I tuoi ritagli preferiti

PERFEZIONA LA RICERCA

Tutti i ritagli

Indice alfabetico dei temi

Invia il tuo ritaglio

Hai cercato storie

Hai trovato 49 ritagli

Ricerca avanzata
tipo
parole
tema
fonte/autore

Pagina 1 di 3  

TESTO

1. Le beatitudini del vescovo

Mimmo Battaglia, Omelia del 31/10/2021

Beato il Vescovo che fa della povertà e della condivisione il suo stile di vita, perché con la sua testimonianza sta costruendo il regno dei cieli.

Beato il Vescovo che non teme di rigare il suo volto con le lacrime, affinché in esse possano specchiarsi i dolori della gente, le fatiche dei presbiteri, trovando nell'abbraccio con chi soffre la consolazione di Dio.

Beato il Vescovo che considera il suo ministero un servizio e non un potere, facendo della mitezza la sua forza, dando a tutti diritto di cittadinanza nel proprio cuore, per abitare la terra promessa ai miti.

Beato il Vescovo che non si chiude nei palazzi del governo, che non diventa un burocrate attento più alle statistiche che ai volti, alle procedure che alle storie, cercando di lottare al fianco dell'uomo per il sogno di giustizia di Dio perché il Signore, incontrato nel silenzio della preghiera quotidiana, sarà il suo nutrimento.

Beato il Vescovo che ha cuore per la miseria del mondo, che non teme di sporcarsi le mani con il fango dell'animo umano per trovarvi l'oro di Dio, che non si scandalizza del peccato e della fragilità altrui perché consapevole della propria miseria, perché lo sguardo del Crocifisso Risorto sarà per lui sigillo di infinito perdono.

Beato il Vescovo che allontana la doppiezza del cuore, che evita ogni dinamica ambigua, che sogna il bene anche in mezzo al male, perché sarà capace di gioire del volto di Dio, scovandone il riflesso in ogni pozzanghera della città degli uomini.

Beato il Vescovo che opera la pace, che accompagna i cammini di riconciliazione, che semina nel cuore del presbiterio il germe della comunione, che accompagna una società divisa sul sentiero della riconciliazione, che prende per mano ogni uomo e ogni donna di buona volontà per costruire fraternità: Dio lo riconoscerà come suo figlio.

Beato il Vescovo che per il Vangelo non teme di andare controcorrente, rendendo la sua faccia "dura" come quella del Cristo diretto a Gerusalemme, senza lasciarsi frenare dalle incomprensioni e dagli ostacoli perché sa che il Regno di Dio avanza nella contraddizione del mondo.

serviziovescovobeatitudini

inviato da Qumran2, inserito il 11/02/2022

PREGHIERA

2. Preghiera a Maria per i morti da coronavirus

don Paolo della Peruta & Annamaria Pizzutelli

Santa Maria, Madre di Dio e madre nostra,
la tristezza ci assale
e il dolore ci toglie il respiro
in queste giornate segnate
dalla paura del contagio
e... dalla morte!
Questo virus invisibile sta portando via
nella solitudine più assoluta
le persone che amiamo, le nostre storie, i nostri affetti...

Santa Maria, Madre di Dio e madre nostra,
sii accanto al letto di morte di ogni malato
che parte per il suo viaggio verso il giorno senza tramonto,
come lo sei stata, in quelle tre del pomeriggio,
con Gesù sotto la croce.

Santa Maria, Madre di Dio e madre nostra,
non lasciare nel buio della solitudine
ogni tuo figlio che emette l'ultimo respiro,
la tua presenza materna,
renda “presente” il volto e l'affetto delle persone amate;
accogli questi tuoi figli
tra le tue braccia amorose
come hai fatto col tuo figlio Gesù.

Santa Maria, Madre di Dio e madre nostra,
avvolta di luce e di bellezza infinita, tendi la mano
a chi attraversa il confine tra la morte e la Vita
per accompagnarlo alla porta del Paradiso.

Santa Maria, Madre di Dio e madre nostra,
siamo certi che quanto ti chiediamo...
il tuo affetto di madre lo ha già ottenuto
da Dio, Padre di misericordia e di perdono.

Santa Maria, Madre di Dio e madre nostra,
prega per ogni tuo figlio, prega per noi peccatori...
ora e nell'ora della morte.

coronaviruspandemiaepidemiamariamorti

inviato da Don Paolo Della Peruta, inserito il 03/04/2020

TESTO

3. Lettera a Rut

don Tonino Bello, www.mosaicodipace.it

Carissima Rut, avrei voluto scriverti in ben altra circostanza.
Per approfondire ad esempio le ragioni di quell'universalismo della salvezza che hanno indotto Dio a includere anche te, unica straniera nell'albero della genealogia ebraica di Gesù.
Non ti nascondo infatti che quando nella messa viene proclamata la lista degli antenati di Cristo tramandataci da Matteo, mi sorprende e mi commuove sentir pronunciare il tuo nome di donna fugace come un fremito d'ala. Sembra un nome abbreviato per pudore. O intimidito di comparire in mezzo al ferrigno scrosciare dei nomi di tanti maschioni.

Ti scrivo, invece, perché voglio sfogare con qualcuno la tristezza che mi devasta l'anima in questi giorni, alla vista di tanti stranieri che hanno invaso l'Italia, e verso i quali la nostra civiltà, che a parole si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multireligiosa e multinonsoché non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità.
So bene che il problema dell'immigrazione richiede molta avvedutezza e merita risposte meno ingenue di quelle fornite da un romantico altruismo. Capisco anche le «buone ragioni» dei miei concittadini che temono chi sa quali destabilizzazioni negli assetti consolidati del loro sistema di vita. Ma mi lascia sovrappensiero il fatto che si stenti a capire le «buone ragioni» dei poveri allo sbando e che in questo esodo biblico non si riesca ancora a scorgere l'inquietante malessere di un mondo oppresso dall'ingiustizia e dalla miseria.
Tu mi sembri, allora, l'interlocutrice più adatta delle mie confidenze, dal momento che, avendo coniugato il verbo accogliere non solo nella forma attiva ma anche nella forma passiva, hai sperimentato la durezza dell'emigrazione nella duplice fase: l'esilio in patria e la ghettizzazione in terra straniera.
Non tutti conoscono la tua storia. Perciò mi scuserai se, nel rievocarne alcuni particolari, sfiorerò la discrezione e farò violenza al tuo riserbo.

