Ritagli per la prossima festa:
15 agosto 2025
ASSUNZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA (MESSA DELLA VIGILIA)
Quando hai bisogno, Qumran ti dà una mano, sempre.
Ora Qumran ha bisogno di te.
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TESTO
201. Le dieci ricette per farmi felice 1
1. Non mi buco in continuazione il dito per controllare il tasso di zucchero nel sangue.
2. Ricarico le mie riserve emotive guardando un tramonto, la luna piena, il volto di un bimbo, un fiore.
3. Non dico mai: "le rane gracidano", ma dico: "le rane cantano".
4. Non voglio essere perfetto: potrei diventare nevrotico.
5. Quando mi osservo nello specchio, non mi guardo: "mi sorrido".
6. Uso il contagocce per dire "io".
7. Saluto sempre per primo.
8. Mi immagino mentre sbraito, mi agito, urlo... Non sono forse un tantino ridicolo?
9. Mi riempio il cervello di parole-vitamine: "ce la farò"; "sono piccolo, ma non basso"; "non sono bello, ma luminoso"; "finché vivo, voglio ardere"...
10. Penso: le avversità ci sono sempre, ma Dio anche. Perciò sono sempre in vantaggio!
inviato da Patrizia Traverso, inserito il 27/11/2002
TESTO
202. Ti auguro un'oasi di pace 1
La strada vi venga sempre dinanzi
e il vento vi soffi alle spalle
e la rugiada bagni sempre l'erba
cui cui poggiate i passi.
E il sorriso brilli sempre
sul vostro volto.
E il pianto che spunta
sui vostri occhi
sia solo pianto di felicità.
E qualora dovesse trattarsi
di lacrime di amarezza e di dolore,
ci sia sempre qualcuno
pronto ad asciugarvele.
Il sole entri a brillare
prepotentemente nella vostra casa,
a portare tanta luce,
tanta speranza e tanto calore.
inviato da Anna Lianza, inserito il 25/11/2002
TESTO
203. Pensando un po' alla morte 1
Credo che questo testo si potrà leggere in circa tre minuti. Ebbene, in questo lasso di tempo, moriranno 300 persone e ne nasceranno altre 620.
Forse io impiegherò mezz'ora per scriverlo: sono concentrato sul mio computer, sui libri accanto a me, sulle idee che mi vengono, sulle macchine che passano là fuori.
Tutto sembra assolutamente normale intorno a me. Invece, durante questi trenta minuti, sono morte 3.000 persone, e 6.200 hanno appena visto, per la prima volta, la luce del mondo.
Dove saranno queste migliaia di famiglie che hanno cominciato a piangere per la perdita di qualcuno, o a ridere per l'arrivo di un figlio, di un nipote, di un fratello?
Mi fermo e rifletto: forse molte di queste morti arrivano al termine di una lunga e dolorosa malattia, e certe persone saranno sollevate dall'Angelo che è venuto a prenderle. Inoltre, centinaia di questi bambini che sono appena nati quasi sicuramente saranno abbandonati nel prossimo minuto ed entreranno nelle statistiche di morte prima che io abbia finito questo testo.
Pensate. Ho appena dato uno sguardo a una semplice statistica e tutt'a un tratto inizio ad avvertire il senso di queste perdite e questi incontri, questi sorrisi e queste lacrime. Quanti staranno lasciando questa vita da soli, nelle loro stanze, senza che nessuno si renda conto di ciò che sta accadendo? Quanti nasceranno nascostamente e saranno abbandonati davanti alla porta di qualche ricovero o di qualche convento?
Rifletto: ho già fatto parte della statistica delle nascite e, un giorno, sarò incluso nel numero dei morti. Che bello: io sono pienamente consapevole che morirò. Da quando ho fatto il cammino di Santiago, ho capito che - anche se la vita continua e siamo tutti eterni - un giorno questa esistenza si concluderà.
Le persone pensano molto poco alla morte. Passano la vita preoccupandosi di vere e proprie assurdità, rimandano cose, tralasciano momenti importanti. Non rischiano, perché pensano sia pericoloso. Si lamentano molto, ma diventano codarde quando è il momento di prendere provvedimenti. Vogliono che tutto cambi, ma loro si rifiutano di cambiare.
Se pensassero un po' di più alla morte, non tralascerebbero mai di fare quella telefonata che manca. Sarebbero un po' più folli. Non avrebbero paura della fine di questa incarnazione - perché non si può temere qualcosa che accadrà comunque.
