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ESPERIENZA

1. Missione è amare

Giuseppe Rizzo, SMA

A volte noi pensiamo che la carità sia darsi da fare, cercare tutti i modi per riempire i poveri e gli ammalati di attenzioni. Partiamo cioè con un'idea un po' troppo precisa di quello che serve a chi ci chiede aiuto.

L'avevo conosciuta un anno prima, come tanti giovani, aveva l'AlDS. Con l'infermiere della Caritas siamo riusciti a ridarle un po' di energia con alcuni farmaci. Dopo diversi anni di allontanamento da Dio e di una vita senza regole, era ritornata a partecipare alla messa della domenica per ringraziare Dio di quello che lei chiamava il miracolo della guarigione.

Ma un anno dopo, puntuale come un compleanno e senza scampo, arriva una forte crisi e lei è in fin di vita. Mi fa chiamare e mi precipito appena so che si tratta di lei. Arrivato in casa sua, non le chiedo niente, perché mi accorgo della situazione disperata. Prendo la macchina, vado al dispensario e con l'infermiere ritorno da lei. Iniezioni, flebo, pastiglie, gocce. La portiamo all'ospedale, ma anche lì ci dicono che non c'è più niente da fare. Ritornati a casa cerchiamo di fare tutto il possibile per salvarla, offriamo tutte le medicine di cui disponiamo.

Ad un certo momento lei, che fino a quel momento non aveva detto una parola, mi guarda. Poi il silenzio. Provate ad immaginarlo: un silenzio infinito, di quelli che normalmente porgono alla vita come un minuscolo boato, che diventerà un ricordo indimenticabile: "Io ti ho chiamato perché volevo confessarmi! Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto finora, ma in questo momento l'unica cosa di cui ho bisogno, è il perdono di Dio".

È stato come prendere contatto con la realtà. Dieci minuti di confessione: un dialogo d'amore tra lei e Dio. lo l'ho ascoltata e le ho dato il dono dell'assoluzione. Solo ora lei ha chiuso gli occhi con la serenità di aver avuto quello che cercava. Dopo averle preso le mani nelle mie, ci siamo immersi di nuovo in quel meraviglioso silenzio. È passato qualche minuto e lei non respirava più: era fra le braccia di quel Dio che ha voluto incontrare a modo suo, avendo la pazienza di aspettare che il padre se ne rendesse conto.

missionecaritàmorteassoluzioneconfessioneperdono di Dio

inviato da Don Raffaele Gobbi, inserito il 11/08/2010

RACCONTO

2. Il pittore e la fidanzata   1

Qualche secolo fa, in un piccolo paesino, abitava un giovane pittore che passava il suo tempo a dipingere paesaggi. Un giorno conobbe una bellissima ragazza, i due si innamorarono e decisero di fidanzarsi. Il giovane pittore voleva cercare il modo migliore per dimostrare tutto il suo amore alla sua bella fidanzata, così decise che l'avrebbe raffigurata ogni giorno in un dipinto diverso, cercando ogni volta di immaginarsi il bel viso dell'amata. Iniziò così a dipingere il suo volto su ogni tela, si sforzava di rendere al meglio la sua bellezza, voleva che ogni dipinto fosse sempre più bello del precedente. Iniziò a dipingere così tanto che presto cominciò a non uscire più di casa, a non dormire più la notte per poter finire il quadro e per iniziarne subito un altro. Con il passare del tempo però il volto della ragazza sui suoi nuovi dipinti appariva sempre più sfumato, indefinito. Si accorse così di essersi dimenticato di come fosse il viso della bella fanciulla. Allora cadde in disperazione e cercò con tutte le sue forze di ricordarsi l'immagine della sua fidanzata. Giorno dopo giorno, il giovane pittore non fece altro che aspettare che il ricordo gli tornasse vivo nella mente. E così invecchiò, solo, chino sulle sue tele.

