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ESPERIENZA
Silvia Pillin, SCF Caritas Concordia-Pordenone
Faith ha 17 anni. È una bella ragazza. Alta. Occhi scuri. Fisico tonico e proporzionato messo in evidenza da vestiti attillati e scarpe col tacco alto.
Faith parla inglese. È qui in Italia da poche settimane. È venuta per studiare. A casa ha lasciato sua madre e i fratelli. Il padre è morto. E lo dice con un tale distacco che sembra che parli del padre di qualcun altro.
Faith ha passato le sue prime settimane a Torino. Poi ha preso un treno. Ha aspettato cinque o sei ore ed è arrivata qui, in questa stazione ferroviaria. Stanca, spaventata, affamata.
Faith è nigeriana. Ha lasciato il suo paese insieme ad altre ragazze perché le avevano promesso l'Italia.
Le avevano promesso che avrebbe terminato gli studi, affinato le sue doti atletiche e guadagnato molti soldi.
Faith ha lasciato la Nigeria con un futuro migliore negli occhi. Faith ha lasciato la Nigeria per venire a prendere il suo sogno nel Paese dei Balocchi.
E mentre parla attraversiamo la città in autobus.
Faith è invitata a pranzo a casa mia. Saliamo. La faccio accomodare in cucina. Mi chiede se si può togliere le scarpe col tacco. Evidentemente le stanno strette. Le porgo le mie ciabatte. Le infila, poi appoggia lo zaino accanto a sé. Non se ne vuole separare.
Probabilmente lì dentro c'è tutta la sua vita, penso.
Le offro dell'acqua. Beve.
Poi inizia a raccontare davvero.
"A Torino hanno portato me e delle altre ragazze in un appartamento. Qui, la prima sera, le stesse persone che ci avevano regalato il sogno di un futuro migliore ci hanno fatto cambiare d'abito e ci hanno obbligato ad andare in strada. Mi sono prostituita per due settimane. Venivo picchiata ogni sera. Sostenevano che non guadagnavo abbastanza. Io stavo male. Avevo dei forti mal di pancia. Loro mi obbligavano a prostituirmi. Poi mi picchiavano. Mi picchiavano. Mi picchiavano. Alla fine sono scappata, ma non potevo certo rimanere a Torino. Se mi avessero trovato sarebbero stati capaci di uccidermi".
Si interrompe per qualche secondo. Si guarda attorno. Non sta piangendo. Le chiedo se è stanca. Accenna un sì con la testa. La porto sul divano. Le offro una coperta. Le prometto che tra una mezzora sarà pronto il pranzo. E mentre lei si avvolge nella coperta io torno in cucina. Metto a bollire dell'acqua per la pasta e apparecchio la tavola e mi chiedo com'è possibile che una ragazza di soli diciassette anni possa essere trattata come un oggetto, venduta e barattata e sfruttata e picchiata. Mi chiedo chi può commettere un'azione del genere e chi con il silenzio asseconda quell'orrore. E nel frattempo due bei piatti fumanti di spaghetti con il pomodoro aspettano le nostre bocche affamate.
Così vado da Faith, le dico di venire in cucina. La osservo, cercando di essere il più discreta possibile, mentre mangia avidamente. Poi alza la testa. Mi sorride. Le sorrido. Riprende a raccontare.
"A Torino, mentre stavo piangendo seduta su una panchina, un uomo mi ha chiesto il perché. Ho cercato di spiegarglielo. Mi ha dato un numero di telefono".
Le chiedo se ha provato a chiamarlo. Dice di no. Poi infila la mano in tasca e ne estrae un libricino. Lo sfoglia fino a trovare un pezzo di carta ripiegato che mi porge. Guardo il numero, secondo quello che leggo sul foglietto si riferisce ad un organismo ministeriale che si occupa delle donne vittime della tratta. Le restituisco quel piccolo ritaglio di speranza e mentre chiamo l'assistente sociale mi accorgo che il libricino è un Vangelo.
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inviato da Federico Bernardi, inserito il 25/11/2002
TESTO
822. Pensando un po' alla morte 1
Credo che questo testo si potrà leggere in circa tre minuti. Ebbene, in questo lasso di tempo, moriranno 300 persone e ne nasceranno altre 620.
Forse io impiegherò mezz'ora per scriverlo: sono concentrato sul mio computer, sui libri accanto a me, sulle idee che mi vengono, sulle macchine che passano là fuori.
Tutto sembra assolutamente normale intorno a me. Invece, durante questi trenta minuti, sono morte 3.000 persone, e 6.200 hanno appena visto, per la prima volta, la luce del mondo.
Dove saranno queste migliaia di famiglie che hanno cominciato a piangere per la perdita di qualcuno, o a ridere per l'arrivo di un figlio, di un nipote, di un fratello?
