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TESTO

1. Io sono il tuo Dio   2

Io sono il tuo Dio e ti sto vicino; non ti basta? Che vuoi dunque di più sulla terra di ciò che riempie il mio cuore?

Io sono il tuo Dio e ti resto fedele anche quando ti mando la croce; per quanto questa pesi, ricordati che io sono con te: che vuoi di più?

Io sono il tuo Dio e penso a te. Dall'eternità io penso a te. Ho scritto il tuo nome profondamente nel mio Cuore, perché tu non avessi mai a dimenticarti di te.

Io sono il tuo Dio e regolo tutto per il meglio, per il tuo meglio: se ora non lo capisci, un giorno lo vedrai con tutta chiarezza.

Io sono il tuo Dio e ti amo fedelmente; conosco tutto ciò che affligge il tuo cuore; vedo ogni sguardo, ascolto ogni parola che ti contraria. Accetta tutto con tranquillità e pace, perché sono io che ho disposto così; tu persevera, restami fedele affinché il mio cuore te ne ricompensi.

Io sono il tuo Dio. Sei solo? Ti farò compagnia. Nessuno ha una buona parola per te? Vieni da me che sarò sempre il tuo tutto, ti compenserò di ciò che ti è negato in terra.

Io sono il tuo Dio. Che vuoi di più? Fatti coraggio! Nulla ti costi, perché chi possiede il mio divin Cuore ha tutto ciò che gli può abbisognare. Il mondo passa, il tempo fugge, gli uomini scompaiono, la morte tutto rapisce. Una cosa sola ti resterà per sempre: il tuo Dio!

Diopreghierarapporto con Dio,

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 20/02/2023

TESTO

2. Natale: cosa attendi?

Giuseppe Impastato S.I.

Tu forse non attendi più un Messia e un Salvatore.

Dillo pure: mi bastano le assicurazioni, la carta di credito, il libretto di assegni, le multi-proprietà, gli investimenti che rendono, le giuste conoscenze, le amicizie influenti...

Mi sta bene il Natale come fiaba, ricordi, festa per i bambini, regali, vacanze, ritrovarci con parenti.

Fratello, sorella, forse pure andrai in chiesa per Natale, ma se a Gesù che non ha e non dà nessuna sicurezza, e se non hai spalancato la tua vita al futuro di Dio, non celebrerai il vero Natale.

Se a Natale sai dire solo: "Auguri", "Buon Natale", "Buone feste", "Buona fine e buon principio", il Natale non è stupore, né dono divino, né cuore e occhi nuovi, né presenza inquietante, né luce dall'alto, né invito a novità di vita e gioia piena.

nataleattesaauguriavvento

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 17/09/2022

TESTO

3. Le beatitudini del vescovo

Mimmo Battaglia, Omelia del 31/10/2021

Beato il Vescovo che fa della povertà e della condivisione il suo stile di vita, perché con la sua testimonianza sta costruendo il regno dei cieli.

Beato il Vescovo che non teme di rigare il suo volto con le lacrime, affinché in esse possano specchiarsi i dolori della gente, le fatiche dei presbiteri, trovando nell'abbraccio con chi soffre la consolazione di Dio.

Beato il Vescovo che considera il suo ministero un servizio e non un potere, facendo della mitezza la sua forza, dando a tutti diritto di cittadinanza nel proprio cuore, per abitare la terra promessa ai miti.

Beato il Vescovo che non si chiude nei palazzi del governo, che non diventa un burocrate attento più alle statistiche che ai volti, alle procedure che alle storie, cercando di lottare al fianco dell'uomo per il sogno di giustizia di Dio perché il Signore, incontrato nel silenzio della preghiera quotidiana, sarà il suo nutrimento.

Beato il Vescovo che ha cuore per la miseria del mondo, che non teme di sporcarsi le mani con il fango dell'animo umano per trovarvi l'oro di Dio, che non si scandalizza del peccato e della fragilità altrui perché consapevole della propria miseria, perché lo sguardo del Crocifisso Risorto sarà per lui sigillo di infinito perdono.

Beato il Vescovo che allontana la doppiezza del cuore, che evita ogni dinamica ambigua, che sogna il bene anche in mezzo al male, perché sarà capace di gioire del volto di Dio, scovandone il riflesso in ogni pozzanghera della città degli uomini.

Beato il Vescovo che opera la pace, che accompagna i cammini di riconciliazione, che semina nel cuore del presbiterio il germe della comunione, che accompagna una società divisa sul sentiero della riconciliazione, che prende per mano ogni uomo e ogni donna di buona volontà per costruire fraternità: Dio lo riconoscerà come suo figlio.

Beato il Vescovo che per il Vangelo non teme di andare controcorrente, rendendo la sua faccia "dura" come quella del Cristo diretto a Gerusalemme, senza lasciarsi frenare dalle incomprensioni e dagli ostacoli perché sa che il Regno di Dio avanza nella contraddizione del mondo.

serviziovescovobeatitudini

inviato da Qumran2, inserito il 11/02/2022

TESTO

4. ​La preghiera bussa, il digiuno ottiene, la misericordia riceve

Pietro Crisologo, vescovo, Discorsi. 43; PL 52, 320 e 322

Tre sono le cose, tre, o fratelli, per cui sta salda la fede, perdura la devozione, resta la virtù: la preghiera, il digiuno, la misericordia. Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia. Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola e ricevono vita l'una dall'altra.

Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica.

Chi digiuna comprenda bene cosa significhi per gli altri non aver da mangiare. Ascolti chi ha fame, se vuole che Dio gradisca il suo digiuno. Abbia compassione, chi spera compassione. Chi domanda pietà, la eserciti. Chi vuole che gli sia concesso un dono, apra la sua mano agli altri. È un cattivo richiedente colui che nega agli altri quello che domanda per sé.

O uomo, sii tu stesso per te la regola della misericordia. Il modo con cui vuoi che si usi misericordia a te, usalo tu con gli altri. La larghezza di misericordia che vuoi per te, abbila per gli altri. Offri agli altri quella stessa pronta misericordia, che desideri per te.

Perciò preghiera, digiuno, misericordia siano per noi un'unica forza mediatrice presso Dio, siano per noi un'unica difesa, un'unica preghiera sotto tre aspetti.

Quanto col disprezzo abbiamo perduto, conquistiamolo con il digiuno. Immoliamo le nostre anime col digiuno perché non c'è nulla di più gradito che possiamo offrire a Dio, come dimostra il profeta quando dice: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 50, 19).

