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RACCONTO

1. Disse un filo d'erba

Kahlil Gibran, Le parole non dette; Ed. Paoline, pag. 263-264

Disse un filo d'erba
a una foglia d'autunno:
«Fai un tale rumore, cadendo!
disperdi tutti i miei sogni
invernali».
Rispose, indignata, la foglia:
«Tu che sei nato in basso
e in basso vivi!
Piccola cosa stizzosa e senza suono!
tu non vivi nella regione
più elevata dell'aria
e non distingui la musica dei canti».
Poi la foglia d'autunno
giacque sulla terra
e si addormentò.
E quando venne la primavera si svegliò
ed era un filo d'erba.
E quando venne l'autunno e il sonno invernale
fu sopra di lei,
e su di lei
per tutta l'aria intorno
presero a cadere le foglie,
brontolò tra sé: «Queste foglie d'autunno!
Fanno un tale rumore!
Disperdono tutti i miei sogni
invernali».

criticagiudiziogiudicareuguaglianzamisericordiatolleranzaintolleranza

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 02/12/2017

RACCONTO

2. La volpe con la pancia piena

Esopo

L'inverno era ormai alle porte. Gli alberi privi di foglie non offrivano più alcun riparo ed i piccoli animali si erano già preparati ad affrontare il freddo. Una giovane volpe vagava solitaria in cerca di un po' di cibo con il quale placare quella fame terribile che l'aveva colpita. Erano molti giorni che non mangiava. Le sue abituali prede si erano rifugiate in caldi ripari nutrendosi con le scorte alimentari raccolte durante l'estate ed era impossibile stanarli. Così, il povero animale camminava sconsolato pensando che la fame era veramente una brutta nemica. All'improvviso, un profumo delizioso le stuzzicò le narici. La volpe si avvicinò al punto da cui si propagava l'inaspettata fragranza e finalmente vide un enorme pezzo d'arrosto premurosamente sistemato nell'incavo di una quercia. Sicuramente era il pranzo dimenticato da qualche pastore.

L'animale si intrufolò nella cavità della pianta, riuscendo ad entrarvi con molta fatica. Quando si trovò all'interno del buco poté placare la propria irresistibile fame, divorando la carne in un boccone. Trascorsi alcuni minuti, la volpe con la pancia spaventosamente piena, decise di uscire dall'incavo per tornare all'aperto. Ma appena tentò di oltrepassare il buco dal quale era entrata scoprì di non essere più in grado di superarlo! Aveva mangiato troppo ed era diventata molto più grossa rispetto a prima. Spaventatissima si sforzò cosi tanto per uscire che alla fine rimase irreparabilmente incastrata nella fenditura!

Lo sfortunato animale iniziò a gridare finché una seconda volpe passando la vide e saputo quanto accaduto disse: «E' inutile strillare. Avresti dovuto avere pazienza ed aspettare tranquilla all'interno della pianta fino a quando la tua pancia non diminuiva. Invece l'impulsività ti ha ridotto in questa condizione e dovrai comunque aspettare finché non smaltirai ciò che hai mangiato». Così, la povera volpe rimase incastrata nella cavità per più di un giorno, rimpiangendo il calduccio che avrebbe trovato se avesse aspettato paziente all'interno della quercia.

La pazienza e il tempo sono degli ottimi alleati per affrontare qualsiasi difficoltà.

pazienzaimpazienzatempo

inviato da Qumran2, inserito il 11/07/2017

RACCONTO

3. Le tre case   2

Bingo davvero, ed. Paoline

C'era una volta un uomo piccolo come la punta di un ago. Anzi, più piccolo ancora. Era piccolo, ma aveva una voglia matta di crescere! Pensa: dopo appena 15 giorni da quando aveva incominciato a vivere, era già 125 mila volte più grande. Incredibile!! Eppure proprio vero.

L'uomo abitava in una strana casa che girava per la città, correva, si piegava fino a terra; di notte, poi, si coricava e al mattino si alzava. La casa era interessante e tiepida, ma aveva un grande difetto: era tutta buia come un sacco chiuso. Là dentro non si poteva vedere niente: né formiche, né cavalli, né automobili.

