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RACCONTO

21. L'angelo custode   1

C'era una volta, e c'è ancora adesso, un angelo custode.

Era un angelo come tanti altri, ma era molto triste perché era custode e protettore di un bambino così discolo che non si era mai visto. Si chiamava Pino, ma ogni volta che lo chiamavano lui rispondeva: "Chi? Io?", e così tutti iniziarono a chiamarlo Pinocchio.

Pinocchio era svogliato, disubbidiente, qualche volta cattivo e tutte le volte il suo angioletto si disperava e non sapeva più come fare per trattenerlo.

Finché un giorno ebbe un'idea grandiosa. Chiese un colloquio con Dio e quando si trovò alla sua presenza espose la sua proposta. Chiese il permesso di scendere sulla terra e di parlare con Pinocchio sicuro in questo modo di riuscire a convincerlo a cambiare vita. Dio ci pensò un po' su' ed infine accordò all'angioletto il permesso di fare quest'ultimo tentativo, ma con la promessa di non toccare la terra con i piedi, altrimenti non avrebbe più potuto risalire in cielo. L'angioletto allora chiese timidamente come avrebbe fatto a non poggiare i piedi per terra, ma Dio non fece altro che sorridere facendo gli auguri di buona fortuna.

L'angioletto cominciò a girovagare per il cielo volando da una nuvola all'altra pensando a come poter scendere sulla terra mantenendo i piedi separati da essa.

Ad un tratto fu attirato dal vociare di alcuni angeli che stavano giocando su di una nuvola attrezzata con un'altalena. Immediatamente capì che aveva trovato lo strumento adatto per la sua missione.Aiutato dagli altri angioletti riuscì a costruire una altalena con le corde lunghe dal cielo alla terra. L'angioletto si accomodò sul sedile e si raccomandò con gli amici di farlo scendere lentamente e poi di trattenere le corde fino al suo segnale di risalita. Per l'occasione aveva vestito il suo abito migliore, quello delle grandi occasioni, un frac tinta nuvola completo di bastone e cappello.

Cominciò la discesa finché non si trovò sospeso a mezz'aria in attesa di Pinocchio.

E Pinocchio non si fece attendere; incuriosito dal personaggio così strano subito si avvicinò domandando chi fosse e come mai avesse la faccia così triste.

L'angioletto iniziò la sua storia da quando era stato assegnato come suo custode elencando tutti i dispiaceri che aveva passato per colpa sua, e ad ogni nuova avventura aggiungeva un granellino di sabbia sulla piccola bilancia che teneva in mano, la quale pendeva inesorabilmente in un solo senso.

Pinocchio lo ascoltò con attenzione; ma lui era furbo; non era mica un bambino che credeva agli angioletti, e così con una alzata di spalle fece per andarsene. L'angioletto disperato vedendo sfuggire il suo protetto cominciò a chiamarlo dicendo che non poteva scendere dall'altalena in quanto non sarebbe più potuto risalire.

Pinocchio si fermò; tornò indietro, guardò l'angioletto in lacrime e gli disse che gli avrebbe creduto se gli avesse fatto vedere il cielo sopra le nuvole. L'angioletto ci pensò un poco su', poi decise che una vita salvata valeva pure una sgridata del "Capo".

Fece salire Pinocchio sull'altalena e diede ordine ai suoi amici di tirare su. L'altalena non si mosse. L'angioletto gridò più forte; niente; come prima.

Pinocchio stava per prendersi la sua rivincita quando l'angelo cominciò ad arrampicarsi su una delle corde. Svelto come un gatto anche lui lo seguì dall'altra corda ed insieme salirono fino alle nuvole. Quando arrivarono su, videro che gli amici erano tutti addormentati e quindi non avevano udito il comando di risalita.

Ma se loro avevano lasciato le corde dell'altalena, come mai non era caduta sulla terra?

I due si accorsero allora che le corde proseguivano in alto, su un'altra nuvola. Ripresero a salire, arrampicandosi finché non spuntarono dall'altra parte.

Si trovarono di fronte al "Capo" che aveva le corde dell'altalena legate ad un dito e li guardava sorridendo. Pinocchio che era davanti si voltò indietro in direzione dell'angioletto per chiedere spiegazioni e con immenso stupore si accorse che il viso dell'angelo era diventato uguale al suo, come una goccia d'acqua.

