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ESPERIENZA

1. Gli angeli sulla terra   2

Roxsana Chavez

Era stata una giornata molto faticosa, avevo finito il mio lavoro con i malati e mentre mi preparavo per tornare a casa, passando per l'UTIC (Unità di Terapia Intensiva Cardiovascolare) vidi una signora abbastanza giovane che piangeva sconsolatamente era da sola in quel momento, io non potevo passare indifferente, senza pensare due volte mi avvicinai e le chiesi se potevo fare qualcosa per aiutarla, mi disse di no: "Mio marito ha avuto un infarto, è stato sottoposto ad un intervento e adesso non mi lasciano entrare per vederlo, vorrei solo sapere come sta".

Mi offrii di entrare nel reparto e chiedere di lui, m'informarono che l'intervento era andato bene ma che era ancora addormentato, chiesi poi se potevo avvicinarmi e cosi feci, quando mi avvicinai, vidi che si trattava di un signore molto giovane che non passava i cinquanta, era pieno di tubi come si è di solito dopo un intervento al cuore; mentre lo guardavo lui aprì gli occhi e mi chiese "come sto?", io sorridendo gli risposi "bene", e lui dopo qualche secondo richiuse gli occhi.

Uscendo dal reparto riferii alla moglie quello che mi avevano detto e che per il momento non erano possibili le visite, la invitai ad avere pazienza e fiducia e me ne andai.

Passati alcuni giorni, io avevo dimenticato l'accaduto, mentre portavo la comunione nel reparto di cardiologia, ricordai quello che era successo e cosi entrai nella stanza e vide un signore giovane che parlava allegramente con un altro, era lui! lo trovavo abbastanza bene, mi avvicinai per salutarlo e lui sorpreso mi disse: sei tu! Allora era vero, pensavo che fosse stato un angelo, tutta di bianco e con un sorriso mi credevo in paradiso... ci facemmo una risata tutti tre.

Ho la certezza che gli angeli esistono, ma ricordando le parole di quell'uomo mi chiedevo se esistono gli angeli sulla terra.

La domanda di Javhé a Caino "Dove è tuo fratello?" ci mette di fronte ad una realtà molte volte non riconosciuta, anzi non accettata per gli esseri umani, ma che senza dubbio dovrà rispondere alla fine dei tempi, in conseguenza ognuno di noi è custode di un altro, cioè di chi è accanto a noi, e se questo è cosi gli angeli sulla terra sono coloro che si prendono questa responsabilità con coraggio e disinteressatamente, e nella misura in cui noi siamo consapevoli e percepiamo questa missione che ci è stata donata allora diventiamo angeli anche noi.

Gli angeli non possono essere persone qualsiasi, hanno un volto distinto, i gesti sono diversi, le loro parole parlano di cose che sempre lasciano un tocco speciale nel cuore dell'altro, trasmettono la pace, la gioia, ma non come quella del mondo, vedono il mondo diversamente da come la vediamo noi, non si fermano soltanto a contemplare il negativo, anzi lo trasformano e possono trovare anche nel brutto cose belle e positive che riempiono nostri cuori di speranza.
Gli angeli della terra sono come le api che stanno in ogni luogo ma quando si fermano su un'anima, lasciano il dolce miele.
Gli angeli vedono il volto di Cristo in qualsiasi persona senza dar peso a colore, razza, atteggiamento, carattere, simpatia o antipatia, ecc.
Gli angeli non sanno far altro che amare.
Gli angeli sono capaci d'intuire un pericolo e ti guidano con sani consigli perche tu non cada e ti faccia male, ti dicono tuoi errori in faccia e ti rimproverano quando è necessario.
Gli angeli sanno aspettare con pazienza, tolleranza e misericordia che tu possa cambiare per migliorare tua vita.
Gli angeli sulla terra non temono di perdere il tempo per offrirlo a qualcuno, perché considerano più importante il tempo donato che il tempo per loro stessi.
Gli angeli sono accanto a te, certe volte consolandoti, rianimandoti, spesso in silenzio pregando per te.
Angelo sulla terra sei anche tu quando non pensi a te stesso e piuttosto esci da te per andare incontro a qualcuno morendo a te stesso. Gli angeli sulla terra sono veri figli di Dio.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Roxsana Chavez, inserito il 13/12/2011

ESPERIENZA

2. Testimonianza cristiana

Mimì Fazioli

"La santità non è un lusso per qualcuno, ma una necessità per tutti". Così suggeriva Madre Teresa di Calcutta.

Dieci giorni sono già trascorsi di questo mese di ottobre, cioè un terzo del mese è volato via velocemente e... forse io sono ancora meno cristiano di prima!

Dieci giorni sono passati: come foglie secche portate dal vento dei rimpianti o, piuttosto, come frutti dolci e saporiti depositati nella memoria delle cose buone e preziose realizzate?