Mi fermo e rifletto: forse molte di queste morti arrivano al termine di una lunga e dolorosa malattia, e certe persone saranno sollevate dall'Angelo che è venuto a prenderle. Inoltre, centinaia di questi bambini che sono appena nati quasi sicuramente saranno abbandonati nel prossimo minuto ed entreranno nelle statistiche di morte prima che io abbia finito questo testo.
Pensate. Ho appena dato uno sguardo a una semplice statistica e tutt'a un tratto inizio ad avvertire il senso di queste perdite e questi incontri, questi sorrisi e queste lacrime. Quanti staranno lasciando questa vita da soli, nelle loro stanze, senza che nessuno si renda conto di ciò che sta accadendo? Quanti nasceranno nascostamente e saranno abbandonati davanti alla porta di qualche ricovero o di qualche convento?
Rifletto: ho già fatto parte della statistica delle nascite e, un giorno, sarò incluso nel numero dei morti. Che bello: io sono pienamente consapevole che morirò. Da quando ho fatto il cammino di Santiago, ho capito che - anche se la vita continua e siamo tutti eterni - un giorno questa esistenza si concluderà.
Le persone pensano molto poco alla morte. Passano la vita preoccupandosi di vere e proprie assurdità, rimandano cose, tralasciano momenti importanti. Non rischiano, perché pensano sia pericoloso. Si lamentano molto, ma diventano codarde quando è il momento di prendere provvedimenti. Vogliono che tutto cambi, ma loro si rifiutano di cambiare.
Se pensassero un po' di più alla morte, non tralascerebbero mai di fare quella telefonata che manca. Sarebbero un po' più folli. Non avrebbero paura della fine di questa incarnazione - perché non si può temere qualcosa che accadrà comunque.
Gli Indios dicono: "Oggi è un giorno buono come qualsiasi altro per lasciare questo mondo". E uno stregone commentò una volta: "Che la morte sia sempre seduta al tuo fianco. Così, quando avrai bisogno di fare qualcosa di importante, essa ti darà la forza e il coraggio necessari".
Spero che tu, lettore, abbia letto fin qui. Sarebbe una stupidaggine spaventarsi per il titolo, perché tutti noi, prima o poi, moriremo. E solo chi accetta questo è pronto per la vita.
vitamortevita eternacoraggiocambiamentopaurasenso della vita
inviato da Federico Bernardi, inserito il 25/11/2002
TESTO
Paulo Coelho, I racconti del maktub
All'Ultima Cena, Gesù accusò - con la stessa gravità e le medesime parole - due dei suoi apostoli. Entrambi avevano commesso i crimini predetti da Gesù. Giuda Iscariota nascose i suoi sentimenti e condannò se stesso. Pietro anche nascose i suoi sentimenti, dopo aver rinnegato tre volte tutto ciò in cui aveva creduto. Ma nel momento decisivo, Pietro capì il vero significato del messaggio di Gesù. Chiese perdono e andò avanti, umiliato. Avrebbe potuto scegliere il suicidio, invece affrontò gli altri apostoli e dovrebbe aver detto: "D'accordo, raccontate i miei errori fino a che esisterà il genere umano. Ma lasciatemi correggerli". Pietro imparò che l'Amore perdona. Giuda non imparò nulla.
GiudaPietroperdonoconversioneamoreultima cenaamore di Diogiovedì santo
inviato da Anna Lianza, inserito il 25/11/2002
TESTO
824. Quel catino di acqua sporca 1
Accanto al fonte della vita nuova, la Pasqua ci consegna anche un catino d'acqua sporca. ne ha fatto uso il maestro e nessuno ancora lo ha tolto dalla a tavola curandosi di svuotarlo. I discepoli intimoriti, tornando al cenacolo, si sono abbracciati attorno a questa icona del servizio lasciandola lì nel bel mezzo delle loro incerte discussioni.
Anche noi potremmo immaginare quel recipiente sul nostro altare tra le tovaglie ben stirate, i fiori freschi e il cero pasquale: è la memoria dell'ultimo gesto stravagante del nostro giovane Rabbi.
Quando mi domando come sia possibile far innamorare un giovane a Gesù Cristo mi viene in mente la reliquia del catino...
Quel catino è la freschezza di un uomo che quando è a tavola non ce lo si può trattenere seduto a lungo. L'ultima cena non si è risolta nell'ultima abbuffata: quell'Eucarestia ha nutrito i cuori ma non ha appesantito i corpi perché Gesù si è alzato per lavare i piedi come un servo. Il catino con l'acqua sporca ci invita chiaramente a metterci scomodi prendendoci cura degli altri senza indugiare alla "tavola delle lunghe discussioni", senza intrattenerci in quei festeggiamenti dello "stiamo bene tra noi" che odorano di tradimento.