Vivevi spensierata sulle alture di Moab, al di là del mar Morto, cullando sogni e parlando d'amore con le tue compagne, quando un giorno arrivò nel tuo paese una famiglia di spiantati. Erano stranieri, provenienti dalla terra di Canaan, colpita in quegli anni da una terribile carestia.
Ti impressionò subito la carnagione bruna dei due figli. Uno dei quali si accorse di te.
Ma tu eri ancora ragazzina. Tanto ragazzina, che il cuore si mise a battere di paura quando egli, con i gesti più che con le parole, venne dai tuoi genitori a chiederti come sposa.
Non so se in casa quel giorno accaddero scenate. Ma c'è da supporre che ti rinfacciarono tutta la loro disapprovazione. Che eri il disonore della famiglia. Che non ti avrebbero più riconosciuta come figlia. E che era un infamia girar le spalle tutt'una volta alla propria tradizione, alla propria lingua, alle proprie divinità, per correr dietro a una maledetto sconosciuto. E che, comunque, non avrebbero tollerato mai e poi mai, dopo averti cresciuta come un fiore, di doverti consegnare a uno di quei morti di fame. Accidenti a lui e a tutti quelli della sua razza!
Furono giorni amarissimi, ma alla fine la spuntasti tu, pur pagando caramente il prezzo della tua caparbietà.
Ti vedesti così tagliare tutti i ponti, e alla fine rimanesti sola. Al punto che, quando dopo dieci anni di tribolazione tuo marito morì e morirono anche il fratello e il padre di lui, decidesti di seguire Noemi, la suocera addolorata, che, non avendo più nessuno anche lei in quella amarissima terra straniera, volle rimpatriare.
«Dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta».

Varcasti così la frontiera, e cominciò per te la seconda fase della tua esperienza di “diversità”.
Un vero e proprio mestiere non ce l'avevi. Insieme con la qualifica professionale, ti mancava anche il libretto di lavoro, e a Betlemme, dove andasti ad abitare con Noemi, non ti vollero iscrivere nelle liste di collocamento. Sicché, per camparti la vita, essendo il tempo in cui si cominciava a mietere l'orzo, andasti a spigolare furtivamente nelle campagne.
O Dio, non era proprio lavoro nero, ma era certo un lavoro umiliante, perché scartato da tutti ed esposto alle molestie del mietitori.
Meno male che trovasti grazia presso un ricco massaro, un certo signor Booz, il quale ti prese a ben volere e ordinò ai suoi dipendenti: «Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non le fate affronto; anzi lasciate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; abbandonatele, perché essa le raccolga, e non sgridatela».
Ti andò veramente bene. Anzi meglio di così la sorte non poteva arriderti, dal momento che il massaro cominciò ad avere del tenero per te e addirittura ti volle sposare, tra la meraviglia di tutte le donne di Betlemme che creparono d'invidia. E brava la Moabita!

Carissima Rut, qualcuno potrebbe dire che, a proposito di immigrati, la tua vicenda non fa testo, perché, essendosi conclusa con la fatidica frase «e vissero felici e contenti», sembra appartenere più al genere delle telenovele che ai resoconti del telegiornale o ai servizi di Samarcanda, laddove le storie degli extracomunitari si intridono spesso di lacrime e di morte.
Io, invece, penso che nelle pieghe della tua avventura possiamo leggere il giudizio di Dio su questa impressionante transumanza di gente alla deriva.
La tua storia, insomma, ci interpella non solo con la forza esemplare del paradigma, ma anche con la sollecitazione di risposte intelligenti di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri nel nostro territorio.
Anzitutto, ci dice che la fusione di etnie diverse è possibile: anzi, appartiene a quel pacco di progetti che costituiscono la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà. La comunicazione con le culture altre, insomma non è un'utopia, né uno sterile sospiro di sognatori.

Quando alle porte della città si celebrarono le tue nozze col massaro di Betlemme, gli anziani rivolsero a Booz tuo marito uno splendido augurio, che vale tutto un trattato sulla integrazione al razziale: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa di Israele».
In secondo luogo, la tua storia ci provoca a vincere gli istinti xenofobi che ci dormono dentro. Che si ammantano di ragioni patriottiche. Che scatenano all'interno delle nostre raffinatissime città, inqualificabili atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di violenza, di razzismo. E che implorano dalle istituzioni con martellante coralità, rigorosi provvedimenti di forza.
Siamo vittime di una insopportabile prudenza, e scorgiamo sempre angoscianti minacce dietro l'angolo.
Perché lo straniero mette in crisi sostanzialmente due cose: la nostra sicurezza e la nostra identità.
Da una parte, infatti, ci toglie il lavoro, ci contende la casa, ci riduce gli spazi, entra in competizione con noi, decostruisce l'articolazione dei nostri interessi economici. Dall'altra, sembra attentare ai nostri connotati, sfida la compattezza del nostro mondo spirituale, relativizza i nostri altari, sfibra il deposito delle nostre tradizioni.

Ebbene, la tua storia ci fa capire che la segregazione è la risposta più sbagliata al problema razziale, così come rappresenta una iattura simmetrica il tentativo di voler assorbire nelle stratificazioni della nostra cultura i tratti emergenti della «diversità» altrui, senza lasciarne neppure la traccia. Solo la progressiva intersezione di aree di valori sarà capace di creare il terreno, calcando il quale nessuno debba sentirsi in esilio.

Grazie, dolcissima Rut, per questo tuo incredibile messaggio di universalità che lasci cadere dai tuoi covoni.
Dietro i quali, alla ricerca dei tratti di un mondo più solidale, siamo venuti anche noi a spigolare.

Luglio 1991

stranierimigrantimigrazionidiversitàaccoglienzaintegrazionemulticulturalità

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

PREGHIERA

4. Sulle strade di Emmaus

Giuseppe Impastato S.I.