"Basta, disse finalmente un giorno l'uomo, dopo nove mesi; basta: voglio uscire, voglio uscire...". Si mise a spingere...ed eccolo fuori! "Oh, finalmente posso correre, giocare, fare il bagno, nuotare...Altro che la casa di prima! Questa sì che è stupenda: qui c'è il sole, ci sono le piante, i fiori, la neve...".

Per ottant'anni l'uomo, tutte le mattine, alzava le braccia e diceva: "Che bella questa terra!". Era felice e contento. Però un giorno incominciò a diventare triste.

Vedeva che il sole tramontava e veniva la notte; le piante perdevano le foglie e diventavano brutte; i fiori diventavano fieno e la neve, fango. Allora si mise a sognare un'altra casa dove vi fossero tanti alberi verdi, i fiori rossi, la neve bianca e il sole splendente. Mentre pensava, morì. Tutti si misero a piangere..

Lui, invece, rideva! Vien da non credere, eppure lui rideva, rideva...

Sfido io! Appena morto, gli si spalancarono le porte di una casa dove c'erano cose che non ti puoi immaginare. Un Papà buono - un vero Amore! - lo abbracciò; una Mamma bella - una vera meraviglia! - lo baciò. Lo baciò e lo prese per mano: "Vieni a giocare con noi! Vedi, qui tutto è nuovo: la terra è nuova, le stelle sono nuove. Vieni!".

L'uomo non capiva più niente. "Ma non sono morto, io?". "No, no, gli gridarono milioni e milioni di voci: sei vivo, vivo per sempre!". Pazzo di gioia, l'uomo si mise a correre, a far capriole nei prati che non finivano mai, in mezzo ai fiori che non appassivano mai. "Qui son proprio a casa mia - gridava - a casa mia!".

Così finisce la storia delle tre case. Storia vera: storia mia e storia tua. Storia di tutti gli uomini che camminano su questa terra e, di tanto in tanto, guardano al cielo dove invece di piangere, tutti sono nella gioia accanto a Gesù, Maria e tutti i santi.

vitamortesantieternitàvita eternaparadisorinascerenascita

4.8/5 (6 voti)

inviato da Milena Pavan, inserito il 21/09/2012

RACCONTO

4. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

amoresacrificiodonazionedonareamicizia

5.0/5 (2 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

RACCONTO

5. Una nuvoletta in viaggio   2

In un giorno d'Autunno, il Vento soffiava dispettoso facendo volare le foglie. Una piccola Nuvoletta che stava passeggiando lì vicino, gli disse: "Ciao Vento, posso giocare con te?". Il Vento allora chiese: "Cosa potresti fare? Sai soffiare?". La nuvoletta ci provò: "...fff... fff... no non sono capace", disse sconsolata. Allora il Vento le rispose: "Tu non sei capace di soffiare come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò triste.

Più avanti incontrò l'Estate e il Sole splendeva luminoso nel cielo. Allora si avvicinò e disse: "Ciao Sole, posso giocare con te?". Ma il Sole seccato le rispose: "Non vedi che ti sei messa troppo vicina a me? Mi stai oscurando! Vattene via, tu non sei capace di splendere come me e nemmeno di creare calore!". E la Nuvoletta se ne andò sempre più triste.

Poco più in là c'era l'Inverno e la neve cadeva leggera, così la Nuvoletta si fermò e chiese: "Ciao Neve, posso giocare con te?". La Neve la squadrò dalla testa ai piedi e sussurrò: "Ma tu sei capace di far nevicare?". La nuvoletta ci provò e si sforzò talmente tanto che da grigia divenne nera, ma di Neve niente. "No, non credo di esserne capace", brontolò la nuvoletta emettendo un tuono. "Shhh!", la zittì la Neve, "allora non puoi aiutarmi. Io cado silenziosa, tu sei troppo rumorosa! Tu non sei capace di cadere leggera e coprire il paesaggio come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò ancora più triste.