O uomo, offri a Dio la tua anima ed offri l'oblazione del digiuno, perché sia pura l'ostia, santo il sacrificio, vivente la vittima, che a te rimanga e a Dio sia data. Chi non dà questo a Dio non sarà scusato, perché non può non avere se stesso da offrire. Ma perché tutto ciò sia accetto, sia accompagnato dalla misericordia. Il digiuno non germoglia se non è innaffiato dalla misericordia. Il digiuno inaridisce, se inaridisce la misericordia. Ciò che è la pioggia per la terra, è la misericordia per il digiuno. Quantunque ingentilisca il cuore, purifichi la carne, sràdichi i vizi, semini le virtù, il digiunatore non coglie frutti se non farà scorrere fiumi di misericordia.

O tu che digiuni, sappi che il tuo campo resterà digiuno se resterà digiuna la misericordia. Quello invece che tu avrai donato nella misericordia, ritornerà abbondantemente nel tuo granaio. Pertanto, o uomo, perché tu non abbia a perdere col voler tenere per te, elargisci agli altri e allora raccoglierai. Da' a te stesso, dando al povero, perché ciò che avrai lasciato in eredità ad un altro, tu non lo avrai.

preghieradigiunomisericordiaquaresima

inviato da Qumran2, inserito il 11/02/2022

TESTO

5. Provvidenza

don Luigi Verdi, Fraternità di Romena, Omelia 21 luglio 2019

Noi abbiamo voluto fare i moderni, abbiamo distrutto tante cose con questa modernità; abbiamo ucciso anche tante parole che ci sembravano deboli, come la tenerezza, come la gentilezza e come la provvidenza.

Una delle parole che mi sta più a cuore dei nostri nonni, è la provvidenza, a cui non crediamo più. Perché pretendiamo senza accogliere.

La provvidenza non viene così, la provvidenza arriva se ti muovi, non se stai fermo ad aspettare che arrivino i miracoli.

La provvidenza degli angeli, e poi viene fuori questo miracolo del figlio inaspettato (in riferimento alla promessa fatta ad Abramo nella lettura). È perché Abramo apre la porta, Abramo accoglie, altrimenti non sarebbe successo nulla.

E allora vorrei fare l'ultima preghiera, proprio sulla provvidenza. Perché ognuno di noi la possa risentire viva dentro di sé:

Provvidenza parola detta con tanta naturalezza. Ma per i nostri nonni la provvidenza era come una luce che splende dall'altra riva, come la luna e le stelle che illuminano il cammino di una notte, era il loro appuntamento con un eco che parlava di futuro, era il lievito del pane quotidiano. Attendevano i nostri nonni la provvidenza, con schiene dritte e volentieri. Accoglievano Dio nella loro casa, perché lo sentivano camminare dentro i giorni, vedevano crescere il grano e contemporaneamente vedevano un angelo volargli accanto.

Quando mi sorreggo alla provvidenza, sento in me una pace calda e finiscono i miei lamenti, sento ogni giorno, con tanta semplicità, che il mio cuore batte più regolare.

Provvidenza, dono del cielo diretto ai mansueti, ai miti e a tutti i custodi della vita.

provvidenza

inviato da Marcello Rosa, inserito il 23/06/2020

TESTO

6. Attendere è declinazione del verbo amare

Ermes Ronchi, https://www.avvenire.it

Avvento: tempo per desiderare e attendere quel Dio che viene con una metafora spiazzante, come un ladro. Che viene nel tempo delle stelle, in silenzio, senza rumore e clamore, senza apparenza, che non ruba niente e dona tutto. Si accorgono di lui i desideranti, quelli che vegliano in punta di cuore, al lume delle stelle, quelli dagli occhi profondi e trasparenti che sanno vedere quanto dolore e quanto amore, quanto Dio c'è, incamminato nel mondo. Anche Dio, fra le stelle, come un desiderante, accende la sua lucerna e attende che io mi incammini verso casa.

avventoattesavigilanza

inviato da Francesco De Luca, inserito il 29/12/2018

TESTO

7. Betlemme città del pane... Pane nostro

Gianni Fanzolato

Pane nostro, né tuo, né mio, ma nostro, è di tutti.
Nasci in cielo, perché seminato nel cuore di Dio,
ma fiorisci nei prati del mondo dove tutti possono sfamarsi.

Il tuo nome sacro e fragrante sarà onorato e santificato,
se verrà moltiplicato e presente in tutte le mense del mondo.
Se anche un bambino dell'Africa, che non ha neanche acqua
per bere, potrà assaporare la delizia del tuo caldo sapore di pane.

Quando la tua presenza onorerà il desco del povero e del ricco,
e sarai pane di vita in tutti gli altari del mondo per lenire la nostra
fame di Dio, che è grande, allora il tuo regno è una splendida realtà.

E' volontà di Dio che ti condividiamo, che ti spezziamo, rinnovando
il miracolo che un giorno Cristo ha fatto con cinquemila affamati.
Continua a seminare nel tuo cuore questo seme di vita, così in Asia,
Africa, America ed Europa ogni giorno ci darai la pianta con pane per tutti.

Gesù, se imparassimo una buona volta ad essere generosi, a pensare
a chi non ha niente, ci sarebbero perdonati molti peccati, perché
molto abbiamo amato. Il mondo sarebbe una foresta verde piena di vita.

Scuotici, svegliaci, Signore per non lasciarci nella tentazione
dell'egoismo e della chiusura, e liberaci dal male che distrugge
l'umanità. Se il pane ci sarà per tutti, la vita fiorirà come un campo
appena arato e seminato e ci sarà festa per tutti i tuoi figli, che ami.

Loreto, S. Natale 2018, P. Gianni Fanzolato

paneeucaristianatalecondivisioneegoismopadre nostrogenerosità

inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 29/12/2018

TESTO

8. Lettera a Rut

don Tonino Bello, www.mosaicodipace.it

Carissima Rut, avrei voluto scriverti in ben altra circostanza.
Per approfondire ad esempio le ragioni di quell'universalismo della salvezza che hanno indotto Dio a includere anche te, unica straniera nell'albero della genealogia ebraica di Gesù.
Non ti nascondo infatti che quando nella messa viene proclamata la lista degli antenati di Cristo tramandataci da Matteo, mi sorprende e mi commuove sentir pronunciare il tuo nome di donna fugace come un fremito d'ala. Sembra un nome abbreviato per pudore. O intimidito di comparire in mezzo al ferrigno scrosciare dei nomi di tanti maschioni.

