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PREGHIERA
121. Signore, perché mi hai detto di amare? 2
Signore, perché mi hai detto di amare tutti gli uomini,
miei fratelli?
Ho cercato, ma torno a te sgomento...
Signore, ero tanto tranquillo a casa mia,
avevo ordinato la mia vita, mi ero sistemato.
La mia casa era arredata e mi ci trovavo bene.
Solo, andavo d'accordo con me stesso.
Al riparo dal vento, dalla pioggia, dal fango.
Sarei rimasto puro, chiuso nella mia torre.
Ma nella mia fortezza, Signore, hai scoperto una falla,
Mi hai costretto a socchiudere la porta,
Come una raffica d'acqua in viso, mi ha destato il grido degli uomini;
Come un vento burrascoso, mi ha scosso un'amicizia;
Come s'infiltra un raggio di sole, la tua grazia mi ha inquietato
...ed imprudentemente ho lasciato socchiusa la porta.
Signore, ora son perduto!
Fuori gli uomini mi spiavano.
Non sapevo che fossero tanto vicini; in questa casa, in questa via, in quest'ufficio;
il vicino, il collega, l'amico.
Non appena ho socchiuso, li ho visti, con la mano tesa, lo sguardo teso, l'anima tesa che
chiedevano come mendicanti alle porte delle chiese.
I primi sono entrati in casa mia, Signore. Vi era pure un po' di posto nel mio cuore.
Li ho accolti, li avrei curati, li avrei accarezzati, le mie pecorelle, il mio piccolo gregge.
Saresti rimasto contento, Signore, ben servito, ben onorato, con decoro, con finezza.
Fin lì, era ragionevole...
Ma quelli che seguivano, Signore, gli altri uomini, non li avevo veduti; i primi li nascondevano.
Erano più numerosi, erano più miserabili, mi hanno aggredito senza dar l'allarme.
È stato necessario restringersi, fare posto in casa mia.
Ora, son venuti da ogni dove, a ondate successive, che si sospingevano l'un l'altra,
si urtavano.
Son venuti da ogni dove, dalla città tutta, dalla nazione, dal mondo;
innumerabili, inesauribili.
Non son più isolati, ma a gruppi, in catena, legati gli uni agli altri, mescolati, saldati,
come pezzi di umanità.
Non son più soli, ma carichi di pesanti bagagli;
bagagli d'ingiustizia, bagagli di rancore e di odio, bagagli di sofferenza e di peccato...
Trascinano il Mondo alla loro sequela, con tutto il suo materiale arrugginito e contorto,
o troppo nuovo e mal messo, mal impiegato.
Signore, mi fanno male! Sono ingombranti, sono invadenti.
Hanno troppa fame, mi divorano!
Non posso più far nulla; quanto più entrano e tanto più
spingono la porta e tanto più la porta si apre... Ah, Signore! La mia porta è spalancata!
Non ne posso più! E' troppo per me! Non è più una vita!
E la mia situazione?
E la mia famiglia?
E la mia tranquillità?
E la mia libertà?
Ed io?
Ah! Signore, ho perso tutto, non sono più mio;
Non c'e più posto per me a casa mia.
Non temere nulla, dice Dio, hai guadagnato tutto,
perché mentre gli uomini entravano in casa tua,
io tuo Padre,
io, tuo Dio,
mi sono infiltrato tra loro.
accoglienzasolidarietàamoreimpegnoresponsabilitàpovertàricchezza
inserito il 31/12/2005
RACCONTO
Un giorno, un anziano professore della "Scuola Nazionale di Amministrazione Pubblica" (ENAP) fu assunto per tenere un corso sulla Pianificazione efficace del proprio tempo a un gruppo di una quindicina di dirigenti di grandi compagnie nordamericane.
Il corso costituiva una delle 5 materie della loro giornata di formazione. Il vecchio professore disponeva solo di un'ora per il suo corso. Stando in piedi, davanti a quest'elite (pronta a prender nota di tutto quello che l'esperto avrebbe insegnato) l'anziano insegnante li guardò uno ad uno, lentamente, poi disse:
"Oggi faremo un'esperienza".
E tirò fuori da sotto la cattedra che li separava un grosso recipiente (che conteneva più di 4 litri) che posò delicatamente davanti a sé. Subito dopo tirò fuori una dozzina di sassi, grandi come una palla da tennis, e li pose con delicatezza, uno per uno, dentro al grande vaso. Quando fu pieno, di modo che non era più possibile aggiungerci un altro sasso, domandò ai suoi allievi: "Secondo voi, il vaso è pieno?".
Essi risposero in coro: "Sì".
Il vecchio attese qualche secondo e poi domandò: "Veramente?". Allora si piegò e tirò fuori da sotto il tavolo un recipiente contenente del granigliato di marmo. Con minuzia, versò il granigliato nel vaso e i pezzettini andarono ad infilarsi fra un sasso e l'altro... fino alla base.
Sollevando lo sguardo verso il suo uditorio, domandò di nuovo: "E adesso è pieno?". Questa volta i suoi brillanti allievi cominciarono a comprendere, e uno di essi disse:
"Probabilmente, no".
"Bene" - riprese l'insegnante. Si piegò di nuovo, e questa volta tirò fuori un sacchetto di sabbia. Con precisione, versò la sabbia nel vaso. La sabbia riempì gli interstizi lasciati liberi dai sassi e dal granigliato.
Ancora una volta, domandò: "E adesso, il vaso è pieno?".
E questa volta, senza esitare, tutti gli allievi risposero in coro: "No!".
"Bene!", disse il vecchio. E come i suoi prestigiosi allievi si attendevano, prese la caraffa d'acqua che era sulla cattedra e riempì il vaso fino al bordo. Sollevando lo sguardo verso il gruppo, l'insegnante domandò: "Qual è la grande verità che ci dimostra questo esperimento?".
Il più audace degli allievi, riflettendo sul soggetto della materia, disse con orgoglio: "Questo dimostra che, anche quando crediamo che la nostra agenda sia completamente piena, se lo si vuole veramente, possiamo aggiungere ancora qualche appuntamento, qualcosa da fare".
"No - rispose il vecchio prof. - non si tratta di questo. La grande verità che ci dimostra quest'esperienza è la seguente: Se noi non infiliamo i sassi per primi nel vaso, non potremo mai farceli stare tutti, dopo!".
Ci fu un profondo silenzio. Ciascuno prendeva coscienza dell'evidenza di questa verità.
Il vecchio prof., allora, aggiunse: "Quali sono i grandi sassi nella vostra vita? La salute? La Famiglia? Gli amici? Realizzare i vostri sogni? Fare quello che vi piace? Imparare? Difendere una causa? Riposarsi? Dare ad ogni cosa il suo tempo? O... qualsiasi altra cosa? Quello che dovete imparare, è l'importanza di mettere i GROSSI SASSI in primo piano, nella vostra vita, se no rischierete di fallire! Se darete la precedenza alle quisquiglie (il granigliato, la sabbia) riempirete la vita di stupidaggini e non avrete abbastanza tempo da consacrare agli elementi importanti della vostra vita. Allora, non dimenticate di porvi la domanda: Quali sono le grosse pietre della mia vita? E in seguito, mettetele nel vaso!".
Con un gesto amicale della mano, il professore salutò il suo auditorio e abbandonò lentamente l'aula.
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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/11/2005
RACCONTO
Un giorno, la foresta prende fuoco e gli animali fuggono in cerca di un luogo sicuro. Mentre fugge, la scimmia nota un uccellino che vola in direzione delle fiamme.
"Che cosa stai facendo?" domanda la scimmia. "Non vedi che la foresta si è incendiata?"
"Sì," risponde l'uccellino. "Ma sto portando nel becco alcune gocce d'acqua, per spegnere il fuoco."
La scimmia scoppia a ridere: "Uccellino scemo e presuntuoso. Come puoi spegnere quel fuoco con poche gocce d'acqua?"