Ormai era sconsolata, quando trovò la Primavera e sentì qualcuno piangere. Si chinò e vide un piccolo Fiorellino che singhiozzava disperato, allora si avvicinò e gli chiese il perché di tanta tristezza. E il Fiorellino rispose: "Ho sete, sto per morire, puoi aiutarmi?". "Non lo so, io non so fare quasi niente.., non so soffiare come il vento, non so splendere come il sole, non so cadere leggera come la neve, e nessuno mi vuole...". Così dicendo la Nuvoletta si mise a piangere e le sue lacrime diventarono tante gocce di pioggia, che dissetarono il Fiorellino. Da quel giorno la Nuvoletta e il Fiorellino diventarono molto amici e capirono di aver bisogno l'uno dell'altra per essere felici.

amiciziadiversitàreciprocità

3.7/5 (3 voti)

inviato da Caterina, inserito il 08/12/2009

RACCONTO

6. La fede   4

Bruno Ferrero, La vita è tutto ciò che abbiamo

I campi erano arsi e screpolati dalla mancanza di pioggia. Le foglie pallide e ingiallite pendevano penosamente dai rami. L'erba era sparita dai prati. La gente era tesa e nervosa, mentre scrutava il cielo di cristallo blu cobalto.

Le settimane si succedevano sempre più infuocate. Da mesi non cadeva una vera pioggia.

Il parroco del paese organizzò un'ora speciale di preghiera nella piazza davanti alla chiesa per implorare la grazia della pioggia.

All'ora stabilita la piazza era gremita di gente ansiosa, ma piena di speranza. Molti avevano portato oggetti che testimoniavano la loro fede. Il parroco guardava ammirato le Bibbie, le croci, i rosari. Ma non riusciva a distogliere gli occhi da una bambina seduta compostamente in prima fila. Sulle ginocchia aveva un ombrello rosso.

fedefiduciasperanzafiducia in Dio

5.0/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 17/07/2009

RACCONTO

7. Il macigno e il seme   4

Luigi Guglielmoni - Fausto Negri

«Guarda come sono forte» disse un grosso macigno a un piccolo seme.
Ciò detto si lanciò da un'altura abbattendo tutto ciò che incontrava: non si fermava davanti a nessun ostacolo e finì la sua corsa facendo un grosso buco nel terreno.
«Vedi - continuò il macigno - i miei risultati sono rapidi ed eclatanti».
Il seme sorrideva calmo. Una mano lo prese e lo seminò nel terreno. Anche il macigno fu sepolto dal vento sotto un manto di foglie di terra.
Passarono i giorni e dal seme nacque una spiga. Passò un anno e nacquero tante spighe. Dopo pochi anni, il macigno era sempre più sprofondato nel terreno mentre il seme era diventato un biondo campo di grano.
«Povero me», gemette il masso, «cosa ci sto a fare al mondo? Se qualcuno si ricorda di me, è solo per maledirmi. Come hai fatto ad essere tu il più forte?».
«Siamo forti tutti e due, ma di una forza diversa», rispose il seme.
«Tu hai bisogno di "spinte" per salire in alto, io mi affido ad una mano amica per scendere in un solco.
Tu fai molto rumore per essere vincente, io mi nascondo per crescere e lasciarmi mangiare.
Tu puoi servire al massimo per costruire archi di trionfo e lapidi da cimitero, io tolgo la fame e divento carne e sangue vitali.
Tu ti imponi con la tua mole, io attraggo per la mia bellezza.
Io sono piccolo ma ho una grande energia di dentro. Tu non puoi trascorrere una vita felice per il semplice motivo che in te non c'è neppure vita!».

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4.4/5 (5 voti)

inviato da Leonardo Salutati, inserito il 03/05/2009

RACCONTO

8. Il discepolo e i desideri negativi

Paulo Coelho, I racconti del maktub

Il discepolo disse al suo maestro: "Ho trascorso la maggior parte del giorno pensando cose che non avrei dovuto pensare, desiderando cose che non avrei dovuto desiderare e a preparare piani che non dovrebbero essere fatti". Il maestro invitò il discepolo a fare una passeggiata con lui nella foresta dietro la sua casa. Lungo il cammino, indicò una pianta, e chiese al discepolo se ne conoscesse il nome. "Belladonna", disse il discepolo. "Può uccidere chiunque mangi le sue foglie". "Ma non può uccidere nessuno che semplicemente la osservi", disse il maestro. "Allo stesso modo, desideri negativi non possono causare del male se non permetti a te stesso di esserne sedotto".

peccatotentazionedebolezza

inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002

RACCONTO

9. Ciò che il mare racconta di Dio

Dio è un mistero. Noi possiamo solo cercare di farcene un'immagine. Giovanni di Ruysbroek, quando pensava a Dio, pensava al mare.

