sì, Gesù vuol dare una risposta all'istanza primordiale che ci assedia l'anima da sempre. Noi siamo fatti per essere felici. La gioia è la nostra vocazione. E' l'unico progetto, dai nettissimi contorni, che Dio ha disegnato per l'uomo. Una gioia raggiungibile, vera, non frutto di fabulazioni fantastiche, e neppure proiezione utopica del nostro decadentismo spirituale.

Beati: provocazione all'impegno

Che cosa significhi il termine "beati" è difficile spiegarlo.

C'è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole del Signore per utilizzarle a scopi di imbonimento sociale. Quasi Gesù avesse inteso dire: state buoni, poveri, perché la misura della vostra felicità futura sarà inversamente proporzionale alla misura della vostra felicità presente. Anzi, quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell'altra.

E' questo un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all'inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe dei beni del cielo, contribuisce a mantenere in vigore un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi dal momento che a costoro, proprio per mezzo delle lacrime, viene offerto il prezzo per potersi pagare, in contanti, il regno di Dio. C'è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati... per sostenerli con la speranza dei beni del cielo. Quasi Gesù avesse inteso dire: se a un certo punto vi sentite sfiniti per le ingiustizie che patite, tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Guardate a quel che vi toccherà un giorno, e questo miraggio di beatitudine vi spronerà a camminare, così come il desiderio del riposo accelera e sostiene i passi di chi, stanchissimo, sta tornando verso casa.

Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma pur sempre alienante e banale. Perché punta sull'idea della compensazione. Perché con la lusinga della meta, non spinge la gente a mutare le condizioni della strada. Perché se non proprio a rassegnarsi, induce a relativizzare la lotta, ad arrendersi senza troppa resistenza, a vedere i segni della ineluttabilità perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana e a leggere i soprusi dell'uomo come causa di forza maggiore.

E c'è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Che consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane, come per dire: complimenti, c'è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano, tant'è che i primi assegnatari delle case del regno siete voi che dormite sui marciapiedi, e i primi a cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi che ora avete fame.

Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti o dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie ma vi assicura i primi posti nella classifica generale dei meriti.

Auguri a tutti voi che state sperimentando l'amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c'è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.

Rallegratevi voi che, in un mondo sporco di doppi sensi e sovraccarico di ambiguità camminate con cuore incontaminato, seguendo una logica che appare spesso in ribasso nella borsa valori della vita terrena ma che sarà un giorno la logica vincente.

Su con la vita voi che, sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile anche sulla terra: non lasciatevi scoraggiare dal sorriso dei benpensanti, perché Dio stesso avalla la vostra testardaggine.

Gioia a voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto!

Perché di essi sarà...

Il significato preciso della parola "beati", comunque, lasciamolo spiegare agli studiosi. Così pure lasciamo agli studiosi la fatica di spiegarci il significato dei destinatari delle beatitudini.

Se i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli oppressi, gli operatori di pace... siano categorie distinte di persone o variabili dell'unica categoria dei "poveri", ci interessa fino a un certo punto.

E neppure ci interessa molto sapere se i poveri "in spirito" siano una sottospecie aristocratica di miserabili o coincidano con quei poveri banalissimi che ci troviamo ogni giorno tra i piedi.
Tre cose, comunque, ci sembra di poter dire con sicurezza.

Anzitutto, che il discorso delle beatitudini ha a che fare col discorso della felicità. Non solo perché sembra quasi che ci presenti le uniche porte attraverso le quali è possibile accedere nello stadio del regno.

Sicché chi vuole entrare nella "gioia" per realizzare l'anelito più profondo che ha sepolto nel cuore, deve necessariamente passare per una di quelle nove porte: non ci sono altri ingressi consentiti nella dimora della felicità Ma anche perché la croce, la sofferenza umana, la sconfitta... vengono presentate come partecipazione all'esperienza pasquale di Cristo che, attraverso la morte, è entrato nella gloria.