A quel punto capì tutto, capì che era tutto vero quello che aveva ascoltato dalla bocca dell'angelo, capì che era di fronte a Dio e capì che di fronte a Dio tutti gli angeli custodi sono visti con lo stesso volto degli uomini di cui sono custodi sulla terra.

Ridiscese trasformato, e cominciò a mettere in pratica quello che tutti gli avevano insegnato e lui non aveva mai seguito.

Un giorno ripassò nel luogo in cui aveva incontrato l'angelo e ci trovò ancora l'altalena. Si sedette e cominciò a dondolarsi, felice di sentirsi cullato dalla mano di Dio. Guardò in alto e vide sopra la nuvola il "suo" angioletto sorridente con in mano la stessa bilancia del primo incontro; questi cominciò a versare la sabbia del piatto su Pinocchio trasformandola in una pioggia di polvere dorata che ricoprì il suo cuore e lo riempì di felicità.

Oggi Pinocchio non ha più bisogno di andare a dondolarsi sull'altalena per sentirsi vicino al Padre che è nei cieli, ma ancora oggi i suoi bambini prima di addormentarsi alla sera vogliono ascoltare la stupenda avventura del loro papà e del "suo" angioletto.

angelo custodecoscienza

inviato da Luca Peyron, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

22. Father forgets   1

W. Livingstone Larned

Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormen­do con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte. Mi sono introdotto nella tua camera da solo: pochi minuti fa, quando mi sono se­duto a leggere in biblioteca, un'ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.

E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.

A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto: hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo. Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai comin­ciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: «Ciao, papino!» e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: «Su diritto con la schiena!». E tutto è ricominciato da capo nel tardo pome­riggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze buca­te. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura. Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell'offesa subita? Quando ho alzato gli occhi dal giornale impaziente per l'interruzione sei rimasto esitante sulla porta. "Che vuoi?", ti ho aggredito brusco. Tu non mi hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l'affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale. Be', figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un'angoscia terri­bile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando a tro­vare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? Nient'altro per stanotte, figliolo. Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergo­gna.

E' una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani sarò per te un vero papà. Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripeter­mi, come una formula di rito: «E' ancora un bambi­no, un ragazzino!». Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei an­cora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa della spalla. Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.

paternitàmaternitàaffettotenerezzabambinipretesefamigliagenitorieducatorieducare

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

23. Il cuore di Dio   2

Bruno Ferrero, Solo il vento lo sa

Una catechista aveva raccontato ai suoi ragazzi del catechismo la parabola del figliol prodigo, ma si era accorta che dopo un po' molti si erano distratti. Allora aveva chiesto che gliene scrivessero il riassunto.

Uno di loro scrisse così: «Un uomo aveva due figli, quello più giovane però non ci stava volentieri a casa, e un giorno se ne andò via lontano, portando con sé tutti i soldi. Ma ad un certo punto questi soldi finirono e allora il ragazzo decise di tornare a casa perché non aveva neanche da mangiare. Quando stava per arrivare, suo padre lo vide e tutto contento prese un bel bastone e gli corse incontro. Per strada incontrò l'altro figlio, quello buono, che gli chiese dove stava andando così di corsa e con quell'arnese: "E' tornato quel disgraziato di tuo fratello; dopo quel che ha fatto si merita un bel po' di botte!". "Vuoi che ti aiuti anch'io, papà?". "Certo", rispose il padre.

E così, in due, lo riempirono di bastonate. Alla fine il padre chiamò un servo e gli disse di uccidere il vitello più grasso e di fare una grande festa, perché s'era finalmente tolto la voglia di suonargliele a quel figlio che gliel'aveva combinata proprio grossa!».

Capire la logica del cuore di Dio è difficile per tutti.

perdonomisericordia di Dioamore di Dio

inviato da Immacolata Chetta, inserito il 29/05/2002

RACCONTO

24. La storia di Mark

Mark Eklund era in terza elementare e io insegnavo al Saint Mary's School a Morris, Minnesota. Ero affezionata a tutti e 34 i miei studenti, ma Mark era uno su un milione. Molto ordinato e preciso in apparenza, ma aveva quell'atteggiamento di essere-felice-di-vivere (happy-to-be-alive attitude) che faceva perfino la sua occasionale birbanteria deliziosa.

Mark parlava incessantemente. Dovevo ricordargli sempre che parlare senza permesso non era accettabile. Ciò che mi impressionava tanto, però, era la sua sincera risposta ogni volta che io dovevo correggerlo per cattivo comportamento: "Grazie per avermi corretto, Sorella!". All'inizio non sapevo cosa fare, ma dopo poco mi abituai a sentirlo molte volte al giorno.