Solo chi è scattante e sa alzarsi da tavola impara a lasciare il posto ad altri, ai più giovani perché è convinto che di pane ce n'è per tutti.
Quel catino è la scioltezza e l'equilibrio di mani allenate ad accarezzare. Ad uno ad uno tutti i piedi dei discepoli hanno provato il ristoro di quel tratto di cui solo l'artista che li ha plasmati è capace. Un corpo agile e disinvolto quello del maestro abituato a nutrire di intelligenza le sue parole ma anche di armoniosa sapienza i suoi movimenti.
Questo equilibrio ci vuole nel chinarsi e rialzarsi senza rovesciare a terra il contenuto di quella bacinella. Il catino con l'acqua sporca ci racconta di poche parole e di tanti piccoli gesti precisi e geniali... insomma un bene fatto bene senza le lentezze e gli appesantimenti delle abitudini. Solo chi è allenato alla scioltezza e alla fermezza dell'amore incondizionato impara ad accarezzare senza trattenere, a ristorare senza possedere... in una danza gioiosa fatta di genuflessioni e umili abbracci.
Quel catino è il coraggio di smascherare la propria bellezza. Sotto la crosta polverosa della sporcizia Gesù ha ridato vigore e candore ai piedi dei suoi messaggeri. Il Cristo ha confermato ad uno ad uno i suoi lavandone i piedi. Il catino con l'acqua sporca ci risveglia alla straordinaria potenza del perdono che non fa conto dell'inadeguatezza ma riporta il cuore allo splendore originario.
Solo chi guarda in faccia all'acqua sporca smette di giudicare e ritrova quel coraggio che non confonde. Solo chi vede il maestro piegato sui propri piedi non ha più dubbi.
La paura di sbagliare non è l'ultima parola, perché ciò che da bellezza è il perdono e l'accoglienza.
Spesso i ragazzi che crescono accanto a noi mettono a fuoco domande, slanci, dubbi, provocazioni... forse ci invitano ad essere una comunità di discepoli che va per il mondo col catino in mano.
serviziocaritàamoremaestrogiovedì santolavanda dei piedi
inviato da Mariangela Molari, inserito il 25/11/2002
RACCONTO
825. L'albero carico di frutti 1
Paulo Coelho, I racconti del maktub
Un maestro stava viaggiando con i suoi discepoli, quando notò che stavano discutendo tra loro su chi fosse il migliore. "Ho praticato la meditazione per quindici anni", disse uno. "Sono stato caritatevole fin da quando ho lasciato la casa dei miei genitori", disse un altro. A mezzogiorno, si fermarono sotto un melo per riposarsi. I rami dell'albero raggiungevano il terreno. "Quando un albero è carico di frutti, i suoi rami si piegano fino a toccare il terreno. Il vero saggio è colui che è umile. Gli stupidi credono sempre di essere migliori degli altri".
inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
Paulo Coelho, I racconti del maktub
C'era un re spagnolo che era molto orgoglioso della sua stirpe. Era anche conosciuto per essere crudele con quelli più deboli. Un giorno stava camminando con i suoi anziani consiglieri in un campo in Aragona, dove, anni prima, suo padre era caduto in battaglia. Lì incontrarono un sant'uomo, che stava raccogliendo un enorme mucchio di ossa. "Cosa stai facendo?" chiese il re. "Onore a Sua Maestà" disse il sant'uomo. "Quando ho saputo che il re di Spagna sarebbe venuto qui, ho deciso di ritrovare le ossa di suo padre per dargliele. Ma per quanto cerchi, non riesco a trovarle. Sono uguali a quelle dei contadini, dei poveri, dei mendicanti e degli schiavi".
uguaglianzagiustiziamorteparità
inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002
TESTO
827. Dio entra dalla porta del cuore
Paulo Coelho, I racconti del maktub
Non ti dà nessun vantaggio cercare spiegazioni su Dio. Puoi sentire dei bellissimi discorsi, ma sono sostanzialmente vuoti. Proprio come puoi leggere un'intera enciclopedia sull'amore senza conoscere come amare. Nessuno proverà che Dio esiste. Certe cose nella vita devono semplicemente essere vissute - e mai spiegate. L'amore è una di queste. Dio - che è Amore - è inspiegabile. La fede è un'esperienza infantile, nel magico senso che Gesù ci ha insegnato: "I bambini sono il regno di Dio". Dio non entrerà mai nella tua testa. La porta che Egli usa è il tuo cuore.
inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
828. L'acqua che scava la roccia
Paulo Coelho, I racconti del maktub
Il monastero sulla sponda del fiume Piedra è circondato da una splendida vegetazione, è una vera oasi all'interno dei campi sterili di quella parte della Spagna. Là, il piccolo fiume diventa una magnifica corrente, e si divide in dozzine di cascate. L'errante sta camminando nei dintorni, ascoltando la musica dell'acqua. Improvvisamente, una grotta - dietro una cascata - cattura la sua attenzione. Studia le rocce, consumate dal tempo, e guarda attentamente le amabili forme create pazientemente dalla natura. E trova un verso di R. Tagore scritto su una placca: "Non è stato un martello a rendere le rocce così perfette, ma l'acqua, con la sua dolcezza, la sua danza e il suo suono". Dove la forza può solo distruggere, la gentilezza può scolpire.
violenzaforzagentilezzatenerezzadolcezza
inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
Paulo Coelho, I racconti del maktub
Uno straniero incontrò il Padre Superiore nel monastero di Sceta. "Voglio rendere la mia vita migliore", disse. "Ma non riesco a trattenermi dall'avere dei pensieri peccaminosi". Il Padre notò che il vento stava soffiando forte fuori, e disse allo straniero: "Fa piuttosto caldo qui. Mi chiedo se tu potessi trattenere un po' di vento là fuori e portarlo qui per rinfrescare la stanza". "E' impossibile", rispose lo straniero. "E' impossibile anche tenere se stessi dal pensare cose che offendono Dio", rispose il monaco. "Ma, se sai come dire di no alle tentazioni, non ti causeranno alcun danno".
peccatotentazionedebolezzaaccettazione di sé
inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002
PREGHIERA
Per favore, non rubatemi
la mia serenità.
E la gioia che nessun tempio
ti contiene, o nessuna chiesa
t'incatena:
Cristo sparpagliato
per tutta la terra,
Dio vestito di umanità:
Cristo sei nell'ultimo di tutti
come nel più vero tabernacolo:
Cristo dei pubblicani,
delle osterie dei postriboli,
il tuo nome è colui
che-fiorisce-sotto-il-sole.
povertàGesù Cristoincarnazione
inviato da Barbara, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
831. Il messaggio del petalo di rosa
Il Maestro dei Maestri, il Grande Guru, traboccava di ricchezza interiore. E siccome la sua anima traboccava, suo scopo e suo desiderio era di riversare sugli altri l'abbondanza della sua saggezza, disperdendo le tenebre dell'ignoranza. Ma difficilmente qualcuno accetta di essere l'oggetto si cui si riversa uno straripamento. Anzitutto, perché tutti credono di essere già tanto colmi da averne d'avanzo; e poi, essere "straripati", ossia disturbati, non manca di suscitare un po' di sgomento.
Avvenne così che un giorno il Grande Guru si recò a visitare il luogo di ritiro dove parecchi monaci Sufi vivevano in grande concentrazione spirituale. L'arrivo del Maestro suscitò grande subbuglio.
"Misericordia", dicevano i monaci, "costui vorrà ancora farci imparare qualcosa? Abbiamo già il nostro da fare a non dimenticare quello che sappiamo. E poi, qui dentro siamo già in troppi. Ognuno vuol dire la sua e si finisce col non capirci niente. Facciamogli dunque comprendere, con qualche segno che non lo offenda, che il nostro convento è al completo, che non c'è posto per lui". Perciò il Capo dei Sufi gli fece portare una coppa ricolma di latte, volendo significargli: questo luogo è già sovraffollato di maestri spirituali, non c'è posto per te.
Quando la coppa gli venne presentata, il Grande Guru la osservò, poi sorrise, e, colto un petalo di rosa, lo depose a galleggiare sul latte.
Il messaggio voleva significare che come il petalo di rosa galleggiava sul latte senza farlo straripare dalla ciotola, così anche in quel luogo la sapienza del Maestro poteva trovar posto senza sconvolgere le coscienze.
Il messaggio fu compreso, e le porte del romitaggio vennero spalancate di fronte all'ospite sacro.
La saggezza è come l'orizzonte: più ci si avvicina ad esso, più retrocede (Inayat Khan).
saggezzaintelligenzaprofonditàsuperficialità
inviato da Andrea Zamba, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
C'era una volta un'isola, dove vivevano tutti i sentimenti e i valori degli uomini: la Ricchezza, l'Orgoglio, la Tristezza, il Buon Umore, il Sapere... così come tutti gli altri, incluso l'Amore.
Un giorno venne annunciato ai Sentimenti che l'isola stava per sprofondare, allora prepararono tutte le loro navi e partirono. Solo l'Amore volle aspettare fino all'ultimo momento.