Vieni sulle strade
che percorriamo, e avvicìnati a noi,
visita delusioni e amarezze.
Scandaglia pensieri
che rendono pesanti
cuori e rabbuiano cieli.
Abbiamo abbandonato compagni
con cui avevamo coltivato speranze
e condiviso personali sogni;
gli occhi bassi
non riescono a scorgere cieli,

poiché si è spento ormai il Sole.

Ci sembri fuori dalle nostre storie,
ma poi tu, pellegrino, incendi i cuori,
illumini scenari e risvegli speranze. Con noi
ti vogliamo, e solo quando prendi-
benedici-spezzi-doni
scoppia la gioia incontenibile
che ci abbraccia e riempie.
Non riusciamo a tenerla per noi.
Non contiamo più i chilometri
e i tempi per percorrerli,
e il buio che incombe
quando i nostri piedi bramano
di danzare e le gole cantare
con chi condividiamo la vita
che è rinata di noi e ci abita.

Emmausscoraggiamentorisortovicinanza di Dio

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 31/05/2018

TESTO

5. Dieci ladri della tua energia   2

Dalai Lama

1. Lascia andare le persone che solo condividono lamentele, problemi, storie disastrose, paura e giudizio sugli altri. Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente.

2. Paga i tuoi debiti in tempo. Nel contempo fai pagare a chi ti deve o scegli di lasciarlo andare, se ormai non lo può fare.

3. Mantieni le tue promesse. Se non l'hai fatto, domandati perché fai fatica. Hai sempre il diritto di cambiare opinione, scusarti, compensare, rinegoziare e offrire un'alternativa ad una promessa non mantenuta; ma non farlo diventare un'abitudine. Il modo più semplice di evitare di non fare una cosa che prometti di fare e dire NO subito.

4. Elimina nel possibile e delega i compiti che preferisci non fare e dedica il tuo tempo a fare quelli che ti piacciono.

5. Permettiti di riposare quando ti serve e dati il permesso di agire se hai un'occasione buona.

6. Butta, raccogli e organizza, niente ti prende più energia di uno spazio disordinato e pieno di cose del passato che ormai non ti servono più.

7. Dà priorità alla tua salute, senza il macchinario del tuo corpo lavorando al massimo, non puoi fare molto. Fai delle pause.

8. Affronta le situazioni tossiche che stai tollerando, da riscattare un amico o un famigliare, fino a tollerare azioni negative di un compagno o un gruppo; prendi l'azione necessaria.

9. Accetta. Non per rassegnazione, ma niente ti fa perdere più energia di litigare con una situazione che non puoi cambiare.

10. Perdona, lascia andare una situazione che è causa di dolore, puoi sempre scegliere di lasciare il dolore del ricordo.

serenitàcrescita personaleaccettazioneperdonosalutelibertà

3.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018

RACCONTO

6. Un granello alla volta   1

Gremist, 1 settimana

In uno sperduto angolo del regno d'Etiopia, viveva un re che amava le favole più di ogni altra cosa al mondo. Diventato vecchio, però, si annoiava perché ormai le conosceva tutte. Così un giorno fece annunciare in tutto il Paese che avrebbe dato il titolo di principe a chiunque gli avesse saputo raccontare una favola nuova, in grado di suscitare la sua attenzione e la curiosità di conoscere il finale. Numerosi cantastorie vennero da tutti gli angoli del reame e dai Paesi vicini, ma nessuno riuscì ad interessare le orecchie reali, sempre tristi e distratte.

Un giorno un povero contadino bussò alle porte del palazzo per raccontare al vecchio re la storia di un agricoltore che aveva ammassato nel suo granaio il raccolto più ricco della sua vita. Ma c'era un piccolo buco nel granaio e, quando tutto il grano fu portato dentro, una formica vi entrò e portò via un chicco. «Molto interessante, continua" disse il re. Il contadino proseguì: «Il secondo giorno un'altra formica passò nel buchino e portò via un altro chicco di grano, il terzo giorno accadde la stessa cosa...».

Il re era ormai molto preso dalla storia del contadino e chiese di tagliare corto sui dettagli per sapere come andava a finire tutto quel via vai di formiche nel granaio. «Vai avanti, non mi annoiare!», urlò il re rosso in viso. Ma il contadino continuava. «Basta! Vai avanti!», ordinò il re. Il contadino sembrava sordo e proseguiva con la sua cantilena di formiche e chicchi di grano. Si interruppe per dire: «Mio re, questa è la parte più importante della storia: il granaio è ancora pieno di chicchi di grano». Allora il sovrano esclamò: «Hai vinto tu! Ho capito che bisogna saper ascoltare gli altri con pazienza e umiltà. I racconti più belli non sono quelli che ci stupiscono con grandi eventi, ricchezze, rivoluzioni e storie d'amore impossibili. Sono quelli che, come succede nella vita di ogni giorno, ci fanno sperare di riuscire a vedere i risultati dei nostri sforzi».

Così il contadino divenne un principe e nacque il proverbio: «Un granello alla volta si costruisce una fortuna».

pazienzapiccole cosequotidianitàsacrificioimpegnoresponsabilitàobiettivi

inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017

TESTO

7. Un libro come fuoco - Papa Francesco ai giovani   4

Papa Francesco, Quaderno N°3972 del 2015/12/26 - Civiltà Cattolica IV 519-654

Miei cari giovani amici,

se voi vedeste la mia Bibbia, forse non ne sareste affatto colpiti. Direste: «Cosa? Questa è la Bibbia del Papa? Un libro così vecchio, così sciupato!». Potreste anche regalarmene una nuova, magari anche una da 1.000 euro: no, non la vorrei. Amo la mia vecchia Bibbia, quella che ha accompagnato metà della mia vita. Ha visto la mia gioia, è stata bagnata dalle mie lacrime: è il mio inestimabile tesoro. Vivo di lei e per niente al mondo la darei via.

La Bibbia per i giovani, che avete appena aperto, mi piace molto: è così vivace, così ricca di testimonianze di santi, di giovani, che fa venir voglia di leggerla d'un fiato, dall'inizio fino all'ultima pagina. E poi...? Poi la nascondete, sparisce sul ripiano di una libreria, magari dietro, in terza fila, finendo per riempirsi di polvere. Finché un giorno i vostri figli la venderanno al mercatino dell'usato. No: questo non può essere!

