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ESPERIENZA

1. Riflessione sulla morte   2

don Luciano Cantini

Non molto tempo fa ho accompagnato un amico al cimitero. Non era più giovanissimo ma in buona salute, con la moglie era in una casetta in montagna quando di notte un infarto gli ha chiuso gli occhi per sempre.

Aveva lasciato detto che il suo corpo fosse cremato, così per la prima volta sono andato al crematorio al Cimitero dei Lupi, non mai avuto occasione, non sono un frequentatore di cimiteri: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22) ha detto Gesù. Le persone che ho amato le porto con me tutti i giorni e andare a visitare il luogo della conservazione dei loro resti biologici non è tra i miei interessi. Quando per diversi motivi sono andato nei cimiteri cittadini avevo fatto l'abitudine a un ordine caotico, con tutte le tombe in fila una accanto all'altra, una sopra l'altra; tra quelle tombe troviamo l'abbandono con vasi vuoti, i fiori secchi, il vento che si è divertito a lasciare traccia del suo passaggio ma anche la stravaganza di girandole al vento, di fiocchi colorati, alberi di Natale, troviamo l'abbondanza di fiori freschissimi, o artistiche composizioni di fiori di plastica, un po' di buon gusto e tanto kitsch. Poi sgabelli, scalette, scope, secchi... un armamentario di cose diverse che i frequentatori di quei luoghi lasciano lì per il giorno successivo. La parola cimitero significa "Luogo del riposo" e credo che dovremmo rispettare di più questo riposo. Invece non è così, è diventato il luogo delle esternazioni, spesso di degrado e, con la necessità di posti, il riposo è interrotto da esumazioni e nuove collocazioni.

Arrivando nel giardino davanti al crematorio ho avuto l'impressione di un luogo assai curato dove il rispetto della morte si traduce in vita. Ci sono grandi libri in bronzo con incise frasi che aiutano a pensare alla preziosità della vita proprio lì dove giunge al compimento, alla ricapitolazione del tutto, quando arriva sulla soglia del tempo e sta immergendosi nella eternità.

Perché in fondo questa è la morte: l'attimo in cui nel passaggio dal tempo al "non tempo" tutta la nostra vita, le nostre azioni, i nostri pensieri, le paure, i desideri, le sconfitte, le gioie e le sofferenze, come un fiume in piena arrivano e finalmente si liberano nel mare dell'eternità.

Mi ha colpito, all'interno del crematorio, nell'angolo della saletta di commiato e di attesa l'immagine del Crocifisso. È scolpito nel legno d'ulivo, l'artista più che modellare il legno si è fatto condurre da quel tronco, dalle sue venature, contorsioni... la storia di quella pianta continua ad esprimere e raccontare. Tra tutti i piegamenti, le storture, gli arzigogoli del legno c'è una fessura, ampia che attraversa il corpo del Cristo.

Ecco, quel legno ci racconta l'amore di Gesù, il suo cuore è spalancato, è un invito ad entrarvi, attraversarlo e andare oltre. Perché se l'amore ci conquista non ci rende prigionieri ma ci libera: la morte è la vita liberata.

Il giorno dopo siamo andati a raccogliere le ceneri perché aveva chiesto che fossero disperse; nell'angolo del cimitero c'è un giardinetto all'ombra di vecchi alberi, qua e là qualche statua forse reduci di altre storie: una colonna spezzata, una croce, una madonna... in terra come delle aiuole colme di sassi. In quella ai piedi della Madonna sono state versate le ceneri del mio amico, un po' acqua le ha trascinate più in basso togliendole alla nostra vista.

La preghiera è sgorgata spontanea di fronte al niente che rimane della nostra prosopopea umana, che certi addobbi tenderebbero a mantenere; davanti a quel barattolo di ceneri la nostra povertà è evidente ma anche la ricchezza del Creatore che dalla polvere ha tratto la grandezza dell'uomo. Eppure quella pochezza manifesta tutta la grandezza di Dio che, sola, si erge sulla storia degli uomini e la guida.

mortevita eternadefunti

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Luciano Cantini, inserito il 29/10/2015

ESPERIENZA

2. Vorrei morire al suo posto   2

Le ore passano lente come secoli sotto un sole di piena estate che di ora, in ora si fa più spietato per quegli uomini distrutti dalla fame, dalla sete e dalla fatica. Qualcuno comincia a stramazzare al suolo svenuto. Se non si rianima sotto il grandinare delle percosse, è trascinato via, per i piedi e gettato in un angolo del "piazzale".
Testa di mastino, alle 18, si pianta, a gambe divaricate, davanti alle sue vittime, sul campo un silenzio di tomba.
"L'evaso non è stato ritrovato dieci di voi moriranno nel bunker della fame. La prossima volta toccherà a venti."
Lentamente il capo inizia la sua scelta fissando nello sguardo, uno ad uno i prigionieri e di ciascuno assaporando il terrore.
"Questo qui", Testa di mastino puntava a caso il suo indice sul numero cucito sulla giacca del prigioniero. Il drappello dei martiri è completo.

"Arrivederci amici, ci rivedremo lassù, dove c'è vera giustizia", "viva la Polonia! E' per essa che io do la mia vita".
Francesco G. n° 5659, piange disperato ricordando la moglie e i figli. Tra le file dei risparmiati lo sbigottimento lascia il posto ad un senso di sollievo, alla gioia: vivere ancora, sfuggendo alla morte atroce del bunker della fame. Un uomo esce dalle fila - numero 16.670 - e con passo deciso si presenta a Testa di Mastino.
"Cosa vuole da me questo sporco polacco?"
"Vorrei morire al posto di uno di quelli"
"Perché?"
"Sono vecchio, ormai (aveva 47 anni!) e buono a nulla - La mia vita non può più servire gran che."
"E per chi vuoi morire?"
"Per lui, ha moglie e bambini"
"Ma tu chi sei?"
"Un prete cattolico" P. Massimiliano Kolbe - n° 16.670

Era Massimiliano Maria Kolbe, morto ad Auschwitz il 14 agosto 1941 e proclamato santo nel 1982 da papa Giovanni Paolo II.

sacrificiomartiriotestimonianzaofferta della vitaamoredonogiornata della memoriashoahcampi di concentramentoolocausto

4.7/5 (3 voti)

inviato da Qumran, inserito il 11/08/2014

ESPERIENZA

3. Una predica nella festa dell'Epifania in India

Piero Gheddo, http://gheddo.missionline.org/?p=826

Nel 1965, in India, alla festa dell'Epifania, sono stato invitato a parlare nella chiesa di una cittadina dello stato di Andhra Pradesh, dove lavorano i missionari del Pime. Essendo l'unico prete disponibile, ho dovuto celebrare la Messa (ma allora si celebrava in latino!) e anche fare la predica dell'Epifania. Dato che sapevo solo poche parole di telegu, la lingua locale (una delle più importanti delle 18 lingue ufficiali dell'India, parlata da più di 80 milioni di indiani, con una letteratura molto ricca e antica), il vescovo di Warangal monsignor Alfonso Beretta mi aveva fatto accompagnare da un catechista che sapeva bene l'inglese. «Tu parla inglese andando adagio», mi aveva detto, «e lui tradurrà in telegu, frase per frase, parola per parola».

