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TESTO

1. I piedi del Risorto   3

Tonino Bello, Dalla testa ai piedi

Carissimi,

Io non so se nell'ultima cena, dopo che Gesù ebbe ripreso le vesti, qualcuno dei dodici si sia alzato da tavola e con la brocca, il catino e l'asciugatoio si sia diretto a lavare i piedi del maestro. Probabilmente no. C'è da supporre comunque che dopo la sua morte ripensando a quella sera, i discepoli non abbiano fatto altro che rimproverarsi l'incapacità di ricambiare la tenerezza del Signore.

Possibile mai, si saranno detti, che non ci è venuto in mente di strappargli dalle mani quei simboli del servizio, e di ripetere sui suoi piedi ciò che egli ha fatto con ciascuno di noi? Dovette essere così forte il disappunto della Chiesa nascente per quella occasione perduta, che, quando Gesù apparve alle donne il mattino della risurrezione, esse non seppero fare di meglio che lanciarsi su quei piedi e abbracciarli. "Avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono". Ce lo riferisce Matteo, nell'ultimo capitolo del suo Vangelo. Gli cinsero i piedi. Non gli baciarono le mani o gli strinsero il collo. No.

Gli cinsero i piedi! Erano già bagnati di rugiada. Glieli asciugarono, allora con l'erba del prato e glieli scaldarono col tepore dei loro mantelli. Quasi per risarcire il maestro, sia pure a scoppio ritardato, di una attenzione che la notte del tradimento gli era stata negata. Gli cinsero i piedi. Fortunatamente avevano portato con sé profumi per ungere il corpo di Gesù. Forse ne ruppero le ampolle di alabastro e in un rapimento di felicità riversarono sulle caviglie del Signore gli olii aromatici che furono subito assorbiti da quei fori: profondi e misteriosi, come due pozzi di luce.

Gli cinsero i piedi. Finalmente! Verrebbe voglia di dire. Ma chi sa in quel ritardo ci doveva essere anche tanto pudore. Forse la chiesa nascente rappresentata dalle due Marie prima di cadergli davanti nel gesto dell'adorazione aveva voluto aspettare di proposito che Gesù riprendesse davvero le vesti. Non quelle che aveva momentaneamente deposto prima della lavanda. Ma quelle veramente inconsutili del suo corpo glorioso. Carissimi fratelli, oggi voglio dirvi che la Pasqua è tutta qui. Nell'abbracciamento di quei piedi. Essi devono divenire non solo il punto di incontro per le nostre estasi d'amore verso il Signore, ma anche la cifra interpretativa di ogni servizio reso alla gente, e la fonte del coraggio per tutti i nostri impegni di solidarietà con la storia del mondo.

Non c'è da illudersi. Senza questa dimensione adorante, espressa dal gruppo marmoreo di donne protese dinanzi al risorto, saremo capaci di organizzare solo girandole appariscenti di sussulti pastorali. Se non afferriamo i piedi di Gesù, lavare i piedi ai marocchini, o agli sfrattati, o ai tossici, non basta.

Non basta neppure lavarsi i piedi a vicenda, tra compagni di fede. Se la preghiera non ci farà contemplare speranze ultramondane attraverso quei fori lasciati dai chiodi, battersi per la giustizia, lottare per la pace e schierarsi con gli oppressi, può rimanere solo un'estenuante retorica. Se, caduti in ginocchio, non interpelleremo quei piedi sugli orientamenti ultimi per il nostro cammino, giocarsi il tempo libero nel volontariato rischia di diventare ricerca sterile di sé e motivo di vanagloria. Se l'adorazione dinnanzi all'ostensorio luminoso di quelle stigmate non ci farà scavalcare le frontiere delle semplici liberazioni terrene, impegnarsi per le promozione dei poveri potrà sfiorare perfino il pericolo dell'esercizio di potere. Non basta avere le mani bucate. Ci vogliono anche i piedi forati. E' per questo che quando Gesù apparve ai discepoli la sera di Pasqua "mostrò loro le mani e i piedi".