"So che non posso. Ma, per lo meno, sto facendo la mia parte e mi auguro che gli altri avvertano il mio sforzo. Se tutti gli animali seguiranno il mio esempio, riusciremo a dominare le fiamme e a salvare la nostra foresta."
Il povero uccellino pur consapevole della sua inadeguatezza, nutre ancora una fievole speranza di salvare la foresta che sta bruciando, mentre gli altri animali scappano e lo scherniscono pure. Ma la "grandezza" del nostro piccolo eroe si evince proprio dalla consapevolezza (so che non posso...) e dalla sua caparbietà e fiducia (lottare comunque e fare fino all'ultimo quel che si può). Ultimato il suo lavoro, con la speranza nel cuore che altri seguano il suo esempio, potrà riposarsi e dormire sonni tranquilli. La sua parte lui l'ha fatta....
inviato da Valter, inserito il 02/10/2005
TESTO
124. La croce di Cristo, nostra salvezza
S. Teodoro Studita, Discorso sull'adorazione della croce; PG 99, 691-694, 695, 698-699
O dono preziosissimo della croce! Quale splendore appare alla vista! Tutta bellezza e tutta magnificenza. Albero meraviglioso all'occhio e al gusto e non immagine parziale di bene e di male come quello dell'Eden.
E' un albero che dona la vita, non la morte, illumina e non ottenebra, apre l'udito al paradiso, non espelle da esso.
Su quel legno sale Cristo, come un re sul carro trionfale. Sconfigge il diavolo padrone della morte e libera il genere umano dalla schiavitù del tiranno. Su quel legno sale il Signore, come un valoroso combattente. Viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato. Ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso.
Prima venimmo uccisi dal legno, ora invece per il legno recuperiamo la vita. Prima fummo ingannati dal legno, ora invece con il legno scacciamo l'astuto serpente. Nuovi e straordinari mutamenti! Al posto della morte ci viene data la vita, invece della corruzione l'immortalità, invece del disonore la gloria.
Perciò non senza ragione esclama il santo Apostolo: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo» (Gal 6, 14).
Quella somma sapienza che fiorì dalla croce rese vana la superba sapienza del mondo e la sua arrogante stoltezza. I beni di ogni genere, che ci vennero dalla croce, hanno eliminato i germi della cattiveria e della malizia. All'inizio del mondo solo figure e segni premonitori di questo legno notificavano ed indicavano i grandi eventi del mondo. Stai attento, infatti tu, chiunque tu sia, che hai grande brama di conoscere. Noè non ha forse evitato per sé, per tutti i suoi familiari ed anche per il bestiame, la catastrofe del diluvio, decretata da Dio, in virtù di un piccolo legno? Pensa alla verga di Mosè. Non fu forse un simbolo della croce? Cambiò l'acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi, percosse il mare e lo divise in due parti, ricondusse poi le acque del mare al loro normale corso e sommerse i nemici, salvò invece coloro che erano il popolo legittimo. Tale fu anche la verga di Aronne, simbolo della croce, che fiorì in un solo giorno e rivelò il sacerdote legittimo. Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna.
La morte fu uccisa dalla croce e Adamo fu restituito alla vita. Della croce tutti gli apostoli si sono gloriati, ogni martire ne venne coronato, e ogni santo santificato. Con la croce abbiamo rivestito Cristo e ci siamo spogliati dell'uomo vecchio. Per mezzo della croce noi, pecorelle di Cristo, siamo stati radunati in un unico ovile e siamo destinati alle eterne dimore.
inviato da Anna Barbi, inserito il 02/10/2005
TESTO
125. Terza Lettera a Timoteo 2
La seguente lettera è uno "pseudoepigrafo paolino", sulla conversione missionaria del prete; è una simpatica e profonda lettera rivolta da un vescovo ai preti di oggi.
Carissimo fratello Timoteo,
da circa un mese sei parroco in Santa Maria del terzo Millennio. Come non ricordare la solenne e commovente "presa di possesso"? L'unica pecca che stava per guastare la festa fu proprio quella bruttissima espressione - "presa di possesso" - che il cancelliere vescovile voleva implacabilmente inserire nel verbale da conservare nell'archivio Diocesano e in quello parrocchiale. Ti ho letto nel lampo degli occhi che stavi per scattare - per dire con la vostra brutalità giovanile che non ti sentivi affatto un vassallo in atto di prendere possesso del suo ambìto feudo. Intervenni io, un po' a gamba tesa, e spiegai alla tanta gente in festa che tu, la parrocchia, non l'avresti mai e poi mai vista come un "tuo" possesso, ma solo come un dono immeritato e preziosissimo, e a quel punto mi permisi un'autocitazione, presa dalla mia seconda lettera ai cristiani di Corinto: noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia.
Mi telefonasti la sera dopo, e mi dicesti: "Che bella parrocchia! E c'è anche la luna!". Da allora non ti ho più visto né sentito, ma dato che siamo al primo... "trigesimo" di quel felice inizio, ho pensato bene di scriverti questa breve lettera, perché vorrei che la tua gioia di essere parroco crescesse di giorno in giorno.
Sì, lo so: questo miracolo della beatitudine è purtroppo un po' raro tra noi pastori, ma non è improbabile e niente affatto impossibile. Ed è proprio di questo che vorrei parlarti. Stai sereno, non ti rifilo un trattato di ascetica e mistica sulla carità pastorale. Ti vorrei parlare solo di una condizione assolutamente irrinunciabile - "sine qua non", si diceva ai miei tempi - perché il miracolo si avveri. Sarai un parroco felice nella misura in cui sarai un vero missionario. Non si scappa: o missionari o... dimissionari.
E' una conversione profonda, che bisogna rinnovare ogni giorno. Ogni mattina, prima di mettere i piedi fuori dal letto, beato te se dirai: "Grazie, Signore, per avermi creato, fatto cristiano, e grazie per avermi fatto questi piedi belli per il vangelo". Scrivi sullo specchio in sagrestia, o almeno in quello del bagno: "Non sono un professionista del sacro, né un insegnante della fede: sono un annunciatore del vangelo". Quando ero a Corinto io avevo scritto sulla porta della stanzetta nella casa di Aquila e Priscilla: Non sono stato mandato qui a battezzare, ma ad evangelizzare.
Ricordi la grammatica di base del missionario, che ti ho insegnato quando prima di essere tuo vescovo, ti ho fatto da rettore in seminario? E' una grammatica costruita su un quadrilatero di certezze che devono rimanere solide più delle fondamenta della tua splendida chiesetta romanica:
- La parola di Dio è come l'acqua e la neve, se cade...
- La Parola non è lontana, ma molto vicina al cuore, anzi è dentro. Basta trovare il modo per far scattare il contatto...
- "Come agnelli tra i lupi" non è per farci sbranare, ma per far accogliere il messaggio: quanto più siamo deboli umanamente...
- A noi tocca il compito di annunciare. E' il Signore che veglia sulla sua parola perché si realizzi...
Stai attento, Timoteo: devi essere severo nel vigilare che questo spirito missionario non venga aggredito da virus micidiali, quali l'IO-latria del prete che pensa: "Come me non c'è nessuno: prima di me e dopo di me, non ci sarà nessuno uguale a me!". Perciò niente cose alla "W il parroco!". Un altro virus che fa strage in casa nostra è quello dello stress da pastorale: correre, competere, confliggere e alla fine... l'eterno riposo! Ma non c'è da scherzare neanche con la depressio clericalis (si chiama così anche quando infetta i laici): la si vede come un messaggio scritto sulla maglietta in quei "nostri" che vanno in giro con l'aria fritta di chi sembra dire: "fateme 'na flebo". Ti ripeto: devi essere severo. E se lo sarai con te, potrai vigilare anche sullo spirito missionario dei "vicini". Per esempio i gruppi - dal coro a quello liturgico, a quello catechistico e caritativo, dall'AC ai carismatici - non devono essere luoghi di potere o gradini per emergere (è un pericolo sempre in agguato), ma sviluppare il servizio al vangelo. Allora la tua - la vostra - parrocchia non sarà una scuola in cui si spiega il cristianesimo o, peggio ancora, un ufficio di controllo della fede dei parrocchiani, ma riuscirete a far circolare la parola di Dio per le strade, in modo che la gente la incontri.