Ti scrivo, invece, perché voglio sfogare con qualcuno la tristezza che mi devasta l'anima in questi giorni, alla vista di tanti stranieri che hanno invaso l'Italia, e verso i quali la nostra civiltà, che a parole si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multireligiosa e multinonsoché non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità.
So bene che il problema dell'immigrazione richiede molta avvedutezza e merita risposte meno ingenue di quelle fornite da un romantico altruismo. Capisco anche le «buone ragioni» dei miei concittadini che temono chi sa quali destabilizzazioni negli assetti consolidati del loro sistema di vita. Ma mi lascia sovrappensiero il fatto che si stenti a capire le «buone ragioni» dei poveri allo sbando e che in questo esodo biblico non si riesca ancora a scorgere l'inquietante malessere di un mondo oppresso dall'ingiustizia e dalla miseria.
Tu mi sembri, allora, l'interlocutrice più adatta delle mie confidenze, dal momento che, avendo coniugato il verbo accogliere non solo nella forma attiva ma anche nella forma passiva, hai sperimentato la durezza dell'emigrazione nella duplice fase: l'esilio in patria e la ghettizzazione in terra straniera.
Non tutti conoscono la tua storia. Perciò mi scuserai se, nel rievocarne alcuni particolari, sfiorerò la discrezione e farò violenza al tuo riserbo.

Vivevi spensierata sulle alture di Moab, al di là del mar Morto, cullando sogni e parlando d'amore con le tue compagne, quando un giorno arrivò nel tuo paese una famiglia di spiantati. Erano stranieri, provenienti dalla terra di Canaan, colpita in quegli anni da una terribile carestia.
Ti impressionò subito la carnagione bruna dei due figli. Uno dei quali si accorse di te.
Ma tu eri ancora ragazzina. Tanto ragazzina, che il cuore si mise a battere di paura quando egli, con i gesti più che con le parole, venne dai tuoi genitori a chiederti come sposa.
Non so se in casa quel giorno accaddero scenate. Ma c'è da supporre che ti rinfacciarono tutta la loro disapprovazione. Che eri il disonore della famiglia. Che non ti avrebbero più riconosciuta come figlia. E che era un infamia girar le spalle tutt'una volta alla propria tradizione, alla propria lingua, alle proprie divinità, per correr dietro a una maledetto sconosciuto. E che, comunque, non avrebbero tollerato mai e poi mai, dopo averti cresciuta come un fiore, di doverti consegnare a uno di quei morti di fame. Accidenti a lui e a tutti quelli della sua razza!
Furono giorni amarissimi, ma alla fine la spuntasti tu, pur pagando caramente il prezzo della tua caparbietà.
Ti vedesti così tagliare tutti i ponti, e alla fine rimanesti sola. Al punto che, quando dopo dieci anni di tribolazione tuo marito morì e morirono anche il fratello e il padre di lui, decidesti di seguire Noemi, la suocera addolorata, che, non avendo più nessuno anche lei in quella amarissima terra straniera, volle rimpatriare.
«Dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta».

Varcasti così la frontiera, e cominciò per te la seconda fase della tua esperienza di “diversità”.
Un vero e proprio mestiere non ce l'avevi. Insieme con la qualifica professionale, ti mancava anche il libretto di lavoro, e a Betlemme, dove andasti ad abitare con Noemi, non ti vollero iscrivere nelle liste di collocamento. Sicché, per camparti la vita, essendo il tempo in cui si cominciava a mietere l'orzo, andasti a spigolare furtivamente nelle campagne.
O Dio, non era proprio lavoro nero, ma era certo un lavoro umiliante, perché scartato da tutti ed esposto alle molestie del mietitori.
Meno male che trovasti grazia presso un ricco massaro, un certo signor Booz, il quale ti prese a ben volere e ordinò ai suoi dipendenti: «Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non le fate affronto; anzi lasciate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; abbandonatele, perché essa le raccolga, e non sgridatela».
Ti andò veramente bene. Anzi meglio di così la sorte non poteva arriderti, dal momento che il massaro cominciò ad avere del tenero per te e addirittura ti volle sposare, tra la meraviglia di tutte le donne di Betlemme che creparono d'invidia. E brava la Moabita!

Carissima Rut, qualcuno potrebbe dire che, a proposito di immigrati, la tua vicenda non fa testo, perché, essendosi conclusa con la fatidica frase «e vissero felici e contenti», sembra appartenere più al genere delle telenovele che ai resoconti del telegiornale o ai servizi di Samarcanda, laddove le storie degli extracomunitari si intridono spesso di lacrime e di morte.
Io, invece, penso che nelle pieghe della tua avventura possiamo leggere il giudizio di Dio su questa impressionante transumanza di gente alla deriva.
La tua storia, insomma, ci interpella non solo con la forza esemplare del paradigma, ma anche con la sollecitazione di risposte intelligenti di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri nel nostro territorio.
Anzitutto, ci dice che la fusione di etnie diverse è possibile: anzi, appartiene a quel pacco di progetti che costituiscono la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà. La comunicazione con le culture altre, insomma non è un'utopia, né uno sterile sospiro di sognatori.

Quando alle porte della città si celebrarono le tue nozze col massaro di Betlemme, gli anziani rivolsero a Booz tuo marito uno splendido augurio, che vale tutto un trattato sulla integrazione al razziale: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa di Israele».
In secondo luogo, la tua storia ci provoca a vincere gli istinti xenofobi che ci dormono dentro. Che si ammantano di ragioni patriottiche. Che scatenano all'interno delle nostre raffinatissime città, inqualificabili atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di violenza, di razzismo. E che implorano dalle istituzioni con martellante coralità, rigorosi provvedimenti di forza.
Siamo vittime di una insopportabile prudenza, e scorgiamo sempre angoscianti minacce dietro l'angolo.
Perché lo straniero mette in crisi sostanzialmente due cose: la nostra sicurezza e la nostra identità.
Da una parte, infatti, ci toglie il lavoro, ci contende la casa, ci riduce gli spazi, entra in competizione con noi, decostruisce l'articolazione dei nostri interessi economici. Dall'altra, sembra attentare ai nostri connotati, sfida la compattezza del nostro mondo spirituale, relativizza i nostri altari, sfibra il deposito delle nostre tradizioni.

Ebbene, la tua storia ci fa capire che la segregazione è la risposta più sbagliata al problema razziale, così come rappresenta una iattura simmetrica il tentativo di voler assorbire nelle stratificazioni della nostra cultura i tratti emergenti della «diversità» altrui, senza lasciarne neppure la traccia. Solo la progressiva intersezione di aree di valori sarà capace di creare il terreno, calcando il quale nessuno debba sentirsi in esilio.