E allora; se il primo titolare delle beatitudini è lui, se è il Cristo l'archetipo sul quale si modellano tutti i suoi seguaci, è chiaro che il dolore dei discepoli, come quello del maestro, è già contagiato di gaudio, il limite racchiude in germe i sapori della pienezza, e la morte profuma di risurrezione!

La seconda cosa che ci sembra di poter affermare è che, in fondo, queste porte, pur differenti per forma, sono strutturate sul medesimo telaio architettonico, che è il telaio della povertà biblica. A coloro che fanno affidamento nel Signore, e investono sulla sua volontà tutte le "chances" della loro realizzazione umana, viene garantita la felicità da una cerniera espressiva che non lascia dubbi interpretativi: "...perché di essi sarà..."

Quel "...perché di essi sarà..." rappresenta il titolo giuridico di possesso incontestabile, che garantisce tutti i poveri nel diritto nativo di avere non solo la "legittima" ma l'intero asse patrimoniale del regno. E' un passaggio indicatore di una disposizione testamentaria così chiara che nessuno può avere il coraggio di impugnare. E', insomma, il timbro a secco che autentica in modo indiscutibile il contenuto di uno straordinario rogito notarile.

La terza cosa che possiamo dire è che, se vogliamo avere parte all'eredità del regno, o dobbiamo diventare poveri, o, almeno, i poveri dobbiamo tenerceli buoni, perché un giorno si ricordino di noi.

Insomma, o ci meritiamo l'appellativo di "beati" facendoci poveri, o ci conquistiamo sul campo quello di "benedetti", amando e servendo i poveri.

Ce lo suggerisce il capitolo venticinque di Matteo, con quel "Venite, benedetti dal Padre mio: ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".

E' la scena del giudizio finale, pilastro simmetrico a quello delle beatitudini, che sorregge quell'arcata di impegno che ha la chiave di volta nell'opzione dei poveri.

Beati o benedetti

Veniamo a sapere, dunque, che, come titolo valido per l'usufrutto del regno, esiste un'alternativa al titolo di "povertà": quello della "solidarietà" con i poveri. Diventare, cioè, così solidali con loro da esserne il prolungamento. Fare tutt'uno con loro, così da esserne considerati quasi la protesi.

Se si vuole entrare nel regno della felicità perciò occorre vistare il passaporto o col titolo di "beati" o col titolo di "benedetti".

E' splendida l'esortazione che al termine della messa nuziale viene pronunciata sugli sposi: "Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre".
"Beati... perché di essi sarà...".
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi..."

Non potrà mai dimenticare lo stupore di Mons. Gasparini, vescovo missionario nel Sidamo, quando un giorno, indicandomi un gruppo di bambini etiopi, dagli occhi sgranati per fame, dalle gambe filiformi, devastati dalle mosche sul corpo scheletrito, mi disse quasi sottovoce: "Vedi: che questi bambini siano figli di Dio non mi sorprende più di tanto. E neppure che siano fratelli di Gesù Cristo. Ma ciò che mi sconcerta e mi esalta è che questi poveri siano eredi del paradiso! Sembra un assurdo. Ma è proprio per annunciare quest'assurdo, che sono felice di aver speso tutta la mia vita in mezzo a questa gente". "Beati... perché di essi..."
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi...".

Il Signore ci conceda che, nel mazzo delle carte d'identità racchiuse da quei due pronomi personali, un giorno, col visto d'ingresso, poco importa se con la sigla "beati" o con la sigla "benedetti", egli possa trovare anche la nostra.
E ci riconosca. Alle porte del regno.

beatitudiniregno di Diobeatipovertàsolidarietà

inviato da Qumran2, inserito il 06/08/2009

TESTO

5. Lettera a Massimo, ladro zingaro ammazzato

Tonino Bello

A Molfetta, durante una tentata rapina un metronotte, per legittima difesa, sparò e uccise il ladro, uno zingaro. Il Vescovo, Monsignor Tonino Bello, saputa la notizia si recò al cimitero e rimase contristato dalla solitudine del morto: non c'era nessuno alle sue esequie e scrisse una lettera ad un uomo che non l'avrebbe mai letta, a Massimo, il ladro zingaro ammazzato.

Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina, e sono venuto di buon'ora al cimitero a celebrare le esequie per te.

Ma non ho potuto pronunciare l'omelia. Perché alla mia messa non c'era nessuno. Solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni. E il vento gelido che scuoteva le vetrate.

Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.

Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, e durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: «Gesù, ricordati di me!...».

Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a 22 anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che è rotolata nel fango con te!

Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome.

Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello. Oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto.

Ma non per la tua morte. Perché, stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale, forse te la meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente. E lui si è difeso. E stamattina, quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo.

No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita.

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che, sì, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l'icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbrutito e fosco come il tuo, che ha cessato di batter per sempre.

Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch'io che, l'altro giorno, quando c'era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo.

Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo.

Perdonaci per l'indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire.

Perdonaci se, ad appena otto giorni dall'inizio solenne del l'anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.

Domani verrò di nuovo al camposanto. E sulla tua fossa senza fiori, in segno di espiazione e di speranza, accenderò una lampada.

caritàsolidarietàamoresolitudinesofferenzaingiustiziapovertàipocrisiasocietà

5.0/5 (1 voto)

inserito il 07/02/2006

TESTO

6. Occhi nuovi   2

Tonino Bello

Nella preghiera eucaristica ricorre una frase che sembra mettere in crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell'uso corrente, come ad esempio l'espressione "nuove povertà".

La frase è questa: "Signore, donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli...". Essa ci suggerisce tre cose.

Anzitutto che, a fare problema, più che le "nuove povertà", sono gli "occhi nuovi" che ci mancano. Molte povertà sono "provocate" proprio da questa carestia di occhi nuovi che sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi strabici dall'egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò che "rende" in termini di produttività. Sono così vittime di quel male oscuro dell'accaparramento, che selezionano ogni cosa sulla base dell'interesse personale. A stringere, ci accorgiamo che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che ci portiamo addosso. Di qui, la necessità di implorare "occhi nuovi". Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il malinconico elenco delle povertà si decurterà all'improvviso, e ci accorgeremo che, a rimanere in lista d'attesa, saranno quasi solo le povertà di sempre.

Ed ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della Messa. Oltre alle miserie nuove "provocate" dagli occhi antichi, ce ne sono delle altre che dagli occhi sono "tollerate". Miserie, cioè, che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove anch'esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta contro l'uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano, cioè, la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a disturbare la digestione.

E infine ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi di pianto, per pigrizia o per paura vengono "rimosse". Ci provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler implorare: "Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo esser capaci di aggredirle". Si tratta di quelle nuove povertà che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni tecnologiche, e l'olocausto dei valori ambientali, sull'altare sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri, dagli accenti casalinghi e planetari.

Sono, da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I popoli della fame uccisi dai detentori dell'opulenza. Le tribù decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a rimanere per sempre privi dell'essenziale: la salute, la casa, il lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi bassissimi. Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica, sono condannati a vivere sott'acqua e a non emergere mai a livelli di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi. Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione del problema. Occorre chiedere "occhi nuovi".

"Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli". Occhi nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia. Donaci occhi nuovi, Signore.

povertàricchezzagiustiziaingiustiziafame nel mondomondialitàcaritàamoresolidarietàattenzione agli altrisofferenza

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inviato da Don Giosuè Lombardo, inserito il 12/08/2003

TESTO

7. Il mio Dio

Juan Arias

Il mio Dio non è un Dio duro, impenetrabile,
insensibile, stoico, impassibile.
Il mio Dio è fragile.
E' della mia razza.
E io della sua.
Lui è uomo e io quasi Dio.
Perché io potessi assaporare la divinità
Lui amò il mio fango.

L'amore ha reso fragile il mio Dio.
Il mio Dio ebbe fame e sonno e si riposò.
Il mio Dio fu sensibile.
Il mio Dio si irritò, fu passionale,
e fu dolce come un bambino.