Giovanni vive in Olanda, un paese piatto, piatto. Uomini pacifici coltivano i campi. Giovanni, però, vuole vivere solo per Dio e perciò abbandona la compagnia degli uomini e cerca la solitudine.

Per essere soli bisogna abitare vicino al mare, perché nessuno vuole vivere accanto alle dighe. Lì soffia sempre un forte vento e a volte onde alte scavalcano le barriere delle dighe. Proprio lì Giovanni si è ritirato per abitare in una semplicissima capanna.

La gente si meraviglia. A volte qualcuno viene a visitarlo e gli chiede: "Giovanni, ma che cosa fai da queste parti?". "Io cerco Dio e qui gli sono molto vicino, qui mi riesce facile pensare a lui" risponde.

"Noi pensiamo a Dio quando siamo in chiesa, lì abbiamo delle immagini di lui".
"Anch'io ho un'immagine di lui" dice Giovanni.
"Dov'è? Faccela vedere!".

Giovanni li conduce sulla diga. Il mare è calmo e si stende senza confine.

"Guardate, questa è la mia immagine di Dio: così è il Padre, infinitamente grande come questo mare!".

La gente rimane per molto tempo in silenzio. "Certo, lo vediamo - dice uno -, ma noi abbiamo anche immagini di Gesù; un artista le ha dipinte da poco sulla parete della nostra chiesa". "Se vi fermate fino a stasera, vi farò vedere la mia immagine di Gesù".

Dopo queste parole Giovanni si ritira nella sua capanna. I bambini giocano sulla spiaggia, gli adulti chiacchierano tra di loro. Però i loro sguardi si rivolgono continuamente verso il mare, verso il grande oceano.

La sera tutti vogliono entrare nella capanna di Giovanni. "Dov'è l'immagine di Gesù?".

Giovanni li porta di nuovo con sé allo stesso posto. Il mare è cambiato, è diventato irrequieto. È l'ora dell'alta marea e le onde salgono sempre di più. Una dopo l'altra, battono contro la diga, si accavallano, si infrangono e ritornano formando una bianca schiuma. Le dighe non sono chiuse completamente e l'acqua può entrare dappertutto e inondare la terra. Presto all'intorno tutto è coperto d'acqua.

Giovanni dice: "Adesso il mare non è più lontano. L'immenso oceano ha mandato le sue onde e l'acqua è entrata dappertutto. Anche Dio è così. Il Padre manda il Figlio. Questi bussa dappertutto e va alla ricerca di tutti".

Questa è un'immagine che la gente capisce. Sì, è proprio così; Gesù ha trovato la strada per venire incontro a ciascuno. Un grande silenzio si diffonde tra la folla.

Solo uno vuole porre un'ultima domanda: "Giovanni, possiedi anche un'immagine dello Spirito Santo?".

Giovanni sorride, perché proprio in quel momento l'acqua ha cominciato a muoversi di nuovo. I flutti che inondano la spiaggia cominciano a ritirarsi pian piano.

"Guardate che cosa succede adesso! Il mare torna indietro. E guardate, esso porta con sé foglie, legna, erba. Tutto viene afferrato dal mare e portato via, riportato nell'immenso mare. E questa è l'opera dello Spirito Santo. Ci afferra, ci porta con sé, ci riporta al Padre".

Tutto ritorna a Dio. Anche le persone che sono morte sono con lui.

Trinitàrapporto con DioDio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002

RACCONTO

10. L'albero generoso   1

Shel Silverstein

C'era una volta un albero che amava un bambi­no. Il bambino veniva a visitarlo tutti i giorni. Raccoglieva le sue foglie con le quali intrecciava delle corone per giocare al re della foresta. Si arram­picava sul suo tronco e dondolava attaccato ai suoi rami. Mangiava i suoi frutti e poi, insieme, giocava­no a nascondino.