Grazie, dolcissima Rut, per questo tuo incredibile messaggio di universalità che lasci cadere dai tuoi covoni.
Dietro i quali, alla ricerca dei tratti di un mondo più solidale, siamo venuti anche noi a spigolare.

Luglio 1991

stranierimigrantimigrazionidiversitàaccoglienzaintegrazionemulticulturalità

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

9. Il cuore di Dio. Pasqua: questo giorno, ogni giorno

Alessandro D'Avenia, Avvenire, 5 aprile 2015, Pasqua

Riparare i viventi è il titolo di un bel romanzo scritto della bravissima Maylis de Kerengal che in questi giorni mi ha accompagnato.
Mi sembra il titolo perfetto per questa domenica.
La storia parla di un adolescente che, uscito con i suoi amici in una fredda notte in cerca dell'onda perfetta da cavalcare all'alba con i loro surf ruggenti, sulla strada del ritorno ha un incidente ed entra in coma irreversibile. I suoi genitori consentono l'espianto degli organi, anche se è il cuore il vero protagonista della storia. Il cuore che viene estratto dal petto del ragazzo va a riempire quello di una donna in attesa di un organo che la salvi grazie ad un trapianto. Ad un tratto la madre di Simon, il ragazzo morto, si chiede che accadrà al contenuto del cuore di suo figlio: «Che ne sarà dell'amore di Juliette una volta che il cuore di Simon ricomincerà a battere dentro un corpo sconosciuto, che ne sarà di tutto quel che riempiva quel cuore, dei suoi affetti lentamente stratificati dal primo giorno o trasmessi qua e là in uno slancio d'entusiasmo o in un accesso di collera, le sue amicizie e le sue avversioni, i suoi rancori, la sua veemenza, le sue passioni tristi e tenere? Che ne sarà delle scariche elettriche che gli sfondavano il cuore quando avanzava l'onda? Che ne sarà di quel cuore traboccante, pieno, troppo pieno?».

Che ne sarà del nostro cuore, con tutto quello che ha filtrato di amore e disamore in una vita? Ma non è forse questo il senso della grande promessa di Dio: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne» (Ez. 36, 26-7)?
Anche noi eravamo a rischio di vita, anzi eravamo già morti, il nostro cuore aveva subito troppi infarti, non riusciva più ad amare senza rischiare il colpo di grazia. E proprio per un colpo di grazia riceviamo un cuore nuovo, che viene trapiantato gradualmente nella nostra vita nella misura in cui lo vogliamo.
L'uomo nuovo di cui parla Paolo nelle sue Lettere è un uomo dopo il trapianto. Rimane l'uomo vecchio, ma il trapianto irrora gradualmente ogni fibra trasformandola. In noi comincia ad abitare il battito di un Altro, che non muore.
La vita di Dio che non può essere distrutta entra e gradualmente trapianta (ci innesta nella sua vita come si fa in botanica), purifica, trasforma, nella misura di quanto vogliamo. C'è tanto del cuore di Dio nella nostra vita quanto noi vogliamo ne venga trapiantato ogni giorno.

Ad un certo punto della narrazione il medico che condurrà l'operazione di trapianto avverte la paziente perché si prepari: «Il cuore sarà qui fra trenta minuti, è splendido, è fatto per lei, vi intenderete alla perfezione. Claire sorride: ma aspetterà che sia qui prima di togliere il mio, vero?».
Il nostro rimarrà, proprio quello nostro, ma il centro di ogni pensiero, decisione, amore, caduta, tristezza, malinconia, il motore di ogni nostro amore e disamore, non verrà tolto, ma trasformato.

La natura umana è riparata perché il Perfetto Uomo ha attraversato tutto l'umano, ha conosciuto tutto ciò che passa per il cuore dell'uomo e lo ha sentito come fosse suo, anche il peccato, non come atto ma nelle sue conseguenze (dalla tentazione, al dolore, alla morte). E quel cuore che ha cessato di battere sulla croce, quel cuore che ha dato tutto, tanto che, quando il soldato lo trafisse con la lancia, sputò sangue e acqua, il siero che si riversa nella sacca del pericardio quando dopo un infarto la parte densa del sangue si separa da quella più leggera, proprio quel cuore diventa nostro.

Quel cuore in realtà non è vuoto, non è il cuore di un morto, inservibile per un trapianto. È il cuore di un vivo, è il cuore del Vivente, è il cuore della Vita; il cuore che ci consente di avere passione per la vita e di patire per la vita; il cuore che ci concede il trasporto erotico per il creato e le creature e la capacità di patire per il creato e le creature. Il cuore di Dio, spiritualmente trapiantato in noi grazie al Battesimo e riparato dagli altri Sacramenti, batte fortissimo nel petto dei cristiani, che per questo ogni giorno, se vogliono, risorgono.
E quando quel cuore verrà pesato (amor meus pondus meum, il mio amore è il mio peso, dice Agostino) alla fine della vita lo si troverà 'pieno' dell'amore di Dio stesso, perché era il Suo in noi.

Solo lui ripara i viventi e i morenti, perché il Suo cuore non ha conosciuto la corruzione della morte, conosce solo la vita e ciò che dà la vita.
Si dice che, dopo aver bruciato Giovanna D'Arco, i carnefici trovarono intatto il suo cuore in mezzo alla cenere. Quel cuore non poteva essere distrutto, perché la sua materia non apparteneva a questo mondo e il fuoco degli uomini non poteva consumarlo. Era il cuore di Giovanna o quello di Dio?

Se è amore che vogliamo per vivere, è un cuore nuovo che vogliamo. Oggi è il giorno del trapianto.

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inviato da Marcello Rosa, inserito il 06/07/2018

TESTO

10. Famiglia luogo di perdono   1

Non esiste una famiglia perfetta. Non abbiamo genitori perfetti, non siamo perfetti, non sposiamo una persona perfetta, non abbiamo figli perfetti. Abbiamo lamentele da parte di altri. Ci siamo delusi l'un l'altro. Pertanto, non esiste un matrimonio sano o una famiglia sana senza l'esercizio del perdono. Il perdono è vitale per la nostra salute emotiva e per la nostra sopravvivenza spirituale. Senza perdono la famiglia diventa un'arena di conflitto e una ridotta di punizioni.
Senza perdono, la famiglia si ammala. Il perdono sterilizza dell'anima, pulisce la mente, libera il cuore. Colui che non perdona non ha pace nell'anima o comunione con Dio. Il dolore è un veleno che intossica e uccide. Mantenere il dolore nel cuore è un gesto autodistruttivo. Colui che non perdona diventa fisicamente, emotivamente e spiritualmente malato.
Ed è per questo che la famiglia ha bisogno di essere un luogo di vita e non di morte, il territorio della cura e non della malattia, lo scenario del perdono e non della colpa.
Il perdono porta gioia dove il dolore produce tristezza e dove il dolore ha causato la malattia.