Voglio dirvi una cosa: oggi, ancor più che agli inizi della Chiesa, i cristiani sono perseguitati; qual è la ragione? Sono perseguitati perché portano una croce e danno testimonianza di Cristo; vengono condannati perché possiedono una Bibbia. Evidentemente la Bibbia è un libro estremamente pericoloso, così rischioso che in certi Paesi chi possiede una Bibbia viene trattato come se nascondesse nell'armadio bombe a mano!

Mahatma Gandhi, che non era cristiano, una volta disse: «A voi cristiani è affidato un testo che ha in sé una quantità di dinamite sufficiente per far esplodere in mille pezzi la civiltà tutta intera, per mettere sottosopra il mondo e portare la pace in un pianeta devastato dalla guerra. Lo trattate però come se fosse semplicemente un'opera letteraria, niente di più».

Che cosa tenete allora in mano? Un capolavoro letterario? Una raccolta di antiche e belle storie? In tal caso, bisognerebbe dire ai molti cristiani che si fanno incarcerare e torturare per la Bibbia: «Davvero stolti e poco avveduti siete stati: è solo un'opera letteraria!». No, con la Parola di Dio la luce è venuta nel mondo e mai più sarà spenta. Nella mia esortazione apostolica Evangelii gaudium ho scritto: «Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente "Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso". Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata» (n. 175).

Avete dunque tra le mani qualcosa di divino: un libro come fuoco, un libro nel quale Dio parla. Perciò ricordatevi: la Bibbia non è fatta per essere messa su uno scaffale, piuttosto è fatta per essere tenuta in mano, per essere letta spesso, ogni giorno, sia da soli sia in compagnia. Del resto in compagnia fate sport, andate a fare shopping; perché allora non leggere insieme, in due, in tre o in quattro, la Bibbia? Magari all'aperto, immersi nella natura, nel bosco, in riva al mare, la sera al lume di una candela... farete un'esperienza potente e sconvolgente. O forse avete paura di apparire ridicoli di fronte agli altri?

Leggete con attenzione. Non rimanete in superficie, come si fa con un fumetto! La Parola di Dio non la si può semplicemente scorrere con lo sguardo! Domandatevi piuttosto: «Cosa dice questo al mio cuore? Attraverso queste parole, Dio mi sta parlando? Sta forse suscitando il mio anelito, la mia sete profonda? Cosa devo fare?». Solo così la Parola di Dio potrà dispiegare tutta la sua forza; solo così la nostra vita potrà trasformarsi, diventando piena e bella.

Voglio confidarvi come leggo la mia vecchia Bibbia: spesso la prendo, la leggo per un po', poi la metto in disparte e mi lascio guardare dal Signore. Non sono io a guardare Lui, ma Lui guarda me: Dio è davvero lì, presente. Così mi lascio osservare da Lui e sento - e non è certo sentimentalismo -, percepisco nel più profondo ciò che il Signore mi dice.

A volte non parla: e allora non sento niente, solo vuoto, vuoto, vuoto... Ma, paziente, rimango là e lo attendo così, leggendo e pregando. Prego seduto, perché mi fa male stare in ginocchio. Talvolta, pregando, persino mi addormento, ma non fa niente: sono come un figlio vicino a suo padre, e questo è ciò che conta.
Volete farmi felice? Leggete la Bibbia.

Vostro Papa Francesco

È la versione italiana della prefazione scritta dal Pontefice per una edizione della Bibbia destinata ai giovani, i quali hanno collaborato a discutere e scriverne i commenti (Bibel. Jugendbibel der Katholischen Kirche): vedi qui l'articolo su Civiltà Cattolica.

bibbiaparola di DioSacra Scritturapreghieratestimonianza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Centro Missionario Guanelliano, inserito il 25/08/2016

TESTO

8. Ogni stagione della vita ha un suo paradiso   1

Enzo Bianchi, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015

Ogni cristiano che recita il "Credo", la professione di fede, dice: "Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen", e questo credere non è periferico, ma fondamentale nella fede cristiana. Il cristiano, dunque, crede che ci sia un dopo la morte, una vita piena per sempre, nella quale non vi saranno più pianto, né dolore, né malattia, né morte, ma la gioia eterna della comunione, attraverso Gesù Cristo, con Dio e con gli uomini e le donne da lui salvati. Anch'io, in quanto cristiano e monaco, aderisco a questa speranza, ma confesso che il mio immaginario è molto personale ed è mutato nelle diverse stagioni della mia vita. La domanda che mi viene posta: "Come immagini il paradiso?", mi spinge dunque a dare diverse risposte.

Innanzitutto, il paradiso è un'immagine che ci viene trasmessa quando siamo piccoli, e così è stato anche per me. Quando morì mia mamma avevo solo otto anni. Chiedevo dov'era andata, perché non riuscivo ancora a comprendere la morte, e mi veniva risposto: è in paradiso, in un bel giardino, e là passeggia tra gli asfodeli, fiori molto profumati. Così immaginavo dunque il paradiso e speravo di andarci presto, per ritrovare mia mamma e vedere questi fiori profumati che nessuno sapeva descrivermi, perché nel Monferrato nessuno li aveva mai visti.

Con la giovinezza e gli studi biblici, elaborai altre immagini, sovente in contrapposizione al possibile esito opposto: gli inferi, luogo di perdizione, lontano da Dio e da tutti gli altri. Il paradiso assumeva le immagini della Bibbia che leggevo e studiavo: un luogo pieno di luce, in cui non era mai notte; un luogo di pace, senza litigi, dispute, violenze, guerre; un banchetto con abbondanza di cibi squisiti e di vini raffinati; tanta musica e la possibilità di stare insieme, in una festa continua... Belle immagini, ma che svanivano velocemente, perché la ragionevole fede mi spingeva a comprendere che il paradiso non era un luogo, bensì una condizione di comunione con il Signore. Mi piaceva però l'immagine del pranzo con piatti sempre nuovi e dal gusto straordinario, dell'ascolto di musiche che rendevano l'eternità sopportabile...