E con gli altri? Quelli che si servono della parrocchia per continuare abitudini e consuetudini sociali; quelli che la ignorano: cosa puoi esigere se non hanno le motivazioni? Allora ringrazia Dio tutte le volte che càpitano a messa. Tutte le volte che ti portano i figli al catechismo. Tutte le volte che ti chiedono i sacramenti, per sé o per i figli, o il funerale per il caro estinto. Anche se per le loro motivazioni non proprio di fede. Tutte le volte! Non è una disgrazia: è un dono di Dio che vengano, quando saresti tu che dovresti andare a cercarli.
Accogliendoli così come sono, non farai finta che abbiano le tue motivazioni. Quindi non li rimproveri e non li ricatti, non imponi loro dei compiti come se avessero le tue motivazioni, non parli loro e non fai prediche come se avessero la fede. Ti comporti da missionario: entri nella loro situazione, cerchi di capire le loro domande e i loro interessi, parli la loro lingua, proponi con libertà e chiarezza il messaggio, non imponi loro dei fardelli che nemmeno tu riesci a portare.
Per finire, permettimi di ricordarti alcune regole che ti potranno servire per misurare il tuo spirito missionario.
1. Non maledire i tempi correnti: è arrivato al capolinea il cristianesimo dell'abitudine e sta rinascendo il cristianesimo per scelta, per innamoramento.
2. Non anteporre nulla all'annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto. Afferra ogni situazione, ogni problema, ogni interesse e riportalo lì, al centro di tutta la fede.
3. Annuncia il cristianesimo delle beatitudini e non vergognarti mai del vangelo della croce: Cristo non toglie nulla e dà tutto!
4. Il vangelo è da proporre, non da imporre. Non imporlo mai a nessuno, neanche ai bambini, soprattutto ai bambini: gli resterebbe un ricordo negativo per tutta la vita.
5. Non amareggiarti per l'indifferenza dei "lontani" e non invocare mai il fuoco dal cielo perché li consumi, ma fa' festa anche per uno solo di loro che si converte.
6. Ricorda: il kerygma non è come un chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Il messaggio cristiano non è da ripetere meccanicamente, è da reinterpretare nella mentalità e nella lingua della gente: vedi s. Paolo. Scusami: guarda me...
7. Sogna una parrocchia che sia segno e luogo di salvezza, non club di perfetti.
8. Non credere di comunicare il vangelo da solo! Almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72! Creare un gruppo di parrocchiani veri per evangelizzare i presunti tali.
9. Ricordati che i laici non vanno usati come ausiliari utili, ma vanno aiutati a diventare collaboratori corresponsabili.
10. Non ridurti mai a vigile del traffico intraparrocchiale: tu non sei il coordinatore delle attività o il superanimatore di gruppi, ma sei una vera guida, sei il primo evangelizzatore.
Ti auguro di credere sempre nella presenza forte e dolce dello Spirito Santo e ti raccomando di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani.
Caro Timoteo, ti ripeto quanto ti scrissi nella mia prima Lettera: Custodisci con cura tutto quanto ti è stato affidato. Evita le chiacchiere contrarie alla fede. E ti raccomando pure quanto ti scrissi nella seconda Lettera: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inopportuna, rimprovera, raccomanda e incoraggia con tutta la tua pazienza.
La grazia sia con te e con tutti i fedeli della tua comunità, anche con quelli che ancora non sei riuscito ad incontrare!
Paolo, missionario di Gesù Cristo
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inserito il 01/10/2005
TESTO
126. Mangi il pane e non ti tieni in piedi
Mons. Ravasi, Avvenire, 24.02.2005
Mangi il pane e non ti tieni in piedi, bevi l'acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti al tatto, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l'amato è accanto a te, tutto, improvvisamente, risorge, e la vita ti inonda con tale forza che ritieni il vaso d'argilla della tua esistenza incapace a sostenerla.
Queste due frasi delle Variazioni sul Cantico dei cantici (Interlogos 1994) del teologo greco-ortodosso Christos Yannaras illustrano in modo nitido la forza dell'amore vero. Tutto ciò che il giorno prima non aveva sapore, colore, profumo, dopo che ci si è innamorati, si trasforma e trasfigura. È come la superficie di un lago che in un giorno nuvoloso è simile a una lastra metallica grigia e che, col sole, si muta in una tavolozza di colori, rispecchiando l'azzurro del cielo e il verde delle sponde.
Se non si conosce l'amore nel senso pieno e assoluto del termine, si può essere allegri ma non veramente felici, si può godere ma non si conosce la gioia, si può agire ma non creare. È la scoperta di una pienezza che l'amato ti dona in modo unico, come cantava anche Rita Pavone in una canzone degli anni Sessanta: «Come te non c'è nessuno. Tu sei l'unico al mondo».
L'amore non è solo unicità, è anche tensione verso l'infinito: per questo non si può avere l'amore ma essere nell'amore; non è un possesso, ma una tensione vitale. Yannaras scriveva ancora: «Se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a Lui».
In ogni amore genuino c'è lo slancio verso l'Amore infinito, totale, assoluto. È per questo che l'amore è grazia ed è definizione di Dio.
inviato da Danisa, inserito il 23/09/2005
RACCONTO
Due monaci buddisti, in cammino verso il monastero, incontrarono sulla riva del fiume una donna molto bella. Come loro, ella desiderava attraversare il fiume, ma l'acqua era troppo alta. Così uno dei due monaci se la pose sulle spalle e la portò all'altra sponda.
Il monaco che era con lui era scandalizzato. Per due ore intere lo rimproverò per la sua negligenza nel rispettare la santa regola: aveva dimenticato che era un monaco? Come aveva osato toccare una donna? E peggio, trasportarla attraverso il fiume? E cosa avrebbe detto la gente? Non aveva screditato la loro santa religione? E così via.
Il monaco rimproverato ascoltò pazientemente l'interminabile predica. Alla fine lo interruppe dicendo: «Fratello, io ho lasciato quella donna al fiume. Non sarà che tu te la stai ancora portando dietro?».
inviato da Martina Bresolin, inserito il 01/07/2005
PREGHIERA
128. Caro Gesù, ho faticato non poco a trovarti... 1
Ho faticato non poco a trovarti. Ero persuaso che tu stessi laggiù, dove il Giordano rallenta la sua corsa tra i canneti e i ciottoli, scintillando sotto il velo tremante dell'acqua, rendendo più agevole il guado.
C'è tanta folla in questi giorni che si accalca lì, sulla ghiaia del greto, per ascoltare Giovanni, il profeta di fuoco che non si lascia spegnere neppure nel fiume. Immerso fino ai fianchi dove il letto sprofonda e la corrente crea mulinelli di schiuma, invita tutti a entrare nell'acqua, per rivivere i brividi di un esodo antico e mantenere vive le promesse, gonfie di salvezza. In un primo momento, conoscendo la tua ansia di convivere con la gente, e sapendo che la tua delizia è stare con i figli dell'uomo, pensavo di trovarti in quell'alveare di umanità brulicante sugli argini.
Qualcuno, però, che pure ti ha visto uscire dal Giordano, grondante di acqua e di Spirito, e mescolarti tra la turba di pubblicani e peccatori, di leviti e farisei, di soldati e prostitute, mi ha detto che da qualche giorno eri scomparso dalla zona.
Ora, finalmente, ti ho trovato. Ed eccomi qui, accanto a te, non so bene se condotto anch'io dallo Spirito, in questo misterioso deserto di Giuda, tana di fiere e landa di ululati solitari.
ricerca di Diocercare Gesùsolidarietàdeserto
inviato da Matteo Masciale, inserito il 21/06/2005
TESTO
Le lacrime sono parole che non nacquero,
sentimenti che ammutolirono,
sono sorrisi che non attecchirono,
la fede che che fu contraddetta dalla disperazione.