Così sono andato in quella grande chiesa di Kammameth (che oggi è Diocesi), piena di gente, col mio bel discorso scritto in inglese. Dopo la lettura del Vangelo, la gente si è seduta e io ho cominciato a parlare, facendo riflessioni sulla festa liturgica, sul significato teologico dell'Epifania. A ogni frase mi fermavo e lasciavo al catechista il tempo di tradurre. Ma, man mano che andavo avanti nella predica, mi accorgevo che mentre le mie frasi erano brevi, il catechista parlava a lungo; e poi, io non citavo nessun nome proprio, ma lui continuava a citare Baldassarre, Melchiorre e Gaspare.

Dopo la Messa gli chiedo come aveva tradotto la mia predica e mi sento rispondere: «Padre, tu dicevi cose troppo difficili che io capivo poco e i nostri fedeli, gente semplice, non avrebbero capito nulla e non sapevo come tradurre. Allora ho raccontato alla gente la storia dei tre Re Magi, chi erano, da dove venivano e cosa hanno fatto quando sono tornati alle loro case dopo aver visto Gesù. Forse tu non sai, ma in India c'è la tradizione che i Magi erano indiani. Io li ho ambientati nei nostri villaggi telegu, in modo che tutti li sentissero come loro antenati. Ma non preoccuparti, ai nostri fedeli la tua predica è piaciuta molto, anche perché hanno capito tutto e adesso le vicende della vita di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre le racconteranno anche ad altri».

Quell'episodio mi ha fatto capire una grande verità: il Vangelo è il racconto di un fatto, di un avvenimento, di una notizia; cioè comunica la «Buona Notizia» e usa un linguaggio estremamente concreto, che invita a cambiare vita, a convertirci. Gesù parla con parabole, cioè racconta dei fatti che avrebbero potuto anche essere veri, per dare un'indicazione morale. Non fa come in certe prediche di noi sacerdoti, che la gente non ascolta o non capisce, perché disincarnate dalla vita quotidiana. Essere cristiani significa vivere la vita di Cristo e offrire agli uomini degli esempi concreti di vite spese per Dio e per il prossimo. Quello che convince o scuote e fa riflettere i non credenti o i non praticanti non sono i ragionamenti o le dimostrazioni filosofiche o teologiche (ci vogliono anche queste, ma a luogo e tempo debito)., sebbene i buoni esempi delle vite di Gesù, di Maria e dei santi. E anche dei Re Magi che venivano dall'Oriente!

Anche la nostra vita cristiana deve diventare, agli occhi di chi non crede, un annunzio di salvezza, una testimonianza di fede e di bontà. Nessuno riesce mai a essere un vero cristiano, perché il modello di Gesù è infinitamente al di là delle nostre piccole persone: ma quel che importa è la sincera volontà di camminare per la via che Cristo ci ha indicato. Non preoccupiamoci troppo delle nostre cadute, quando sono sinceramente combattute e detestate, quando ripetiamo ogni giorno al Signore il nostro pentimento e la volontà di togliere il peccato dalla nostra vita. «La santità», diceva Santa Teresina del Bambino Gesù, «non è una salita verso la perfezione, ma una discesa verso la vera umiltà» .

annunciopredicazionetestimonianzapredicare

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

ESPERIENZA

4. Parlare dell'aborto in assemblea di classe   1

C. D'Esposito, Rivista "Vita Francescana", maggio 1975

PAOLO (anni 15): Io dico che l'aborto è lecito, quando si sa che il bambino nascerà deforme. A che serve farlo nascere? Io non vorrei vivere, se fossi deforme.

PROF.: (Eh già, bello e viziato come sei...) Paolo, ma allora lo scopo della vita è essere belli?

PAOLO: No, certo, non è essere belli. Ma nemmeno brutti!

MANUELA (anni 15; meditabonda e sagace): Lui vuol dire che lo scopo della vita è essere felici.

PROF.: E mi sai dire qual è lo scopo dell'aborto? Rendere felice la madre?

GIORGIO (interdetto): Lo scopo dell'aborto...

PROF.: La madre è più felice, dopo?

Vorrei dire a Paolo che il suo è un ragionamento fatto coi piedi. Se chi è deforme non ha diritto di vivere, allora dovremmo uccidere i gobbi, i paralitici, i pazzi.

MANUELA (indignata): Che c'entra! Quelli, ormai, sono nati. Sono vivi, sono interi. Prima di nascere non siamo nemmeno interi.

PROF.: fammi capire: essere uomini significa essere interi?

GIORGIO: Senta, non riattacchiamo con la filosofia.

PROF. (divertita): Io lo facevo per Paolo. Pensa a lui, che ragiona con i piedi. Se si sloga un piede, non è più Paolo. Vi do un suggerimento; facciamo fuori Paolo

GIORGIO (rassegnato): Vi saluto, gente. Parla la professoressa, quindi l'assemblea è finita.

PROF.: Ascolta, Giorgio: un uomo e una donna si sposano, pur sapendo di essere gravemente malati. Incoscienti, no? E fanno pure di peggio: questi criminali, questi irresponsabili, fanno pure cinque figli.

GIORGIO (atterrito): Cinque figli? Ma saranno tutti malati!

PROF.: Tutti malati, è evidente. Chi sordo, chi cieco, chi demente; uno sfacelo, uno spettacolo vergognoso; se ci fosse Hitler li infilerebbe nei forni. E così si perderebbe il sesto figlio.

GIORGIO (stravolto): Il sesto, professoressa?