Una mattina la mia pazienza era diventata sottile quando Mark parlò una volta di troppo, ed io commisi un errore da insegnante principiante. Guardai Mark e dissi, "Se dici ancora una parola, ti chiuderò le labbra con il nastro"! Passarono dieci secondi quando Chuck rivelò: "Mark sta parlando ancora." Io non avevo chiesto a nessuno degli studenti di aiutarmi a guardare Mark, ma dovetti punirlo davanti alla classe.

Ricordo la scena come se fosse successa questa mattina. Camminai verso la mia scrivania, aprii intenzionalmente il mio cassetto e tirai fuori un rotolo di nastro adesivo. Senza dire una parola, mi avvicinai al banco di Mark, strappai due pezzi di nastro e feci con essi una grande X sulle sue labbra. Poi tornai all'inizio della stanza. Mentre lanciai un'occhiata per vedere cosa stava facendo, lui mi strizzò l'occhio. Ciò fece! Io iniziai a ridere. La classe si rallegrò e applaudì. Tornai al banco di Mark, tolsi il nastro, e feci spallucce. Le sue prime parole furono: "Grazie per avermi corretto, Sorella."

Alla fine dell'anno, fui richiesta per insegnare alla classe di matematica della scuola media. Gli anni volarono, e presto seppi che Mark era ancora nella mia classe. Era più carino che mai e cosi educato. Poiché lui doveva mettere in lista attentamente le mie istruzioni sulla "nuova matematica", non parlò cosi tanto come aveva fatto in terza. Un venerdì le cose non andavano molto bene. Avevamo lavorato duramente su un nuovo concetto tutta la settimana e avevo la sensazione che gli studenti fossero accigliati, frustrati con se stessi e nervosi gli uni con gli altri. Dovevo fermare questo prima che mi sfuggisse di mano.

Così chiesi a loro di fare una lista con i nomi degli altri studenti nella stanza su due fogli di carta, lasciando uno spazio tra ogni nome. Poi dissi loro di pensare alla cosa più simpatica che potessero dire riguardo ad ognuno dei loro compagni di classe e di scriverla. Per finire il compito, la classe prese il resto del tempo e quando gli studenti lasciarono la stanza, ognuno mi passò il foglio. Charlie sorrise. Mark disse: "Grazie per avermi insegnato, Sorella. Buon fine settimana". Quel sabato annotai il nome di ogni studente su un foglio di carta separato, e misi in lista ciò che ognuno aveva detto di quella persona. Il lunedì diedi ad ogni studente il suo o la sua lista.
Dopo poco, l'intera classe stava sorridendo.
"Davvero?", sentii bisbigliato.
"Non sapevo di significare qualcosa per qualcuno!".
"Non sapevo di piacere cosi tanto agli altri".
Nessuno menzionò mai quei fogli ancora in classe.
Non sapevo se loro li avessero discussi dopo la classe o con i loro genitori, ma ciò non importava.
L'esercizio aveva raggiunto il suo scopo. Gli studenti erano ancora felici con se stessi e gli uni con gli altri. Il gruppo di studenti si era rimesso in marcia.

Diversi anni più tardi, dopo che tornai dalle mie vacanze, i miei genitori mi vennero incontro all'aeroporto. Quando stavamo guidando verso casa, mia Madre mi chiese le solite domande sulla gita, sul tempo, le mie esperienze in generale. Ci fu una pausa nella conversazione. Mia madre diede a mio padre un'occhiata di lato e disse semplicemente: "Papà?". Mio padre si schiarì la gola come faceva di solito prima di qualcosa importante. "Gli Eklunds hanno chiamato la notte scorsa", iniziò. "Davvero?" dissi. "Non li avevo sentiti per anni. Mark come sta?". Mio Padre rispose in modo sommesso: "Mark è stato ucciso in Vietnam", disse. "I funerali sono domani, e i suoi genitori vorrebbero che tu fossi presente". Da quel giorno posso ancora indicare il punto esatto sulla I-494 dove mio Padre mi disse di Mark.