La lacrima è la voce dei rassegnati.
E' frutto della pace rubata al cuore ancora giovane,
che si è perso senza essere assaggiato.
Acqua che tracima dal suo letto senza direzione.
La lacrima è il grido che non può essere udito.
Sono reticenze collocate nel finale di chi non ha potuto continuare.
E' il momento di dare il nodo in gola,
è l'angoscia espulsa per castigare l'anima di chi non ha potuto amare,
è la tristezza che si è stancata di restare accantonata,
è il canto che non ha motivi,
è il motivo di chi si rassegnò e si arrese.
Dio fece la lacrima per esternare quello che la paura rivela
o che l'allegria non supera.
La verità che non può essere detta,
il dolore che non può essere sentito,
il destino che non può essere mutato,
solamente vissuto...
lacrimedoloredisperazionedestinopiantosofferenza
inviato da Jorge T. Correa, inserito il 23/04/2005
TESTO
L'amicizia è fresca e buona
come un sorso d'acqua
dopo una lunga corsa:
è l'unica che desideri veramente.
L'amicizia è un ponte fra due rive:
se non sai nuotare e hai paura dell'acqua,
senza di lei non puoi passare oltre.
L'amicizia è un fiore rosso
nel davanzale di casa tua:
chi lo vede e gode per i suoi colori,
capisce che dentro c'è un cuore che batte.
L'amicizia è un venticello di tramontana
quando fa caldo e l'afa ti toglie il respiro,
lei è balsamo e rigenera la vita
con la sua frescura.
L'amicizia è una luce che scorgi
in una notte nera e disperata:
quando ti appare ritorna il sorriso.
L'amicizia è una mano sullla spalla,
quando cammini solo e il peso ti sovvrasta:
il suo calore scalda le vene e mette ali ai piedi.
L'amicizia è un libro bianco sulla tua tavola:
ci puoi scrivere, inventare storie e perfino sfogarti,
è sempre aperto e pronto per accoglierti.
L'amicizia è un'oasi verde nel deserto,
è una tenda per il pellegrino errante,
è una porta spalancata, un lampo di speranza.
L'amicizia va a braccetto con l'amore:
quando li separi e non l'intendi,
l'una diventa possesso e l'altro tornaconto.
L'amicizia vera nasce dal cuore di Dio,
quando ti illudi di viverla senza Lui,
al primo ostacolo si spezza
come un cristallo infranto ed è rovina.
L'amicizia è dono,
è gratuita come l'aria che respiri,
e come l'acqua che sorseggi.
L'amicizia è gioia,
colora la tua vita di faville.
L'amicizia è pace,
porta calma fra i marosi.
L'amicizia è Dio che ti vuole bene
e niente più.
inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 11/02/2005
RACCONTO
Sri Ramakrishna, Il libro degli esempi, Gribaudi Editore
«Quante discussioni si sono fatte e si fanno ancora su Dio. Tu che ne pensi?», chiese un giorno un discepolo al grande maestro.
«Vedi quell'ape?», rispose il maestro. «Senti il suo ronzìo? Esso cessa quando l'ape ha trovato il fiore e ne succhia il nettare. Vedi quest'anfora? Ora vi verso dell'acqua. Ne senti il glu-glu? Cesserà quando l'anfora sarà colma. Ed ora osserva questo biscotto che pongo crudo nell'olio bollente. Senti come frigge e che rumore fa? Quando sarà ben cotto tacerà. Così è degli uomini. Fino a quando discutono e fanno del gran rumore su Dio, è perché non l'hanno ancora trovato. Chi invece l'ha trovato tace e, nel silenzio, adora ed agisce.»
Dioricerca di Diorapporto con Dio
inviato da Cesarina Volontè, inserito il 23/01/2005
TESTO
Non conosco nessuno che può costruire il sole,
o rinchiudere in un'oceano tanta acqua.
Nessuno che può creare un uomo. Dio può!
Nessun supereroe è forte come lui; nessuno più potente.
Io non riesco ad immaginare nessuno più grande di Dio.
Se io sono felice perché faccio le bolle,
figuriamoci la gioia di Dio che ha creato l'universo e tutto quello che contiene.
Sei grande Dio! Nessuno è come te!
potenza di Diograndezza di DiocreatocreazioneDio
inviato da Stefano Savioli, inserito il 14/01/2005
ESPERIENZA
Chi è che ci prepara l'Eucaristia e ci dona Gesù?
E' il Sacerdote.
Se non ci fosse il Sacerdote, non esisterebberero né il Sacrificio della Messa, né la S. Comunione, né la Presenza Reale di Gesù nei Tabernacoli.
E chi è il Sacerdote?
E' l'"Uomo di Dio". Difatti, è solo Dio che lo sceglie e lo chiama da mezzo agli uomini, con una vocazione specialissima ("Nessuno assume da sé questo onore, ma solo chi è chiamato da Dio": Eb 5,4), lo separa da tutti gli altri ("segregato per il Vangelo": Rm 1,1), lo segna con un carattere sacro che durerà in eternamente ("Sacerdote in eterno": Eb 5,6) e lo investe dei divini poteri del Sacerdozio ministeriale perché sia consacrato esclusivamente alle cose di Dio: il Sacerdote "scelto fra gli uomini è costituito a prò degli uomini in tutte le cose di Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati" (Eb 5,1-2).
Vergine, povero, crocifisso
Con la Sacra Ordinazione il Sacerdote viene consacrato nell'anima e nel corpo. Diviene un essere tutto sacro, configurato a Gesù Sacerdote. Per questo il Sacerdote è il vero prolungamento di Gesù; partecipa della stessa vocazione e missione di Gesù; impersona Gesù negli atti più importanti della redenzione universale (culto divino ed evangelizzazione); è chiamato a riprodurre nella sua vita l'intera vita di Gesù: vita verginale, povera, crocifissa. E' per questa conformità a Gesù che egli è "Ministro di Cristo fra genti" (Rm 15, 16), guida e maestro delle anime (Mt 28, 20).
Lo Spirito Santo configura l'anima del Sacerdote a Gesù, impersona Gesù in lui, di modo che "il Sacerdote all'altare opera nella stessa Persona di Gesù" (S. Cipriano), ed "è il padrone di tutto Dio" (S. Giovanni Crisostomo).
Rispetto e venerazione
Sappiamo che S. Francesco d'Assisi non volle diventare Sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. Venerava i Sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi "Signori", poiché in essi vedeva solamente "il Figlio di Dio"; in particolare venerava le mani dei Sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione; e anzi baciava anche i piedi e le stesse orme dove era passato un Sacerdote.
Il S. Curato d'Ars diceva: "Si dà un gran valore agli oggetti che sono stati deposti, a Loreto, nella scodella della Vergine Santa e del Bambino Gesù. Ma le dita del Sacerdote, che hanno toccato la Carne adorabile di Gesù Cristo, che si sono affondate nel calice, dove è stato il suo Sangue, nella pisside dove è stato il suo Corpo, non sono forse più preziose?".
Sappiamo, del resto, che l'atto di venerazione di baciare le mani del Sacerdote è stato premiato da Dio con veri miracoli. Nella vita di S.Ambrogio, si legge che un giorno, appena celebrata la S. Messa, il Santo fu avvicinato da una donna paralitica che volle baciargli le mani. La poveretta riponeva grande fede in quelle mani che avevano consacrato l'Eucaristia: e fu guarita all'istante. Lo stesso, a Benevento, una donna paralitica da quindici anni, chiese al Papa Leone IX di poter bere l'acqua da lui adoperata durante la S. Messa per l'abluzione delle dita. Il Santo Papa accontentò l'inferma in questa richiesta umile come quella della Cananea che chiese a Gesù "le briciole che cadono dalla mensa dei padroni" (Mt 15, 27). E fu subito guarita anche lei.
"Se io incontrassi - diceva il S. Curato d'Ars - un Sacerdote e un Angelo, saluterei prima il Sacerdote, poi l'Angelo... Se non ci fosse il Sacerdote, a nulla gioverebbe la Passione e la Morte di Gesù... A che servirebbe uno scrigno ricolmo d'oro, quando non vi fosse chi lo apre? Il Sacerdote ha le chiavi dei tesori celesti..."