Il mio Dio fu nutrito da una madre,
ne sentì e bevve tutta la tenerezza femminile.
Il mio Dio tremò dinnanzi alla morte.
Non amò mai il dolore, non fu mai amico
della malattia. Per questo curò gli infermi.
Il mio Dio patì l'esilio,
fu perseguitato e acclamato.

Amò tutto quanto è umano, il mio Dio:
le cose e gli uomini, il pane e la donna;
i buoni e i peccatori.
Il mio Dio fu un uomo del suo tempo.
Vestiva come tutti,
parlava il dialetto della sua terra,
lavorava con le sue mani,
gridava come i profeti.

Il mio Dio fu debole con i deboli
e superbo con i superbi.
Morì giovane perché era sincero.
Lo uccisero perché lo tradiva la verità che era
nei suoi occhi.
Ma il mio Dio morì senza odiare.
Morì scusando più che perdonando.

Il mio Dio è fragile.
Il mio Dio ruppe con la vecchia morale
del dente per dente,
della vendetta meschina,
per inaugurare la frontiera di un amore
e di una violenza totalmente nuova.

Il mio Dio gettato nel solco,
schiacciato contro terra,
tradito, abbandonato, incompreso,
continuò ad amare.
Per questo il mio Dio vinse la morte.
E comparve con un frutto nuovo tra le mani:
la Resurrezione.
Per questo noi siamo tutti sulla via
della Resurrezione:
gli uomini e le cose.

E' difficile per tanti il mio Dio fragile.
Il mio Dio che piange,
il mio Dio che non si difende.

E' difficile il mio Dio abbandonato da Dio.
Il mio Dio che deve morire per trionfare.
Il mio Dio che fa di un ladro e criminale
il primo santo della sua Chiesa.
Il mio Dio giovane che muore
con l'accusa di agitatore politico.
Il mio Dio sacerdote e profeta
che subisce la morte come la prima vergogna
di tutte le inquisizioni della storia.

E' difficile il mio fragile amico della vita.
Il mio Dio che soffrì il morso
di tutte le tentazioni.
Il mio Dio che sudò sangue
prima di accettare la volontà del Padre.

E' difficile questo mio Dio,
questo mio Dio fragile,
per chi pensa di trionfare soltanto vincendo,
per chi si difende soltanto uccidendo,
per chi salvezza vuol dire sforzo e non regalo,
per chi considera peccato quello che è umano,
per chi il santo è uguale allo stoico
e Cristo a un angelo.

E' difficile il mio Dio Fragile
per quelli che continuano a sognare un Dio
che non somigli agli uomini.

NataleincarnazioneumanitàGesùCristorapporto con Diosolidarietà

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 09/02/2003

TESTO

8. Un altro natale è possibile   2

Alex Zanotelli

Un altro Natale è possibile: ci può essere ancora un Buon Natale!

Con il Natale la vita vince nonostante tutto. Ogni bimbo che nasce è il segno che Dio non si è ancora stancato dell'umanità (Tagore).

Viola, la perla bianca di Chiara nata nel cuore della ricca Brianza ha davanti a sé ottanta anni di vita (se tutto va bene) e una dote iniziale di 25.000 euro.

Njeri, la perla nera di Rachele, nata nella baracca di Korogocho ha davanti a sé quaranta anni di vita (se tutto fila liscio) e una dote inziale di soli 250 euro.

Due mondi, due bimbe, divise da un invisibile muro di vetro. La prima, Viola, fa parte del 20% dell'umanità che si "pappa" l'83% delle risorse mondiali. La seconda, Njeri, fa parte dell'oltre un miliardo di "esuberi umani" che devono accontentarsi dell' 1,4% delle risorse, costretti a vivere con meno di 1 dollaro al giorno: sono gli innocenti di cui si rinnova la strage oggi: e Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata perché essi non ci sono più.

Milioni di bimbi muoiono di fame, malattie, aids: un bimbo muore di fame ogni due secondi, 11 milioni ne muoiono all'anno per malattie meno gravi di un raffreddore, centinaia di milioni non inizieranno neanche la prima elementare.