Testo erroneamente attribuito a Papa Francesco, non se ne conosce la fonte corretta.

famigliaperdonoimperfezioneaccettazionemisericordiacoppiagenitorifiglimatrimonio

3.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2018

TESTO

11. Auguri di Natale non in serie

don Tonino Bello

Carissimi,
formulare gli auguri di Natale dovrebbe essere la cosa più semplice di questo mondo. Invece, quest'anno sto provando tanta difficoltà. Ho scritto e riscritto cento volte l'attacco di questa lettera, ma mi è parso di dire sempre delle cose estremamente banali. Come sono banali certi presepi bell'e confezionati che si acquistano ai grandi magazzini. Saranno anche attraenti con i loro svolazzi di angeli e con i loro muschi di plastica. Ma sono freddi. Perché fatti in serie.
Ecco: è proprio la «serialità» che mi mette in crisi. Ho l'impressione, cioè, di esporre anch'io la mia merce preconfezionata, e poi lasciare che ognuno si serva da solo, come nei self-service di certi ristoranti.
È qui lo sbaglio: nella pretesa di voler trovare delle formule standard, buone per tutti. Invece, a Natale, non si possono porgere auguri indistinti.

Dire buon Natale a te, Ignazio, che vivi immobilizzato da anni, dopo quel terribile incidente stradale che ti ha ridotto a un rudere, è molto diverso che dire Buon Natale a te, Franco, che hai fatto spese pazze per rinnovarti l'attrezzatura sciistica, e il 25 dicembre lo passerai in montagna, dove hai già prenotato l'albergo per la settimana bianca. Tu, Ignazio, la stella cometa del presepe non la vedi neanche, perché non puoi muovere la testa dal guanciale. E, allora, devo descrivertela io, e dirti che essa fa luce anche per te, e assicurarti che Gesù è venuto a dare senso alla tua tragedia e che, nella Notte Santa, anzi, ogni notte della tua vita, egli trasloca dalla mangiatoia per venirti accanto e farsi scaldare da te. Tu, Franco, la stella cometa non la vedi perché non hai tempo per pensare a queste cose, e in testa hai ben altre stelle. E, allora, devo provocartene io la nostalgia, e dirti che le lampade dei ritrovi mondani dove consumi le tue notti e i tuoi soldi, non fanno luce sufficiente a dar senso alla tua vita.

Dire buon Natale a te, Katia, che il 26 andrai all'altare con Cosimo, è molto diverso che dire buon Natale a Rosaria, che il mese scorso ha firmato la separazione consensuale, dopo che Gigi se n'è andato con un'altra. Perché a te, Katia, basterà l'invito a vedere nel presepe la celebrazione nuziale suprema di Dio che prende in sposa l'umanità, e già ti sentirai coinvolta nel mistero dell'incarnazione. A te, Rosaria, invece, che per la prima volta le feste le passerai sola in casa, e che non hai voglia neppure di andare a pranzo dai tuoi, occorrerà tutta la mia discrezione per farti capire che non è molto dissimile il ripudio subito da Gesù nella notte santa. Buon Natale, Rosaria. E buon Natale anche a Gigi, perché, scorgendo nel bambino del presepe il mistero della fedeltà di Dio, torni presto a casa.

Dire buon Natale a te, carissimo Nicola, che mi sei tanto vicino con la tua amicizia ma anche tanto lontano con l'ateismo che professi, è molto diverso che dire buon Natale a te, don Donato, che le parole di santità, tu sei bravo a dirmele più di quanto io non sappia fare con te. Perché tu, don Donato, hai un cuore che trabocca di tenerezza, e quando parli del Verbo che scende sulla terra e diventa l'Emmanuele, cioè il Dio con noi, si vede che ci credi a quello che dici, e daresti la vita perché anche gli altri ponessero lo sguardo su quel pozzo di luce che rischia di accecare i tuoi occhi. Mentre tu, Nicola, davanti al presepe resti impassibile, e il bue e l'asino ti fanno sorridere, e l'incanto di quella notte ti sembra una fuga dalla realtà, e rassomigli tanto a qualcuno di quei pastori (qualcuno ci deve essere pur stato!) che, all'apparizione degli angeli, non si è neppure scomposto ed è rimasto a scaldarsi davanti al fuoco del suo scetticismo. Non voglio forzare la tua coscienza: ma sei proprio sicuro che, quel bambino non abbia nulla da dirti, e che questo mistero (che tu vorresti confinare tra le favole) di Dio fatto uomo per amore, sia completamente estraneo al tuo bisogno di felicità? Auguri, comunque, perché la tua irreprensibile onestà umana trovi nella culla di Betlemme la sua sorgente e il suo estuario.

Dire buon Natale a te, Corrado, che vivi nella casa di riposo, e la sera ti lasci cullare dalle nenie pastorali, e te ne vai sulle ali della fantasia ai tempi di quando eri bambino, e la tua anima brulica di ricordi più di quanto i tratturi del presepe non brulichino di percorelle, e pensi che questo sarà forse il tuo ultimo Natale, e ti raffiguri già il momento in cui Gesù lo contemplerai faccia a faccia con i tuoi occhi... è molto diverso che fare gli auguri a te, Antonietta, che hai vent'anni e tutti dicono che non sei più quella di una volta, e l'altro giorno mi hai confidato che non fai più parte del coro e che forse quest'anno non ti confesserai neppure. Buon Natale, Antonietta. Pregherò perché tu possa trovare cinque minuti per piangere da sola davanti alla culla, e in quel pianto tu possa sperimentare le stesse emozioni di quando la semplice carta stagnola del presepe ti faceva trasalire di felicità.

Un conto è dire buon Natale a te, Gianni, che stai in ospedale e oggi anche i medici se ne sono andati e tu non vedi l'ora che arrivi il momento delle visite per poter parlare con qualcuno, e un conto è dire buon Natale a te, Piero, che in carcere nessuno verrà a trovare dopo che ne hai combinate di tutti i colori perfino a tuo padre e a tua madre. Auguri a tutti e due, comunque, e ai vostri compagni di corsia o di cella: Gesù Cristo vi restituisca la salute del corpo e quella dello spirito.