E poi, quasi per sottolineare con la simbologia di quei due moduli complementari che senza l'uno o l'altro, ogni annuncio di risurrezione rimarrà sempre mortificato, aggiunse: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io".

Mani e piedi, con tanto di marchio! Ecco le coordinate essenziali per ricostruire la carta d'identità del risorto. Mani bucate. Richiamo a quella inesauribile carità verso i fratelli, che si fa donazione a fondo perduto. Piedi forati.

Appello esigente a quell'amore verso il Signore, che ci fa scorgere il senso ultimo delle cose attraverso le ferite della sua carne trasfigurata.

pasquaresurrezionerisortorisurrezioneserviziovolontariato

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inviato da Qumran2, inserito il 07/04/2012

RACCONTO

2. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

amoresacrificiodonazionedonareamicizia

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

RACCONTO

3. L'asinello che portò Gesù   3

Mariolina Puddu

In un campo pascolavano un'asina con il suo puledro. Era stato svezzato da poco e talvolta, quando si metteva nei guai, cercava ancora il conforto della sua mamma.

Il suo nome era Lollo e aveva grandi orecchie appuntite e occhioni scuri, intelligenti e furbi. Come tutti i cuccioli era birbaccione, chiassoso, prepotente. Appena poteva si allontanava verso i confini del campo cercando di sconfinare e, quando il padrone andava a riprenderlo, puntava le zampe sul terreno e non c'era modo di smuoverlo. Bisognava trascinarlo e quanto erano acuti i suoi ragli di protesta! Il padrone ancora non si decideva a metterlo al lavoro: era talmente giovane e testone!

Una bella mattina di primavera giungono nel campo degli uomini, parlottano un po' col padrone e poi cominciano a guardare verso Lollo. Erano venuti infatti a fare una richiesta curiosa che riguardava proprio lui. Questi uomini erano servi di un tale, un certo Nazareno e, mandati da questo, volevano in prestito proprio Lollo. Serviva al loro Maestro per entrare in Gerusalemme.

Il padrone era perplesso: "Macché Lollo! Per il vostro Maestro ci vuole un cavallo. Io non ce l'ho, ma il mio vicino è un soldato e certamente sarà contento di prestarvi il suo bel cavallo bianco".

Ma quelli insistevano, si erano proprio fissati! Volevano un asino che fosse giovane che non avesse mai lavorato. "E' il Maestro che lo chiede - dicevano - ma non temere te lo restituiremo".

Il padrone alzava gli occhi al cielo: "Ma allora proprio non capite, quest'asino non è adatto! E' prepotente, testone e farà fare a me e al vostro Maestro una brutta figura. E' capace di fermarsi in mezzo alla strada e di non voler più camminare, se gli gira, incomincia a ragliare così forte e non la finisce più, e poi, morde!".

E i servi a lui: "Così come è, lo vuole il Maestro, e Lui non sbaglia! Se ha chiesto quest'asino avrà i suoi buoni motivi!". Il padrone allora, avvilito, prende un pezzo di corda, lo butta intorno al collo di Lollo e lo consegna ai servi. Lollo è troppo interessato alla faccenda per pensare a fare i capricci, e docile si lascia legare e condurre fuori del campo.

Fatta poca strada arrivano a un bivio, poco fuori Gerusalemme. Ci sono uomini, donne e anche bambini che attorniano un giovane uomo. I servi dirigono proprio verso di Lui: "Ecco, Maestro, questo è l'asino che avevi chiesto". Il Maestro si volta, si avvicina a Lollo, allunga una mano, lo accarezza sulla testa e lo guarda. Anche Lollo alza gli occhi verso questo bizzarro Maestro che ha voluto a tutti i costi averlo come cavalcatura, e i suoi occhi si immergono nello sguardo del Maestro: "Mai nessuno mi aveva guardato così" - dirà poi Lollo - "neanche la mia mamma". E' come se con un solo sguardo il Maestro mi dicesse: "Non temere, va bene così. Sì sei un po' un brigante, ma ce la puoi fare. Io mi fido di te e ti voglio bene! Coraggio! Cominciamo questo viaggio, sarai tu a portarmi a Gerusalemme".