Gli Indios dicono: "Oggi è un giorno buono come qualsiasi altro per lasciare questo mondo". E uno stregone commentò una volta: "Che la morte sia sempre seduta al tuo fianco. Così, quando avrai bisogno di fare qualcosa di importante, essa ti darà la forza e il coraggio necessari".
Spero che tu, lettore, abbia letto fin qui. Sarebbe una stupidaggine spaventarsi per il titolo, perché tutti noi, prima o poi, moriremo. E solo chi accetta questo è pronto per la vita.
vitamortevita eternacoraggiocambiamentopaurasenso della vita
inviato da Federico Bernardi, inserito il 25/11/2002
TESTO
Tonino Bello, Ascoltate e rallegratevi. 100 pagine di Tonino Bello, ed.Citta Nuova, 2005
Chi spera cammina,
non fugge!
Si incarna nella storia!
Costruisce il futuro,
non lo attende soltanto!
Ha la grinta del lottatore,
non la rassegnazione
di chi disarma!
Ha la passione
del veggente,
non l'aria avvilita di chi
si lascia andare.
Cambia la storia,
non la subisce!
speranzafuturorassegnazionesogniimpegnoresponsabilità
inviato da Federico Bernardi, inserito il 24/11/2002
TESTO
1. Poiché la tenerezza è possibile, non c'è nessuna ragione per starne senza.
2. Parlatevi un po' ogni giorno.
3. Crescete insieme, continuamente.
4. Stimati. Gli unici che apprezzano uno zerbino sono quelli che hanno le scarpe sporche.
5. Sii compassionevole.
6. Sii gentile. L'amore non ammette le cattive maniere.
7. Scopri il lato buono e bello delle persone, anche quando fanno di tutto per nasconderlo.
8. Non temere i dissapori e i litigi: solo i morti e gli indifferenti non litigano mai.
9. Non farti coinvolgere dalle piccole irritazioni e meschinità quotidiane.
10. Continua a ridere, tiene in esercizio il cuore e protegge da disturbi cardiaci.
Un utente ci ha segnalato che il testo dovrebbe essere di Leo Buscaglia (presente nel libro "Vivere, amare, capirsi" oppure su "Amore"). In ogni caso è stato pubblicato da Bruno Ferrero, Il canto del grillo, Elledici 1990, sul sito della Elledici.
inviato da Simona Palladino, inserito il 23/11/2002
RACCONTO
206. La vecchietta che aspettava Dio 9
La vita di ognuno di noi è intessuta di attese. Si tratta di una esperienza importante e di grande valore educativo. Consapevole di ciò, la Chiesa ha fissato un tempo per ravvivare questo 'stato' fondamentale nella vita del cristiano: il tempo dell'Avvento. La storia sottolinea che Dio è sempre sorprendente... è possibile incontrarlo in tanti modi, ma in modo particolare nelle persone che ci avvicinano tutti i giorni.
C'era una volta un'anziana signora che passava in pia preghiera molte ore della giornata. Un giorno sentì la voce di Dio che le diceva: "Oggi verrò a farti visita". Figuratevi la gioia e l'orgoglio della vecchietta. Cominciò a pulire e lucidare, impastare e infornare dolci. Poi indossò il vestito più bello e si mise ad aspettare l'arrivo di Dio.
Dopo un po', qualcuno bussò alla porta. La vecchietta corse ad aprire. Ma era solo la sua vicina di casa che le chiedeva in prestito un pizzico di sale. La vecchietta la spinse via: "Per amore di Dio, vattene subito, non ho proprio tempo per queste stupidaggini! Sto aspettando Dio, nella mia casa! Vai via!". E sbattè la porta in faccia alla mortificata vicina.
Qualche tempo dopo, bussarono di nuovo. La vecchietta si guardò allo specchio, si rassettò e corse ad aprire. Ma chi c'era? Un ragazzo infagottato in una giacca troppo larga che vendeva bottoni e saponette da quattro soldi. La vecchietta sbottò: "Io sto aspettando il buon Dio. Non ho proprio tempo. Torna un'altra volta!". E chiuse la porta sul naso del povero ragazzo.
Poco dopo bussarono nuovamente alla porta. La vecchietta aprì e si trovò davanti un vecchio cencioso e male in arnese. "Un pezzo di pane, gentile signora, anche raffermo... E se potesse lasciarmi riposare un momento qui sugli scalini della sua casa", implorò il povero.