Buon Natale a te, Carmela, che sei rimasta vedova. A te, Marina, che sei felice perché le cose vanno bene. A te, Michele, che ti disperi perché le cose vanno male. A te, Mussif, e a tutti i profughi albanesi che vivono insieme nella casa di accoglienza. A te, Sahid, che guardi alla televisioni gli spettacoli dell'Unicef sui bambini irakeni e slavi decimati dalla fame, e, per un'associazione di immagini non certo molto strana, pensi ai tuoi figli che hai lasciato in Tunisia.

Dopo che l'ho poggiata sull'altare, profumata d'incenso e grondante ancora di benedizioni divine, voglio dare la mano a tutti, sicuro che nessuno tirerà indietro la sua.

Perché a Natale, felice o triste che sia, fedele o miscredente, miserabile o miliardario, ognuno avverte, chi sa per quale mistero, che di quel bambino «avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia», una volta che l'ha conosciuto, non può più fare a meno.

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inserito il 19/02/2018

TESTO

12. Lettera d'amore di Dio per te   2

Aleteia

Figliolo mio,

forse non mi conosci, ma Io so tutto di te. So quando ti siedi e quando ti alzi, conosco ogni passo che fai e so il numero esatto dei capelli sulla tua testa, perché sei stato fatto a mia immagine. Ti ho conosciuto prima che tu nascessi, ti ho scelto quando ho pianificato la creazione, non sei stato un errore, perché ogni tuo giorno è già scritto nel mio Libro. Sei stato fatto in modo meraviglioso, Io ti ho formato nel ventre di tua madre e ti ho preso dal suo grembo il giorno in cui sei nato.

Chi non mi conosce mi ha presentato in modo sbagliato, non sono né lontano né arrabbiato, ma sono l'espressione perfetta dell'amore, manifestato in mio Figlio Gesù... ed è mio desiderio amarti, semplicemente perché sei stato creato per essere mio figlio e affinché Io sia tuo Padre.

Io sono colui che provvede ad ogni tua esigenza, il mio piano per il futuro è pieno di speranza. Perché ti amo di un amore eterno. I miei pensieri per te sono smisurati, sono come la sabbia del mare. Sono vicino a te per salvarti, in te mi rallegro e gioisco. Non smetterò mai di farti del bene: se ascolti la mia parola e la metti in pratica, sarai il mio tesoro speciale.

Voglio con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima che tu prosperi, desidero mostrarti cose grandi e meravigliose. Se mi cerchi con tutto il cuore mi incontrerai... Trova il tuo diletto in me e Io ti concederò i desideri del tuo cuore. Perché sono Io che suscito in te ciò che tu vuoi. Sono potente, e posso fare in te molto più di quanto tu immagini.

Sono il Padre che ti consola in tutte le tue tribolazioni, sono vicino a te quanto il tuo cuore è ferito. Vedo che a volte sei tanto lontano da me, e arrivo a temere di perderti per sempre. Ieri ti ho visto molto triste e avrei voluto privarti di questo dolore. Ho gridato ai quattro venti, ma non sei venuto a cercarmi. Ti ho visto parlare con i tuoi amici, ti ho visto mangiare fuori orario e ho camminato con te nella strada verso casa. Ho quasi visto con i tuoi occhi ciò che stavi guardando tu, ciò che ti ha provocato tanta nostalgia. Avrei voluto che tu mi prestassi ascolto. Ma non l'hai fatto, e quindi ho aspettato tutto il giorno.

Ti ho donato un bel tramonto a conclusione delle tue giornate, e una leggera brezza per permetterti di riposare meglio. Ti ho aspettato, dopo un giorno così frenetico, ma non sei mai venuto. La scorsa notte ti ho visto dormire e ti ho voluto toccare la fronte. Ti ho mandato dei raggi di luna dentro casa per vedere se ti fossi svegliato, ma hai continuato a dormire.

Ti parlo all'orecchio attraverso le foglie degli alberi e il profumo dei fiori, grido a te nei ruscelli di montagna, e attraverso gli uccelli canto il mio amore per te. Ti rivesto del calore del sole e profumo l'aria della natura con l'aroma della natura. Ascolto il silenzio dentro di te e provo a suscitare in te dei buoni desideri. Non sono lontano, sono nel tuo cuore. Regala uno sguardo d'amore a tutti coloro che ti circondano, e mi troverai, in ogni momento.

Oggi ho cercato qualcuno che mi prestasse le sue mani per scriverti, d'ora in poi scriverò direttamente nel tuo cuore. Se me lo permetti, devi solo dirmi ‘Sì'... So che è difficile vivere in questo mondo, lo è davvero, ma se confidi in me ti darò nuove forze. A partire da oggi. Parla con me, scarica i tuoi pesi e le tue ansie su di me. Ho sempre tempo per te, raccontami ogni cosa, piangi se vuoi, asciugherò ogni tua lacrima e accarezzerò il tuo volto.

Chiamami a qualsiasi ora del giorno o della notte, non dormo mai e ti risponderò sempre. Se tu riuscissi a guardare l'universo con amore, a vederti nello specchio con umiltà, a mostrare tenerezza a chi ti sorride, misericordia a chi ti chiede compassione e perdono a chi ti fa piangere... la mia voce diventerà il tuo pensiero.

Come il pastore guida le sue pecore, così io ti conduco vicino al mio cuore. Un giorno asciugherò ogni lacrima dai tuoi occhi ed eliminerò tutto il dolore che hai sofferto sulla terra. Ti amo tanto, al punto da aver mandato mio Figlio Gesù affinché tu abbia vita eterna. Perché in Gesù ho rivelato il mio Amore per te, Lui è la rappresentazione esatta del mio essere. È venuto per dimostrarti che Io sono dalla tua parte, non contro di te. È venuto per dirti che non ricorderò più dei tuoi peccati. Gesù è morto affinché tu possa riconciliarti con me, la Sua morte è stata la massima espressione del mio amore per te... Ho dato ogni cosa per avere il tuo amore...