Lollo sente come un fuoco dentro il suo cuore, è contento e un po' ha voglia di piangere, senza motivo... Mansueto si lascia mettere un mantello rosso sulla groppa, si lascia montare dal Maestro e, lentamente, incominciano il loro viaggio verso Gerusalemme. Via via che si avvicinano alla città la gente diventa più numerosa. Stendono per terra dei mantelli rossi, hanno in mano dei rami di palma e di ulivo, li agitano e gridano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell'alto dei cieli!".

Lollo si sente davvero un asinello importante... Tutti fanno festa alla persona che lui sta portando in groppa, bardato con quel bel manto rosso! Anche i bambini fanno festa e alcune bambine portano dei fiori.

Ad un tratto una voce si leva dalla folla e chiede: "Chi è quest'uomo?".
Qualcuno risponde: "E' Gesù, da Nazareth di Galilea!".
"Che cosa ha fatto?".
"Io sono vedova, Gesù ha risuscitato il mio unico figlio. Eccolo!".
"Io ero muto per colpa di un demonio e Gesù mi ha liberato".
"Io avevo questa mano come morta e lui mi ha detto: Stendila! E la mia mano è tornata come nuova! Ha fatto bene ogni cosa!".

Lollo ascolta tutto quello che la gente dice sull'uomo che sta accompagnando a Gerusalemme. "Ora capisco perché alcuni chiamano Gesù il Signore!". La folla è al colmo della gioia e della festa. Gesù è pronto per entrare nel tempio. Prima di allontanarsi, con la mano sfiora lentamente il muso dell'asinello. Gesù e Lollo si guardano per un lungo istante.

Gesù capisce ciò che l'asinello gli vuol dire:
"Grazie Signore di avermi cercato.
Tu hai avuto bisogno di me e hai avuto fiducia in me!
D'ora in poi, anche se non credo che riuscirò ad essere sempre bravo, voglio provare ad essere come tu mi vedi.
Forse scalcerò ancora e certamente raglierò ogni tanto ma non potrò mai dimenticare che hai avuto fiducia in me.
Grazie Gesù, anche io ti voglio bene".

domenica delle palmefiduciasguardo di Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Mariolina Puddu, inserito il 25/03/2010

TESTO

4. C'ero anch'io...   3

Mariangela Forabosco

C'ero anch'io, Signore Gesù, quella notte, nel giardino del Getsemani!
Ero lì, con i tuoi Apostoli ancora sconvolti per tutto quello che ti avevano sentito dire, quella sera; per quei piedi lavati proprio da te, il Maestro; per quel incomprensibile, straziante annuncio della tua imminente morte!

Ero lì, e ti ho visto piangere lacrime e sudare sangue, ti ho sentito implorare il Padre tuo di allontanare l'amaro calice della passione che sentivi vicino...io non capivo!

Avrei voluto inginocchiarmi accanto a te, sulle pietre aguzze, asciugare il tuo sudore di sangue, accarezzare il tuo volto sconvolto, implorarti di fuggire lontano, di metterti in salvo dalla crudeltà degli uomini, ma ti ho sentito dire:" Non sia fatta la mia, ma la tua volontà, Padre"!
Il peso di queste parole è stato troppo grande, per me: ti ho lasciato solo, mi sono allontanata e ho dormito, insieme ai tuoi apostoli.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel pretorio di Pilato!
Ero lì, e sentivo la folla rumoreggiare, fuori; erano come impazziti, tanto da scegliere, urlando, la liberazione di Barabba e la tua condanna.

Ero lì, quando i soldati ti legavano alla colonna; ero lì, quando i flagelli incidevano la tua carne, quando la tua schiena si inarcava per il dolore atroce. Avrei voluto strappare di mano ai soldati quelle fruste che si accanivano sulla tua carne innocente, avrei voluto liberare quelle tue mani che avevano portato sollievo a tante persone, avrei voluto gridare la mia rabbia per tanto strazio, ma non ho saputo fare altro che rintanarmi in un cantuccio nascosto: ho avuto paura di svelare apertamente il mio amore per te, avevo paura di essere riconosciuta come tua sorella, tua amica e mi sono nascosta.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel cortile del pretorio, quando Pilato ti consegnò ai soldati per la crocifissione!