"Ah, no! Lasciatemi in pace! Io sto aspettando Dio! E stia lontano dai miei scalini!" disse la vecchietta stizzita. Il povero se ne partì zoppicando e la vecchietta si dispose di nuovo ad aspettare Dio.
La giornata passò, ora dopo ora. Venne la sera e Dio non si era fatto vedere. La vecchietta era profondamente delusa. Alla fine si decise ad andare a letto. Stranamente si addormentò subito e cominciò a sognare. Le apparve in sogno il buon Dio che le disse: "Oggi, per tre volte sono venuto a visitarti, e per tre volte non mi hai ricevuto".
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inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002
TESTO
207. Educazione alla povertà 1
Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la prima beatitudine.
Non è vero che si nasce poveri.
Si può nascere poeti, ma non poveri.
Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti.
Dopo una trafila di studi, cioè.
Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi.
Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile. Tanto difficile, che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l'insegnamento di questa disciplina.
Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al capitolo ottavo, c è un passaggio fortissimo: "Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi".
E' un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare, che se l'è portato con sé in tutte le trasferte come il documento più significativo della sua identità: "Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il nido; ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo".
Se l'è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona, se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà del Maestro, afferma: "Ella con Cristo salì sulla croce".
Non c'è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante carriera.
E ce l'ha voluta insegnare.
Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà ci si educa e ci si allena. E, a meno che uno non sia un talento naturale, l'apprendimento di essa esige regole precise, tempi molto lunghi, e, comunque, tappe ben delineate.
Proviamo a delinearne sommariamente tre.
Povertà come annuncio
A chi vuole imparare la povertà, la prima cosa da insegnare è che la ricchezza è cosa buona.
I beni della terra non sono maledetti. Tutt'altro. Neppure i soldi sono maledetti.
Continuare a chiamarli sterco del diavolo significa perpetuare equivoci manichei che non giovano molto all'ascetica, visto che anche i santi, di questo sterco, non hanno disdegnato di insozzarsi le tasche.
I beni della terra non giacciono sotto il segno della condanna. Per ciascuno di essi, come per tutte le cose splendide che nei giorni della creazione uscivano dalle mani di Dio, si può mettere l'epigrafe: "ed ecco, era cosa molto buona".
Se la ricchezza della terra è buona, però, c'è una cosa ancora più buona: la ricchezza del Regno, di cui la prima è solo un pallidissimo segno. Ecco il punto. Ci vorrà fatica a farlo capire agli apprendisti. Ma è il nodo di tutto il problema. Farsi povero non deve significare disprezzo della ricchezza, ma dichiarazione solenne, fatta con i gesti del paradosso e perciò con la rinuncia, che il Signore è la ricchezza suprema.
Un po' come rinunciare a sposarsi in vista del Regno non significa disprezzare il matrimonio, ma annunciare che c'è un amore più grande di quello che germoglia tra due creature. Anzi, dichiarare che questo piccolo amore è stato scelto da Dio come segno di quell'altro più grande. Sicché, chi non si sposa sembra dire ai coniugi: "Splendida la vostra esperienza. Ma non è tutto. Essa è solo un segno. Perché c'è un'esperienza di amore ancora più forte, di cui voi attualmente state vivendo solo un lontanissimo frammento, e che un giorno saremo tutti chiamati a vivere in pienezza".
Analogamente, farsi povero significa accendere una freccia stradale per indicare ai viandanti distratti la dimensione "simbolica" della ricchezza, e far prendere coscienza a tutti della realtà significata che sta oltre. Significa, in ultima analisi, divenire parabola vivente della "ulteriorità".
In questo senso, la povertà, prima che rinuncia, è un annuncio. E' annuncio del Regno che verrà.
Povertà come rinuncia
E' la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi.
in realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica.
Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. E' la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole.
La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio.
Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere.
Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".
Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. Chi desidera stare con gli ultimi, per sollecitarli a camminare alla sequela di Cristo, deve necessariamente alleggerirsi dei "tir" delle sue stupide suppellettili.
Chi vuol fare entrare Cristo nella sua casa, deve abbandonare l'albero, come Zaccheo, e compiere quelle conversioni "verticali" che si concludono inesorabilmente con la spoliazione a favore dei poveri.
E' la gioia, quindi, che connota la rinuncia cristiana: non il riso.
La testimonianza, non l'ostentazione.
Come avvenne per Francesco, innamorato pazzo di madonna Povertà. Come avvenne per i suoi seguaci, che si spogliarono non per disprezzo, ma per seguire meglio il maestro e la sua sposa: "O ignota ricchezza, o ben verace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì la sposa piace!".