PROF.: Che è Ludwig van Beethoven. E non dire: è bene inventata; perché è vera.

abortovitasenso della vita

inviato da Angela Muscarella, inserito il 14/08/2010

ESPERIENZA

5. Osiamo dire: Padre nostro...

Alessandro Pronzato, L'uomo riconciliato. Pellegrinaggio nel quotidiano per celebrare la festa della vita, Ed. Gribaudi

Ricordo una Messa celebrata all'ergastolo di Porto Azzurro.
Sentivo avvicinarsi questo momento con un senso di paura.
"...Padre nostro!".

Mi sono fermato. Li ho guardati in faccia, a uno a uno. Oltre cinquecento uomini, a cui avevano ucciso la speranza, condannati a vita. Loro dicono, con un'espressione incisiva: "Ci hanno fermato l'orologio!".

Ho detto: "Scusatemi, ma io non riesco a continuare. Se non mi aiutate voi, io, da solo, a questo incrocio pericoloso della Messa, non ce la faccio ad andare avanti. Sarei costretto a dire una parola che, se prima non si realizza qualcosa di importante tra di noi, suonerebbe come una bestemmia: "Padre nostro...".

"Ho bisogno che mi accettiate come uno di voi, un fratello, niente altro. Soltanto se mi fate questo regalo, se ci scambiamo questa fraternità, se ammettiamo da ambo le parti questa parentela, se mi considerate come uno dei vostri, oseremo dire insieme "Padre nostro!". Altrimenti io non ho il coraggio di pronunciare quella frase. Dio non è soltanto 'mio' Padre. Lui vuol esserlo di tutti. E se non mi presento davanti a lui insieme a tutti voi, nessuno ecluso, mi sento un traditore, un illegittimo... E se voi non mi riconoscete come fratello, Dio se ne va. Non si fa trovare...".

Mai come in quel momento ho scoperto la forca sconvolgente dell'espressione: "Osiamo dire".
Sì, soltanto adesso che ci siamo riconosciuti, accettati come fratelli, possiamo dire, senza paura di bestemmiare: "Padre nostro" (anzi: "Papà", Abbà!).

Siamo mal ridotti, Papà, ma siamo insieme.
Laceri, sporchi, non troppo presentabili, ma ci riconosciamo fratelli.
Ci sentiamo colpevoli "insieme".
Abbamo tutti qualcosa da farci perdonare.
Nessuno di noi è giudice dell'altro.
Nessuno di noi condanna le colpe dell'altro.
Siamo uniti da una comune solidarietà di miseria.
Soltanto per questo "osiamo dire".
E tu, siamo sicuri, ci guardi con benevolenza. Perché noi ci guardiamo senza durezza.
Tu, abbiamo la certezza, ci accetti. Perché noi ci accettiamo vicendevolmente.
Tu non ti vergogni di noi, nonostante tutto. Perché noi non rifiutiamo nessuno.
Ecco, Signore, soltanto dopo che ci siamo caricati sulle spalle questo colossale peso di tutti i nostri fratelli, osiamo dire "Padre nostro!".
E, stavolta, è preghiera.

messapadre nostrocarceresolidarietàfratellanzafraternità

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giovannagioia, inserito il 06/12/2009

ESPERIENZA

6. Nonostante tutto ci credo

Ilenia Greco

Mia madre è morta il 6 aprile di quest'anno e sinceramente con lei ha cessato di vivere anche parte di me! Il vuoto immenso che si era incarnato nel mio corpo, nella mia mente e soprattutto all'interno del mio cuore, era tanto grande da togliermi ogni emozione, ogni sensazione bella e brutta... perché per me lei era tutto ciò che apparentemente mi rendeva felice.

Era giovane, bella, di umore per lo più allegro, ma non aveva dentro di sè la luce, la sintonia col suo prossimo, lo spirito feroce che deve avere una giovane donna: non conosceva bene Dio!

Quando se n'è andata da questa terra mia madre ha smesso di soffrire, di rincorrere qualche cosa che la tormentava, si, una pace che in lei non era mai esistita: la pace e l'armonia che io trovo nella mia fede in Cristo!

L'ho conosciuto proprio quel giorno, il 6 aprile del 1999, o meglio, lo conoscevo già ma non mi rendevo conto che era solo per sentito dire, che non ero mai stata veramente in grado di accettarlo dentro di me con tutta la sua importanza, la sua bontà e tutta la sua fiducia che, ora, solo grazie a lui, mi aiutano a vivere.

Quando ho fatto i conti con la realtà e ho capito che la mamma non era più presente in questo mondo, ho provato a chiedermi perché proprio io dovevo soffrire così, sentirmi straziata dal dolore per un'altra simile mancanza, visto che il papà l'avevo già perso... ma ho capito che il perché non c'era, perché in realtà la sofferenza non doveva esistere, ed è impossibile, come sappiamo tutti, trovare una risposta a qualche cosa che non c'è.

Giuro che non mi sono mai sentita sola nemmeno per un attimo, anzi, mi sono sentita profondamente capita, stretta fra le braccia del Signore, e ho capito lì, in quel momento, in quell'ospedale che mia madre era malata ed aveva ormai spento la fiammella della sua anima e la sua sofferenza senza Dio era tanto più grande della mia senza di lei.

Dio l'ha capita e l'ha chiamata a sè, rendendo me certa e più fiduciosa che mai della sua presenza, del suo grande amore...

Per le mie convinzioni mi sono sentita dare dell'esaurita, della pazzerella, della superficiale, ma io non sento queste parole perché sono dettate da menti e cuori che parlano così perché non hanno conosciuto Dio... altrimenti capirebbero che io non sono inconsapevole di quel che mi è successo, anzi ancora a volte piango per la mancanza della mamma; ma ho capito, riesco a darmi una ragione, a vivere ancora perché mi sento protetta e perché mi è stato concesso il dono della vita che è una cosa grandissima, infinita, inspiegabile.

Vorrei che tante altre persone la pensassero come me, vorrei che abbandonassero il Dio denaro, il Dio successo, il Dio spreco e si affidassero al Dio molto più semplice, umile ed indubbiamente molto più ricco di qualsiasi altra invenzione umana.

Le persone che si ritengono felici e atee, sono le persone che mi fanno più pena, perché non riescono a guardare oltre loro stesse!

Chi non crede, non professa alcuna opera che il Nostro Signore ci insegna, vive per se stesso e se fa qualcosa per il prossimo con consapevolezza eccessiva, lo fa con lo scopo anche a volte implicito di sentirsi gratificato dagli altri. Chi agisce spinto dalla fede vede come unico scopo il bene altrui, l'atto buono destinato ad aiutare un figlio di Dio come lui. Sì, figlio di Dio.