Quando l'isola fu sul punto di sprofondare, l'Amore decise di chiedere aiuto.
La Ricchezza passò vicino all'Amore su una barca sfavillante e lussuosa e l'Amore le disse: "Ricchezza, mi puoi portare con te?", rispose: "Non posso, c'è molto oro e argento sulla mia barca e non ho posto per te".
L'Amore decise allora di chiedere all'Orgoglio che stava passando su un magnifico vascello: "Orgoglio ti prego, mi puoi portare con te?", "Non ti posso aiutare, Amore...", rispose l'Orgoglio, "qui è tutto ordinato e perfetto, potresti rovinare la mia barca".
L'Amore chiese alla Tristezza che gli passava accanto: "Tristezza ti prego, lasciami venire con te", "Oh amore", rispose la Tristezza "sono così triste che ho assoluto bisogno di stare sola".
Anche il Buon Umore passò di fianco all'Amore, ma era così contento che non sentì la voce dell'Amore che lo stava chiamando.
All'improvviso una voce disse: "Vieni amore, ti prendo con me" Era un vecchio che aveva parlato. L'Amore si sentì così riconoscente e pieno di gioia che dimenticò di chiedere il nome al vecchio. Quando arrivarono sulla terra ferma il vecchio che aveva parlato se ne andò.
L'Amore si rese conto di quanto gli dovesse e chiese al Sapere: "Sapere, puoi dirmi chi mi ha aiutato?", il Sapere rispose: "È stato il Tempo". "Il Tempo?" si domandò l'Amore, "Perché mai il Tempo mi ha aiutato?", il Sapere, con la sua saggezza rispose: "Perché solo il Tempo è capace di comprendere quanto l'amore sia importante nella vita".
inviato da Anna Barbi, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
Henry van Dyke, The Story of the Other Wise Man
I Magi, mentre scrutavano la volta celeste, scoprirono una nuova stella che brillò per una notte e poi sparì. Dopo qualche tempo, il cielo fu solcato da una scintilla blu che roteando emetteva splendore di porpora, finché divenne una sfera scarlatta con raggi lucenti e un vivissimo punto centrale bianco. Era il segnale della nascita del Re atteso da secoli. Lo videro i magi di Borsippa. Lo vide anche Artibano, che abitava a Ecbatana, distante dieci giorni di cammino.
Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire per Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Re e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s'inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada.
Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l'infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo aprì gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è lì che deve nascere il Messia, che tu vai cercando».
Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell'undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso 10 giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «T'abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto».
Arabano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto.
Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l'oro, l'incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un'altra via.
Il villaggio pareva deserto: gli uomini erano nei campi e i ragazzi al pascolo delle greggi. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall'Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l'avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto.
Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell'Egitto. Egli sperava di raggiungere la Sacra Famiglia nelle oasi del deserto, sotto le palme o i sicomori, ma invano. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menfi; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all'ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla.
Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poterli trovare. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi».
A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l'ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua.
La città santa brulicava di gente, venuta dalle terre più lontane alla festa del Tempio. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un'agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c'è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei».
Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù, nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?».
Così il buon vecchio seguì la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana, riconosciutolo dal costume per suo connazionale, gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà».
Il vecchio, non possedendo che un'unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto.
Improvvisamente si udì un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case si spalancano e crollano; nuvole di polvere riempiono l'aria; soldati e popolo fuggono terrorizzati.
Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime.
La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non così o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!».
Artibano cessò di parlare. Ma un'altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l'hai fatto a me». Un grande respiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi. Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.
caritàamoreservizioparadisogiudizio universale
inviato da Don Angelo, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
Paulo Coelho, I racconti del maktub
La Madonna, con il Bambino Gesù fra le braccia, aveva deciso di scendere in Terra per visitare un monastero.
Orgogliosi, tutti i monaci si misero in una lunga fila, presentandosi ciascuno davanti alla Vergine per renderle omaggio.
Uno declamò alcune poesie, un altro le mostrò le miniature che aveva preparato per la Bibbia e un terzo recitò i nomi di tutti i santi. E così via, un monaco dopo l'altro, tutti resero omaggio alla Madonna e al Bambino.
All'ultimo posto della fila ne rimase uno, il monaco più umile del convento, che non aveva mai studiato i sacri testi dell'epoca. I suoi genitori erano persone semplici, che lavoravano in un vecchio circo dei dintorni, e gli avevano insegnato soltanto a far volteggiare le palline in aria.
Quando giunse il suo turno, gli altri monaci volevano concludere l'omaggio perché il povero acrobata non aveva nulla di importante da dire e avrebbe potuto sminuire l'immagine del convento. Ma anche lui, nel profondo del proprio cuore, sentiva un bisogno immenso di offrire qualcosa a Gesù e alla Vergine.