Ma questa sublimità di grandezza comporta responsabilità enormi che pesano sulla povera umanità del Sacerdote; umanità in tutto identica a quella di ogni altro uomo. "Il Sacerdote - diceva S. Bernardo - per natura è come tutti gli altri uomini, per dignità è superiore a qualsiasi altro uomo della terra, per condotta deve essere emulo degli Angeli".
Per questo Padre Pio diceva: "Il Sacerdote o è un santo o è un demonio". O santifica, o rovina. San Giovanni Bosco diceva che "un prete o in paradiso o in inferno non va mai solo: vanno sempre con lui un gran numero di anime, o salvate col suo santo ministero o col suo buon esempio, o perdute con la sua negligenza nell'adempimento dei propri doveri e col suo cattivo esempio".
Veneriamo il Sacerdote e siamogli grati perché ci dona Gesù; ma soprattutto preghiemo per la sua altissima missione, che è la missione stessa di Gesù: "Come il Padre ha mandato Me, così io mando voi" (Gv 20, 21). Missione divina che fa girar la testa e impazzire di amore, a rifletterci fino in fondo. Il Sacerdote è assimilato al Figlio di Dio, e il Santo Curato d'Ars diceva che "solo in cielo misurerà tutta la sua grandezza. Se già sulla terra lo intendesse, morrebbe non di spavento, ma di amore... Dopo Dio, il Sacerdote è tutto".
inviato da Anna Lollo, inserito il 07/01/2005
ESPERIENZA
134. L'esperienza che si fa messaggio
Carissimi catechisti,
è autentica. Ieri sera stavo amministrando l'eucarestia, durante la messa solenne, quando si è presentato un papà con la figlioletta in braccio. Il Corpo di Cristo. Amen. E gli ho fatto la comunione.
La bambina allora, che osservava con occhi colmi di stupore, si è rivolta a suo padre e gli ha chiesto: «È buona?». Sono rimasto letteralmente bruciato da quell'interrogativo. A tal punto, che mi son dovuto fermare. Poi, con la pisside in mano, mi son fatto largo fra la gente, ho raggiunto quel signore che si era già allontanato, e ho sentito il bisogno di dare un bacio alla sua bambina.
Quella domanda mi è parsa splendida. E siccome nell'omelia avevo detto che in fatto di fede possiamo trasmettere agli altri solo ciò che sperimentiamo noi stessi, ho pensato che il Signore, con la battuta ingenua di una bambina e nel linguaggio spontaneo dei semplici, avesse voluto restituirmi la sintesi del mio lungo discorso.
In effetti, ciò che rende credibili sulle nostre labbra di annunciatori la trasmissione del messaggio di Gesù è soltanto l'esperienza che noi per primi facciamo della sua verità. Una verità che non passa, se chi la trasmette non ne pregusta un assaggio e non se ne nutre in abbondanza.
La domanda di quella bambina, perciò, ci stringe d'assedio, perché chiama in causa non tanto il nostro sapere religioso, quanto lo spessore del nostro vissuto concreto.
«È buona?». Perché, se la mensa di cui tu parli ti riempie di forze, desidero sedermi anch'io alla tua tavola. Spezzane un po' anche per me di quel pane che tu gusti avidamente. Fammi bere alla stessa brocca, se è vero che quell'acqua toglie la sete e ti placa l'arsura dell'anima.
«È buona?». Perché se l'hai già provato tu che la legge del Signore è perfetta e rinfranca l'anima, come dicono i salmi, o che gli ordini del Signore fanno gioire il cuore, e le sue parole sono più dolci del miele e di un favo stillante... fa' assaporare pure a me queste delizie del palato e non escludermi da condivisioni di così squisita bontà.
Carissimi catechisti, io non so bene cosa ieri sera, a messa, avesse voluto da me il Signore, il quale per dirla ancora con le Scritture, si esprime spesso con la bocca dei bimbi e dei lattanti.
Ha voluto provocarmi a uscire dall'assuefazione ad un cibo troppo distrattamente consumato? Ha inteso rimproverarmi la sistematica assenza di gratitudine per il Suo Pane disceso dal cielo? Ha voluto farmi prendere coscienza con quanto poco stupore accolgo la ricchezza dei suoi doni?
Non lo so.
Certo è che, se quella bambina avesse potuto capirmi e io mi fossi sentito meno indegno di accreditarmi certi meriti, avrei risposto per conto del suo papà, rimasto muto, e avrei voluto dirle: «Sì che è buona l'eucarestia. Così come è buona la sua Parola. Così come è buona la sua amicizia. Così come è buona la sua croce. Te lo dico io che non posso più resistere senza quell'ostia. Che non so più fare a meno della sua Parola di vita eterna. Che sperimento la sua amicizia, sia nel gaudio di quando Lui mi è accanto, come nella nostalgia quando mi manca. Te lo dico io che ho una croce leggera sul petto, e una pesante sulle spalle. Quest'ultima, però, da quando ho capito che è una scheggia di quella portata da Lui, da simbolo delle mie sconfitte, si è tramutata in fontana di speranza. Per me e per gli altri. Parola di uomo!».
eucaristiatestimonianzacristianesimo
inviato da Michelangelo Dessì Sdb, inserito il 08/12/2004
TESTO
Ai tiepidi raggi del sole pomeridiano trionfavano per tutto il bosco i colori dell'autunno e Mirella, una giovanissima castagna ancora ben chiusa nel suo riccio, se li godeva compiaciuta, dondolandosi con sicurezza in cima al ramo più alto del Castagno Valerio.
«Che vista fantastica!», pensava tra sé, contemplando le pendici del monte e l'intera vallata baciata dal sole autunnale; «Un panorama meraviglioso, davvero meraviglioso...», sussurrava estasiata.
- Mai quanto te! - mormorò una voce suadente che proveniva dal basso; Mirella si chinò per vedere chi avesse parlato e scorse la Vespa Rachele, che con il suo inconfondibile ronzio le fu rapidamente accanto.
- Guarda che spine, che magnifiche spine! Mai visto un riccio come il tuo! Spine aguzze come punte di lancia, affilate come spade, fitte come un esercito schierato a battaglia! Altro che il mio pungiglione! La tua sì che è una bella difesa, una vera corazza! Abbine sempre cura e tientela cara: sia questo il tuo tesoro e il tuo vanto! - e con la stessa fulminea rapidità con cui era comparsa, sfrecciò via ronzando.
Mirella rimase un po' perplessa: da quando era nata non aveva fatto altro che guardarsi attorno, ammirando una dopo l'altra le infinite meraviglie di cui di giorno in giorno si scopriva circondata. Non aveva mai badato al suo riccio, né si preoccupava di come fossero le sue spine. Ora però, lusingata dai complimenti di Rachele, cominciò a farci caso e nel giro di breve tempo si convinse di essere effettivamente una gran bella castagna, anzi, forse proprio la più bella tra tutte quelle che Valerio poteva contare sui suoi rami.
«Non a caso abito sui ramo più alto e ricevo per prima il bacio del sole!» - ripeteva tra sé - «Perfino le foglie, per farmi spazio; si stanno ritirando una alla volta, volando via silenziose... certo per permettere a tutti di ammirare meglio me!», concludeva convinta.
- Attenta, figlia mia! - la riprese un giorno babbo Valerio - Bada bene di non montare in superbia! Non sei nata per essere ammirata, ma per...
- Ci mancavano solo le prediche del vecchio padre! - lo interruppe brontolando Mirella - Sei proprio incontentabile, papà! Anziché andare orgoglioso di una figlia così bella, ti metti a fare critiche e osservazioni!
Babbo Valerio rimase in silenzio; «Capirà a sue spese quello che non vuole ascoltare da me», pensò addolorato, e con un profondo sospiro rivolse lo sguardo al cielo: fosche nubi si stavano addensando e già oscuravano le cime dei monti vicini. Raffiche di vento gelido si abbatterono ben presto sul bosco, che per tutta la notte fu flagellato da un violento temporale.