Poi le immagini del paradiso sono cambiate ancora, tra dubbi, rinnovamenti della speranza, a volte anche stanchezza delle immagini stesse e desiderio di rinnovarle. Ora che sono vecchio, il paradiso o l'esito contrario dell'inferno sono sempre più prossimi: non nascondo una certa paura che mi abita al pensiero della morte, perché credo nel giudizio di Dio sulle mie responsabilità, sul mio operare che è stato buono o cattivo.

Spero soprattutto che nessuno vada all'inferno; ma se qualcuno ci va, allora - mi dico - rischio di andarci anch'io, che non mi sento tanto diverso dagli altri nell'acconsentire all'egoismo che mi abita.

E le immagini del paradiso, da vecchio? Sono svanite. Oggi non so dire, non so immaginare, non oso neppure pensare di dire qualcosa che lo descriva. Nella mia fede è solo una cosa: una grande comunione in Gesù Cristo, in cui regnerà l'amore. Sono convinto che chi ho amato qui sulla terra, lo ritroverò anche di là, e così continueranno il nostro amore e la nostra amicizia. Se pensassi di andare di là e di non trovare più i miei amici, preferirei allora non andarci!

Spero di ritrovare questa terra che tanto ho amato, certamente da Dio trasfigurata, ma ancora questa terra con le sue colline, le sue vigne, i suoi boschi... Sì, vorrei che continuassero le "storie d'amore" vissute qui; anzi, che riprendessero quelle che si sono interrotte e, senza gelosie né concorrenze, potessimo tutti insieme bere alle coppe del vino dell'amore.

Per farvi sorridere, cari lettori, vi confesso che ho un'altra paura: di finire sì in paradiso, ma vicino a persone che non mi piacevano, sebbene fratelli o sorelle nella fede e magari anche di rinomata santità. No, questo proprio no! Ma forse, se Dio mi salverà, sarò cambiato tanto da sopportare anche questo. Purché il Signore non mi faccia perdere gli amici, quelli che ho amato bene e quelli che ho amato male: li vorrei con me.

mortevita eternaparadisorapporto con Dioeternitàpienezza

5.0/5 (2 voti)

inviato da Simone Pestelli, inserito il 07/02/2016

ESPERIENZA

9. Riflessione sulla morte   2

don Luciano Cantini

Non molto tempo fa ho accompagnato un amico al cimitero. Non era più giovanissimo ma in buona salute, con la moglie era in una casetta in montagna quando di notte un infarto gli ha chiuso gli occhi per sempre.

Aveva lasciato detto che il suo corpo fosse cremato, così per la prima volta sono andato al crematorio al Cimitero dei Lupi, non mai avuto occasione, non sono un frequentatore di cimiteri: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22) ha detto Gesù. Le persone che ho amato le porto con me tutti i giorni e andare a visitare il luogo della conservazione dei loro resti biologici non è tra i miei interessi. Quando per diversi motivi sono andato nei cimiteri cittadini avevo fatto l'abitudine a un ordine caotico, con tutte le tombe in fila una accanto all'altra, una sopra l'altra; tra quelle tombe troviamo l'abbandono con vasi vuoti, i fiori secchi, il vento che si è divertito a lasciare traccia del suo passaggio ma anche la stravaganza di girandole al vento, di fiocchi colorati, alberi di Natale, troviamo l'abbondanza di fiori freschissimi, o artistiche composizioni di fiori di plastica, un po' di buon gusto e tanto kitsch. Poi sgabelli, scalette, scope, secchi... un armamentario di cose diverse che i frequentatori di quei luoghi lasciano lì per il giorno successivo. La parola cimitero significa "Luogo del riposo" e credo che dovremmo rispettare di più questo riposo. Invece non è così, è diventato il luogo delle esternazioni, spesso di degrado e, con la necessità di posti, il riposo è interrotto da esumazioni e nuove collocazioni.

Arrivando nel giardino davanti al crematorio ho avuto l'impressione di un luogo assai curato dove il rispetto della morte si traduce in vita. Ci sono grandi libri in bronzo con incise frasi che aiutano a pensare alla preziosità della vita proprio lì dove giunge al compimento, alla ricapitolazione del tutto, quando arriva sulla soglia del tempo e sta immergendosi nella eternità.

Perché in fondo questa è la morte: l'attimo in cui nel passaggio dal tempo al "non tempo" tutta la nostra vita, le nostre azioni, i nostri pensieri, le paure, i desideri, le sconfitte, le gioie e le sofferenze, come un fiume in piena arrivano e finalmente si liberano nel mare dell'eternità.

Mi ha colpito, all'interno del crematorio, nell'angolo della saletta di commiato e di attesa l'immagine del Crocifisso. È scolpito nel legno d'ulivo, l'artista più che modellare il legno si è fatto condurre da quel tronco, dalle sue venature, contorsioni... la storia di quella pianta continua ad esprimere e raccontare. Tra tutti i piegamenti, le storture, gli arzigogoli del legno c'è una fessura, ampia che attraversa il corpo del Cristo.

Ecco, quel legno ci racconta l'amore di Gesù, il suo cuore è spalancato, è un invito ad entrarvi, attraversarlo e andare oltre. Perché se l'amore ci conquista non ci rende prigionieri ma ci libera: la morte è la vita liberata.

Il giorno dopo siamo andati a raccogliere le ceneri perché aveva chiesto che fossero disperse; nell'angolo del cimitero c'è un giardinetto all'ombra di vecchi alberi, qua e là qualche statua forse reduci di altre storie: una colonna spezzata, una croce, una madonna... in terra come delle aiuole colme di sassi. In quella ai piedi della Madonna sono state versate le ceneri del mio amico, un po' acqua le ha trascinate più in basso togliendole alla nostra vista.

La preghiera è sgorgata spontanea di fronte al niente che rimane della nostra prosopopea umana, che certi addobbi tenderebbero a mantenere; davanti a quel barattolo di ceneri la nostra povertà è evidente ma anche la ricchezza del Creatore che dalla polvere ha tratto la grandezza dell'uomo. Eppure quella pochezza manifesta tutta la grandezza di Dio che, sola, si erge sulla storia degli uomini e la guida.

mortevita eternadefunti

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Luciano Cantini, inserito il 29/10/2015

TESTO

10. Il piccolo grande presepe dei dimenticati

Davide Rondoni, Il Sole 24Ore del 24/12/2009

E' un presepe strano. Il presepe dei poveri della cronaca.