Quando era stanco, il bambino si addormentava all'ombra dell'albero, mentre le fronde gli cantava­no la ninna-nanna. Il bambino amava l'albero con tutto il suo picco­lo cuore. E l'albero era felice. Ma il tempo passò e il bambino crebbe.

Ora che il bambino era grande, l'albero rimane­va spesso solo. Un giorno il bambino venne a vedere l'albero e l'albero gli disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami, mangia i miei frutti, gioca alla mia ombra e sii felice».

«Sono troppo grande ormai per arrampicarmi su­gli alberi e per giocare», disse il bambino. «Io vo­glio comprarmi delle cose e divertirmi. Voglio dei soldi. Puoi darmi dei soldi?».

«Mi dispiace», rispose l'albero «ma io non ho dei soldi. Ho solo foglie e frutti. Prendi i miei frutti, bambino mio, e va' a venderli in città. Così avrai dei soldi e sarai felice». Allora il bambino si arrampicò sull'albero, rac­colse tutti i frutti e li portò via. E l'albero fu felice.

Ma il bambino rimase molto tempo senza ritor­nare... E l'albero divenne triste.

Poi un giorno il bambino tornò; l'albero tremò di gioia e disse: «Avvicinati, bambino mio, arrampicati sul mio tronco e fai l'altalena con i miei rami e sii felice».

«Ho troppo da fare e non ho tempo di arrampi­carmi sugli alberi», rispose il bambino. «Voglio una casa che mi ripari», continuò. «Voglio una moglie e voglio dei bambini, ho dunque bisogno di una casa. Puoi darmi una casa?».

«Io non ho una casa», disse l'albero. «La mia ca­sa è il bosco, ma tu puoi tagliare i miei rami e cotruirti una casa. Allora sarai felice». Il bambino tagliò tutti i rami e li portò via per co­struirsi una casa. E l'albero fu felice.

Per molto tempo il bambino non venne. Quando tornò, l'albero era così felice che riusciva a mala­pena a parlare. «Avvicinati, bambino mio», mormorò, «vieni a giocare».

­Sono troppo vecchio e troppo triste per giocare» disse il bambino. «Voglio una barca per fuggire lontano di qui. Tu puoi darmi una barca?».

«Taglia il mio tronco e fatti una barca», disse l'albero. ­«Così potrai andartene ed essere felice».

Allora il bambino tagliò il tronco e si fece una bar­ca per fuggire. E l'albero fu felice..., ma non del tutto.
Molto molto tempo dopo, il bambino tornò ancora.

«Mi dispiace, bambino mio», disse l'albero «ma non resta più niente da donarti... Non ho più frutti».
«I miei denti sono troppo deboli per dei frutti», disse il bambino.
«Non ho più rami». continuò l'albero «non puoi più dondolarti».
«Sono troppo vecchio per dondolarmi ai rami», disse il bambino.
«Non ho più il tronco», disse l'albero. «Non puoi più arrampicarti».
«Sono troppo stanco per arrampicarmi», disse il bambino.
«Sono desolato», sospirò l'albero. «Vorrei tanto donarti qualcosa... ma non ho più niente. Sono solo un vecchio ceppo. Mi rincresce tanto...».
«Non ho più bisogno di molto, ormai», disse il bambino. «Solo un posticino tranquillo per sedermi e riposarmi. Mi sento molto stanco».
«Ebbene», disse l'albero, raddrizzandosi quanto poteva «ebbene, un vecchio ceppo è quel che ci vuo­le per sedersi e riposarsi. Avvicinati, bambino mio, siediti. Siediti e riposati».
Così fece il bambino.
E l'albero fu felice.

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inviato da Luca Mazzocco, inserito il 08/06/2002

RACCONTO

11. Il bambù

C'era una volta un bellissimo e meraviglioso giardino. Era situato ad ovest del paese, in mezzo al grande regno. Il Signore di questo giardino aveva l'abitudine di farvi una passeggiata ogni giorno, quando il caldo della giornata era più forte.