Il mattino seguente, Mirella si svegliò contusa e indolenzita. «Dove sono?», si chiese stupefatta guardandosi attorno: si trovava infatti malamente adagiata tra vecchie foglie fradice di pioggia, in mezzo ad una vasta pozzanghera che lambiva le radici del Castagno Valerio.
- Benvenuta tra noi, Mirella! - le disse amichevolmente il Fungo Tebaldo, un porcino grassoccio dall'aria assai cordiale, circondato da una nidiata di figlioletti di varia statura. - Dopo aver sperimentato l'ebbrezza dei rami più alti, era conoscerai anche gli amici della terra!
Mirella si guardò intorno con aria schifiltosa: non era per niente contenta di trovarsi tutta inzaccherata in mezzo al fango e soprattutto temeva per la salute e la bellezza del suo riccio. Senza curarsi di rispondere al fungo Tebaldo si specchiò preoccupata nell'acqua melmosa della pozzanghera. «Ahimè!» - esclamò rabbrividendo - «Cosa mi è successo?». Una profonda ferita aveva spaccato la buccia verdastra del suo amato riccio, lasciando intravedere il guscio d'un bel marrone lucido.
- Niente di grave, piccola! - cercò di rassicurarla il Lombrico Gustavo - È assolutamente normale che una castagna prima o poi esca dal riccio! Non vorrai per caso startene rinchiusa lì dentro per sempre?
- Viscido e molle come sei, ti conviene startene alla larga senza ironizzare sulle mie sventure - ribatté con asprezza Mirella - Altrimenti assaggerai le mie spine e ti passerà la voglia di fare lo spiritoso!
- Via, via. Gustavo non intendeva offenderti - soggiunse la Lumaca Giannina - ma solo tranquillizzarti. E poi, permettimi di dirti con tutta franchezza che saresti molto più bella senza quell'enorme casco spinoso.
- Vuoi dire che quaggiù non vanno di moda le spine? - chiese con interesse Mirella.
- Assolutamente no! Apprezziamo molto di più tutto ciò che è morbido e tenero - intervenne gentilmente Luciana, la moglie del Fungo Tebaldo - e se vuoi un consiglio schiettamente femminile il colore del tuo guscio è così lucido e bello che ci guadagneresti soltanto a metterlo in mostra anziché tenerlo nascosto!
Mirella si lasciò persuadere e pian piano uscì spontaneamente dal riccio, abbandonandolo per sempre. Nel giro di pochi giorni fece amicizia con tutti gli abitanti del Sottobosco ed era certa che la simpatia che le dimostravano fosse dovuta in massima parte alla splendente lucentezza del suo guscio, di cui era assai fiera. Un mattino, però, quando il sole era da poco spuntato e i suoi raggi cominciavano a filtrare tra i rami degli alberi, il silenzio del bosco fu rotto da un insolito calpestio e dal vociare confuso di un gruppo di ragazzi. Erano degli scout e portavano in spalla pesanti zaini, tra le mani invece sporte e cestini. Avanzavano allegramente, cantando e fischiettando e in breve furono nei pressi del Castagno Valerio.
- Alt! Fermi tutti! - gridò il capo scout, poi si curvò ed esclamò compiaciuto: - Che meraviglia, ragazzi! Venite a vedere!
Mirella pensò subito che si trattasse di lei, dell'eccezionale splendore del suo guscio castano, e cominciò a gongolare, immaginandosi già di essere portata a valle ed esposta nella vetrina di qualche prestigiosa boutique di città. «Speriamo che si tratti di una gioielleria...», fantasticava tra sé, ma i suoi sogni di gloria furono drasticamente interrotti quando si accorse che tutti gli scout non si stavano minimamente curando né di lei né del suo guscio, ma unicamente del Fungo Tebaldo.
- È un porcino! - dichiarò con sicurezza il capo e dopo averlo colto delicatamente lo mostrò a tutti i ragazzi, che si affollarono intorno a lui per guardarlo da vicino.
- Avanti, ora! Continuiamo la raccolta! - E subito gli scout si sparpagliarono tra gli alberi facendo a gara a chi raccoglieva più castagne: fu così che anche Mirella finì senza tanti complimenti dentro un canestro di vimini insieme a numerose compagne.
Quella sera, mentre il falò rischiarava coi suoi bagliori la radura dove si erano accampati gli scout, Mirella domandò preoccupata: - Che ne sarà di noi, amiche mie?
- Saremo finalmente liberate! - rispose con gioia Donatella, l'anziana del gruppo.
- Liberate? E da che? Vuoi forse dire che ci lasceranno andare?
- Ma no! Ciascuna di noi sarà finalmente liberata da questo odioso guscio che ci tiene prigioniere impedendoci di essere veramente noi stesse!
- Ma io non mi sento affatto prigioniera! - esclamò inorridita Mirella - E poi non ho nessuna intenzione di perdere il mio guscio: è così bello! Non sono affatto disposta a lasciarlo!
Mentre ancora stava parlando, una ruvida mano raccolse dal canestro una manciata di castagne, tra cui anche lei, e dopo aver aperto un coltellino a serramanico cominciò ad inciderle ad una ad una.
- Ahi! - strillò disperata la povera Mirella, mentre una profonda ferita solcava irrimediabilmente il suo amato guscio. «Sono perduta...» pensava tristemente - «E il peggio è che le mie compagne non mi capiscono! Ci fosse almeno papà Valerio o il Fungo Tebaldo a consolarmi... e invece mi sento così sola».
In quel momento, però, a piangere di malinconia sulla propria solitudine non era solo Mirella: anche Martino, un lupetto di otto anni alle prese con la sua prima uscita di branco, non aveva nessuna voglia di cantare con i compagni seduti attorno al falò e pensava con tanta nostalgia alla sua mamma. Guardava fisso a terra e non alzò gli occhi nemmeno quando si levò un coro di applausi e di gioiose esclamazioni: una padella forata era stata posta sul fuoco con la prima razione di castagne, e tra queste c'era anche Mirella. Alla vista del fuoco e delle scintille, la poveretta rabbrividì di terrore, dicendo per sempre addio al suo caro guscio che nel giro di breve tempo rimase secco e mezzo carbonizzato.
- Coraggio, Martino! - disse amorevolmente Silvana, una dei capi, vedendo la tristezza del suo lupetto e prendendolo in braccio.
- Voglio la mia mamma... singhiozzò lui imbronciato.
- La mamma è contentissima che tu sia qui, Martino! E domani sera, quando la rivedrai, avrai molte cose belle da raccontarle. Per esempio, adesso c'è una sorpresa che ti aspetta.
- Che cos'è? chiese incuriosito Martino.
- Si chiamano caldarroste e sono proprio le castagne che abbiamo raccolto insieme stamattina. Prova ad assaggiarne una!
Il bimbo stese la mano e la prima che gli capitò fu proprio Mirella, che aveva sentito tutto ed era piena di compassione per il povero lupetto. «Come vorrei consolarlo! So benissimo anch'io cosa vuol dire sentirsi soli e tristi!». Così pensando non si accorse nemmeno che Silvana le aveva completamente spaccato e tolto il guscio: non rimaneva altro che la polpa, calda, dorata e fragrante.
- Assaggia, Martino! Sentirai com'è dolce e tenera! Ti piacerà molto più delle palatine e dei pop-corn che ti dà la mamma quando guardi i cartoni animati alla televisione!
Martino non si fece pregare: era la prima castagna che assaporava e gli parve così dolce e gustosa che dimenticò in un baleno tutte le sue malinconie.
- Che buona! - esclamò sorridendo, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. Poi, con gli occhi che scintillavano di gioia al riverbero del falò, si mise a cantare all'unisono con gli altri ragazzi.
E Mirella? Si era ormai completamente dissolta, ma aveva l'impressione che le si fosse sciolto anche quel carico di tristezza che la opprimeva. «Avevi ragione, papà Valerio!» - pensò. - «Non sono nata per essere ammirata, ma... per lasciarmi mangiare!».