concretezzaimpegnodarsi da fare

3.0/5 (3 voti)

inviato da Valeria Negrini, inserito il 21/02/2006

RACCONTO

3. Mi butto   1

C'era una volta un pesciolino che viveva in un piccolo laghetto. Lì era nato e lì si era svolta da sempre la sua vita di pesciolino. Conosceva benissimo quel laghetto. C'erano i suoi amichetti pesciolini, i suoi genitori, i suoi parenti. Era un po' come una piccola famiglia. Conosceva benissimo quel laghetto, i suoi confini, l'esatta profondità dell'acqua in ogni suo punto, le rocce, il fondo scuro e melmoso tipico di ogni laghetto. Riusciva a nuotare persino ad occhi chiusi. C'era una cosa sola che non conosceva, perché i suoi gli avevano sempre impedito di avvicinasi: una piccola fessura, stretta e buia. Chissà perché gli avevano sempre impedito di avvicinarsi, chissà perché tutti si tenevano a debita distanza da questa fessura.

Il nostro amico pesciolino cresceva e, piano piano, diventava grande, proprio come i suoi genitori. Con lui cresceva anche la sua voglia di nuotare, di guizzare da una parte all'altra, di saltare fuori dall'acqua... ma purtroppo in quel laghetto non c'era tanto spazio per fare tutto questo, si rischiava di urtarsi uno con l'altro, di dare fastidio ai piccolini, di smuovere troppo il fondo melmoso. Con lui cresceva anche la curiosità per quella fessura misteriosa, della quale mai nessuno gli aveva fornito spiegazioni.

Preso da un'irrefrenabile curiosità il nostro amico pesciolino ci si volle avvicinare. Vista da vicino non era poi così stretta, e poi in fondo ad essa si intravedeva qualcosa di misterioso, che non si riusciva ad identificare precisamente. Fu così che decise di passarvi in mezzo. "Mi butto", pensò, e così fece. Iniziò a nuotare velocemente, perché aveva paura e tutt'intorno il buio si era fatto più pesto. Le pareti sembravano circondarlo, era proprio difficile nuotare in quelle condizioni. Fu preso dallo sconforto e dalla paura, ora sì rimpiangeva il piccolo laghetto nel quale, sebbene con qualche difficoltà, riusciva a nuotare più liberamente. La fatica era diventata davvero tanta e il nostro amico pesciolino era quasi sul punto di tornare indietro. Ma non appena fece per girare le pinne, un piccolo bagliore azzurro gli apparve dal fondo del canale. Era un azzurro fortissimo, che non aveva mai visto prima di allora. Allora ritrovò le energie che sembrava aver perduto e ricominciò a nuotare deciso. L'azzurro si faceva via via più forte e la distanza diminuiva sempre più. "Un altro piccolo sforzo ed è fatta", pensò. Alla fine, quasi accecato da un azzurro intensissimo, il nostro amico pesciolino arrivò alla fine del canale che sfociava nel mare. Lì era tutto meraviglioso, neanche nei libri di scuola aveva mai visto una cosa così. Poteva nuotare quanto voleva da una parte all'altra senza mai trovare un confine, il colore dell'acqua era bellissimo e il fondo molto limpido. E poi c'erano dei pescioni giganteschi, enormi, e degli altri piccoli, piccoli, piccoli ma con dei colori stupefacenti. E poi c'erano un sacco di piante strane, animali bizzarri con le chele, conchiglie enormi, pesci lunghi e stretti, larghi e piatti, alcune cose strane che sembravano volare nell'acqua.. "E' troppo bello - pensò - devo assolutamente convincere tutti a venire qui! Altro che il nostro laghetto".

Così si buttò nuovamente nel canale e con una gran forza ed entusiasmo riuscì a tornare nel laghetto. Che strano, questa volta il tragitto gli era sembrato molto più facile.

"Presto! Presto! Statemi tutti a sentire! Ho attraversato il canale e ho scoperto dove porta!".