Due mondi, due Natali. Il nostro è il Natale dell'opulenza, delle luci, dei regali del consumismo degli affari. E' un business senza fine, è uno shopping anche di domenica. Questo sfavillio di luci natalizie sembra un meraviglioso "acquario" in cui guizzano costosissimi pesciolini esotici. A scrutarlo centinaia di milioni di bimbi dal volto scuro che guardano affascinati l'acquoso ed esotico luccichio. Fino a quando la parete di vetro proteggerà il banchetto degli esotici pesciolini?

Per assicurarci che la parete di vetro sia davvero infrangibile e ci protegga eternamente da quei visi sognanti di bimbi affascinati noi investiamo somme astronomiche in armi: Usa ed Europa nel 2003 programmano di spendere 750 miliardi di dollari.

Un altro Natale non solo è possibile ma è urgente e necessario! Boicottiamo il Natale dei pesciolini esotici: il Natale dei consumi, dei regali, degli affari, un Natale "pagano" che ha ben poco da spartire con quel Bimbo che nasce in una mangiatoia alla periferia dell'impero, fuori dell'acquario anche lui indistinguibile volto nero in mezzo agli altri volti scuri.

Diciamo no al consumismo vieppiù indotto e incentivato e diciamo sì alla festa natalizia della famiglia allargata a nonni, cugini, zii, nipoti ma anche alla famiglia dell'immigrato che lavora per noi o che ci è più vicino.

Diciamo no al decadente e ripetitivo tango di regali, e diciamo sì ad un consumo critico, al regalo fatto in casa con amore e con le proprie mani, o a quello equo e solidale di lavoro fatto "in dignità".

Diciamo no alla stupida pervasività televisiva e diciamo sì alle relazioni umane in famiglia, ritornando a raccontarci gioie e dolori e a riprendere confidenza con l'immaginario, la fiaba prendendo a cuore anche la bellezza del celebrare insieme il fascino del Natale.

Diciamo no alla violenza e alla guerra e diciamolo con fierezza, e diciamo sì alla pace e alla nonviolenza con evidenza mettendo bandiere arcobaleno ai nostri balconi e camminando con uno "straccetto bianco di pace". Solo così il Natale ritornerà ad essere la festa della vita che farà rifiorire la speranza di un altro mondo possibile.

Coraggio, dunque, ci può ancora essere un Buon Natale!

Natalesolidarietàgiustiziaingiustiziasfruttamentomondialitàricchezzapovertàpaceguerraarmi

inviato da Viola, inserito il 29/01/2003

TESTO

9. Hanno rubato Gesù bambino   1

Laura De Luca, Bingo Davvero, ed. Paoline

Gli altri ci sono tutti.
I pastori, le pecore.
L'acquaiola, il pescatore,
l'angelo sopra la grotta.
Ma hanno rubato Gesù bambino.
C'è la stalla, tutta in ordine,
ci sono l'asino e il bue,
c'è Maria e naturalmente Giuseppe.
Ci sono le case, le palme,
la fontanella e il cielo stellato.
Ma hanno rubato Gesù bambino.

Guardate meglio,
guardate dentro la grotta,
la mangiatoia è vuota,
dove sarà scivolato?
Se l'hanno rubato
forse gli avranno fatto male.
Maria sorride. Ma a chi,
se sulla paglia non c'è nessuno?
E Giuseppe è chinato.
Ma su cosa? lo sa soltanto lui.
Hanno rubato Gesù bambino.
A chi rivolgono l'asino e il bue
i loro fiati di gesso?
Non c'è nessuno lì dentro,
da riscaldare.
Magi, avete fatto un viaggio inutile,
tornatevene a casa,
perché Gesù Bambino lo hanno rubato.
La stella non ha nessuna strada da indicare,
la grotta nessun segreto da proteggere,
e l'angelo
nessuna buona notizia da annunciare.