E per la prima volta nella sua vita si sentì felice. Veramente felice.
Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29)
consegnarsidono di séamoresacrificio
inviato da Don Silvano Zanella, inserito il 05/10/2004
RACCONTO
Uno straniero, che camminava verso un villaggio si fermò sulla soglia di una povera capanna.
Chiese alla donna, che stava seduta fuori della capanna qualcosa da mangiare.
- "Mi dispiace al momento non ho niente".
- "Non si preoccupi. Ho nella bisaccia un sasso per minestra: se mi darete il permesso di metterlo in una pentola di acqua bollente, preparerò la zuppa più deliziosa del mondo. Mi occorre una pentola molto grande per favore".
La donna era incuriosita, gli diede una pentola e andò a confidare il segreto del sasso per minestra a una vicina di casa. Quando l'acqua cominciò a bollire, c'erano tutti i vicini, accorsi a vedere lo straniero e il suo sasso. Egli depose il sasso nell'acqua, poi ne assaggiò un cucchiaio ed esclamò con aria beata:
- "Ah, che delizia! Mancano solo delle patate".
- "Io ho delle patate in cucina".
Pochi minuti dopo era di ritorno con una grande quantità di patate tagliate a fette, che furono gettate nel pentolone. Allora lo straniero assaggiò di nuovo il brodo.
- "Eccellente... Se solo avessimo un po' di carne e un po' di verdura, diventerebbe uno squisito stufato". Un'altra massaia corse a casa a prendere della carne; un'altra portò carote e cipolle. Dopo aver messo anche quelle nella zuppa, lo straniero assaggiò il miscuglio e chiese ancora:
- "Manca solo un po' di sale!"
- "Eccolo!"
- "Scodelle e piatti per tutti".
La gente corse a casa a prendere scodelle e piatti. Qualcuno portò anche frutta e manioca. Tutti sedettero mentre lo straniero distribuiva grosse porzioni della sua incredibile minestra. Tutti provavano una strana felicità, ridevano, chiacchieravano e gustavano il loro pasto in comune.
Dopo essere rimasto un po' con loro, lo straniero, in mezzo all'allegria generale scivolò fuori silenziosamente. Lasciò però il sasso miracoloso affinché potessero usarlo tutte le volte che volevano per preparare la minestra più buona del mondo.
inviato da Anna Lollo, inserito il 29/07/2004
PREGHIERA
Nel deserto della mia vita, Signore,
hai voluto piantare la tua tenda.
Grazie!
Ogni giorno mi ripeto: Com'è possibile?
e continuamente nella mia carne risuona la voce:
non è opera tua!
Grazie!
Grazie perché dilati la mia terra,
perché fai germogliare il chicco della tua Parola,
perché fai scaturire l'acqua viva dalla roccia della mia vita,
perché rendi fertili i miei giorni.
L'anima mia ti magnifica Signore,
perché hai guardato la povertà della mia casa
abitandola con la tenda del tuo amore.
Aiutami sempre a caricarmi della tua tenda,
a spostarmi ogni giorno ascoltando solo la tua voce,
a fare spazio ai fratelli che cercano riparo,
a non attaccarmi ai recinti dell'uomo;
ma a cercare sempre lo spazio che tu prepari per me.
Se mi fermo aiutami, se sbaglio correggimi,
se sono stanco aspettami, se mi aggiusto rompimi.
Plasma la mia creta, io mi affido a Te,
fa' di me quello che ti pare.
Quando mi sento solo, in balia del vento e della tempesta
Con la mia tenda a brandelli, ripetimi:
Spera nel Signore, sii forte!
inviato da Bianco Alessandro, inserito il 28/07/2004
RACCONTO
Un giorno un uomo "single" venne a sapere che Dio stava per venire a trovarlo. «Da me?», si preoccupò. «Nella mia casa?». Si mise a correre affannato attraverso tutte le camere, salì e scese per le scale, si arrampicò fin sul tetto, si precipitò in cantina. Vide la sua casa con altri occhi, adesso che doveva venire Dio.
«Impossibile! Povero me!», si lamentava. «Non posso ricevere visite in questa indecenza. E' tutto sporco! Tutto pieno di porcherie. Non c'è un solo posto adatto per riposare. Non c'è neppure aria per respirare». Spalancò porte e finestre.
«Fratelli! Amici!», invocò. «Qualcuno mi aiuti a mettere in ordine! Ma in fretta!». E cominciò a spazzare con energia la sua casa. Attraverso la spessa nube di polvere che si sollevava, vide uno che era venuto a dargli aiuto. In due era più facile. Buttarono fuori il ciarpame inutile, lo ammucchiarono e lo bruciarono. Si misero in ginocchioni e strofinarono vigorosamente le scale e i pavimenti. Ci vollero molti secchi d'acqua, per pulire tutti i vetri. Stanarono anche la sporcizia che si annidava negli angoli più nascosti.
«Non finiremo mai!», sbuffava l'uomo. «Finiremo!», diceva l'altro, con calma. Continuarono a lavorare, fianco a fianco, per tutto il giorno. E, finalmente, la casa pareva messa a nuovo, lustra e profumata di pulito.
Quando scese il buio, andarono in cucina e apparecchiarono la tavola. «Adesso», disse l'uomo, «può venire il mio Visitatore! Adesso può venire Dio. Dove starà aspettando?». «Io sono già qui!», disse l'altro, e si sedette al tavolo. «Siediti e mangia con me!».
Dio non ci lascia mai soli nel compito di «far pulizia» nella nostra casa-anima. E' con noi, dalla nostra parte. Ci incoraggia con la sua parola, ci affianca e agisce con la sua grazia. Il sacramento della Riconciliazione è opera contemporaneamente di Dio e del cristiano, che si incontrano per star bene insieme e «mangiare alla stessa tavola».
confessionericonciliazionepeccatorapporto con Diomisericordia di Dioattesaperdonoperdono di dio
inviato da Cecilia Leone, inserito il 28/07/2004
RACCONTO
139. Antonio, mister D.I.O. per gli amici, e Camilla 1
Antonio aveva finalmente realizzato il suo progetto, lo scopo della sua esistenza, realizzare una via che unisse tutti i popoli del mondo e per questo venne nominato Dottore In Onniscienza, per gli amici Mr. D.I.O.. Per celebrare l'avvenimento venne realizzato un grandissimo museo, un museo particolare a dire la verità, sempre aperto, 24 ore su 24 e 365 giorni all'anno, un museo dove non si paga il biglietto d' ingresso e tutti coloro che lo visitano non vogliono più andare via e, nonostante tutto, più gente entra e più cresce lo spazio disponibile per altra gente ancora.
Il pezzo forte di questo museo, illuminato da una luce particolare, che lo rende ancora più affascinante, è Camilla, una vecchia e assai malandata Jeep. Camilla era la macchina con cui Mr. D.I.O si spostava in giro per il mondo per studiare, progettare e realizzare il suo disegno. A dire il vero Mr. D.I.O. aveva in testa anche come doveva essere Camilla, innanzitutto il colore della carrozzeria, bianco o nero, rosso, giallo, o quel verde olivastro tanto esotico per lui non facevano alcuna differenza, anche la forma esterna non era di grande importanza, tozza o filante, alta o bassa per lui era la stessa cosa. Le cose veramente importanti per lui erano altre, ad esempio dei buoni fari per poter vedere nell'oscurità, una buona radio per captare anche le voci più lontane, delle ruote sempre capaci di sorreggerne il peso e un cuore, pardon, un motore che non si stancasse mai di farla andare avanti, anche piano, ma sempre avanti, e dei finestrini ampi, per poter vedere bene all'esterno, non solo le bellezze di questo mondo, ma anche e soprattutto per non perdere mai la direzione giusta in cui procedere e riuscire a vedere e interpretare i segnali che Mr. D.I.O., man mano che costruiva la via metteva per evitare che altri si perdessero.