Povertà come denuncia
Di fronte alle ingiustizie del mondo, alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può tacere.
Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo, dell'accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali.
Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte per fame di cinquanta milioni di persone all'anno, mentre per la corsa alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro.
Ebbene, quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella "Sollicitudo rei socialis", ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato? Quella della povertà!
Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.
E' un'educazione che bisogna compiere, tornando anche ai paradossi degli antichi Padri della Chiesa: "Se hai due tuniche nell'armadio, una appartiene ai poveri". Non ci si può permettere i paradigmi dell'opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. Le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del Calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.
La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta.
Ma c'è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.
Ed ecco la povertà intesa come condivisione della sofferenza altrui. E' la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio, o turpe occasione per scalate rampanti.
Povertà che si fa martirio: tanto più credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona.
Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, sì è fatto povero fino al lastrico dell'annientamento.
L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara.
Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine.
povertàricchezzaingiustiziacelibatovita eternaparadisoserviziocaritàregno dei cieliregno di Diorinuncia
inviato da Eleonora Polo, inserito il 18/11/2002
ESPERIENZA
Padre Mariano, Vivere il quotidiano con fedeltà, a cura di Giovanni Barra, Ed. Gribaudi
Padre Mariano raccontò una volta, in uno dei suoi famosi colloqui in TV, questa singolare storia di una vocazione..
Era una signorina dell'alta società romana. Era fidanzata e stava per sposarsi. Mancavano pochi mesi.
Già l'appartamento era pronto, tutto bello, tutto sorridente. Si preparava un matrimonio veramente sontuoso.
Questa signorina stava in villeggiatura ai Castelli Romani. Tutte le sere scendeva giù nel paesino, da una sua villa, per prendere alla posta la lettera del suo fidanzato che in quegli ultimi mesi, per ragione di lavoro, stava in Alta Italia e le scriveva tutti i giorni.
Essa imbucava la sua cartolina o lettera e ritirava quella di lui.
"Quella sera imbucai la solita lettera. - raccontava, ormai anziana la protagonista. - Era estate, faceva caldo, ero stanca...
La cassetta delle lettere stava sopra la parete della chiesa parrocchiale e mi venne la tentazione (perché proprio di una tentazione si trattava per me, che non mettevo piede in chiesa da più di quindici anni) di entrare in quella chiesa per riposarmi un po' al fresco.
Mi avviai verso la porta della chiesa e, mentre camminavo, mi passa per la testa un'idea (ma che idea bizzarra!), una domanda, che mai
mi ero fatta:
- Quest'uomo, al quale io sto per dedicare tutta la mia vita, mi vorrà poi bene davvero?.
- Perché no? (mi rispondevo tra me e me) Mi ha dato anelli, gioielli, ha preparato la casa per me...
Una seconda domanda mi passò poi per la testa:
- Ma quest'uomo, domani se fosse necessario, per il mio bene, un sacrificio anche grave da parte sua, sarebbe disposto a farlo?
- Io penso di sì, (continuavo a rispondermi) perché l'anno scorso non è andato a quella crociera per starmi vicino, l'anno prima lo stesso... Insomma, qualche sacrificio per amor mio, lo ha già fatto. E altri li farà certamente in seguito...
Entro in chiesa, e nella semioscurità, mentre mi sto orientando per cercare un banco per sedermi, mi passa per la mente la domanda più assurda, la più stupida che possa passare per la mente di una fidanzata, che sta per sposarsi:
- Ma quest'uomo, se dovesse dare la sua vita per me, sarebbe capace di farlo?
- Che cretina, che stupida, - mi dissi proprio così - ma se dà la vita... non lo sposo più!
Ero evidentemente stanca... e come fuori di me, mi siedo, alzo la testa e vedo, là sopra il pulpito di quella povera chiesa, un Crocifisso.
Io non sono una visionaria, e nemmeno una sognatrice, ma in quel momento mi sono sentita dire da quel Crocifisso:
"Io ho dato la mia vita per te!".
Fu tale lo sconvolgimento della mia anima, tale il rovesciamento dei valori, inesplicabile, istantaneo, che io scattai in piedi e dissi a me stessa: - Sarò suora carmelitana!
E non ci furono ritorni.
Io non avrei più potuto sposarmi, non mi sarei più sentita di farlo perché avevo 'sentito' questa affermazione, alla quale non avevo mai pensato prima e ormai la mia vita dovevo impegnarla per Lui.