I giornali ci relazionano spesso del RIS di Parma sempre in cerca di impronte importanti per incastrare colpevoli o per scagionare innocenti. E noi cristiani quali impronte sensibili lasciamo intorno a noi?

Un saggio, ironicamente, avverte: se mi dovessero condannare perché cristiano autentico, quali prove concrete troverebbero per poterlo fare?

San Benedetto ci ha insegnato che ogni nostra giornata deve essere caratterizzata da una doppia impronta quella dell'ora et labora" e san Francesco, appena pochi giorni fa, ci ha invitato a segnare i nostri passi lasciandoci dietro, sempre, una lunga e indelebile scia di pace e di bene.

Sia questo per me, per tutti un impegno concreto, un programma quotidiano, la testimonianza più bella e sincera!

testimonianzasantitàessere cristiani

5.0/5 (1 voto)

inviato da Mimì Fazioli, inserito il 05/12/2009

ESPERIENZA

3. Andate in missione per cercare luoghi e modi per dare la vita

Roberta Pignone

Questo titolo un po' strano è quello che meglio descrive il mio viaggio in Bangladesh fatto proprio lo scorso settembre. Fin dall'inizio del mio cammino di preparazione al PIME, iniziato lo scorso ottobre, ho sempre avuto come motivazione principale quella di scoprire cosa avrei potuto fare come medico in una Missione.

E così mi sono completamente affidata a questo cammino, io ho deciso di parteciparvi, tutto il resto mi è stato donato.

Nel mese di aprile ho saputo che la mia destinazione sarebbe stata il Bangladesh.

Non sapevo nulla di questo paese, solo che è il più povero del mondo...

Sono partita per questa esperienza caricata molto positivamente, la gioia e la curiosità erano davvero grandi, ma avevo anche un po' di paura. Le aspettative erano molte ma ho voluto un po' accantonarle dicendo: "Lascio al Signore di decidere quello che vorrà donarmi con questa esperienza".

Al momento della partenza sapevo solo che io, a differenza delle due ragazze che sono partite con me, sarei stata da sola in un'altra missione più a nord del paese, dove mi aspettava il lavoro in un dispensario.

Il primo impatto all'arrivo a Dahka è stato davvero traumatico, la prima sera i miei sentimenti e le emozioni erano incontrollabili continuavo a ripetermi: Perché sono qui? Non potevo seguire i consigli di chi mi ha sempre un po' scoraggiato in questo viaggio?!. Ma chi me lo ha fatto fare? Voglio tornare a casa!

Dahka è una città lasciata a metà, tutto è stato iniziato ma ben poco è stato portato a termine, grande caos, forti rumori, traffico peggio che a Milano, odori nauseabondi...

Ma in fondo la mia destinazione era un piccolo villaggio del nord, questo mi faceva avere la speranza che le cose sarebbero cambiate.

Dopo due giorni ho raggiunto Boldipukur, la mia piccola e accogliente missione. Le case diroccate hanno lasciato spazio al verde che è la nota caratteristica del B, qua la gente vive nelle capanne in mezzo alla natura, proprio intorno alla missione.
Uno spettacolo meraviglioso!

Così le angosce e le paure che mi avevano accompagnato fino a quel momento hanno lasciato spazio ad una sensazione di pace. Sono stata ospite di una piccola comunità di cinque suore, tre bengalesi e due italiane, suor Eleonora e suor Mariangela. Mi sono sentita subito ben accolta, mi sentivo come a casa mia.

A differenza di Dahka dove sono stata solo spettatrice di un mondo che sentivo estremamente estraneo a me e anche un po' ostile, in questo ambiente sono dovuta scendere allo scoperto, entrando nella quotidianità di questa gente, nelle loro case, nelle loro vite.

Sono entrata con timore, quasi in punta di piedi per non voler far notare troppo la differenza e mi sono scontrata subito con una povertà che disarma e fa cadere tutte le certezze.

Appena arrivata in missione mi hanno mostrato la mia camera e subito mi ha colto una sensazione di disagio: non funzionava il ventilatore, assolutamente necessario per affrontare alcuni momenti della giornata, e l'acqua che scendeva dal mio rubinetto era arancione. "Voglio tornare a casa" e il solito "Chi me lo ha fatto fare?!".

In risposta a queste mie domande mi hanno portato a fare un giro nel villaggio appena fuori le mura della missione e ho visto gente che vive nelle capanne, in una unica stanza c'è tutto e soprattutto nessuna comodità, niente ventilatore, niente acqua corrente, solo la luce per chi è fortunato.

La povertà che ho incontrato nel piccolo villaggio è diversa da quella di Dahka, è una povertà dignitosa, hanno davvero poco per il loro sostentamento, ma quel poco lo condividono.