C'era in questo giardino un bambù di aspetto nobile. Era il più bello di tutti gli alberi del giardino e il Signore amava questo bambù più di tutte le altre piante.

Anno dopo anno, questo bambù cresceva e diventava sempre più bello e più grazioso. Il bambù sapeva che il Signore lo amava e ne godeva.

Un bel giorno, il Signore, molto in pensiero, si avvicinò al suo albero amato e l'albero, in grande venerazione, chinò la testa. Il Signore gli disse: "Caro bambù, ho bisogno di te". Sembrò al bambù che fosse venuto il giorno di tutti i giorni, il giorno per cui era nato. Con grande gioia, ma a bassa voce, il bambù rispose: "O Signore, sono pronto. Fa' di me l'uso che vuoi".

"Bambù", la voce del Signore era seria, "per usarti devo abbatterti". Il bambù fu spaventato, molto spaventato: "Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bel albero del tuo giardino? No, per favore, no! Fa' uso di me per la tua gioia, Signore, ma per favore, non abbattermi".

"Mio caro bambù," disse il Signore e la sua voce era più seria, "se non posso abbatterti, non posso usarti".

Nel giardino ci fu allora un grande silenzio. Il vento non tirava più, gli uccelli non cantavano più. Lentamente, molto lentamente, il bambù chinò ancora di più la sua testa meravigliosa poi sussurrò: "Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fa' di me quello che vuoi e abbattimi".

"Mio caro bambù," disse di nuovo il Signore "non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami. Se non posso tagliarli, non posso usarti".

Allora il sole si nascose e gli uccelli ansiosi volarono via. Il bambù tremò e disse appena udibile: "Signore, tagliali!".

"Mio caro bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore. Se non posso farti questo, non posso usarti". Il bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.

Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due e ne estirpò il cuore. Poi portò il bambù alla fonte di acqua fresca vicino ai suoi campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore dispose l'amato bambù a terra: un'estremità del tronco la collegò alla fonte, l'altra la diresse verso il suo campo arido.

La fonte dava acqua, l'acqua si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semente crebbe e il tempo della raccolta venne. Così il meraviglioso bambù divenne realmente una grande benedizione in tutta la sua povertà e umiltà.

Quando era ancora grande e bello e grazioso, viveva e cresceva solo per se stesso e amava la propria bellezza. Al contrario nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Suor Irina Mandro, inserito il 02/06/2002

RACCONTO

12. La storia dei colori

In principio i colori non esistevano, Dio aveva già creato il mondo, il cielo, il mare, le, montagne, le piante, i fiori e gli animali. Era tutto a posto, ma tutto in bianco e nero. La fantasia del Creatore però non poteva accontentarsi di un mondo così monotono e triste, e dal suo Amore fece esplodere la brillantezza del verde, lo splendore del giallo, la profondità del blu, il calore del rosso e tutti gli altri colori così belli e diversi che è impossibile descriverli.

Appena nati i colori erano pieni di entusiasmo e scorrazzavano felici a prendere posesso del creato, ma le cose non erano per niente semplici: l'azzurro riempì subito il cielo e il giallo colorò il sole, ma presto arrivò il grigio e li scacciò, portando un sacco di nuvole, poi cadde la notte e venne il blu e poi il nero. Il verde andò sulle foglie e sulle piante ma quando arrivò l'autunno dovette cedere il posto al giallo, al marrone, al rosso...

I colori cominciarono a litigare tra di loro, perché non erano capaci di stare insieme, ognuno voleva tutto per sé e non accettava le presenza degli altri: anche gli animali si trovavano a cambiare il colore della pelliccia o delle piume, con strani accostamenti oppure macchie e striature a causa della guerra tra i colori.

Poco alla volta la situazione peggiorò fino a diventare insostenibile: tutto cambiava di colore vorticosamente e non si poteva fissare gli occhi un attimo su qualcosa che subito cambiava di colore. I colori stessi, in origine così vivi e brillanti, avevano perso la loro bellezza e procuravano nausea.