E sono cinquant'anni e più che sono suora carmelitana e sono felicissima. E, se ho un rincrescimento, è quello di non aver ancora saputo rendere al Signore, se non in minima parte, quello che Lui mi ha dato".
vocazionechiamataprogetto di Dioamore di Diorapporto con Dio
inviato da Don Natale Trevisan, inserito il 29/08/2002
TESTO
209. Stola e grembiule (versione breve)
Tonino Bello, Stola e grembiule, Ed. Insieme, Terlizzi, 1993
Di solito la stola richiama l'armadio della sacrestia dove, profumata d'incenso, fa bella mostra di sé. Non c'è novello sacerdote che non abbia in dono per la prima messa una stola preziosa. Il grembiule, invece, per ben che vada, richiama la credenza della cucina dove, sporco e macchiato, è sempre a portata di mano della massaia. Ordinariamente non è un articolo da regalo, tanto meno a un prete. Eppure è l'unico paramento sacerdotale registrato nel vangelo della messa solenne del giovedì santo. Il vangelo infatti non parla né di casule, né di amitti, ma solo di questo panno rozzo di cui "il Maestro si cinse i fianchi" per la lavanda dei piedi degli apostoli, in segno di servizio e umiltà suprema.
serviziogiovedì santocaritàlavanda dei piedisacerdozio
inviato da Stefania Raspo, inserito il 28/08/2002
TESTO
210. Buon Natale, tanti auguri... scomodi!
Non obbedirei al mio dovere di Vescovo, se vi dicessi "Buon Natale" senza darvi disturbo.
Io, invece, vi voglio infastidire.
Non posso, infatti, sopportare l'idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla "routine" di calendario. Mi lusinga, addirittura, l'ipotesi che qualcuno li possa respingere al mittente come indesiderati.
Tanti auguri scomodi, allora!
Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un'esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio.
Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.
Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l'inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe, che nell'affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.
Gli angeli che annunziano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l'aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio per fame.
I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell'oscurità e la città dorme nell'indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere "una gran luce", dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano. Che i ritardi dell'edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.
I pastori che vegliano nella notte, "facendo la guardia al gregge" e scrutando l'aurora, vi diano il senso della storia, l'ebbrezza delle attese, il gaudio dell'abbandono in Dio. E poi vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l'unico modo per morire ricchi.
Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 12/06/2002
TESTO
211. Le persone che sanno amare... 1
Le persone che sanno amare
sono quelle che rendono bello il mondo;
le persone più importanti della terra
sono le persone profondamente buone.
Perché solo loro che sanno dare alla gente
quello di cui ha più bisogno: la bontà.
Chi porta bontà comunica pace, sicurezza, forza,
perché comunica Dio.
Abbiamo bisogno di tante cose:
di salute, di pane, di lavoro, di tranquillità e di pace...
...ma più di tutto di bontà.
Abbiamo bisogno di gente che insegni ad amare.
Amare è calarsi nei problemi degli altri,
è sacrificare il proprio tempo,
è aiutare le persone fino in fondo,
come sa fare Dio con ciascuno di noi.
Amare è comprendere.
Amare è perdonare, è cambiare il male con il bene.
Amare è dare affetto, attenzione e forza a chi non ce l'ha.
Amare è dare, senza attendere il ricambio.
Quando sei paziente mentre tutti perderebbero la pazienza;
quando ti controlli davanti a un pensiero cattivo;
quando fermi una parola di condanna
che sembrerebbe a tutti legittima,
stai diventando esperto in amore.
Amare è fermarsi accanto ad ogni persona senza passare oltre;
è trovare il tempo per uno che soffre
mentre manca il tempo per te e le tue cose.
Amare è rendere presente Dio in mezzo alla gente.
Signore, moltiplica sulla terra le persone capaci di amare,
perché gli uomini hanno bisogno di Te!
amoreamiciziaresponsabilitàdonarebontà
inviato da Luca Peyron, inserito il 12/06/2002
TESTO
Tonino Bello, Alla finestra della Speranza
E' sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. E' su questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo e a misurare la nostra fedeltà al mistero della croce.
perdonoamare i nemiciessere cristiani
inviato da Luca Peyron, inserito il 12/06/2002
TESTO
213. Siamo tutti nati per risplendere 2
Marianne Williamson, Ritorno all'amore. Come creare miracoli vivendo con amore la vita di tutti i giorni
La nostra paura più profonda e inconscia non è quella di essere inadeguati: spesso lo siamo e lo consideriamo normale.