Questa espressione è stupenda, perché lega tutti gli uomini del mondo sotto uno stesso Cielo, nel cuore grande di uno stesso Padre e tu sai che chiunque incontri lungo il tuo cammino è figlio del tuo unico Padre e puoi solo sperare che come te se ne renda conto e non si senta abbandonato e ferito.

Scrivendo queste righe cresce in me il bisogno di trasmettere la mia gioia, il mio messaggio pulito a chiunque legga... provo il desiderio e forse anche la presunzione di far capire che si può trovare Dio in qualunque momento e in qualsiasi luogo.

L'uomo non può vivere solo per se stesso, non può vivere giorno per giorno con la concezione che con la fine di questa vita ci sarà la fine di tutto; perché se grande è questo nostro mondo terreno, ancora più grande è il "Regno dei Cieli".

Sarebbe stupido vivere questi quattro giorni consapevoli che poi non ci sarà più nulla, perché io personalmente sentirei di avere vissuto per nulla, di essere nata per caso, e mi sentirei inutile se la mia anima morisse con il mio corpo, poiché di me tutto scomparirebbe.

Trovare Dio significa anche andare verso l'eternità, l'immensità, la profondità... e ognuno di noi può farlo, in qualunque momento, anche fuori dalla Chiesa, perché non è solo lì che si vive il Signore. In Chiesa si riuniscono i fedeli la domenica e durante tutte le principali festività, ma quanti dei presenti, durante la Messa, si mettono realmente davanti a Dio? Quanti sentono fra quei muri freddi il calore dell'amore del Padre?

Io ho iniziato a farlo, la domenica seguo la Messa perché sento il bisogno di conoscere, di venire a contatto in modo particolare con gli insegnamenti e i dettami di Gesù, di tutti coloro che prima di me gli hanno voluto bene...

Fra il profumo dell'incenso e di cera, immersa nelle note dei canti che io stessa intono, trovo uno strano modo di star bene con me stessa e con gli altri, mi sento pulita, svuotata dal peso che a volte la vita ci carica in spalla; sento tutti quanti vicini, uniti per uno stesso scopo: imparare Dio.

Questo è un compito della Chiesa, del Giubileo del 2000: far sentire le persone tutte uguali, sotto uno stesso Padre, accettando comunque le indiscutibili differenze fra uno e l'altro.

speranzaaccoglienzafiducia in Dio

inviato da Romina Bernardinis, inserito il 19/07/2009

ESPERIENZA

7. Il sacerdote è il giovane di Dio

Enrico Medi

Sacerdoti, io non sono prete e non sono stato mai degno di poterlo diventare. Come fate a vivere dopo aver celebrato la Messa?

Ogni giorno avete il Figlio di Dio nelle vostre mani! Ogni giorno avete una potenza che Michele Arcangelo non ha. Con la vostra bocca voi trasformate la sostanza del pane in quella del Corpo di Cristo; voi obbligate il Figlio di Dio a scendere sull'altare. Siete grandi, siete creature immense, le più potenti che possano esistere!!!

Sacerdoti, ve ne scongiuriamo, siate santi. Se siete santi voi, noi saremo salvi, se non siete santi voi, noi saremo perduti. Sì, noi vogliamo il sacerdote santo, il sacerdote saggio, il sacerdote semplice, il sacerdote crocifisso ogni giorno per amore delle anime e per l'ardore dei cuori.

Tu sei la nostra fede, tu sei la nostra luce e guai se la fiaccola si spegne o se il sale della terra perde il suo sapore. Perché il sacerdote è il giovane di Dio, è l'astronauta di Dio.

Ricordati, o servo del Signore, che tu non sei un uomo come gli altri. Il giorno in cui lo Spirito Santo ha inciso sopra di te un carattere eterno, hai cessato di essere un uomo comune! Come quando Amstrong o Collins o White entrano nella capsula e il Saturno 5 li lancia verso la luna, non sono più uomini come gli altri, a loro non è lecito perdere un milionesimo di secondo, sbagliare una manovra, tornare indietro, stancarsi o arrabbiarsi: sono uomini del Cielo.

E tu, o sacerdote di Dio che devi portare il satellite della salvezza, non sulla luna, ma travalicando gli infiniti spazi fin nel cuore del Creatore, pensa alle tue immense e infinite responsabilità.

Se tu, o sacerdote, sei santo, sei grande, sei umile, sacrificato, moribondo di giorno in giorno, consumato dall'amore del Divino Spirito e dall'incanto di Maria, la giovinezza sarà salva, avremo vocazioni, avremo amore di sacrificio e il mondo troverà la strada della luce.

A voi che siete gli atleti di Dio, i difensori di Dio, gli appassionati di Dio, di Colui che è il dolce Padrone dell'essere e il Fremito di tutte le cose, di Colui che non dimentica il volo di una rondine, la lacrima di un uomo, il sorriso di un bimbo, il palpito d'amore di un cuore, a voi è riservato il compito sublime e stupendo di annunciarlo con forza e coraggio perché lui, che è tutto e solo Amore, ha bisogno di voi, ministri prediletti, per donare la sua infinita gioia a tutti e in tutti rinascere ogni giorno, grazie al vostro sì.

sacerdotepreteserviziosantità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cosimo Di Lella, inserito il 19/07/2009

ESPERIENZA

8. Celina: una madre che si è scoperta mamma.

Puntocuore.it

Celina è piccola, ma dall'alto del suo metro e sessanta, sa farsi sentire. Dalle 11.30 alle 13.00 passa quasi ogni dieci minuti alla Casa. A volte per chiedere un sacchetto di the, o per vedere cosa cuciniamo, per aiutarci a tagliare e a mangiare i pomodori.

Celina, la si trova più sovente al Punto Cuore che a casa sua. Il suo compagno o sua madre vengono sempre a cercarla da noi. Anche i suoi quattro monelli: Christian il maggiore, che ha compiuto sette anni, Janet ne ha cinque, Nazareno tre, e la piccola, cioè l'ultima Emiliana ha poco più di un anno. Per quanto riguarda il quinto, Celina è al suo sesto mese di gravidanza e l'impegno per noi è di sostenerla, ma per lei corrisponde a pomodori e cioccolato.

Celina vive in una catapecchia composta da una sola stanza, senza doccia né gabinetto; lì vive da cinque anni, con Carlos, che è cartonero. Entrambi soffrono per dipendenza dalla droga e dall'alcool. Celina riceveva degli uomini a casa per potersi procurare la polvere, delle pastiglie o delle bottiglie che l'aiutavano a dimenticare la monotonia, il sudiciume, e le difficoltà quatidiane.