Non avevo mai visto prima un militare in una bara militare. Mark appariva così carino, così maturo. Tutto ciò che potevo pensare in quel momento era: "Mark, darei tutto il nastro adesivo del mondo se solo tu potessi parlarmi". La chiesa era affollata di amici di Mark. La sorella di Chuck canto "L'inno di Guerra della Repubblica". Perché doveva piovere nel giorno dei funerali? Era già difficile così! Il pastore disse le solite preghiere e il trombettiere suonò i colpi. Uno dopo l'altro quelli che amavano Mark si misero in cammino verso la bara e la bagnarono con l'acqua santa. Io fui l'ultima a benedire la bara.
Mentre stavo in piedi, uno dei soldati che avevano portato la bara salì verso di me.
"Era lei l'insegnante di matematica di Mark?" mi chiese.
Io feci cenno di sì con il capo mentre continuavo a fissare la bara.
"Mark ha parlato molto di lei", lui disse.
Dopo il funerale, quasi tutti i vecchi compagni di classe di Mark si diressero alla fattoria di Chuck per il pranzo. La madre e il padre di Mark erano lì; ovviamente mi aspettavano.
"Vogliamo mostrarle qualcosa", suo padre disse, estraendo un portafoglio dalla sua tasca. "Hanno trovato questo su Mark quando fu ucciso. Pensiamo che lei possa riconoscerlo".

Aprendo il portafoglio, con attenzione tolse due pezzi logori di carta di taccuini che erano stati evidentemente legati, piegati e ripiegati molte volte. Sapevo senza guardare che i fogli erano quelli sui quali avevo messo in lista tutte le cose buone che ogni compagno di classe di Mark aveva detto su di lui.

"Grazie tanto per aver fatto ciò", disse la madre di Mark. "Come può vedere, Mark lo ha apprezzato molto".

I compagni di classe di Mark iniziarono a radunarsi intorno a noi.
Charlie sorrise in modo piuttosto imbarazzato e disse: "Io ho ancora la mia lista. E' nel primo cassetto della mia scrivania a casa".
La moglie di Chuck disse: "Chuck mi ha chiesto di mettere la sua nell'album del matrimonio".
"Anch'io ho la mia", disse Marilyn. "E' nel mio diario."
Poi Vicki, un'altra compagna di classe, raggiunse la sua borsetta, prese il suo portafogli e mostrò la sua consumata e logora lista del gruppo. "Io porto questa con me sempre", disse Vicki senza battere ciglio.
"Penso che tutti noi abbiamo salvato la nostra lista".
Qui fu quando alla fine mi sedetti e piansi.
Piansi per Mark e per tutti i suoi amici che non lo avrebbero mai più visto.

La densità delle persone nella società è cosi spessa che dimentichiamo che la vita finirà un giorno. E non sappiamo quando quel giorno sarà. Così per favore, dì alle persone che ami e a cui vuoi bene che sono molto speciali ed importanti. Diglielo, prima che sia troppo tardi.

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La storia dà anche l'idea per un'attività molto carina che si può fare con ragazzi ed adolescenti: come ha fatto l'insegnante di Mark, fate scrivere ad ognuno qualcosa di simpatico o di bello su ognuno degli altri componenti del gruppo, e poi date ad ognuno i suoi foglietti, oppure fateli leggere tutti ad alta voce.

E' un'attività che può andare molto bene sopratutto con gli adolescenti (ma può andare anche con i ragazzi) in quanto spesso hanno "crisi d'identità", o comunque non hanno una sufficiente autostima: il sentirsi dire cose simpatiche o comunque belle sul proprio conto può essere una buona iniezione di fiducia ed autostima.

Inoltre, aiuta tutti a guardare ad ognuno degli altri componenti del gruppo in modo positivo, e questo è ottimo per due motivi: innanzitutto fa fare lo sforzo di pensare a tutti gli altri, quando invece spesso qualcuno è messo da parte e non lo si considera mai; in secondo luogo, fa pensare agli altri in modo positivo, e anche questa è una cosa molto buona.

amiciziaamoreimportanza del singolocomplimentibontàconoscenzapositivopositività

5.0/5 (2 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 24/05/2002

RACCONTO

25. Una viola al Polo Nord

Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi

Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
- Che sia arrivata qualche spedizione?

Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava. di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria perché quello era il suo dovere.

- Mamma, papà - gridarono gli orsacchiotti.
- Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano - fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. - E secondo me non è un pesce.
- No di sicuro - disse l'orsa maggiore -, ma non è nemmeno un uccello.
- Hai ragione anche tu - disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più di lontano ancora volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.