La nostra paura è di essere forti, potenti.
È la nostra luce, non la nostra oscurità, a spaventarci.
Ci domandiamo senza rendercene conto: «Chi mai sono io per essere brillante, bello, pieno di talento, meravigliato e meraviglioso?»
A pensarci bene, chi sei tu per non essere tutto questo?
Sei una creatura di Dio.
Il tuo mantenerti con un profilo basso non serve al mondo e non serve a te.
Non vi è niente di illuminato nello sminuirsi, nel far sentire insicure le persone che ti stanno intorno.
Siamo tutti fatti per risplendere, come fanno i bambini che ancora sono liberi nella mente.
Siamo nati tutti per rendere manifesta la gloria di Dio che è in noi e anche se non credi ne fai parte, perché è in tutti noi.
Ogni volta che facciamo risplendere la nostra vita interiore, diamo inconsciamente la possibilità ad altri di fare lo stesso.
Quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra semplice presenza automaticamente libera gli altri.
inviato da Mariangela Molari, inserito il 11/06/2002
PREGHIERA
Il legno della Croce,
quel "legno del fallimento",
è divenuto il parametro vero
di ogni vittoria.
Gesù ha operato più salvezza
con le mani inchiodate sulla Croce,
che con le mani stese sui malati.
Donaci, Signore,
di non sentirci costretti
nell'aiutarTi a portare la Croce,
di aiutarci a vedere
anche nelle nostre croci
e nella stessa Croce
un mezzo per ricambiare
il Tuo Amore,
aiutaci a capire
che la nostra storia crocifissa
è già impregnata di resurrezione.
Se ci sentiamo sfiniti, Signore,
è perché, purtroppo,
molti passi li abbiamo consumati
sui viottoli nostri e non sui Tuoi,
ma proprio i nostri fallimenti
possono essere la salvezza
della nostra vita.
La Pasqua è la festa
degli ex delusi della vita,
nei cui cuori all'improvviso
dilaga la speranza.
Cambiare è possibile,
per tutti e sempre!
pasquarisurrezionesperanzaconversionecambiamentocrocedoloresofferenza
inviato da Mariangela Molari, inserito il 10/06/2002
PREGHIERA
215. Solo quando avremo taciuto 1
Solo quando avremo taciuto noi, Dio potrà parlare.
Comunicherà a noi solo sulle sabbie del deserto.
Nel silenzio maturano le grandi cose della vita:
la conversione, l'amore, il sacrificio.
Quando il sole si eclissa pure per noi,
e il Cielo non risponde al nostro grido,
e la terra rimbomba cava sotto i passi,
e la paura dell'abbandono rischia di farci disperare,
rimanici accanto.
In quel momento, rompi pure il silenzio:
per dirci parole d'amore!
E sentiremo i brividi della Pasqua.
pasquasperanzarisurrezionefiduciasilenzioabbandono
inviato da Mariangela Molari, inserito il 10/06/2002
TESTO
Coraggio, gente!
La Pasqua ci dice
che la nostra storia ha un senso,
e non è un mazzo di inutili sussulti.
Che quelli che stiamo percorrendo
non sono sentieri ininterrotti.
Che la nostra esistenza personale
non è sospesa nel vuoto
né consiste in uno spettacolo senza rete.
Precipitiamo in Dio.
In lui viviamo,
ci muoviamo ed esistiamo.
Coraggio, gente!
La Pasqua vi prosciughi
i ristagni di disperazione
sedimentati nel cuore.
E, insieme al coraggio di esistere,
vi ridia la voglia di camminare.
Pasquarisurrezionesperanzafiduciafede
inviato da Stefania Raspo, inserito il 03/06/2002
RACCONTO
C'era una volta un bellissimo e meraviglioso giardino. Era situato ad ovest del paese, in mezzo al grande regno. Il Signore di questo giardino aveva l'abitudine di farvi una passeggiata ogni giorno, quando il caldo della giornata era più forte.
C'era in questo giardino un bambù di aspetto nobile. Era il più bello di tutti gli alberi del giardino e il Signore amava questo bambù più di tutte le altre piante.
Anno dopo anno, questo bambù cresceva e diventava sempre più bello e più grazioso. Il bambù sapeva che il Signore lo amava e ne godeva.
Un bel giorno, il Signore, molto in pensiero, si avvicinò al suo albero amato e l'albero, in grande venerazione, chinò la testa. Il Signore gli disse: "Caro bambù, ho bisogno di te". Sembrò al bambù che fosse venuto il giorno di tutti i giorni, il giorno per cui era nato. Con grande gioia, ma a bassa voce, il bambù rispose: "O Signore, sono pronto. Fa' di me l'uso che vuoi".