Fino a quel momento noi vivevamo in grande amicizia con suo figlio, Christian, che passava le sue giornate al Punto-Cuore. Celina vedeva che noi volevamo bene a suo figlio senza comprenderne il motivo poiché a lei rendeva la vita impossibile.

Celina ha cominciato ad essere gelosa di quell'amore che notava, tra Esther e suo figlio. Aiutata da Jacinthe, ha compreso che aveva diritto anche lei a quell'amore. Un amore senza calcolo, che ricomincia ogni giorno. Un amore presente anche quando si è ubriachi o quando non sei riuscita ad alzarti al mattino. Che tu sia bella o sporca.

Tutto ha barcollato nella vita di Celina dal momento che ha capito che noi le vogliamo bene così com'è. Tale e quale è davvero. Senza aspettarci nulla in cambio. Allora, un giorno, quando passeggiava con Jacinthe, un uomo del quartiere l'apostrofò con il nome del suo mestiere. E Jacinthe gli rispose per le rime dicendo: "No, non è ciò che tu dici, né ciò che fa. Lei è una mia amica, lei è Celina". "Ma come? sono la tua amica? Io non sono quello che lui dice?".

Poi venne il giorno in cui la sua vita così agitata la portò all'ospedale. La miscela di pastiglie e vino avevano provocato i loro danni. Operata d'urgenza. Il medico fu chiaro: "A ventiquattro anni, tu hai più di quaranta calcoli tra la cistifellea e il rene. Non durerai a lungo se continui a drogarti e a bere in quel modo". Ci davamo il cambio al suo capezzale, con sua madre e sua sorella, ed ero presente quando si è svegliata dall'operazione. Così tu Celina hai finalmente capito che qualcuno ti voleva bene. Forse, né tua sorella né tua madre non te lo avevano mai detto. Ma là, accanto a te, esse te lo hanno fatto capire.

Oggi Celina conduce i suoi tre piccoli a scuola. Si alza per dare loro il bagno e per prepararli, li porta alla mensa. Alla nascita dell'ultimo, Celina è nata alla sua dignità di donna e alla sua vocazione di madre.

Poco alla volta, si è scoperta capace e felice di fare la mamma. Per amare, bisogna essere stati amati. Celina, per la prima volta in tutte le sue gravidanze, ha accettato di andare da un medico per preparare la nuova nascita.

Grazie Celina, per essere nata all'amore e di farlo nascere in noi. Grazie per la tua fiducia.

amarematernitàcrescitamaturazionefedefiducia

inviato da Luca, inserito il 19/04/2006

ESPERIENZA

9. Il Sacerdote

Chi è che ci prepara l'Eucaristia e ci dona Gesù?
E' il Sacerdote.
Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebberero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli.

E chi è il Sacerdote?
E' l'"Uomo di Dio". Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima ("Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio": Eb 5,4), lo separa da tutti gli altri ("segregato per il Vangelo": Rm 1,1), lo segna con un carattere sacro che durerà in eternamente ("Sacerdote in eterno": Eb 5,6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote "scelto fra gli uomini è costituito a prò degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1-2).

Vergine, povero, crocifisso
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell'anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l'intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. E' per questa conformità a Gesù che egli è "Ministro di Cristo fra genti" (Rm 15, 16), guida e maestro delle anime (Mt 28, 20).
Lo Spirito Santo configura l'anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che "il Sacerdote all'altare opera nella stessa Persona di Gesù" (S. Cipriano), ed "è il padrone di tutto Dio" (S. Giovanni Crisostomo).

Rispetto e venerazione
Sappiamo che S. Francesco d'Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi "Signori", poiché in essi vedeva solamente "il Figlio di Dio"; in particolare venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote.
Il S. Curato d'Ars diceva: "Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?".
Sappiamo, del resto, che l'atto di venerazione di baciare le mani del Sacerdote è stato premiato da Dio con veri miracoli. Nella vita di S.Ambrogio, si legge che un giorno, appena celebrata la S. Messa, il Santo fu avvicinato da una donna paralitica che volle baciargli le mani. La poveretta riponeva grande fede in quelle mani che avevano consacrato l'Eucaristia: e fu guarita all'istante. Lo stesso, a Benevento, una donna paralitica da quindici anni, chiese al Papa Leone IX di poter bere l'acqua da lui adoperata durante la S. Messa per l'abluzione delle dita. Il Santo Papa accontentò l'inferma in questa richiesta umile come quella della Cananea che chiese a Gesù "le briciole che cadono dalla mensa dei padroni" (Mt 15, 27). E fu subito guarita anche lei.
"Se io incontrassi - diceva il S. Curato d'Ars - un Sacerdote e un Angelo, saluterei prima il Sacerdote, poi l'Angelo... Se non ci fosse il Sacerdote, a nulla gioverebbe la Passione e la Morte di Gesù... A che servirebbe uno scrigno ricolmo d'oro, quando non vi fosse chi lo apre? Il Sacerdote ha le chiavi dei tesori celesti..."
Ma questa sublimità di grandezza comporta responsabilità enormi che pesano sulla povera umanità del Sacerdote; umanità in tutto identica a quella di ogni altro uomo. "Il Sacerdote - diceva S. Bernardo - per natura è come tutti gli altri uomini, per dignità è superiore a qualsiasi altro uomo della terra, per condotta deve essere emulo degli Angeli".
Per questo Padre Pio diceva: "Il Sacerdote o è un santo o è un demonio". O santifica, o rovina. San Giovanni Bosco diceva che "un prete o in paradiso o in inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero o col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio".
Veneriamo il Sacerdote e siamogli grati perché ci dona Gesù; ma soprattutto preghiemo per la sua altissima missione, che è la missione stessa di Gesù: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Missione divina che fa girar la testa e impazzire di amore, a rifletterci fino in fondo. Il Sacerdote è assimilato al Figlio di Dio, e il Santo Curato d'Ars diceva che "solo in cielo misurerà tutta la sua grandezza. Se già sulla terra lo intendesse, morrebbe non di spavento, ma di amore... Dopo Dio, il Sacerdote è tutto".

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inviato da Anna Lollo, inserito il 07/01/2005

ESPERIENZA

10. Testimonianza di Benedetta Bianchi Porro

Benedetta Bianchi Porro, Oltre il silenzio. Diari e lettere

Caro Natalino,

in «Epoca» è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani, la mamma me l'ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano abbastanza difficoltose.