"Impossibile! - disse il pesce più vecchio - quella fessura porta alla morte. Nessuno ci deve entrare! Quei pochi che l'hanno oltrepassata non sono mai tornati indietro. Lo dicevo io che tu eri un pesce un po' troppo esuberante! Tornate ai vostri lavori e non dategli retta."

"Ma no! Fidatevi! Io ci sono già passato, il canale porta al mare. Con tutta la fantasia che avete non riuscireste mai ad immaginare di quale colore meraviglioso è l'acqua e quanti pesci ci sono, grandi, piccoli, colorati, e poi il mare è vasto, sconfinato, si può nuotare in ogni direzione senza darsi fastidio, il fondo è limpido e molto profondo, e poi c'è un profumo meraviglioso!".

Ma gli altri pesci, forti delle loro comode certezze, insicuri e paurosi, non vollero dargli retta. "Io sto bene qui", "In fondo non ci è mai mancato niente", dicevano e, ad uno ad uno, si allontanavano.

Fu così che il nostro amico pesciolino, amareggiato e deluso, ma non per questo sconfortato, decise di fare ritorno da solo al mare. "Quando tornerò qui - pensava tra sé e sé, insieme ai pesci del mare mi crederanno!". Arrivato al mare cominciò a fare un sacco di nuove amicizie e a raccontare a tutti la sua storia. Gli rimanevano solo alcuni interrogativi ai quali non riusciva a dare risposta: dov'erano finiti i pesci che si erano avventurati precedentemente per il canale? da quali altri laghetti provenivano i pesci del mare? e perché adesso le sue squame, che nel laghetto gli erano sembrate sempre grigie e opache, sembravano brillare di una luce nuova?

realizzazionecoraggioabbandonoabbandono in Dio

inviato da Emanuele Meconcelli, inserito il 12/08/2003

TESTO

4. Profeti di un futuro non nostro   1

Oscar Arnulfo Romero

Ogni tanto ci aiuta il fare un passo indietro e vedere da lontano.
Il Regno non è solo oltre i nostri sforzi, è anche oltre le nostre visioni.
Nella nostra vita riusciamo a compiere solo una piccola parte
di quella meravigliosa impresa che è l'opera di Dio.
Niente di ciò che noi facciamo è completo.
Che è come dire che il Regno sta più in là di noi stessi.
Nessuna affermazione dice tutto quello che si può dire.
Nessuna preghiera esprime completamente la fede.
Nessun credo porta la perfezione.
Nessuna visita pastorale porta con sé tutte le soluzioni.
Nessun programma compie in pieno la missione della Chiesa.
Nessuna meta né obbiettivo raggiunge la completezza.
Di questo si tratta:
Noi piantiamo semi che un giorno nasceranno.
Noi innaffiamo semi già piantati, sapendo che altri li custodiranno.
Mettiamo le basi di qualcosa che si svilupperà.
Mettiamo il lievito che moltiplicherà le nostre capacità.
Non possiamo fare tutto,
però dà un senso di liberazione l'iniziarlo.
Ci dà la forza di fare qualcosa e di farlo bene.
Può rimanere incompleto, però è un inizio, il passo di un cammino.
Una opportunità perché la grazia di Dio entri
e faccia il resto.
Può darsi che mai vedremo il suo compimento,
ma questa è la differenza tra il capomastro e il manovale.
Siamo manovali, non capomastri,
servitori, non messia.
Noi siamo profeti di un futuro che non ci appartiene.