"Bambù", la voce del Signore era seria, "per usarti devo abbatterti". Il bambù fu spaventato, molto spaventato: "Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bel albero del tuo giardino? No, per favore, no! Fa' uso di me per la tua gioia, Signore, ma per favore, non abbattermi".
"Mio caro bambù," disse il Signore e la sua voce era più seria, "se non posso abbatterti, non posso usarti".
Nel giardino ci fu allora un grande silenzio. Il vento non tirava più, gli uccelli non cantavano più. Lentamente, molto lentamente, il bambù chinò ancora di più la sua testa meravigliosa poi sussurrò: "Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fa' di me quello che vuoi e abbattimi".
"Mio caro bambù," disse di nuovo il Signore "non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami. Se non posso tagliarli, non posso usarti".
Allora il sole si nascose e gli uccelli ansiosi volarono via. Il bambù tremò e disse appena udibile: "Signore, tagliali!".
"Mio caro bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore. Se non posso farti questo, non posso usarti". Il bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due e ne estirpò il cuore. Poi portò il bambù alla fonte di acqua fresca vicino ai suoi campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore dispose l'amato bambù a terra: un'estremità del tronco la collegò alla fonte, l'altra la diresse verso il suo campo arido.
La fonte dava acqua, l'acqua si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semente crebbe e il tempo della raccolta venne. Così il meraviglioso bambù divenne realmente una grande benedizione in tutta la sua povertà e umiltà.
Quando era ancora grande e bello e grazioso, viveva e cresceva solo per se stesso e amava la propria bellezza. Al contrario nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
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inviato da Suor Irina Mandro, inserito il 02/06/2002
RACCONTO
T.Spidlìk, Il professore Ulipispirus e altre storie
In mezzo alle montagne coperte di neve c'era una verde vallata con giardini, campi fertili, casette di artigiani. Sulla collina più alta c'era un castello dove abitava il vecchio principe con l'unica figlia, di nome Anima. Il principe e la principessa erano tutti e due buoni e la gente della valle li amava. Perciò tutti diventarono tristi quando si sparse la notizia che la principessa Anima era gravemente malata e non poteva uscire dal castello. Molti diedero consigli e portarono erbe medicinali. I medici arrivarono da paesi lontani. Ma nessun rimedio servì a niente. La principessa Anima peggiorava di giorno in giorno e la gente era sempre più triste.
Un giorno arrivò alla porta del castello una vecchietta sconosciuta. La presero per una mendicante e le diedero del pane in elemosina. Ma la vecchietta disse che voleva vedere la principessa malata. I servi non volevano lasciarla entrare e stavano a discutere con lei sul portone del castello finché il vecchio principe fu attirato dalle voci e uscì a vedere la strana vecchietta. Gli sembrò una buona donna e non trovò nessun motivo per non farla salire nella camera dove la figlia giaceva malata. "Dio mio, com'è dimagrita e com'è triste!", sospirò la vecchietta. "Purtroppo - gemette il principe - sembra che non vi sia più speranza". "Vi lamentate inutilmente - gli sussurrò all'orecchio la vecchietta - la principessa guarirà. Ha una malattia particolare. Non è nel corpo, è nell'anima. Per guarire ha bisogno di vedere il volto più bello che esiste sulla terra". Detto questo, la vecchietta improvvisamente sparì.
Al principe sembrava assai strano questo consiglio. Ma quando l'uomo è nella miseria si attacca a tutto. Così invitò pubblicamente tutte le più belle ragazze e i più bei giovani della sua terra a venire al castello. Il bel viso che guarirà la principessa, diceva il bando dei principe, riceverà una lauta ricompensa. Se si tratterà di un giovane, Anima diventerà sua moglie, nel caso di una ragazza, riceverà in dote la metà dell'eredità. Appena il bando fu pubblicato, tutta la più bella gioventù accorse al castello. I giovani sono tutti belli, e ognuno cercava di persuadersi di essere più bello degli altri. Ma tutto fu inutile. Anima peggiorava di giorno in giorno e diventava l'ombra di se stessa. Il principe piangeva, e nessuno riusciva a consolarlo.