Anch'io come te, ho ventisei anni, e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha atrofizzata, quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina a Milano. Accusavo da tempo una sordità che i medici stessi non credevano all'inizio. Ed io andavo avanti casi non creduta e tuffata nei miei studi che amavo disperatamente. Avevo diciassette anni quando ero già iscritta all'Università.

Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato lo studio: ero all'ultimo esame. E la mia quasi laurea mi è servita solo per diagnosticare me stessa, perché ancora (fino allora) nessuno aveva capito di che si trattasse.

Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista; ora è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. lo so che in fondo alla via Gesù mi aspetta.

Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli.

Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano.

E tu, Natalino, non sentirti solo. Mai. Procedi serenamente lungo il cammino del tempo e riceverai luce, verità: la strada sulla quale esiste veramente la giustizia, che non è quella degli uomini, ma la giustizia che Dio solo può dare.

Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio.
Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.

Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere in Patria.

Ti abbraccio. Tua sorella in Cristo, Benedetta

Lettera di Benedetta Bianchi Porro, già molto malata, ad un giovane disperato.

sofferenzadolorecrocesperanza

inviato da Don Roberto Rossi, inserito il 29/07/2004

ESPERIENZA

11. Io credo all'amore

Benedetta Bianchi Porro, Lettere

Io so di non essere sola: nel mio silenzio, nel mio deserto, mentre cammino, Lui è qui: mi sorride, mi precede, mi incoraggia a portare a Lui qualche piccola briciola d'amore.
Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli.
Le mie giornate non sono facili; sono dure ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio: Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.
Quanto a me sto come sempre, ma da quando so che c'è Chi mi guarda lottare cerco di farmi forte: com'è bello così!
Io credo all'Amore disceso dal Cielo, a Gesù Cristo e alla sua Croce gloriosa.
Sì, io credo all'Amore.

sofferenzaamorecrocerapporto con Diodoloreaccettazione

inviato da Don Roberto Rossi, inserito il 27/08/2003

ESPERIENZA

12. Dopo una giornata particolarmente dura...

Martin Luther King

Dopo una giornata particolarmente dura, andai a letto a tarda ora. Mia moglie era già addormentata e io quasi sonnecchiavo, quando il telefono squillò, e una voce irosa disse: "Stai a sentire, negro, noi abbiamo preso tutti quelli di voi che abbiamo voluto. Prima della prossima settimana, ti dispiacerà di essere venuto a Montgomery". Io riattaccai, ma non potei dormire: sembrava che tutte le mie paure mi fossero piombate addosso in una volta: avevo raggiunto il punto di saturazione.

Mi alzai dal letto e cominciai a camminare per la stanza; infine andai in cucina e mi scaldai una tazza di caffè. Ero pronto a darmi per vinto. Cominciai a pensare ad una maniera di uscire dalla scena senza sembrare un codardo.

In questo stato di prostrazione, quando il mio coraggio era quasi svanito, decisi di portare il mio problema a Dio. La testa tra le mani, mi chinai sul tavolo di cucina e pregai ad alta voce. Le parole che dissi a Dio quella notte sono ancora vive nella mia memoria: "Io sono qui che prendo posizione per ciò che credo sia giusto. Ma ora ho paura. La gente guarda a me come a una guida, e, se io sto dinanzi a loro senza forza né coraggio, anch'essi vacilleranno. Sono al termine delle mie forze. Non mi rimane nulla. Sono arrivato al punto che non posso affrontare questo da solo...".

In quel momento sperimentai la potenza di Dio come non l'avevo mai sperimentata prima. Mi sembrava di poter sentire la tranquilla sicurezza di una voce interiore che diceva: "Prendi posizione per la giustizia, per la verità. Dio sarà sempre al tuo fianco". La paura si allontanò per sempre e fui pronto, nel nome di Dio, ad affrontare ogni pericolo, ogni prova.

Sentivo che in un mondo buio e confuso il regno di Dio può ancora regnare nel cuore degli uomini... Dio non ci lascia soli nelle nostre agonie e nelle nostre battaglie: ci cerca nelle tenebre e soffre con noi.

pauracoraggiofedeabbandonoingiustizia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Eleonora Polo, inserito il 28/11/2002

ESPERIENZA

13. In due gocce d'acqua   1

Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione

Venceslaa è ora un'anziana missionaria in Colombia. L'ho conosciuta quand'era una giovane suora e dirigeva alcune opere di una grande comunità. E' stato allora che mi ha insegnato una cosa bellissima sulla messa.

Io la osservavo con ammirazione: aveva molto da fare, ma si muoveva tutto il giorno con uno splendido sorriso e una fine disponibilità. Le cose non andavano sempre bene; anzi, si verificò nella comunità un tristissimo episodio, fortunatamente rimasto a conoscenza di pochi. Essa ne era al corrente, eppure continuava a sorridere e a servire come se nulla fosse. Gliene volli parlare: "Come fa a mantenersi sempre serena, anche nei momenti difficili?". Mi rispose: "E' la Messa, Padre!".

E mi raccontò: "Quando avevo dodici anni, in parrocchia si tenne un ritiro. Il predicatore parlò della messa, spiegò il rito delle gocce d'acqua nel calice, all'offertorio. Le gocce d'acqua sono così insignificanti che si perdono nel vino. Possiamo dire che diventano vino. Quando il sacerdote offre il calice non le menziona più: 'Benedetto sei tu, Signore, per questo vino'... Ora, l'evangelista Giovanni fa capire che il vino ricorda la natura divina e l'acqua la natura umana. Sulla scia di Giovanni, i Padri della Chiesa hanno ricalcato questo simbolismo: il vino ricorda il Verbo Eterno, l'acqua l'umanità assunta - il vino il Redentore, l'acqua l'umanità redenta; il vino Gesù capo, l'acqua gli uomini membra del suo corpo; il vino Gesù, l'acqua l'assemblea e ognuno dei partecipanti. Questa dottrina mi folgorò. Da quel giorno non ho più potuto perdere una sola messa. Abitavo a tre chilometri dalla chiesa, nella campagna. La strada non era asfaltata e a volte poteva essere fangosa. La celebrazione avveniva all'alba, perché contadini e operai potessero parteciparvi prima di andare al lavoro. Ma ogni mattino, col buio, sulla mia bicicletta, dovevo recarmi là: ero troppo interessata ad essere una delle piccole gocce d'acqua. Mi capitava a volte di essere distratta prima o dopo, ma mai durante quel momento. E tutto questo mi sostiene. Le gioie e le difficoltà non mi appartengono e vengono prese da Gesù".