Vorrei fare un presepe con i nomi che ci hanno commosso, che hanno suscitato forti sentimenti con le loro storie dure lanciate dai media e poi se ne sono andati nell'oblio di tutti, tranne di quelli che li hanno amati veramente. Un presepe degli esibiti e poi dimenticati.

Presepe di Arianna, ad esempio, che fu uccisa insieme alla madre dal padre marocchino a Treviso. E presepe del marito di Monica, che era uscito per andare a prender le pizze per la moglie e i due piccoli e al ritorno ha trovato lei con il coltello in mano e il cadavere di Alessandro, tre anni.

Presepe di quei duecentotredici o duecentocinquantasette o quanti erano che affondarono davanti alle coste libiche. Senza nome, proprio come le statuine del presepe, identificabili per qualcosa che fanno, o che gli succede (il filatore, il panettiere, quello che ha un colpo di sonno davanti a Dio…).

Presepe del sorriso di Rachida, marocchina, liberata a Limbiate, Milano, dopo dieci anni di schiavitù del clan di zingari che l'aveva rapita in Marocco. O della fisarmonica di Petru, che suonava alla fermata Montesanto a Napoli, e il 26 maggio cadde colpito a caso durante la sparatoria di otto sicari di camorra, davanti alle telecamere.

Davanti alla grotta con il Bambino, sotto la stella, mettiamo questa sfilza di poveri nomi sparati a caratteri cubitali o nei titoli che corrono sugli schermi di tutti, per uscire dal lato che sembra portare al niente.

Invece, no: memoria e presepe di questi e degli infiniti altri che riemergono negli archivi della mente o del web, chiamata anche di questi sperduti di fronte al segno universale di speranza, di loro non più solo come nomi da dare in pasto al circo dei media ma da posare, delicatamente, tra il muschio e i sassolini, come per un'offerta, un risarcimento, un omaggio.

Perché il presepe, si sa, è la festa umile e altissima delle comparse. Di coloro che hanno valore per il fatto solo d'esserci. Il Dio che s'è incarnato per risarcire e salvare le comparse nel teatro del mondo che sembra dominato dai potenti e dai famosi accetterà anche questo strano presepe, fatto di ritagli di giornale, di vite illuminate per un attimo dai faretti televisivi, e di senza più fama.

Perché è Natale anche nelle redazioni dei giornali e dei network di media. E ognuno deve mettere nel presepe qualcosa di caro.

Quei nomi sono la cosa più cara, più onorevole, più importante nel lavoro non facile di dare e commentare le notizie.

natalepresepe

5.0/5 (1 voto)

inviato da Marcello Rosa, inserito il 05/08/2012

TESTO

11. Sia la nostra vita santa

beato don Luigi Monza

Far ritornare la società attuale alla carità dei primi cristiani non sarà mai possibile se i membri della conquista non siano essi stessi l'esempio pratico. Si legge nelle prime storie del cristianesimo che i pagani si convertivano non tanto per i miracoli, quanto piuttosto per il disprezzo che i primi cristiani avevano della gloria e del denaro.

Allora, se i miracoli non sono bastati per convertire il mondo pagano, occorrerà trovare i mezzi più adatti. E il mezzo più adatto, anzi il più efficace, credo sia la santità della nostra vita.

Sia dunque la nostra vita santa, ma di quella santità che si presenta come modello da imitare.

conversionemiracolisantità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Simona Fontanesi, inserito il 08/11/2011

ESPERIENZA

12. Tre storie della vita di Steve Jobs   3

Steve Jobs, 12 giugno 2005

Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo.

Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.

La prima storia è su una cosa che io chiamo "unire i puntini" di una vita.

Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? E' iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente! ". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.

Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.

Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.

Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Consentitemi di fare subito un esempio.

Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.

Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita.

Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.

Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.

Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.

Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.

Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.

Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.

Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.

La terza storia è a proposito della morte.

Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.

Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.

Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.

Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.

Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto.

Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. E' l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. E' stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. E' stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. E' stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.

Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso.

E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.

vitasconfittacreativitàentusiasmoperditamorteprogetti

5.0/5 (3 voti)

inviato da Lisa, inserito il 06/11/2011

RACCONTO

13. Il problema degli altri   3

Paolo Coelho

C'era una volta un saggio molto conosciuto, che viveva su una montagna dell'Himalaya. Stanco della convivenza con gli uomini, aveva scelto una vita semplice, e passava la maggior parte del tempo meditando.

La sua fama, però, era così grande che la gente era pronta pronta ad affrontare strade anguste, ad arrampicarsi su colline ripide, a oltrepassare fiumi copiosi solo per conoscere quel sant'uomo, che tutti credevano fosse capace di risolvere qualsiasi angoscia del cuore umano.

Il saggio, essendo un uomo molto compassionevole, elargiva un consiglio qui, un altro lì, ma cercava di liberarsi subito dei visitatori indesiderati. Essi, comunque, si presentavano a gruppi sempre più numerosi, e un giorno una folla bussò alla sua porta, dicendo che sul giornale locale erano state pubblicate delle storie bellissime su di lui, e tutti erano sicuri che lui sapesse come superare le difficoltà della vita.

Il saggio non fece commenti e chiese loro di sedersi e aspettare. Trascorsero tre giorni, e arrivò altra gente. Quando non ci fu più posto per nessun altro, egli si rivolse alla popolazione che si trovava davanti alla sua porta.

"Oggi vi darò la risposta che tutti desiderate. Ma voi dovete promettere che, non appena i vostri problemi saranno risolti, direte ai nuovi pellegrini che mi sono trasferito altrove, così che io possa continuare a vivere nella solitudine cui tanto anelo. Gli uomini e le donne fecero un giuramento solenne: se il saggio avesse compiuto quanto promesso, essi non avrebbero permesso a nessun altro pellegrino di salire sulla montagna. Raccontatemi i vostri problemi", disse il saggio.

Qualcuno cominciò a parlare, ma fu subito interrotto da altre persone - poiché tutti sapevano che quella era l'ultima udienza pubblica che il sant'uomo avrebbe concesso, temevano che non avrebbe avuto il tempo di ascoltarli. Qualche minuto dopo, si era creata una grande confusione, con tante voci che urlavano nello stesso tempo, gente che piangeva, uomini e donne che si strappavano i capelli per la disperazione, perché era impossibile farsi sentire.