- Per mandare tanto profumo - disse una foca - deve avere una riserva sotto il ghiaccio.
- Io l'avevo detto subito - esclamò l'orso bianco - che c'era sotto qualcosa.

Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava. Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.

- Ne sappiamo quanto prima - osservò la foca. - Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui! Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa.
- Come ha detto che si sente? - domandò l'orso bianco a sua moglie.
- Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare.
- Ecco - esclamò l'orso bianco - proprio quello che penso anch'io.

Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sul suo stelo, perdere il colore e la vita.

Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressappoco questo:

- Ecco, io muoio... Ma bisognava pure che qualcuno cominciasse... Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole case e bambini.

responsabilitàimportanza del singolo

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

26. Spiritualità come risveglio

Anthony De Mello

Un tale bussa alla porta di suo figlio: "Paolo", dice, "svegliati!".
Paolo risponde: "Non voglio alzarmi, papà".
Il padre urla: "Alzati, devi andare a scuola".
Paolo dice: "Non voglio andare a scuola".
"E perché no?" chiede il padre.

"Ci sono tre ragioni", risponde Paolo. "Prima di tutto, è una noia; secondo, i ragazzi mi prendono in giro; terzo, io odio la scuola".

E il padre dice: "Bene, adesso ti dirò io tre ragioni per cui devi andare a scuola: primo, perché è tuo dovere; secondo, perché hai quarantacinque anni, e terzo, perché sei il preside".

spiritualitàconsapevolezzaresponsabilità

4.0/5 (1 voto)

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

27. Un lampo

Piero Gribaudi, Bimbi del Vangelo

Quando vide che il tramonto stava dipingendo di viola le nubi, Eleazar si accorse, come ridestandosi da un sogno, di averla fatta grossa. Che cosa avrebbe detto a casa? Gli avrebbero creduto? Ma soprattutto che cosa avrebbero mangiato, quella sera, il babbo e la mamma?

Fu quest'ultimo pensiero a spingerlo di corsa verso i 12 canestri allineati accanto a un pozzo abbandonato. Vuoti! Vuoti anch'essi come la sua bisaccia, che sentiva rendergli sul fianco floscia come un pensiero inutile.

La sua bisaccia che poche ore prima conteneva un tesoro: cinque pani e due grandi pesci essiccati.

Che cosa era successo? Perché si era prestato con tanta spontaneità, lui - l'unico che avesse con sé un po' di cibo - a quell'incredibile gioco cui aveva assistito con stupore, gioia, emozione, sino a dimenticare il correre del tempo?

Stentava ancora a raccapezzarsi, in quel susseguirsi di eventi: la richiesta del suo prezioso cibo da parte dei discepoli di Gesù, il suo sì immediato, e poi il movimento continuo della mano del Rabbi nell'estrarre dalla sua bisaccia quel che non poteva contenere: migliaia di pani, migliaia di pesci, a saziare le migliaia di persone tra le quali si era infilato anche lui quasi per caso, per curiosità, per udire parole che solo in parte aveva capite ma che gli erano scese nel cuore come il più squisito dei cibi.

E poi, quell'allegro desinare in gruppi a forma di aiuole di cinquanta, cento persone, rese un po' ebbre dell'abbondanza del cibo spirituale e di quello materiale; al punto che il Rabbi, vedendo lo spreco dei rifiuti nell'erba, aveva ordinato di raccoglierli in dodici cesti.

Tutto straordinario, incredibile, quasi magico. Ma la conclusione? Lui, che pure si era saziato, aveva completamente dimenticato i suoi cinque pani e i suoi due pesci.

Ce n'erano talmente tanti! Ce n'erano, appunto... Ma adesso, che tutti se n'erano andati, pure i cesti degli avanzi erano stati svuotati. E lui che era costretto a tornare a casa a raccontare cose dell'altro mondo, però a mani vuote.

A Eleazar venne un groppo in gola, un grosso nodo di pianto e rabbia. E diede un gran calcio all'ultimo cesto. Vide così, acceso dall'ultimo raggio dell'ultimo sole, un piccolissimo lampo. Gli si avvicinò.

Era un pesciolino non più lungo del suo mignolo, rimasto incastrato fra le maglie del cesto. Lo raccolse, e fu allora che notò una formica trascinare una mollica di pane dieci volte più grande di lei.

Raccolse anche la mollica. Forse, mostrando a casa quei minuscoli avanzi, avrebbe potuto illustrare meglio tutte le meraviglie cui aveva assistito. Ne era assai poco convinto, Eleazar, ma tentar non nuoce.