Pieno di vergogna, sentendosi oggetto degli sguardi di riprovazione dei confratelli, tirò fuori dalla tasca alcune arance e cominciò a farle volteggiare: perché era l'unica cosa che egli sapesse fare.
Fu solo in quell'istante che Gesù Bambino sorride e cominciò a battere le mani in braccio alla Madonna.
E fu verso quel monaco che la Vergine tese le braccia, lasciandogli tenere per un po' il bambinello.
inviato da Immacolata Chetta, inserito il 24/11/2002
RACCONTO
835. Storia di un chicco di grano 1
Johannes Joergensen, Parabole
Come il seminatore ebbe terminato la sua opera, il chicco di grano venne a trovarsi tra due zolle di terra nera e umidiccia, e divenne terribilmente triste. Era buio, era umido, e l'oscurità e l'umidore aumentavano sempre di più, poiché al calar sera s'era disciolta in pioggia fitta fitta. C'era da darsi alla disperazione. E il chicco di grano cominciò a ricordare.
Bei tempi quelli, quando il chicco stava al caldo e al riparo in una spiga diritta e cullata dal vento, in compagnia dei fratellini! Bei tempi sì, ma così presto passati!
Poi era venuta la falce con il suo suono stridulo e devastatore, a sbattere tutte le spighe. Poi i mietitori con i loro rastrelli avevano caricato sui carri le spighe legate in covoni. Poi, più terribile ancora, i battitori si erano accaniti sulle spighe pestandole senza pietà. E le famigliole dei chicchi, vissute sempre insieme dalla più verde giovinezza, erano state sbalzate fuori dalle loro spighe, e i chicchi scaraventati in giro, ciascuno per conto suo, per non incontrarsi più.
Ma nel sacco del grano almeno ci si trovava ancora in compagnia. Un po' pigiati, è vero, e magari si respirava a fatica, ma insomma si poteva chiacchierare un po'. Ora invece, era l'abbandono assoluto, la solitudine tetra, una disperazione!
Ma l'indomani fu peggio, quando l'erpice passò sul campo e il chicco si trovò nella tenebra più densa, con terra dappertutto, sopra, sotto, in parte. L'acqua lo penetrava tutto, non sentiva più in sé il minimo cantuccio asciutto.
"Ma perché fui creato, se dovevo finire in modo così miserando? Non sarebbe stato meglio per me non aver mai conosciuto la vita e la luce del sole?" Pensava tra sé.
Allora dal profondo della terra una voce si fece sentire. Gli diceva: "Abbandonati con fiducia. Volentieri, senza paura. Tu muori per rinascere ad una vita più bella".
"Chi sei?" domandò il povero chicco, mentre un senso di rispetto sorgeva in lui. Poiché sembrava che la Voce parlasse a tutta la terra, anzi all'universo intero.
"Io sono Colui che ti ha creato, e che ora ti vuole creare un'altra volta".
Allora il chicco di grano si abbandonò alla volontà del suo Creatore, e non seppe più nulla di nulla.
Un mattino di primavera, un germoglio verde mise fuori la testolina dalla terra umida. Si guardò attorno inebriato. Era proprio lui, il chicco di grano, tornato a vivere un'altra volta.
Nell'azzurro del cielo il sole splendeva e la lodoletta cantava.
Era tornato a vivere... E non da solo, poiché intorno a sé vedeva uno stuolo di germogli in cui riconobbe i suoi fratellini.
Allora la tenera pianticella si sentì invadere dalla gioia di esistere, e avrebbe voluto alzarsi fino al cielo per accarezzarlo con le sue foglioline.
Dio è il pastore. Il dolore è il suo cane. Talvolta ha il morso duro, ma è per il bene.
fiduciafedeabbandono in Diomortevita eternadoloresofferenzarisurrezione
inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
Apoftegmi dei Padri del deserto
Un abate stava attraversando il deserto con i fratelli, quando si accorsero che quello che faceva loro da guida aveva sbagliato strada.
Era notte, e i frati dissero all'abate: "Che facciamo? Questo fratello ha sbagliato la via, e noi rischiamo di smarrirci e di morire tutti nel deserto. Non sarebbe meglio fermarci qui per la notte, e riprendere il cammino alla luce del sole?". L'abate rispose: "Ma se diciamo a costui che ha sbagliato, egli si rattristerà. Sentite dunque: io farò finta di essere stanco e dirò che non me la sento di proseguire e che resto qui fino a domattina".
Così fecero, e anche gli altri dissero: "Anche noi non ne possiamo più dalla stanchezza e ci fermiamo con te ". E così riuscirono a non contristare quel fratello, che non seppe mai d'aver sbagliato strada.