Un pomeriggio la vecchietta sconosciuta comparve di nuovo al portone del castello. Di nuovo i servi non volevano lasciarla entrare e la prendevano in giro chiedendole se per caso credesse d'essere lei la più bella del mondo. Ma il principe anche stavolta fu attirato dal trambusto, accorse all'ingresso e condusse subito la vecchietta al capezzale della principessa. «Dio mio, com'è dimagrita e com'è debole!», esclamò la vecchietta. Il principe scoppiò a piangere. Ma la vecchietta aggiunse: " E' un bene che sia qui, sta morendo". Tutto il castello si riempì del pianto disperato del principe, a cui s'unì quello di tutti i servi e di tutte le guardie. Ma la vecchietta non badò affatto alla gran confusione che le sue parole avevano provocato. Corse al muro della stanza, tolse lo specchio che vi era appeso, s'avvicinò al letto e mise lo specchio davanti al volto agonizzante della principessa Anima. Successe il miracolo. La principessa vide il più bel volto dei mondo: era lei la più bella giovane della terra. Lo sguardo su se stessa la guarì all'istante e il pianto del castello si trasformò in grida di esultanza e di gioia.
Ora domanderete come finisce questa favola. Le favole non sono tutte uguali, e questa è una favola vera. La principessa Anima è l'anima umana, la più bella fra tutte le cose che esistono sulla terra. Purtroppo però non lo sa. Cerca la bellezza fuori di sé e non riesce a trovarla, perciò s'ammala e s'indebolisce. Solo quando riesce a conoscere se stessa e la sua bellezza interiore, allora guarisce e la sua gioia è senza fine. Per questo anche questa favola è senza il solito finale.
inviato da Giuliana Babini, inserito il 01/06/2002
TESTO
219. La Croce: collocazione provvisoria 2
Tonino Bello, Il parcheggio del calvario, in Omelie e scritti quaresimali, vol. 2, p. 307, Luce e Vita
Nel Duomo vecchio di Molfetta c'è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l'ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.
La scritta, che in un primo momento avevo scambiato come intitolazione dell'opera, mi è parsa provvidenzialmente ispirata, al punto che ho pregato il parroco di non rimuovere per nessuna ragione il crocifisso di lì, da quella parete nuda, da quella posizione precaria, con quel cartoncino ingiallito.
Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la Croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo.
Coraggio, allora, tu che soffri inchiodato su una carrozzella. Animo, tu che provi i morsi della solitudine. Abbi fiducia, tu che bevi al calice amaro dell'abbandono. Non ti disperare, madre dolcissima che hai partorito un figlio focomelico. Non imprecare, sorella, che ti vedi distruggere giorno dopo giorno da un male che non perdona. Asciugati le lacrime, fratello, che sei stato pugnalato alle spalle da coloro che ritenevi tuoi amici. Non tirare i remi in barca, tu che sei stanco di lottare e hai accumulato delusioni a non finire. Non abbatterti, fratello povero, che non sei calcolato da nessuno, che non sei creduto dalla gente e che, invece del pane, sei costretto a ingoiare bocconi di amarezza. Non avvilirti, amico sfortunato, che nella vita hai visto partire tanti bastimenti, e tu sei rimasto sempre a terra.
Coraggio. La tua Croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre "collocazione provvisoria". Il calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale. E il terreno di questa collina, dove si consuma la tua sofferenza, non si venderà mai come suolo edificatorio. Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della Croce.
"Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra". Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell'orario c'è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.
Coraggio, fratello che soffri. C'è anche per te una deposizione dalla croce. Coraggio, tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali, e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.
crocesofferenzadoloresperanzarisurrezioneresurrezionevenerdì santopasqua
inviato da Immacolata Chetta, inserito il 01/06/2002
TESTO
220. L'importante è seminare 1
Semina, semina
l'importante è seminare:
un po', molto,
tutto il grano della speranza.
Semina il tuo sorriso,
perché tutto splenda intorno a te.
Semina la tua energia,
la tua speranza
per combattere e vincere
la battaglia quando sembra perduta.
Semina il tuo coraggio
per risollevare quello degli altri.
Semina il tuo entusiasmo
per infiammare il tuo prossimo.
Semina i tuoi slanci generosi,
i tuoi desideri, la tua fiducia,
la tua vita.
Semina tutto ciò che c'è di bello in te,
le piccole cose, i nonnulla.
Semina, semina e abbi fiducia,
ogni granellino arricchirà un piccolo angolo della terra.
Da una ricerca sul web sembrerebbe che il titolo sia "Semina la speranza" e l'autore sia Ottaviano Menato
inviato da Nadia, inserito il 31/05/2002