Hanno rubato Gesù Bambino.
Forse lo ha preso un profugo
prima di lasciare casa sua,
prima di salire su una di quelle navi
cariche di tanti profughi come lui.
Forse è finito nella tasca del giubbotto
di un condannato a morte,
e ora dorme beato accanto a quel cuore
che tra poco non batterà più.
Dormi, bimbo rubato,
dormi nella sacca del povero monaco perseguitato.
È lui che ti ha portato via?
Oppure sei finito nella capanna di paglia
del povero missionario?
Cosa ci fai, così bianco e rosa
in un paese dove i bambini sono tutti neri?
Hanno rubato Gesù Bambino.
Forse l'ha preso il bimbo soldato
per farsi passare la paura,
quando imbraccia il fucile,
e t'ha confuso per giocattolo.
Gioca, Gesù bambino,
tu e il fucile, due giocattoli come altri,
nelle mani del bimbo soldato.

Hanno rubato Gesù Bambino.
nessuno sa dove è finito.
Forse sul comodino
di quel vecchio signore solo,
accanto alle medicine,
e alle foto dei figli,
che lo hanno abbandonato.
Forse lo stringe nel pugno un torturato,
per aggrapparsi a una cosa qualunque,
una cosa che lo leghi alla vita.

Hanno rubato Gesù Bambino.
Cercatelo attentamente:
nei ripostigli, nei cuori,
tra le carte degli uomini d'affari
che andavano quella mattina
dentro le Twin Towers,
nelle tasche dei vigili del fuoco,
tra le pieghe dei caffettani, dei beduini,
nelle sacche degli extracomunitari,
e fra le pagine dei libri di scuola...

Cercate,
cercate attentamente,
perché hanno rubato Gesù bambino
perché Gesù bambino
appartiene al mondo
perché il mondo è davvero
il suo presepe più grande.

Gesù bambinoCristoGesùpresepeNataleincarnazionesolidarietà

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/01/2003

TESTO

10. Vuoi onorare il corpo di Cristo?   2

San Giovanni Crisostomo

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".

Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.

Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.

Clicca qui per la versione breve.

caritàamoresolidarietàgiustiziaricchezzapovertàcultoeucaristia

5.0/5 (2 voti)

inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002

TESTO

11. Lettera al "fratello marocchino"   1

Tonino Bello

Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di marocchino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!

La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell'Eritrea, dell'Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.

Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un'anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tempo i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri risparmi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? E' viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormentato? Scrivi anche tu lettere d'amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della brugheria?

Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili. Sfruttati, sottopagati, ricattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scattare il "foglio di via" obbligatorio.

Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l'ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere della tua miseria.

Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.

extracomunitaristranieriaccoglienzacaritàsolidarietàamore

inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002

TESTO

12. Che dite che io sia? (Mt 16,15)

Madre Teresa di Calcutta

Chi è Gesù per me?
Gesù è il Verbo fatto uomo.
Gesù è il pane della vita.
Gesù è la vittima offerta
per i nostri peccati sulla croce.
Gesù è il sacrificio offerto per i miei
e per i peccati del mondo.
Gesù è la parola che va proclamata.
Gesù è la verità, che deve essere narrata.
Gesù è la vita, che deve essere percorsa.
Gesù è la luce, che deve essere fatta splendere.
Gesù è la vita, che deve essere vissuta.
Gesù è l'amore, che deve essere amato.

Gesù è la gioia, che deve essere condivisa.
Gesù è il sacrificio, che deve essere offerto.
Gesù è la pace, che deve essere data.
Gesù è il pane della vita, che deve essere mangiato.
Gesù è l'affamato, che deve essere nutrito.
Gesù è l'assetato, che deve essere dissetato.
Gesù è l'ignudo, che deve essere rivestito.
Gesù è il senza tetto, che deve essere ospitato.
Gesù è il malato, che deve essere sanato.
Gesù è l'uomo solo, che deve essere consolato.
Gesù è il non voluto, che deve essere voluto. Gesù è il lebbroso, che deve essere lavato nelle sue ferite.
Gesù è il mendicante, che deve essere gratificato di un sorriso.
Gesù è l'ubriaco, che bisogna ascoltare .
Gesù è il malato di mente che bisogna proteggere.
Gesù è il piccolo che bisogna abbracciare.
Gesù è il cieco, che bisogna guidare.
Gesù è il muto, cui bisogna parlare.
Gesù è lo zoppo, con cui bisogna camminare.
Gesù è il drogato, che bisogna aiutare.
Gesù è la prostituta, da sottrarre al pericolo e da sostenere.
Gesù è il prigioniero, che bisogna visitare.
Gesù è il vecchio, che deve essere servito.