Vieni a casa e celebra la festa più grande che il Cielo abbia mai visto... Sono sempre stato, e sempre sarò, tuo Padre. La domanda è: vuoi essere mio figlio? Sono con le braccia aperte, aspetto te. Devi soltanto ricevere mio Figlio Gesù nel tuo cuore.
Ti abbraccio e non me ne vado. Resto al tuo fianco. Ti amo!
Con affetto: tuo papà, Dio.

amore di DioDio padrepaternità di Diorapporto con Dio

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inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018

TESTO

13. Un vuoto nel cuore   2

Blaise Pascal, Breve storia del verbo essere, Andrea Moro

C'è un vuoto a forma di Dio nel cuore di ogni persona e non può mai essere riempito da nessuna cosa.

ricerca di Dioricercarapporto con Dio

4.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018

TESTO

14. Andiamo fino a Betlemme (versione completa)

Don Tonino Bello

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il bastone, e scendere, lungo i sentieri profumati di menta, giù per le gole di Giudea. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l'antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori i quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d'Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste... per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni dentro infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E' un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all'indietro», è l'unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall'ipoteca della morte.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L'importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, dunque, senza paura. Il Natale di quest'anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell'impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

Clicca qui per la versione breve.

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inviato da Francesco De Luca, inserito il 15/01/2018

TESTO

15. Il vero significato dell'Avvento   1

Goffredo Boselli

Per John Henry Newman il nome del cristiano è “colui che attende il Signore”. Invece dobbiamo riconoscerlo: da secoli, in occidente, l'attesa della venuta del Signore è una dimensione perlopiù assente nella vita di fede dei cristiani. Era il rammarico di Ignazio Silone che scriveva: "Mi sono stancato di cristiani che aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si aspetta l'arrivo dell'autobus".

Rivelatore di questa realtà è il modo abituale di comprendere e vivere l'Avvento. Io sono persuaso che l'Avvento è il tempo liturgico oggi meno compreso nel suo valore e nel suo significato. Lo si è ridotto a tempo di preparazione alla festa del Natale. Che tristezza! Non si comprende che l'Avvento è la chiave di tutto l'anno liturgico: l'escatologia è la verità dimenticata dell'intero anno liturgico.

L'Avvento è la chiave per comprendere la celebrazione delle feste della manifestazione del Signore nella carne: i fatti che hanno immediatamente preceduto la nascita di Gesù Cristo, la sua nascita a Betlemme, la manifestazione ai Magi, il battesimo nel Giordano fino alle nozze di Cana. Capiti nella loro intelligenza spirituale, i testi liturgici dell'Avvento esprimo non l'attesa di una nascita già avvenuta nella storia una volta per tutte, quanto piuttosto l'attesa della definitiva venuta di Cristo nella gloria.

Domandiamoci: ma com'è possibile che la liturgia cristiana, che è sempre memoriale della morte e risurrezione di Cristo finché egli venga, faccia di noi cristiani gente per la quale il Signore non è ancora nato e dobbiamo attendere la sua nascita? Se la liturgia dell'Avvento ci costringesse a immedesimarci in coloro che duemila anni fa attesero la nascita di Gesù, la liturgia sarebbe nient'altro che l'artefice di un complesso sociodramma, ossia di una rievocazione ritualizzata degli eventi fondatori del cristianesimo. La nascita non la si attende ma la si commemora (commemoratio nativitatis Domini nostri Jesu Christi), ciò che si attende è invece la parusia che è il compimento del mistero Pasquale.

Il modo di vivere l'Avvento è il simbolo della diffusa perdita della dimensione escatologica che è uno dei tratti distintivi del cristianesimo moderno e contemporaneo occidentale. La progressiva spiritualizzazione dell'escatologia ha portato l'esistenza cristiana a soffrire di un male grave: l'amnesia della parusia. Osservando come la malattia del nostro tempo sia la volontà di dimenticare l'avvento di Dio, J.B. Metz in una preziosa meditazione sull'Avvento pone una domanda:

"Domandiamoci una volta in questi giorni di Avvento e di Natale: non agiamo forse, segretamente, come se Dio fosse restato tutto alle nostre spalle, come se noi - frutti tardivi di questo ventesimo secolo post Christum natum - potessimo trovare Dio solamente in un facile e malinconico sguardo del nostro cuore, una debole luce riflessa alla grotta di Betlemme, al bambino che ci è stato dato?

Abbiamo noi qualche cosa di più della visione di questo bambino negli occhi, quando nelle nostre preghiere e nei nostri canti proclamiamo: è l'Avvento di Dio? Pendiamo qualche cosa di più del Dio dei nostri ricordi e dei nostri sogni? Cerchiamo realmente Dio anche nel nostro futuro? Siamo uomini dell'Avvento, che hanno nel cuore l'urgenza della venuta di Cristo, e con gli occhi che spiano, cercando negli orizzonti della propria vita il suo volto albeggiante?".

Oggi, dobbiamo riconoscerlo, vi è una patologia nel modo di vivere l'Avvento. In realtà l'Avvento è il solo specifico cristiano, perché un tempo di digiuno e penitenza come la Quaresima la condividiamo con l'islam, il tempo della Pasqua con l'ebraismo, ma l'attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana. Solo noi cristiani attendiamo il ritorno di Cristo da lui stesso promesse: "Sì vengo presto! Amen" (Ap 22,20). Per questo, privare l'anno liturgico della sua costitutiva dimensione escatologica significa sottrarre alla fede cristiana la dimensione della speranza.

Così compreso e vissuto, l'Avvento sarebbe il tempo dell'anno liturgico più eloquente per i credenti di oggi. Uomini e donne che faticano a sperare perché privati di ogni speranza, a volte perfino incapaci di sperare. Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale, eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre e a ogni costo far festa.

Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare a cuori stanchi e affaticati, capaci di risollevare quanti, come i discepoli di Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo, la fatica a credere ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l'uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente contemporaneo.

Comprendere l'anno liturgico come un ciclo, un anello chiuso su di sé ma come un movimento elicoidale che mette la vede in cammino significa, nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo, comprendere che le nostre liturgie, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili ma è l'espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa aggrapparsi a una speranza.

Oggi la fede è, infatti, perlopiù esperimentata come l'apertura a una speranza. Nutrire la speranza, questo oggi è il compito primo dell'anno liturgico, dare ragioni per alimentare per esercitarsi a credere che si sono realtà non visibili, e queste realtà sono la nostra salvezza. Uscire dalla precarietà in cui ci si trova per entrare un giorno nella condizione di beatitudine in Dio. “Solo la speranza nella vita eterna ci fa propriamente cristiani”, ha scritto Agostino.