"Ora basta! - disse il Padreterno - non posso lasciare il mondo in questo stato!", e con tutto l'impegno di cui era capace creò l'arcobaleno. Era più bello di qualunque cosa si potesse mai immaginare, e subito i colori smisero la loro folle giostra per fermarsi a contemplare la nuova creatura... poi tutti vollero farne parte, e con immensa meraviglia scoprirono che c'era un posto preciso per ciascuno: il rosso accanto al giallo, in mezzo l'arancione, poi il verde, l'azzurro il blu... con mille altre nuove sfumature una più bella dell'altra!

Era incredibile, ma i colori avevano fatto pace. Dopo la tempesta che aveva sconvolto il creato ora andavano tutti d'accordo, con gioia si cedevano il passo l'un l'altro, si prendevano per mano in accostamenti da sogno, si abbracciavano contenti per creare nuove tinte; il mondo era colorato dall'armonia dell'Amore.

Anche oggi i colori vivono in pace ed armonia; talvolta per ricordare l'origine della loro concordia (o per insegnarla ad altri) si riuniscono festanti nell'arcobaleno: la gioia dei nostri occhi e del nostro cuore, magico ponte che unisce il cielo e la terra, l'anima e il corpo, il passato e il futuro.

armoniapaceconviverecomunitàmulticulturalità

inviato da Mariangela Molari, inserito il 28/05/2002

RACCONTO

13. L'albero e gli occhiali

C'era una volta un giovane ramo di un grande albero. Era nato in primavera, tra il tepore dell'aria e il canto degli uccelli. In mezzo all'aria, alle lunghe giornate estive, al sole caldo, alle notti frizzanti, trascorse i suoi primi mesi di vita. Era felice: aveva foglie bellissime, e, poi, erano sopraggiunti fiori colorati ad adornano e, dopo ancora, grandi frutti succosi di cui tutti gli uccelli del cielo potevano nutrirsi.

Ma un giorno cominciò a sentirsi stanco: era settembre... I frutti si staccarono, le foglie cominciarono a cambiare colore divenivano sempre più pallide... Addirittura, di tanto in tanto il vento se ne portava via qualcuna. Venne la pioggia e poi l'aria fredda, e il ramo si sentiva sempre peggio: non capiva cosa stesse succedendo. In pochi giorni e in poche notti si trovò spoglio, infreddolito, completamente solo.

Rimase così qualche tempo fin quando non capì che non poteva far altro che mettersi a cercare i suoi fiori, le sue foglie, i suoi frutti per poter di nuovo stare insieme a loro. "Devo darmi da fare", disse risoluto tra sé e sé.

Cominciò allora, a chiedere aiuto a tutti i suoi amici. Si rivolse dapprima al Mattino: "Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sai dove le posso trovare?". Il Mattino rispose "Ci sono alberi che ne hanno tante, prova a chiedere a loro".

Si rivolse a quegli alberi: "Sono solo e infreddolito, ho perso tutte le mie foglie, sapete dirmi dove le posso trovare?". Gli alberi risposero: "Noi le abbiamo sempre avute, prova a chiedere agli alberi uguali a te". Si rivolse ai rami spogli come lui. "Abbiamo tanto freddo anche noi, non sappiamo cosa dirti...", gli risposero.

Queste parole lo fecero sentire meno solo. Si disse che, se avesse ritrovato le foglie, sarebbe subito corso dai suoi simili a rivelare il luogo in cui si trovavano. Continuò la sua ricerca e chiese al Vento. "Io le foglie le porto solo via è la pioggia che le fa crescere", disse il Vento a gran voce. Si rivolse alla Pioggia. "Le farò crescere a suo tempo", gli disse la pioggia tintinnando. Si rivolse allora al Tempo. "Io so tante cose", gli disse con voce profonda. "Il Tempo aggiusta tutto, non ti preoccupare occorrono tanti giorni e tante notti".

Si rivolse alla Notte, ma la Notte tacque e lo invitò a riposare. Si sentiva infatti molto stanco.