Per me
Gesù è il mio Dio
Gesù è il mio sposo
Gesù è la mia vita
Gesù è il mio solo amore
Gesù è il mio tutto di tutto.
La mia pienezza.

Gesù,
ecco chi amo con tutto il cuore,
con tutto il mio essere.
Gli ho dato tutto,
persino i miei peccati.
E lui m'ha sposata a se stesso.
In tenerezza e amore.
Ora e per la vita.
Sono al sposa del mio sposo crocifisso.
Amen.

Gesù Cristocaritàamoresolidarietàtestimonianza

inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 07/12/2002

TESTO

13. Dio viene dal futuro   3

Tonino Bello

C'è nella storia, una continuità secondo ragione, che è il futurum. E' la continuità di ciò che si incastra armonicamente, secondo la logica del prima e del poi. Secondo le categorie di causa ed effetto. Secondo gli schemi dei bilanci, in cui, alle voci di uscita, si cercano i riscontri corrispondenti nelle voci di entrata: finche tutto non quadra.
E c'è una continuità secondo lo Spirito, che e l'adventus.

E' il totalmente nuovo, il futuro che viene come mutamento imprevedibile, il sopraggiungere gaudioso e repentino di ciò che non si aveva neppure il coraggio di attendere.

In un canto che viene eseguito nelle nostre chiese e che è tratto dai salmi si dice: "Grandi cose ha fatto il Signore per noi: ha fatto germogliare i fiori tra le rocce!". Ecco, adventus è questo germogliare dei fiori carichi di rugiada tra le rocce del deserto battute dal sole meridiano.

Promuovere l'avvento, allora, è optare per l'inedito, accogliere la diversità come gemma di un fiore nuovo. Cantare, accennandolo appena, il ritornello di una canzone che non è stata ancora scritta, ma che si sa rimarrà per sempre in testa all'hit-parade della storia.

Mettere al centro delle attenzioni pastorali il povero, è avvento. E' avvento, per una madre, amare il figlio handicappato più di ogni altro. E' avvento, per una coppia felice e con figli, mettere in forse la propria tranquillità, avventurandosi in operazioni di "affidamento", con tutte le incertezze che tale ulteriore fecondità si porta dietro, anzi, si porta avanti.

E' avvento, per un giovane, affidare il futuro alla non garanzia di un volontariato, alla non copertura di un impegno sociale in terre lontane, alla gratuità e "inutilità" della preghiera perché la sua testimonianza sia forte in questi tempi di confusione.

E' avvento, per una comunità, condividere l'esistenza del terzo mondiale e sfidare i benpensanti che si chiudono davanti al diverso, per non permettere infiltrazioni inquinanti al proprio patrimonio culturale e religioso.

E' avvento, per una congregazione religiosa o per un presbitero Diocesano, allentare le cautele della circospezione mondana per tutelarsi il sostentamento, facendo affidamento sulla "insostenibile leggerezza" della Provvidenza di Dio.

Per Antonella, mia amica, è avvento abbandonare le lusinghe della carriera sportiva e, dopo aver frequentato l'Isef, farsi suora di clausura. Per Karol Tarantelli è avvento perdonare l'assassino di suo marito. Per Madre Teresa di Calcutta avvento è abbandonare la clausura e "farsi prossimo" sulle strade del mondo.

"Ecco come è avvenuta la nascita di Gesù": per promuovere l'avvento, Dio è partito dal futuro.

avventotestimonianzasolidarietàprovvidenzafuturofedefiduciacoppiafamiglia

5.0/5 (3 voti)

inviato da Emilio Centomo, inserito il 04/05/2002