Oggi è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni per speranza, eppure questo è il compito oggi dell'anno liturgico, perché la mancanza di speranza rende l'uomo estraneo al tempo, irrimediabilmente assente a questo tempo presente. La speranza è esattamente questo: volere infinitamente il finito, è vivere eternamente il tempo. Come ha scritto Emmanuel Mounier in un saggio dedicato a Péguy, la speranza “rifà ciò che l'abitudine disfa. È la sorgente di tutte le nascite spirituali, di ogni libertà, di ogni novità. Semina cominciamenti là dove l'abitudine immette morte”.

avventoanno liturgicoattesasperanzaparusia

inviato da Francesco De Luca, inserito il 15/01/2018

TESTO

16. Ricorda   1

Kahlil Gibran, Le parole non dette, Ed. Paoline 1991, pg. 112

La lanterna che reggi
non è tua,
la canzone che canti
non è stata composta
nel tuo cuore:
benché porti la luce,
non sei la luce,
e anche se sei un liuto
non sei il suonatore di liuto.

lucemusicarapporto con Diotestimonianza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 02/12/2017

TESTO

17. Considerare il fratello un candidato all'unità

Chiara Lubich, Payerne (Svizzera), 26 settembre 1982

Ecco la prima idea che può già rivoluzionare la nostra anima se noi siamo sensibili al soprannaturale: la fratellanza universale che ci libera da tutte le schiavitù, perché siamo schiavi delle divisioni fra poveri e ricchi, fra generazioni: padri e figlioli, fra bianchi e neri, fra razze, fra nazionalità, persino fra cantone e cantone siamo schiavi, ci critichiamo; ci sono degli ostacoli, delle barriere. No, La prima idea è svincolarsi da tutte le schiavitù e vedere in tutti gli uomini, in tutti gli uomini...

- Ma anche nel mio bambino?
- Anche in quella donna lì così chiacchierona?
- Anche in quel vecchio rimbambito?
- Anche in quella povera lì?
- Anche in quell'ebreo?
- Anche in quello lì? ma possibile?

Sì, in tutti, in tutti, in tutti vedere dei possibili candidati all'unità con Dio e all'unità fra di noi.
Ecco, bisogna spalancare il cuore, rompere tutti gli argini e mettersi in cuore la fratellanza universale: io vivo per la fratellanza universale!
Dunque, se tutti siamo fratelli, dobbiamo amare tutti, dobbiamo amare tutti, dobbiamo amare tutti. Guardate, sembra una parolina, è una rivoluzione! Dobbiamo amare tutti. "Anche quella signora che sta di là della mia porta? Ma mi critica, mi guarda male, e poi è un tipo!" Anche lei, dobbiamo amare tutti!

unitàamorefratellanzagratuitàdivisionipregiudizi

inviato da Qumran2, inserito il 02/12/2017

TESTO

18. Conversione

San Cipriano di Cartagine, Lettera a Donato

Un tempo io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tutte le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano innanzi, vagavo in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita.

Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse davvero difficile e duro, per i miei sentimenti di quel periodo, ciò che la misericordia di Dio mi prometteva per portarmi alla salvezza.

Reputavo fosse difficile poter nuovamente rinascere e deporre le abitudini precedenti, anche se il battesimo nell'acqua della salvezza mi rinnovava a nuova vita. Stimavo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l'animo senza mutare nel suo fisico.

Continuavo a dirmi: «Come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto ad un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi di quelle abitudini che ho indebitamente contratte?».

Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero legato dai moltissimi errori della mia vita passata e non credevo di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualcosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me.

Ma sopraggiunse l'aiuto dell'acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall'alto si diffuse una luce nel mio cuore purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai un uomo nuovo.

Dopo questo evento, ciò che era segnato dal dubbio improvvisamente divenne, in modo che non saprei descrivere, una certezza; quello che era impenetrabile e pieno di tenebra mi apparve accessibile e luminoso.

Potevo raggiungere quello che prima mi sembrava assurdo e fare quello che finora ritenevo impossibile. Avevo così la possibilità di capire come fosse terreno l'uomo di prima, nato dalla carne e schiavo dei vizi.

battesimoconversionecambiamentorinascitaerrorivizi

inviato da Qumran, inserito il 26/09/2017

TESTO

19. Ricordatevi di Dio

Isacco di Ninive, La filocalia

Ricordatevi di Dio, perché in ogni istante egli si ricordi di voi. Se si ricorda di voi, vi darà la salvezza. Non dimenticatelo lasciandovi sedurre da distrazioni vane. Volete forse che vi dimentichi nei momenti delle vostre distrazioni?

Rimanetegli vicini e obbedienti nei giorni della prosperità. Potrete contare sulla sua parola nei giorni difficili, poiché la preghiera vi renderà sicuri della sua presenza costante. Rimanete incessantemente dinanzi al suo volto, pensatelo, ricordatelo nel vostro cuore. Altrimenti, se lo incontrate appena di tanto in tanto, rischiate di perdere la vostra intimità con lui.

La familiarità tra gli uomini avviene mediante la presenza fisica. La familiarità con Dio consiste nella meditazione e nell'abbandono in lui durante la preghiera.

Chi vuol vedere il Signore, purifichi il suo cuore col ricordo continuo di Dio. Arriverà a contemplarlo ogni istante e dentro di sé sarà tutto luce.

contemplazionevicinanza di Diopresenza di Diorapporto con Diopreghiera

inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017

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20. La preghiera contemplativa

Carlo Carretto, Deserto in città

Quando partii per il deserto avevo lasciato tutto com'è l'invito di Gesù: situazione, famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno... le mie idee che avevo su Dio e tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.

E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in un'idea e avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui.

Il mio maestro di noviziato continuava a dirmi: "Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all'Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare...contempla...". Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ben ancorato alle mie idee.

Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare. Mamma mia! Lavorare nell'oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più.

Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta. Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca usciva solo qualche lamento.

L'unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà con i poveri, i veri poveri. Mi sentivo con chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno d'estate.

Se per pregare era necessario un po' di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda e ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario.

Non capivo più niente, o meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo!

E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io dovevo fare la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?
La preghiera passa per il cuore, non per la testa.

Sentii come se una vena si aprisse nel cuore e per la prima volta sperimentai una dimensione nuova dell'unione con Dio. Che avventura straordinaria mi stava capitando. Non dimenticherò mai quell'istante. Ero come un'oliva schiacciata dal torchio. Al di là della "sofferenza", che dolcezza indicibile mi inondava tutta la realtà in cui vivevo.

La pace era totale. Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.

Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa.

preghieracontemplazionepoveripovertàrapporto con Diolavoro

inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017

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