Mentre stava per addormentarsi uno gnomo passò di là. Al vedere quel ramo così spoglio e infreddolito, dal freddo e dalle intemperie si fermò e un po' preoccupato, gli chiese cosa stesse succedendo. Il ramo gli raccontò tutta la sua storia. Lo gnomo stette con lui, si fermò nel suo silenzio, lo ascoltò, sentì il suo dolore. Allora il ramo parlò ancora e disse: "Mi è sembrato di chiudere gli occhi e dopo averli riaperti non ho più trovato le mie foglie, non sono stato più capace di vederle".

Lo gnomo pensò a lungo, poi capì: si tolse gli occhiali e li posò sul naso del ramo, spiegandogli che erano occhiali magici che servivano per guardare dentro di sè. Il ramo, allora, apri bene gli occhi e... meraviglia...

Vide che dentro di sé qualcosa si muoveva, sentiva un rumore, vedeva qualcosa circolare provò ad ascoltare, guardò a fondo: era linfa, linfa viva che si muoveva in lui.

Incredulo disse allo gnomo ciò che vedeva. Lo gnomo gli spiegò che le foglie, i fiori, e i frutti, nascono grazie alla linfa oltre che al caldo sole, all'aria di primavera e alla pioggia.

"Se hai linfa dentro di te hai tutto", gli disse, "Non occorre chiedere più nulla a nessuno ma insieme all'acqua, alla luce, all'aria, agli altri rami, le foglie rinasceranno: le hai già dentro".

Il ramo, immediatamente si sentì più forte, rinvigorì: aveva la linfa in sé, non doveva più chiedere consigli, gli bastava lasciar vivere la linfa' che circolava in lui.

La linfa da cui un giorno, sarebbero rinate le amiche foglie.

speranzasofferenzacrocedolore

inviato da Luana Minto, inserito il 26/05/2002

RACCONTO

14. La formica n. 49.783.511

Un formicaio ai piedi di un vecchio abete. Milioni di formiche nere corrono senza sosta, perfettamente organizzate. Sezione trasporto aghi e foglie; sezione ricerca semi, insetti, larve; sezione allevamento e cura piccoli; comitato difesa dagli assalti...

Un giorno la formica n. 49.783.511 si fermò. Ansimando s'appoggiò al lungo ago che stava trascinando e alzò lo sguardo. Si sentiva svenire... abituata a scansare i fili d'erba, i sassolini, i bruchi, ora i suoi occhi si smarrivano nell'azzurro immenso del cielo, il cuore le scoppiava d'emozione guardando il grande tronco, i rami ordinati, il verde brillante.

"N. 49.783.511 - gridò il capo settore - gli altri sgobbano e tu poltrisci! T'assegno un quarto d'ora supplementare!".

La sera la formica n. 49.783.511 fece il recupero di lavoro. Poi mentre tutte s'infilavano nelle tane, restò fuori e scoprì le stelle. Un incanto!

Tutta la notte ebbe gli occhi pieni di luce. Da allora i turni supplementari aumentavano, ma lei non si preoccupava. Diceva a tutti: "Alzate gli occhi. c'è qualcosa di grande sopra di noi, non possiamo portare solo larve e semi. Non avete mai guardato nemmeno l'abete!".

La prendevano in giro: "Tu guardi e guardi, ma come riempiamo le riserve di cibo? Chi ripara la casa quando piove?".

La formica n. 49.783.511 lavorava, s'impegnava, rendeva bello il suo formicaio. Ma brontolavano lo stesso: "Se guardare il cielo fosse utile, dovresti essere più brava di noi, invece sei anche tu come noi. Le stelle non servono a niente".

Che volete, per capire che cos'è guardare il cielo bisogna provare, spiegare non si può.

Hai mai provato a spiegare la preghiera? C'è sempre un tizio pieno di "saggezza", che ti risponde: "uomo n. 789.451.331 smettila. Bisogna studiare, lavorare, produrre; fare sport per mantenersi sani; bisogna cambiare il mondo, avere mentalità scientifica; bisogna divertirsi, essere moderni...".

Il formicaio umano va avanti. Io credo d'essere importante perché porto aghi d'abete, o rivoluzionario perché faccio confusione.
E non ho il coraggio di guardare il cielo.

senso della vitaricerca di sensovitastuporeinteriorità

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002