La buona educazione non consiste nel non versare la salsa sulla tovaglia, ma nel mostrare di non accorgersi se un altro lo fa.
educazioneumanitàperdonotolleranzamagnanimitàattenzione all'altro
inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
Mario, per gli amici Pollicione, prima di venire sulla terra, venne chiamato a rapporto dal Buon Dio, il quale gli presentò a grandi linee le cose che avrebbe dovuto fare nella vita terrena. Quando gli fu riferito che avrebbe dovuto comparire in televisione per una serie di telefilm, si oppose decisamente al progetto, perché era molto timido. Disse: "Non sono il tipo io, per fare queste cose; ci vuole una certa presenza, e poi, io mi emoziono facilmente; con tutti gli attori che ci sono, perché avete scelto proprio me?" "Okay, Mario", gli rispose il Buon Dio, "ti offro la possibilità di trovarti un sostituto, ad una condizione però: dovrà avere le impronte digitali dei pollici uguali e precise alle tue!".
Mario non si perse d'animo, girò e rigirò varie volte la storia presente, passata e futura per cercare un uomo che avesse i pollici uguali ai suoi. Scaduto il tempo stabilito per la ricerca, il Buon Dio chiamò a sé di nuovo Mario e gli disse: "Come potevi sperare di trovare una persona uguale a te? Sei stato creato in modo così originale che nemmeno le impronte dei tuoi pollici sono state copiate da un altro uomo! Ora va' sulla terra e porta a compimento quel progetto che solo tu puoi realizzare: la tua vocazione":
Mario accettò la lezione che il Buon Dio gli aveva dato e, anzi, fu così contento di non essere una copia, che una volta arrivato sulla terra, si mise a mostrare con un pizzico di orgoglio il segno della sua originalità, come a ricordare a tutti che nessun altro è uguale e noi e che quindi non possiamo tirarci indietro nel nostro progetto.
inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
Erano circa le 3 del mattino quando Rodolfo, la vecchia guida alpina, andò a svegliare Giovanni. Architetto, tutto lavoro e mondanità, il signor Giovanni aveva deciso di trascorrere parte delle sue vacanze in montagna e l'ascensione ad una prestigiosa vetta gli era sembrato quanto di meglio si potesse in futuro presentare agli amici, che, come lui, non avevano mai fatto niente del genere.
Rodolfo chiamò il suo cliente per iniziare l'ascensione, dopo colazione. Occorreva stare vicini alla guida perché la notte era senza luna e ad ogni passo Giovanni rischiava di incespicare tra i sassi. Questa gita già gli piaceva poco; Rodolfo poi era silenzioso e si limitava a qualche avvertimento. Quando con il fiato grosso Giovanni stava per chiedere all'accompagnatore di fermarsi per riposare, si arrivò ai bordi del ghiacciaio. In quattro e quattr'otto si trovò infagottato, legato come al guinzaglio, armato di piccozza e ramponi e sempre dietro a questo montanaro instancabile dai modi bruschi che ormai rimpiangeva di aver contattato. "Quanta fatica per un po' di gloria con gli amici", pensava tra sé Giovanni. Il capo di Giovanni era stato fino ad allora chino sul terreno quasi a fare economia di ogni briciola di energia ma l'impulso a gridare con rabbia a Rodolfo di fermarsi e tornare, gli aveva fatto alzare il viso ed ecco che la visione di un'alba incantevole gli troncò il comando in gola. L'ammirazione per quanto aveva dinanzi gli alleviava la fatica e il freddo tanto che quasi se ne dimenticò.
La guida, che conosceva bene la psicologia dei clienti di città, decise allora una sosta per uno spuntino e nemmeno allora cessò lo stupore di Giovanni che di continuo girava il capo e gustava la vista di quei colossi di roccia e ghiaccio, il silenzio incorrotto, il cielo così terso e turchese. Rodolfo, consapevole di ciò, rideva sotto i baffi.
Il cammino riprese, la fatica pure, ma da quel momento accettata serenamente. La vetta fu raggiunta e allora Rodolfo e Giovanni guardandosi dritto negli occhi sorrisero e si strinsero la mano.
"Se fossi stato più accondiscendente con lei", disse Rodolfo, "certamente mi avrebbe pregato di tornare indietro".
"Grazie, perché adesso questa pace e questa gioia appartengono anche a me", rispose Giovanni.
Giovanni non scattò neppure una foto perché nulla poteva raffigurare quanto adesso aveva così chiaro e brillante nel cuore.