Ho voluto conoscere la realtà della Sanità in B, suor Mariangela si è fatta carico di questa cosa e mi ha fatto vedere tutto quello che le era possibile, portandomi da una cittadina all'altra, consapevole che di fronte ad alcune realtà sarei rimasta senza parole.

Così ho visitato l'ospedale governativo di Rangpur, la città più grande vicino alla mia missione, una decina di chilometri, penso che le parole non riescano a rendere il significato di quello che ho visto: non credevo di essere in un ospedale. La struttura è fatiscente, mi verrebbe da paragonarla alla stazione centrale, ogni angolo di corridoio o di scala è utilizzato come bagno o spazzatura. Nel reparto di chirurgia generale, uno stanzone enorme nel quale sono ricoverati una cinquantina di persone, uomini e donne insieme, chi su di un letto dalle lenzuola putride, chi addirittura per terra adagiato su delle coperte di lana anch'esse molto sporche. Ogni paziente ha al suo fianco la famiglia per qualsiasi necessità, l'ospedale non dà cibo, ma nemmeno i farmaci necessari al ricovero. Tutto è a carico del paziente.

E' stato sufficiente vedere quel reparto per chiedere alla suora di portarmi via, non volevo veder più nulla e nel cuore la speranza che non succeda mai nulla per cui i missionari abbiano bisogno di un ricovero urgente.

La speranza si è accesa quando invece a Dinajpur ho visto l'ospedale gestito dai Missionari, una stretta al cuore, nella povertà e nella semplicità della struttura, riesco comunque a riconoscere un ospedale. Corridoi e stanze pulite, ognuno ha un proprio letto con lenzuola degne di essere chiamate tali.

L'esperienza comunque più significativa l'ho vissuta proprio al dispensario dove ho potuto agire direttamente.

Il dispensario raccoglie tutti i giorni dalle 100 alle 150 persone e più provenienti dai villaggi limitrofi, solo donne e bambini. Vi lavorano solo due suore infermiere, il numero di utenti sarebbe troppo alto con gli uomini.

Vengono fatte accomodare 5 o 6 persone tutte insieme e ognuno dice apertamente il proprio problema, non esiste certo la legge sulla privacy.

Così le suore gestiscono i loro pazienti, ascoltandoli, facendo diagnosi, consigliando terapie con farmaci che loro stessi devono pagare. E non si può certo eccedere con i farmaci, dipende da quanti soldi può offrire il paziente.

I primi giorni mi domandavo che senso avessero tali terapie che non duravano più di quattro giorni a dosi che da noi non utilizziamo nemmeno nei bambini. E ho fatto fatica a mettere da parte le mie conoscenze e le mie certezze per entrare in un'ottica che è completamente diversa dalla mia.

Ho subito pensato a come noi, facilmente, possiamo avere dei farmaci che ci aiutano e a quanti Km di strada devono fare loro per raggiungere il dispensario che copre un territorio vastissimo. Certo nei villaggi ci sono i loro dottori che nella maggior parte dei casi sono stregoni che impongono terapie che io non ho voluto nemmeno conoscere.

Certo che i ricordi sono davvero tanti e potrei stare raccontare per ore...

Prima di partire mi hanno consigliato di non andare a vivere un'esperienza di questo tipo con l'idea di andare a fare grandi cose, con l'idea di salvare il mondo, ma anzi, di lavorare poco e di guardare, ascoltare, imparare.

E così ho fatto, sono partita dicendo: "Non dirò di no a nulla e farò tutto quello che mi verrà proposto...".

Ora il sentimento che sento davvero forte nel mio cuore è quello della gratitudine, io non ho fatto assolutamente nulla in questa esperienza, ho solo ricevuto tanti doni.

E quello davvero più grosso è stato quello di una comunità accogliente che mi ha permesso di essere davvero libera di guardare, ascoltare, registrare tutto quello che veniva messo sul mio cammino.

Ho fatto migliaia di km per scoprire in terra straniera uomini e donne italiane, sì, i missionari!!

"Negli occhi una terra lontana, nel cuore una speranza, andare ai confini del mondo per far conoscere te" sono le parole di un canto che porto nel cuore da quando sono tornata e racchiudono davvero il senso del mio viaggio.

Porto nel cuore queste persone che mi hanno insegnato uno stile di vita davvero semplice e sobrio, il loro sguardo carico di amore, i loro sorrisi... riflesso di un amore più grande che li accompagna e li sostiene ogni giorno.

Non posso che chiedervi di pregare per queste persone perché possano davvero continuare questa grande opera che non è altro che la loro vita per Dio!

missionepovertàdonare

inviato da Mariangela Molari, inserito il 26/05/2002

ESPERIENZA

4. Ho regalato il Monte Bianco ad una signora antipatica

Quando ho raccontato l'episodio agli amici tutti hanno sentenziato che mi ero comportato da scemo. Poco male. Era già accaduto altre volte. E capiterà ancora. Stavolta però mi sentivo intimamente soddisfatto di essere stato stupido.