Fu così che lo avrete già capito, Eleazar trasse quella sera a casa, sul povero tavolo disadorno, di fronte alle ghirlande di occhi dei fratellini e di mamma e papà, non uno ma diecimila pesciolini piccini e diecimila briciole di pane.

Sinché il tavolo fu colmo sino al soffitto, e i pesciolini scivolavano a terra e ai piedi del tavolo si moltiplicavano pure i gatti e le galline facendo un gran chiasso.

Alla fine, smise di affondare la mano nella bisaccia, perché le dita gli dolevano, il sole era ormai alto, i fratellini dormivano per la grande abbuffata. Mamma e papà continuavano a chiedergli di quell'uomo, Gesù, e di quale magia avesse fatto lui, il loro figliolo generoso e distratto. E lui non sapeva che rispondere, se non con un sorriso.

condivisione

inviato da Stefania Raspo, inserito il 07/05/2002

RACCONTO

28. Perché avete paura?   2

Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù?

Era una famigliola felice e viveva in una casetta di periferia. Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.

Mentre le fiamme divampavano. genitori e figli corsero fuori. In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni. Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore.

Che fare? Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare. Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile... E i vigili del fuoco tardavano.

Ma ecco che lassù, in alto, s'aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò, urlando disperatamente: "Papà! Papà!".
Il padre accorse e gridò: "Salta giù!".

Sotto di sè il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma senti la voce e rispose: "Papà, non ti vedo...".
"Ti vedo io, e basta. Salta giù!", urlò, l'uomo.

Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.

Non vedi Dio. Ma Lui vede te. Buttati!

abbandonofedefiducia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 07/05/2002

RACCONTO

29. Guardando dalle mura   3

«Chi sono io?» chiese un giorno un giovane a un anziano.

«Sei quello che pensi», rispose l'anziano «Te lo spiego con una piccola storia.»

Un giorno, dalle mura di una città, verso il tramonto si videro sulla linea dell'orrizzonte due persone che si abbracciavano.

- Sono un papà e una mamma -, pensò una bambina innocente.
- Sono due amanti -, pensò un nuomo dal cuore torbido.
- Sono due amici che s'incontrano dopo molti anni -, pensò un uomo solo.
- Sono due mercanti che han concluso un buon affare -, pensò un uomo avido di denaro.
- E' un padre che abbraccia un figlio di ritorno dalla guerra -, pensò una donna dall'anima tenera.
- Sono due innamorati -, pensò una ragazza che sognava l'amore.
- Chissà perché si abbracciano -, pensò un uomo dal cuore asciutto.
- Che bello vedere due persone che si abbracciano -, pensò un uomo di Dio.

«Ogni pensiero» concluse l'anziano, «rivela a te stesso quello che sei. Esamina di frequente i tuoi pensieri: ti possono dire molte più cose su te di qualsiasi maestro.»

conoscersinon giudicaregiudiziopensiericomportamenti

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 30/04/2002

RACCONTO

30. La scatola dei baci   4

La storia ha inizio tempo fa, quando un uomo punisce sua figlia di 5 anni per la perdita di un oggetto di valore ed il denaro in quel periodo era poco. Era il periodo di Natale, la mattina successiva la bambina portò un regalo e disse: "Papà è per te".

Il padre era visibilmente imbarazzato, ma la sua arrabbiatura aumentò quando, aprendo la scatola, vide che dentro non c'era nulla. Disse in modo brusco: "Non lo sai che quando si fa un regalo, si presuppone che nella scatola ci sia qualcosa?".

La bimba lo guardò dal basso verso l'alto e con le lacrime agli occhi disse: "Papà,... non è vuoto. Ho messo dentro tanti baci fino a riempirlo".

Il padre si sentì annientato. Si inginocchiò e mise le braccia al collo della sua bimba e le chiese perdono.

Passò del tempo e una disgrazia portò via la bambina. Per tutto il resto della sua vita, il padre tenne sempre la scatola vicino al suo letto e quando si sentiva scoraggiato o in difficoltà, apriva la scatola e tirava fuori un bacio immaginario ricordando l'amore che la bambina ci aveva messo dentro.

...ognuno di noi ha una scatola piena di baci e amore incondizionato, dei nostri figli, degli amici e soprattutto di Dio. Non ci sono cose più importanti che si possano possedere!!!

amoreaffettofamiglia

5.0/5 (3 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 08/04/2002

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