EucaristiaMessa

3.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002

ESPERIENZA

14. Andate in missione per cercare luoghi e modi per dare la vita

Roberta Pignone

Questo titolo un po' strano è quello che meglio descrive il mio viaggio in Bangladesh fatto proprio lo scorso settembre. Fin dall'inizio del mio cammino di preparazione al PIME, iniziato lo scorso ottobre, ho sempre avuto come motivazione principale quella di scoprire cosa avrei potuto fare come medico in una Missione.

E così mi sono completamente affidata a questo cammino, io ho deciso di parteciparvi, tutto il resto mi è stato donato.

Nel mese di aprile ho saputo che la mia destinazione sarebbe stata il Bangladesh.

Non sapevo nulla di questo paese, solo che è il più povero del mondo...

Sono partita per questa esperienza caricata molto positivamente, la gioia e la curiosità erano davvero grandi, ma avevo anche un po' di paura. Le aspettative erano molte ma ho voluto un po' accantonarle dicendo: "Lascio al Signore di decidere quello che vorrà donarmi con questa esperienza".

Al momento della partenza sapevo solo che io, a differenza delle due ragazze che sono partite con me, sarei stata da sola in un'altra missione più a nord del paese, dove mi aspettava il lavoro in un dispensario.

Il primo impatto all'arrivo a Dahka è stato davvero traumatico, la prima sera i miei sentimenti e le emozioni erano incontrollabili continuavo a ripetermi: Perché sono qui? Non potevo seguire i consigli di chi mi ha sempre un po' scoraggiato in questo viaggio?!. Ma chi me lo ha fatto fare? Voglio tornare a casa!

Dahka è una città lasciata a metà, tutto è stato iniziato ma ben poco è stato portato a termine, grande caos, forti rumori, traffico peggio che a Milano, odori nauseabondi...

Ma in fondo la mia destinazione era un piccolo villaggio del nord, questo mi faceva avere la speranza che le cose sarebbero cambiate.

Dopo due giorni ho raggiunto Boldipukur, la mia piccola e accogliente missione. Le case diroccate hanno lasciato spazio al verde che è la nota caratteristica del B, qua la gente vive nelle capanne in mezzo alla natura, proprio intorno alla missione.
Uno spettacolo meraviglioso!

Così le angosce e le paure che mi avevano accompagnato fino a quel momento hanno lasciato spazio ad una sensazione di pace. Sono stata ospite di una piccola comunità di cinque suore, tre bengalesi e due italiane, suor Eleonora e suor Mariangela. Mi sono sentita subito ben accolta, mi sentivo come a casa mia.

A differenza di Dahka dove sono stata solo spettatrice di un mondo che sentivo estremamente estraneo a me e anche un po' ostile, in questo ambiente sono dovuta scendere allo scoperto, entrando nella quotidianità di questa gente, nelle loro case, nelle loro vite.

Sono entrata con timore, quasi in punta di piedi per non voler far notare troppo la differenza e mi sono scontrata subito con una povertà che disarma e fa cadere tutte le certezze.

Appena arrivata in missione mi hanno mostrato la mia camera e subito mi ha colto una sensazione di disagio: non funzionava il ventilatore, assolutamente necessario per affrontare alcuni momenti della giornata, e l'acqua che scendeva dal mio rubinetto era arancione. "Voglio tornare a casa" e il solito "Chi me lo ha fatto fare?!".

In risposta a queste mie domande mi hanno portato a fare un giro nel villaggio appena fuori le mura della missione e ho visto gente che vive nelle capanne, in una unica stanza c'è tutto e soprattutto nessuna comodità, niente ventilatore, niente acqua corrente, solo la luce per chi è fortunato.

La povertà che ho incontrato nel piccolo villaggio è diversa da quella di Dahka, è una povertà dignitosa, hanno davvero poco per il loro sostentamento, ma quel poco lo condividono.

Ho voluto conoscere la realtà della Sanità in B, suor Mariangela si è fatta carico di questa cosa e mi ha fatto vedere tutto quello che le era possibile, portandomi da una cittadina all'altra, consapevole che di fronte ad alcune realtà sarei rimasta senza parole.

Così ho visitato l'ospedale governativo di Rangpur, la città più grande vicino alla mia missione, una decina di chilometri, penso che le parole non riescano a rendere il significato di quello che ho visto: non credevo di essere in un ospedale. La struttura è fatiscente, mi verrebbe da paragonarla alla stazione centrale, ogni angolo di corridoio o di scala è utilizzato come bagno o spazzatura. Nel reparto di chirurgia generale, uno stanzone enorme nel quale sono ricoverati una cinquantina di persone, uomini e donne insieme, chi su di un letto dalle lenzuola putride, chi addirittura per terra adagiato su delle coperte di lana anch'esse molto sporche. Ogni paziente ha al suo fianco la famiglia per qualsiasi necessità, l'ospedale non dà cibo, ma nemmeno i farmaci necessari al ricovero. Tutto è a carico del paziente.

E' stato sufficiente vedere quel reparto per chiedere alla suora di portarmi via, non volevo veder più nulla e nel cuore la speranza che non succeda mai nulla per cui i missionari abbiano bisogno di un ricovero urgente.

La speranza si è accesa quando invece a Dinajpur ho visto l'ospedale gestito dai Missionari, una stretta al cuore, nella povertà e nella semplicità della struttura, riesco comunque a riconoscere un ospedale. Corridoi e stanze pulite, ognuno ha un proprio letto con lenzuola degne di essere chiamate tali.

L'esperienza comunque più significativa l'ho vissuta proprio al dispensario dove ho potuto agire direttamente.

Il dispensario raccoglie tutti i giorni dalle 100 alle 150 persone e più provenienti dai villaggi limitrofi, solo donne e bambini. Vi lavorano solo due suore infermiere, il numero di utenti sarebbe troppo alto con gli uomini.

Vengono fatte accomodare 5 o 6 persone tutte insieme e ognuno dice apertamente il proprio problema, non esiste certo la legge sulla privacy.

Così le suore gestiscono i loro pazienti, ascoltandoli, facendo diagnosi, consigliando terapie con farmaci che loro stessi devono pagare. E non si può certo eccedere con i farmaci, dipende da quanti soldi può offrire il paziente.