Anche se può sembrare strano fin dai primi tempi in cui i due si trovarono a lavorare insieme capirono entrambi che l'altro aveva qualcosa di speciale, Antonio era convinto che Camilla lo potesse in qualche modo sentire, e Camilla, dal canto suo, sembrava intuirne i pensieri. Anzi, da quella volta che Antonio mise mano al suo computer di bordo aveva maturato una specie di autocoscienza e spesso si chiedeva se i segnali erano abbastanza chiari, se, per esempio, su una strada apparentemente facile anziché un semplice limite di velocità era il caso di mettere anche un avviso del tipo "attento alla curva puoi ucciderti o uccidere qualcun altro", o mettere nei posteggi dei cartelli con la scritta "non rubare il posteggio a chi sta aspettando da prima di te"oppure decorare le macchine nuove con scritte del tipo "non desiderarmi solo perché sono più nuova della tua", o altri ancora che potessero in qualche modo essere di maggior aiuto alle persone intente a raggiungere la propria meta.
Con il passare del tempo l'intesa cresceva sempre di più, tanto che Camilla ogni tanto si permetteva di agire come di testa sua e Mr. D.I.O. la lasciava fare, anche se ogni tanto non rispettava le regole, tagliare per i prati per accorciare la strada o passare con il semaforo arancione per la fretta in fin dei conti erano delle infrazioni venali e comunque lui era sempre lì, pronto a riportarla in carreggiata. I due andarono avanti così per moltissimi anni, Camilla di tanto in tanto usciva di strada, Antonio la riprendeva e se restava qualche piccolo segno sulla carrozzeria non importava, importante era andare avanti, sempre e insieme. Tutto sembrava procedere per il meglio fino a quando Camilla in qualche modo intuì che per lei Mr. D.I.O. aveva in mente qualcosa di speciale, da quel momento fu presa da una strana smania di correre e fare di testa sua. Antonio faceva ricorso a tutta la sua pazienza e abilità per tenere Camilla in strada e ci riuscì sempre fino a quando, ormai vicinissimi al museo dove Camilla avrebbe trovato il suo posto d'onore, Camilla per la smania di arrivare prima uscì dalla strada segnata e, incurante dei cartelli di attenzione, imboccò quella che sembrava una bellissima scorciatoia, una strada larga, ben asfaltata e leggermente in discesa. Viaggiare su quella strada era bellissimo e non si faceva neanche fatica ma inesorabilmente la discesa si faceva sempre più ripida e la strada più stretta e tortuosa, Camilla provò a frenare ma ormai era troppo tardi e i freni non ressero allo sforzo, provò allora ad uscire dalla strada, sperando di riuscire a fermarsi strisciando contro gli alberi che la fiancheggiavano.
Dopo aver strisciato su molti alberi, sobbalzato su innumerevoli sassi Camilla finalmente terminò la sua corsa dentro un fosso, era veramente malridotta, il suo desiderio in quel momento era di farsi rottamare quando si accorse che Antonio non c' era, probabilmente era stato sbalzato fuori durante la sua folle corsa, in quel momento fu presa dal panico, si rese conto di essere veramente sola, capì che anche quando faceva di testa sua Mr. D.I.O. le era comunque vicino, pronto a correggerla e perdonare gli sbagli. Fu questo a farle trovare la forza di rimettersi in moto, in fondo il motore era forte e lentamente e con fatica riuscì a riportarla sulla giusta via anche se la carrozzeria era ammaccata, le ruote non perfettamente allineate e i fari, già appannati dagli anni, sembravano sul punto di piangere (era solo il lavafari rotto che perdeva acqua).
Quando si fermò un attimo per raffreddare l'acqua del radiatore Camilla si accorse che Antonio, Mr. D.I.O. per gli amici, era lì seduto su un paracarro che la guardava ammirato, appena l'acqua nel radiatore si raffreddò Antonio si rimise al volante e portò Camilla nel suo museo e la sistemò al posto che si meritava, il migliore. Ai visitatori che gli chiedevano come mai Camilla, così malridotta era al posto d' onore Mr. D.I.O. dava questa risposta, Avevo un progetto, ma da solo non lo potevo realizzare, avevo bisogno di qualcuno che mi portasse per il mondo, avevo bisogno di qualcuno su cui poter contare, avevo bisogno di qualcuno a cui dare fiducia nella certezza che, anche se talvolta per fare di testa sua sorvola su alcune regole, trova poi il coraggio di ammettere i propri sbagli e la forza per tornare sulla strada segnata, perché è solo nella luce che la illumina che Camilla mette in risalto le sue doti, quelle che le hanno permesso di riuscire a fare tutto questo.
regolepeccatopentimentoperdonouomorapporto con Dio
inviato da Mauro Bianchi, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
140. Il piccolo re solitario 1
Bruno Ferrero, Nuove Storie, Ed. Elle Di Ci
Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c'era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi. Sull'isola c'era un castello e nel castello viveva un piccolo re. Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi. Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata. Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport. Era un grande sportivo. Deteneva infatti tutti i record del regno: da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo. E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d'oro. Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo: "Grazie, maestà!".
Nel castello c'era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri. Al re piacevano molto i fumetti d'avventure. Un po' meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi. "E io neanche uno!" si diceva il re. "Ma come dice il proverbio: è meglio essere soli che male accompagnati".
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti. "Con i complimenti di sua maestà", si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava: "Se solo avessi cento sudditi".
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
"Se solo avessi cinquanta sudditi", disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta. Il re si sedette su uno scoglio ed era un po' triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c'era un magnifico tramonto.
"Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice".
Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
"Sudditi", gridò il re; "sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!".
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re. Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano "urrà" nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo. Un vociare forte e disordinato lo svegliò. Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti. Erano i pirati del terribile Barbarossa.
Sembravano sbucare dall'orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
"All'arrembaggio!", gridava Barbarossa, il più feroce di tutti. E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano. A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l'abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava: "Se prendo il re, lo appendo all'albero della nave!".
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati. Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone. "Se avessi un esercito", pensava, "Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia".
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo. Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile. "Forse sono arrivati i miei sudditi", pensò il re, e andò ad aprire la porta. Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono il gatto", disse il gatto.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il gatto; "ho fame e ho freddo".
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole.
"Che bellissima casa hai".
"Sì, non è male", disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
"E' perché io sono il re", disse il re; ed era molto soddisfatto.
"Io resterò qui", decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
"Dammi del cibo", disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
"Fammi un letto", disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
"Ho freddo", disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.
"Ecco fatto, signor Suddito", disse il re al gatto.
E il gatto rispose: "Grazie, signor Re".
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare: il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva: "Il re, urrà". E si salutava. Non era più il campione assoluto dell'isola. Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell'arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello. Corse ad aprire, pensando: "Arrivano i sudditi". Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra. Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono un pinguino", disse il pinguino.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il pinguino; "ho fame e ho i piedi congelati. Sono stufo di abitare su un iceberg".
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
"Penso che mi fermerò qui con voi", disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo. Adesso aveva due sudditi. Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
"Io farò il maggiordomo. Mi ci sento portato", dichiarò il pinguino. "Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza".
Così furono in tre a guardare i tramonti. Ed era ancora meglio che in due. Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva a nuoto e nei tuffi. Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all'orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
"Presto scappiamo a nasconderci", gridò il re.
"Neanche per sogno", disse il gatto. "Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti".
"Certo", ribatté il pinguino. "Basta avere un piano".
"Nell'armeria del castello c'è l'armatura del gigante Latus", disse il re.
"Bene", disse il gatto. "Ci infileremo nell'armatura e affronteremo i pirati".
"Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada", continuò il pinguino.
"Approvo il piano", concluse il re.
Così fecero. Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa. Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone. "E' tornato il gigante Latus!", gridarono. "Si salvi chi può!". E si buttarono in acqua per raggiungere la nave. Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell'isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo. Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando: "Re è il migliore amico che c'è, urrà!".
inviato da Suor Lucia Brasca FMA, inserito il 27/07/2004