futuropresenteimpegnoresponsabilitàseminaresperanzapazienzaattesafiduciafedecollaborazionepastorale

inviato da Corradini Don Lorenzo, inserito il 17/12/2002

RACCONTO

5. La parabola del ranocchio sordo   1

C'era una volta una gara di ranocchi.
L'obiettivo era arrivare in cima ad un albero altissimo.
Si radunarono molte rane per vedere e fare il tifo per loro.
Cominciò la gara.
In realtà, nessuno credeva possibile che i ranocchi raggiungessero la punta, e tutto quello che si ascoltava erano frasi tipo:
«Che pena!!! Non ce la faranno mai!»
I ranocchi cominciarono a desistere, tranne uno che continuava a cercare di raggiungere la punta.
Tutti continuavano:
«...Che pena!!! Non ce la faranno mai!»
E i ranocchi continuavano a darsi per vinti, tranne il solito ranocchio testardo che continuava ad insistere.
Alla fine, tutti desistettero tranne quel ranocchio che, solo e con grande sforzo, raggiunse alla fine la punta dell'albero.
Gli altri volevano sapere come avesse fatto.
Uno degli altri ranocchi si avvicinò per chiedergli come avesse fatto a concludere la prova.
E scoprirono che... era sordo!

...Non ascoltare le persone con la pessima abitudine di essere negative... derubano le migliori speranze del tuo cuore!
Ricorda sempre il potere che hanno le parole che ascolti o leggi.
Per cui, preoccupati di essere sempre positivo!
Sii sempre sordo quando qualcuno ti dice che non puoi realizzare i tuoi sogni.

sognisperanzaperseveranzaottimismopessimismo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuliana Babini, inserito il 07/12/2002

TESTO

6. Soli in mezzo agli altri

Henri J. M. Nouwen, Viaggio spirituale per l'uomo contemporaneo

Come mai tanti trattenimenti, tante riunioni amichevoli ci lasciano così vuoti e tristi? Può ben darsi che anche là la competizione, profondamente radicata e spesso inconscia fra le persone, impedisca a queste di svelarsi reciprocamente, instaurando dei rapporti che durino più del trattenimento. Nei luoghi dove siamo sempre benvenuti la nostra assenza non sarà poi tanto sentita e nei luoghi dove ognuno può accedere non si sentirà la mancanza di nessuno in modo particolare. Di solito c'è cibo a sufficienza e altrettante persone disposte a consumarlo, ma spesso si ha l'impressione che il cibo abbia perso la facoltà di creare una comunità, e non raramente ci allontaniamo dalla riunione più consci del nostro isolamento di quando vi siamo arrivati.

Il linguaggio che usiamo non suggerisce altro che il senso di isolamento: «Entri, prego... sono felice di vederla... Permettetemi di presentarvi questo amico speciale, che sarà lietissimo di conoscervi... Ho sentito tanto parlare di lei e non trovo parole per dirle quanto sia contento di conoscerla personalmente... Ciò che dice è interessantissimo, vorrei che fossero qui a sentirla più persone... È stato meraviglioso parlare con lei e avere occasione di fare questa conversazione... Spero proprio di incontrarla ancora. Lei sarà sempre benvenuto e non esiti a portare con sé un amico. Torni presto». È un linguaggio che rivela il desiderio di essere amichevoli e ricettivi ma che, nella nostra società, manca miseramente di lenire i dolori del nostro isolamento.

solitudinecomunità

inviato da Eleonora Polo, inserito il 16/11/2002

RACCONTO

7. Il paese dei cani

Gianni Rodari, Favole al telefono

C'era una volta uno strano piccolo paese. Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.

Facciamo un esempio. Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.

Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c'era sempre qualcuno per la strada.

Facciamo un altro esempio. Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni. Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c'era sempre qualcuno spaventato.

Figurarsi se capitava un forestiero. Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.

A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po' sordi, e tra loro parlavano pochissimo. Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.

Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare. E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani. Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di "bau bau" che faceva venire la pelle d'oca. E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.

Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.

Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi. I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro. Domandò una informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando. Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
"Ho capito, - concluse Giovannino - E' un'epidemia".

Si fece ricevere dal sindaco e gli disse: "Io un rimedio sicuro ce l'avrei. Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate. Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili. Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo".
Il sindaco gli rispose: "Bau! Bau!".

"Ho capito, - disse Giovannino, - il peggior malato è quello che crede di essere sano".
E se ne andò per i fatti suoi.

Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.

comunitàlitigareconvivereconflittopacecomunione

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002