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inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
839. La meravigliosa storia dell'elefante 1
Un tempo antico in un paese dell'Arabia regnava il califfo Omar, ricco e benvoluto perché era saggio. Era di larghe vedute e non si arrestava all'apparenza delle cose. Prima di esprimere dei giudizi si sforzava sempre di comprendere le relazioni e i legami che ci sono tra i fatti anche se a prima vista potevano apparire isolati e diversi. Egli era perciò rattristato per la grettezza di spirito dei suoi ministri che non vedevano più in là del loro naso.
"Va in giro per il mio regno" disse un giorno il califfo ad un servo fidato "e trova, se ti riesce, tutti gli uomini sfortunati dalla nascita che non hanno mai potuto vedere e che non hanno mai sentito parlare degli elefanti".
Il servo fedele eseguì l'ordine e dopo qualche tempo ritornò con alcuni ciechi fin dalla nascita. Essi erano cresciuti sperduti in piccoli villaggi tra le montagne perciò degli elefanti non avevano mai sentito parlare e non ne supponevano nemmeno l'esistenza. Il califfo fece un gran ricevimento con tutti i suoi ministri e alla fine del banchetto fece entrare un grosso elefante da una porta di bronzo e i ciechi da un'altra porta più piccola.
"Mi sapreste dire che cosa è un elefante?" chiese il califfo ai ciechi.
"No, mai sentita questa parola", risposero i ciechi.
"Ebbene, davanti a voi c'è un elefante: toccatelo, cercate di comprendere di che cosa si tratta. Colui che darà la risposta esatta riceverà in premio 100 monete d'oro".
I ciechi si affollarono intorno all'animale e cominciarono a toccarlo con attenzione soffermandosi sulle sensazioni che ricevevano. Un cieco stava lisciando da cima a fondo una zampa, la pelle dura e rugosa gli sembrava pietra e la forma era di un lungo e grosso cilindro. "L'elefante è una colonna!" esclamò soddisfatto.
"No, è una tromba!" disse il cieco che aveva toccato solo la proboscide.
"Niente affatto, è una corda!" esclamò il cieco che aveva toccato la coda.
"Ma no, è un grosso ventaglio" ribattè chi aveva toccato l'orecchio.
"Vi sbagliate tutti: è un grosso pallone gonfiato!" urlò il cieco che aveva toccato la pancia.
Tra loro c'era il più grande scompiglio e disaccordo perché ciascuno, pur toccando soltanto una parte credeva di conoscere l'intero elefante.
Il califfo, soddisfatto, si rivolse ai suoi ministri: "Chi non si sforza di avere della realtà una visione più ampia possibile, ma si accontenta degli aspetti separati e parziali senza metterli in relazione tra loro, si comporta come questi ciechi. Egli potrà conoscere a fondo tutte le righe della zampa dell'elefante, ma non vedrà mai l'animale intero, anzi, non saprà mai che esiste un siffatto animale".
apparenzalarghezza di vedutenon giudicaregiudizio
inviato da Furetto, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
840. I regali nello sgabuzzino 3
Bruno Ferrero, Novena di Natale
Il postino suonò due volte. Mancavano cinque giorni a Natale. Aveva fra le braccia un grosso pacco avvolto in carta preziosamente disegnata e legato con nastri dorati.
«Avanti», disse una voce dall'interno.
Il postino entrò. Era una casa malandata: si trovò in una stanza piena d'ombre e di polvere. Seduto in una poltrona c'era un vecchio.
«Guardi che stupendo paccone di Natale!» disse allegramente il postino.
«Grazie. Lo metta pure per terra», disse il vecchio con la voce più triste che mai.
Il postino rimase imbambolato con il grosso pacco in mano. Intuiva benissimo che il pacco era pieno di cose buone e quel vecchio non aveva certo l'aria di spassarsela bene. Allora, perché era così triste?
«Ma, signore, non dovrebbe fare un po' di festa a questo magnifico regalo?».
«Non posso... Non posso proprio», disse il vecchio con le lacrime agli occhi. E raccontò al postino la storia della figlia che si era sposata nella città vicina ed era diventata ricca. Tutti gli anni gli mandava un pacco, per Natale, con un bigliettino: «Da tua figlia Luisa e marito». Mai un augurio personale, una visita, un invito: «Vieni a passare il Natale con noi».
«Venga a vedere», aggiunse il vecchio e si alzò stancamente.
Il postino lo seguì fino ad uno sgabuzzino. Il vecchio aprì la porta.
«Ma...» fece il postino.
Lo sgabuzzino traboccava di regali natalizi. Erano tutti quelli dei Natali precedenti. Intatti, con la loro preziosa carta e i nastri luccicanti.
«Ma non li ha neanche aperti!» esclamò il postino allibito.
«No», disse mestamente il vecchio. «Non c'è amore dentro».
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inviato da Tiziana Trotta, inserito il 22/11/2002