Dunque: mi presento all'aeroporto con discreto anticipo e riesco a farmi assegnare un posto per fumatori e, soprattutto, vicino all'oblò. Salgo sul DC9 dell'Alitalia, controllo: Sì il mio posto è proprio quello: 8E=WINDOW, vicino all'oblò. Un posto di osservazione stupendo, non disturbato dall'ala. Mi allaccio la cintura e guardo mi direzione del cielo. E' una giornata bellissima, il cielo terso, di un azzurro incredibile. La rotta prevede il passaggio delle Alpi, Monte Bianco incluso. Sarà uno spettacolo sensazionale, perfino la mia macchina fotografica sembra fremere d'impazienza.

A un tratto, una ruvida manata sulla spalla mi scuote dalla contemplazione. Una robusta signora che garganzza un tedesco aspro, mi ordina perentoriamente di sloggiare. Mi sventola sotto il naso, accompagnando il gesto con crepitio secco di parole-comandi, il suo biglietto. Do un'occhiata: 8C=AISLE. Non ci sono dubbi: è lei che deve accomodarsi sulla poltroncina che dà sul corridoio. Invece quella insiste per sistemarsi accanto all'oblò.

Mi viene voglia di invitare la signora, dal volto aggrondato e paonazzo, a studiare un po' l'inglese. Così, imparerà che "WINDOW" vuol dire finestrino (mio) e "AISLE" corridoio (suo). Mi vien voglia di buttarle in faccia - una faccia senza un tratto che la renda simpatica - che avere il marco forte non significa acquisire il diritto di essere prepotenti. Mi vien voglia di invocare l'intervento della hostess.

Ma improvvisamente mi vien voglia di essere stupido, di passare per cretino. Ed è quella che vince. Lascio il mio posto e mi accomodo in quello sgradito senza borbottare, anzi regalando un sorriso, non ricambiato naturalmente, alla usurpatrice che inalbera l'aria trionfante di chi ha fatto valere i suoi sacrosanti diritti.

Allorché sono alle viste le cime delle montagne ed il comandante invita ad ammirare la catena del Monte Bianco, il mio nemico-invasore scatta a ripetizione dozzine di foto, quasi con rabbia. Negli intervalli appoggia il testone rubizzo all'oblò, come per impedirmi il più fugace lampo azzurro, la più minuscola briciola di neve, il più piccolo frammento di ghiaccio. Ma io che avevo già deciso, senza pentimenti, di essere stupido fino all'ultimo, il cielo ce lo avevo dentro. Provavo una sensazione benefica di pace profonda, di compiaciuta soddisfazione. All'apparenza aveva vinto l'arroganza, La giustizia era stata calpestata dal sopruso. L'ignoranza villana aveva avuto il sopravvento.
Mi aveva rubato il Monte Bianco.

lo però non mi sentivo affatto sconfitto. Al contrario. Mi sorprendevo che le Grandes Jorasses rappresentassero uno spettacolo impagabile, ma la pace ha un valore superiore. Riflettevo che è meglio farsi dar ragione dal Vangelo piuttosto che da un miserabile biglietto con su stampigliato "E=WINDOWS". Beh mi rallegravo per il fatto che, in un pianeta incendiato in continuazione da troppe guerre e guerriglie, quel giorno io ero riuscito ad evitare un, se pur ridottissimo, conflitto.

Si. In terra e pure in cielo - eravamo a diecimila metri di quota - quel giorno una stupida e piccolissima guerra - ma anche le guerre di grosse dimensioni sono stupide - non era scoppiata soltanto perché uno scemo aveva compiuto, senza dire una parola, un gesto semplicissimo: spostarsi dì mezzo metro.

No. Non è stata la signora villana a rubarmi il Monte Bianco: gliel'avevo regalato io. Io ero più ricco di lei, anche se non potevo disporre del marco forte. Ciò che conta non è possedere la moneta forte, ne sapere quattro parole d'inglese: ma non avvelenare l'aria che tutti respiriamo con le nostre beghe meschine. E' possibile contemplare, anzi costruire un pezzetto di cielo, anche stando affacciati al corridoio...

Amico non aspettare che siano i furbi, gli arroganti, i prepotenti, a fare la pace. La pace, se mi credi, la fanno gli ingenui gli stupidi - stupidi secondo la mentalità corrente - ossia quelli capaci di spostarsi di mezzo metro per regalare un po' d'azzurro all'individuo titolare di un volto neppure troppo simpatico.

Non è il gesto dei vili, dei deboli. Per compierlo bisogna essere i più forti.

pacenon violenzaamare i nemiciperdono

5.0/5 (1 voto)

inviato da Maria Vitali, inserito il 30/04/2002