Il saggio lasciò che la situazione si prolungasse per un po', finché urlò: "Silenzio!". La folla si azzittì immediatamente. "Scrivete i vostri problemi e posate i fogli di carta davanti a me".

Quando tutti ebbero terminato, il saggio mescolò tutti i fogli in una cesta, chiedendo poi: "Fate passare tra voi questa cesta, e che ciascuno prenda il foglio che si trova sopra e legga ciò che vi è scritto. Potrete scegliere se cominciare ad avere il problema che vi troverete scritto oppure potrete richiedere indietro il vostro problema a chi gli è capitato nel sorteggio".

Ciascuno dei presenti prese uno dei fogli, lesse e rimase terrificato. Ne conclusero che ciò che avevano scritto, per peggiore che fosse, non era tanto serio come il problema che affliggeva il vicino. Due ore dopo, si scambiarono i fogli e ciascuno si rimise in tasca il proprio problema personale, sollevato nel sapere che il proprio problema non era poi tanto grave quanto immaginava.

Tutti furono grati per la lezione, scesero giù dalla montagna con la certezza di essere più felici degli altri e, rispettando il giuramento fatto, non permisero più a nessuno di turbare la pace del sant'uomo.

accettazionedoloregioiafaticacondivisioneproblemicrocesofferenza

5.0/5 (4 voti)

inviato da Lisa, inserito il 08/07/2011

RACCONTO

14. La ragione dell'asino   7

Bruno Ferrero, Tante storie per parlare di Dio

Una volta gli animali fecero una riunione.
La volpe chiese allo scoiattolo:"Che cos'è per te Natale?"
Lo scoiattolo rispose: "Per me è un bell'albero con tante luci e tanti dolci da sgranocchiare appesi ai rami".
La volpe continuò: "Per me naturalmente è un fragrante arrosto d'oca. Se non c'è un bell'arrosto d'oca non c'è Natale".
L'orso l'interruppe: "Panettone! Per me Natale è un enorme profumato panettone!".
La gazza intervenne: "Io direi gioielli sfavillanti e gingilli luccicanti. Il Natale è una cosa brillante!".
Anche il bue volle dire la sua: "E' lo spumante che fa il Natale! Me ne scolerei anche un paio di bottiglie".
L'asino prese la parola con foga: "Bue sei impazzito? E' il Bambino Gesù la cosa più importante del Natale. Te lo sei dimenticato?".
Vergognandosi, il bue abbassò la grossa testa e disse: "Ma questo gli uomini lo sanno?".

Solo l'asino conosce la risposta giusta alla domanda fondamentale: «Ma che cosa si festeggia a Natale?».
Anche noi oggi vogliamo chiederci: "Qual è l'elemento essenziale del Natale?" Proviamo a dire il nostro parere.

natale

3.5/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 28/12/2010

RACCONTO

15. Il Girasole   15

Bruno Ferrero, Tutte Storie, ed. Elledici

In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali.

Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra e a giocherellare con le gocce di rugiada, per farle sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre.

La pianta senza nome, invece, non si perdeva un salo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l'altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po', il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri.

Le piante del giardino cominciarono a considerarlo con rispetto, e anche con un po' d'invidia. «Quello spilungone è un po' matto», bisbigliavano dalie e margherite.

La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l'avrebbe seguito per non abbandonarlo un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all'unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai.

Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. «Si è innamorato del sole», cominciarono a propagare ai quattro venti. «Lo spilungone è innamorato del sole», dicevano ridacchiando i tulipani. «Ooooh, com'è romantico!», sussurravano pudicamente le viole mammole.

La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome «girasole». Glielo misero per prenderlo in giro, ma piacque a tutti, compreso il diretto interessato.

Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva orgoglioso: «Mi chiamo Girasole». Rose, ortensie e dalie non cessavano però di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o, peggio, qualche sentimento molto disordinato. Furono le bocche di leone, i fiori più Coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al girasole.

«Perché guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te», gridarono le bocche di leone per farsi sentire. «Amici», rispose il girasole, «sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po'. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui...».

Come tutti i buoni, il girasole parlava forte e l'udirono tutti i fiori del giardino. E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per «l'innamorato del sole».

cristianoseguire Gesùamare Diovivere per Diocontemplare Dio

2.5/5 (2 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 12/09/2010

TESTO

16. La strada maestra   1

Martin Buber, Storie e leggende chassidiche, Mondadori

Rabbi Mendel soleva lamentarsi: "Fino a che non c'erano ancora le strade maestre, la notte bisognava interrompere il viaggio. E allora nella locanda si dicevano in pace salmi, si apriva un libro e si ragionava tra ebrei. Ora si viaggia sulla strada maestra notte e giorno, e non vi è più pace".

progressofrettainterioritàtemposilenzioesteriorità

4.5/5 (2 voti)

inviato da Elena Calvini, inserito il 05/09/2010

TESTO

17. La grande colpa   1

Martin Buber, Storie e leggende chassidiche, Mondadori

Rabbi Bunam disse ai suoi chassidim: "La grande colpa dell'uomo non sono i peccati che commette: la tentazione è potente e la forza dell'uomo è poca! La grande colpa dell'uomo è che in ogni momento potrebbe convertirsi e non lo fa".

conversionepeccatotentazioneimpegnovita spiritualecambiamento

5.0/5 (2 voti)

inviato da Elena Calvini, inserito il 05/09/2010

ESPERIENZA

18. Costruire la pace

Questa storia, molto semplice, molto bella, mi è stata narrata da un'anziana volontaria che ho sempre stimato per il suo notevole spessore umano. Mi ha fatto pensare come cento bandiere arcobaleno sventolate nelle piazze non costruiscono la pace quanto un gesto semplice di perdono.

Il nonno di questa signora, era riuscito a garantire un notevole benessere alla famiglia con il suo lavoro di enologo. Avevano una casa bella e grande, un laboratorio, vari campi e una famiglia numerosa e serena.