Ero lì, quando l'intera coorte iniziò a torturare il tuo corpo martoriato dalla flagellazione. Ti rivestirono di porpora e, intrecciata una corona con pungentissime spine, te la conficcarono nel capo, profondamente; si inginocchiavano davanti a te, uomo dei dolori, dicendoti:"Salve, re dei Giudei!", e ti sputavano addosso e continuavano a percuotere il tuo corpo straziato.

Avrei voluto strappare spina per spina dal tuo capo, avrei voluto liberare il tuo santo corpo da tanta crudeltà, avrei voluto gridare a tutti che si ricordassero quante parole sananti avevi pronunciato, quanti peccati avevi perdonato, con quelle labbra ora tumefatte e sanguinanti. Invece, ancora una volta mi sono nascosta dietro le mie paure, la mia voglia di quieto vivere, la tentazione di non impicciarmi, di non rischiare, e sono fuggita.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quando, carico della croce, percorrevi la via che portava al luogo del supplizio. Tanta gente urlava, ai lati, e ti scherniva: erano gli stessi che la domenica delle Palme stendevano i loro mantelli sotto i tuoi passi e ti chiamavano "Figlio di Davide".

Ero lì, quando cadevi sotto il peso di quel legno! Avrei voluto togliertelo di dosso, asciugarti il volto come ha fatto la Veronica, offrirti dell'acqua, gridarti il mio dolore e la rabbia che provavo nel vederti sopportare così passivamente tanta crudeltà. Invece, non ho trovato il coraggio di farmi riconoscere; ho preferito assistere al tuo martirio senza compromettermi troppo.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quando i colpi del martello risuonavano nell'universo e il Figlio di Dio veniva inchiodato ad una croce, tra due malfattori. Ero lì, quando, ormai allo stremo, trovavi la forza di perdonare i tuoi carnefici "perché non sanno quello che fanno": così hai detto!

Ero lì, quando hai consegnato tua Madre a Giovanni e Giovanni a tua Madre; c'ero anch'io, in quella consegna; c'ero anch'io, in quel perdono; c'era anche la mia salvezza, in quel "tutto è compiuto"! Avrei voluto abbracciare quella croce, che tratteneva il tuo corpo ormai senza vita; avrei voluto strappare di mano la spada che ti ha trafitto il costato; avrei voluto dare la mia vita per la tua, ma, ormai, era troppo tardi, tutto era irrimediabilmente finito!

C'ero anch'io, Signore Gesù, davanti al sepolcro vuoto, quel mattino del primo giorno della settimana! Ero lì, con le altre donne, con Pietro, con Giovanni, con la Maddalena, a guardare stupita la pietra rimossa, le bende piegate, a chiedermi dove fosse il mio Signore.

Ero lì, e non capivo, perché la mia fede era provata duramente dalla tua morte, ma anche perché sapevo di averti lasciato solo, e il mio cuore mi suggeriva rimorso e rimpianto.

Ero lì, e piangevo e avrei voluto ancora una volta fuggire lontano, nascondermi al mio stesso dolore, consapevole che avevo cercato tanto il mio Signore, ma che la mia paura me l'aveva fatto perdere per sempre! Ed ecco che, improvvisamente, quando stavo per andarmene, sconsolata, ho sentito una voce dolcissima chiamarmi per nome: era la tua voce, Signore Gesù!

Eri tornato, eri vivo, eri lì, davanti a me; eri venuto a cercarmi e mi avevi trovata. I miei abbandoni, i miei tradimenti li hai presto dimenticati; hai voluto dirmi che tu sei il vivente, che non mi lascerai mai, che la morte è vinta per sempre ed io sto partecipando, insieme a tutta la creazione, alla tua risurrezione.

Cristo è risorto, alleluia!

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inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 21/03/2008

TESTO

5. Vuoi onorare il corpo di Cristo?   2

San Giovanni Crisostomo

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".

Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.

Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.

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inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002