I primi giorni mi domandavo che senso avessero tali terapie che non duravano più di quattro giorni a dosi che da noi non utilizziamo nemmeno nei bambini. E ho fatto fatica a mettere da parte le mie conoscenze e le mie certezze per entrare in un'ottica che è completamente diversa dalla mia.

Ho subito pensato a come noi, facilmente, possiamo avere dei farmaci che ci aiutano e a quanti Km di strada devono fare loro per raggiungere il dispensario che copre un territorio vastissimo. Certo nei villaggi ci sono i loro dottori che nella maggior parte dei casi sono stregoni che impongono terapie che io non ho voluto nemmeno conoscere.

Certo che i ricordi sono davvero tanti e potrei stare raccontare per ore...

Prima di partire mi hanno consigliato di non andare a vivere un'esperienza di questo tipo con l'idea di andare a fare grandi cose, con l'idea di salvare il mondo, ma anzi, di lavorare poco e di guardare, ascoltare, imparare.

E così ho fatto, sono partita dicendo: "Non dirò di no a nulla e farò tutto quello che mi verrà proposto...".

Ora il sentimento che sento davvero forte nel mio cuore è quello della gratitudine, io non ho fatto assolutamente nulla in questa esperienza, ho solo ricevuto tanti doni.

E quello davvero più grosso è stato quello di una comunità accogliente che mi ha permesso di essere davvero libera di guardare, ascoltare, registrare tutto quello che veniva messo sul mio cammino.

Ho fatto migliaia di km per scoprire in terra straniera uomini e donne italiane, sì, i missionari!!

"Negli occhi una terra lontana, nel cuore una speranza, andare ai confini del mondo per far conoscere te" sono le parole di un canto che porto nel cuore da quando sono tornata e racchiudono davvero il senso del mio viaggio.

Porto nel cuore queste persone che mi hanno insegnato uno stile di vita davvero semplice e sobrio, il loro sguardo carico di amore, i loro sorrisi... riflesso di un amore più grande che li accompagna e li sostiene ogni giorno.

Non posso che chiedervi di pregare per queste persone perché possano davvero continuare questa grande opera che non è altro che la loro vita per Dio!

missionepovertàdonare

inviato da Mariangela Molari, inserito il 26/05/2002

ESPERIENZA

15. Stupendo "Presepe vivente" non pubblicizzato a...

Fra Angelo De Padova

In questi giorni tutti i mezzi di comunicazione annunciano che le amministrazioni comunali, le parrocchie, le associazioni, hanno organizzato il: "Presepe vivente a..., nei giorni..., dalle ore... alle ore...; il 6 gennaio l'arrivo dei Magi con i doni...; comparse numero...; scenario suggestivo sul...; prenotarsi allo..., offerta libera" e noi annotiamo le date per poterli vedere tutti. Con questa mia lettera volevo fare anche io un po' di pubblicità ad un presepe reale...

La Società Consumista, Egoista, ha organizzato sulla Campi - Lecce, un presepe vivente, dal 1 gennaio al 31 dicembre (fin quando non ci diamo una mossa); dalle ore 00,00 alle ore 24,00; arrivano i doni (vestiti usati, pasta, olio, burro tutto aiuto CEE). I personaggi (non comparse) sono circa 300; le grotte sono fatte di roulotte bucate, senza finestre, freddissime d'inverno, bollenti in estate; le luminarie: poca luce di giorno (la notte salta sempre perché non avendo il bue e l'asino per riscaldarsi accendono tutti le stufe ed è normale che la piccola cabina elettrica non riesca a mantenere e quindi i vari bambinelli rimangono al freddo e al gelo, riscaldati dalla disperazione dei genitori che danno un po' di calore abbracciandoli, col rischio di soffocarli); gli animali: topi, scarafaggi; i servizi (se così si possono chiamare): una quindicina per 300 persone, acqua fredda; l'assistenza medica (solo le urgenze al pronto soccorso, se fanno in tempo; ma è meglio prevenire che curare). Il resto lo vedrete voi. Ah! Dimenticavo, non bisogna prenotarsi, né fare lunghe code, l'ingresso è gratuito, anzi uscendo da questo presepe vi accorgerete come loro vi avranno dato qualcosa: sì, capirete molte cose della vita. Uscendo non direte Che bello e poi tutto finisce lì. Non avrete parole, ma ve lo ricorderete per tutta la vita. Lo spazio Campo Sosta Panareo per realizzare questo presepe è stato messo a disposizione (e abbandonato) dal Comune di Lecce.

I personaggi di questo presepe mi fanno venire in mente i pastori al tempo di Gesù: non godevano di diritti civili ed erano considerati gli ultimi della società. Vivevano immersi nell'abiezione e dal punto di vista delle norme religiose nell'impurità totale, senza alcuna possibilità di riscatto. Venivano trattati alla stregua di bestie, con una differenza a favore delle bestie: si può tirare un animale caduto in un fosso, ma non un pastore. Proprio a costoro si rivolge l'angelo. Non parole di condanna, ma un annunzio di grande gioia, la nascita di colui che li libererà dall'emarginazione. Quelli che gli uomini avevano confinato nelle tenebre (in un campo sosta) sono i primi a rendersi conto della luce che risplende, mentre quanti vivono nello splendore (ricchezza) rimangono nelle tenebre. Quando Gesù si presenta nella storia, nessun sacerdote di Gerusalemme se ne accorge. I pastori sì, loro se ne andarono dalla grotta "glorificando e lodando Dio": questo era compito esclusivo degli angeli.

Correremo anche noi il rischio di non accorgerci della nascita di Gesù? Ci inginocchieremo davanti ad un bambino fatto di gesso che non soffre né il caldo né il gelo e ci dimenticheremo che nasce in carne ed ossa nel "Campo Sosta Panareo"?. E i musulmani del Campo quella notte ascolteranno gli angeli che canteranno "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama", e il giorno di Natale, stando ai semafori delle nostre città o davanti alle porte delle nostre chiese, ci annunceranno la grande gioia che Gesù è nato anche per loro. Ci vogliamo impegnare quanto prima a cambiare un po' lo scenario di questo presepe vivente (ci vuole qualche novità per l'anno prossimo)? Andate a vedere e decidete quale modifica apportare. Magari un prefabbricato andrebbe bene.
Santo Natale a tutti.

Natalepovertàsolidarietàcaritàamore

inviato da Fra Angelo De Padova, inserito il 30/04/2002