Un giorno un amico bussa alla sua porta e dopo i soliti convenevoli, gli presenta un quadro disastroso della sua situazione economica, lo prega quindi di fargli da garante con la banca alla quale aveva richiesto un grosso prestito, indispensabile per ridare ossigeno alla sua impresa vacillante.

Il nonno, mosso a compassione, firma senz'altro la fidejussione. Dopo un'ora dall'aver apposto la firma, muore per infarto.

Il dolore della famiglia è grande, lascia 8 figli, alcuni dei quali ancora in tenera età; i maggiori studiano, la madre è casalinga. Piangono tutti un ottimo padre e marito, ma la situazione inaspettatamente precipita anche sotto l'aspetto economico. L'amico per il quale il nonno, senza esitazioni si era fatto garante, non paga nessuna cambiale. La banca sequestra i campi, il laboratorio e la grande casa. Viene loro concesso solo di continuare ad abitare l'alloggio fino alla maggiore età dei figli.

Per un gesto di solidarietà, la situazione di questa famiglia si è capovolta totalmente in un tempo brevissimo. Molti si sarebbero lasciati prendere dallo sconforto e dalla rabbia, invece i figli più grandi, ripreso coraggio, si cercano un lavoro e continuano gli studi di sera; tutti insieme si danno una mano, permettendo ai fratellini di crescere e recuperare un certo benessere.

Passano così gli anni, i giovani si sposano. Anche i figli dell'amico debitore mettono su famiglia. Uno tra questi festeggia la nascita di una bimba, ma la giovane moglie, in seguito a complicanze del parto, presenta continui problemi di salute e non riesce a rimettersi. Come avviene comunemente in un paese, ne parlano un po' tutti.

Una domenica la nonna (la vedova del generoso enologo), torna assai tardi dalla funzione religiosa del pomeriggio, cui lei, molto religiosa, partecipava puntualmente. La figlia con la quale vive si allarma parecchio, dato che un ritardo del genere non rientrava affatto nelle abitudini dell'ormai anziana signora; cerca quindi di sapere dalla madre le ragioni della sua assenza, ma questa si rifiuta, con frasi burbere, di dare spiegazioni.

Infine il genero riesce ad ottenere le confidenze della suocera: "Sai", dice, "avendo saputo che la Nina è ammalata e ha appena avuto una bimba, ho pensato di andarla a trovare. Poi ho visto tutta la casa sporca, i panni usati gettati nella vasca, tutti da lavare, lei che non poteva muoversi dal letto. Insomma, si sa, i bambini hanno bisogno di biancheria pulita, di pulizia, e così mi sono messa a fare il bucato e il tempo è passato in un attimo. Tutto qui, non c'è ragione di fare tante storie".

Tutti i pomeriggi la signora è tornata dalla Nina (la nuora dell'uomo che aveva messo la sua famiglia sul lastrico), per aiutarla nelle faccende domestiche, fino alla sua completa guarigione.

perdonogratuità

inviato da Lara, inserito il 11/08/2010

RACCONTO

19. Il cuore

Martin Buber, Storie e leggende chassidiche, Mondadori

Rabbi Mendel soleva dire che tutti gli uomini che gli avevano chiesto di pregare Dio per loro gli passavano nella mente quando diceva la tacita preghiera delle Diciotto Benedizioni (preghiera che si recita tre volte al giorno stando in piedi).

Un giorno un tale si stupì che ciò fosse possibile, poiché il tempo non bastava certo. Rabbi Mendel rispose: "Una traccia della pena di ognuno rimane incisa nel mio cuore. Nell'ora delle preghiera io apro il mio cuore e dico: Signore del mondo, leggi ciò che è scritto qui!".

preghieraintercessionecomunione

1.0/5 (1 voto)

inviato da Elena Calvini, inserito il 26/06/2010

TESTO

20. Le due sorgenti   2

Tomàs Spidlík, Il professor Ulipispirus e altre storie

La montagna si eleva verso il sole. Ma la montagna pesa. E' fatta di sassi. In qualche recesso delle sue viscere nacquero un giorno due piccole sorgenti d'acqua limpida, che cercavano di uscire all'aperto. Ma la montagna non cedeva: le opprimeva, le soffocava.

Dopo un bel po' di tempo le sorgenti, facendosi largo a poco a poco, riuscirono a venire alla luce ai piedi della montagna. Com'erano stanche! Ma non c'era tempo per riposarsi.

Erano appena scaturite dalla terra quando sentirono delle grida provenienti dal muschio, dall'erba, dai fiorellini, dalle rose alpine: "Dateci da bere! Dateci da bere!"

"Fossi matta!", disse la prima sorgente. "Ho faticato tanto senza sosta laggiù, sottoterra, mentre voi, pigri, ve ne stavate al sole. Non vi darò proprio niente!"

"Non ci darai niente?", disse il muschio piccato. "E allora noi non ti lasceremo passare."

"Ti sbarreremo la strada con le nostre numerose radici", dichiarò l'erba.

"Ti copriremo così nessuno ti troverà", minacciarono i cespugli di rose alpine e di rovi.

La seconda sorgente fu condiscendente: "Bevi, sorella erba, però fatti da parte perché io possa proseguire il mio cammino!" Bevvero un poco anche i cespugli ma si tennero fuori dalla corrente e così il muschio e la rosa alpina.

La sorgente correva. Dava da bere a tutte le piante e tutte le cedevano il passo. La sua acqua era fresca e limpida come cristallo. Lei stessa non sapeva come. Le piante l'amavano e lasciavano che altre sorgenti si unissero a lei. Alla fine arrivò al mare. Quando giunse alla foce, l'azzurro padre Oceano la prese fra le braccia e la baciò sulla fronte. "E dov'è tua sorella sorgente?", le chiese.

"Ah, Padre! Purtroppo è diventata paludosa, marcia e puzzolente."
"Così è la vita, figliola mia", disse padre Oceano.

"Tua sorella non voleva dare agli altri ciò che ha ricevuto. Vedi? Anch'io oggi ti ricevo in restituzione del vapore che da me è salito verso la montagna. La vita è dare. Tenere per sè è la morte."

daredonaresenso della vitagratuitàvita

inviato da Maria Carmela Moretti, inserito il 22/12/2009

Pagina 1 di 3