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PREGHIERA

1. Non lasciarci mai soli

don Valentino Porcile

Sei asceso al cielo Signore Gesù, hai compiuto ciò per cui eri stato mandato, e ora torni presso il Padre.

Ne hai svelato il volto, hai compiuto il mistero della salvezza, rendendo nuovamente possibile la comunione con Lui, e ora ascendi alla sua destra.

Tu porti accanto al Padre il tuo aver vissuto pienamente la nostra umanità, l'aver condiviso con l'uomo la fatica di vivere. Porti accanto al Padre la vittoria sul peccato e sulla morte.

Con la tua umanità, porti al Padre ognuno di noi, l'umanità di tutti noi. La nostra vita, le nostre giornate, la gioia di vivere, la fatica di ogni giorno.

Signore Gesù, tu sali al cielo, ed è giusto che sia così. Ma non lasciarci mai soli, non farci sentire mai soli.

Tu sai come renderti presente, come farti sentire accanto a ciascuno di noi. Ne abbiamo bisogno, Signore Gesù.

ascensionepresenzafiducia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 21/04/2023

PREGHIERA

2. Preghiera per l'Avvento

Beato Charles de Foucauld, Aleteia

Ancora venti giorni! Il Tempo si avvicina...
Ma se questo atteso Giorno sarà Beato, quanto è già dolce il presente!
Eccoti, mio Dio, nascosto nel grembo di Maria,
Tu sei qui in questa piccola casa, adorato da Lei, da Giuseppe e dagli angeli.
Mettimi vicino a loro, mio Signore.
Mio Signore e mio Dio, quando sono nel tuo Santuario,
ai piedi del Tabernacolo, sei vicino a me
come lo sei con San Giuseppe durante l'Avvento?
Quando ti doni a me nella Santa Comunione,
non sei anche tu vicino a me e in me, come lo eri nella Beata Vergine?
Mio Dio, quanto sono felice, quanto sono felice.
Ma Signore, ti prego, convertimi,
Lasciami ai piedi del tabernacolo, fa' che riceva la Santa Comunione
senza indifferenza, senza addormentarmi davanti all'Altare,
che non riceva più con tiepidezza il tuo Corpo Divino!
Convertimi, convertimi, mio Signore, te lo chiedo nel tuo Nome!
Ricordati che hai promesso di concedere tutto ciò che ti viene chiesto
nel Tuo Nome, e di donare lo Spirito Santo a chiunque te lo chieda.
Mio Dio, dammi lo Spirito Santo, il tuo Spirito, e fammi passare questo Avvento
e tutti i giorni della mia vita glorificandoti il più possibile;
Per quanto è possibile per me, per quanto è la tua volontà su di me,
Mettimi vicino ai tuoi santi genitori con tutto l'amore e l'umiltà,
annegato e perso nell'ammirazione, nella contemplazione ai tuoi piedi
durante questo Avvento e per sempre.
E quello che ti chiedo per me,
lo chiedo per tutti gli uomini,
e soprattutto per coloro per i quali devo pregare in modo particolare,
in te, per te e con te.
Amen.

avventopreghieracomunioneeucaristiaattesa

inviato da Milly Parodi, inserito il 11/02/2022

PREGHIERA

3. Preghiera di fine anno   1

Arley Tuberqui

Signore,
alla fine di questo anno voglio ringraziarti
per tutto quello che ho ricevuto da te,
grazie per la vita e l'amore,
per i fiori, l'aria e il sole,
per l'allegria e il dolore,
per quello che è stato possibile
e per quello che non ha potuto esserlo.
Ti regalo quanto ho fatto quest'anno:
il lavoro che ho potuto compiere,
le cose che sono passate per le mie mani
e quello che con queste ho potuto costruire.
Ti offro le persone che ho sempre amato,
le nuove amicizie, quelli a me più vicini,
quelli che sono più lontani,
quelli che se ne sono andati,
quelli che mi hanno chiesto una mano
e quelli che ho potuto aiutare,
quelli con cui ho condiviso la vita,
il lavoro, il dolore e l'allegria.
Oggi, Signore, voglio anche chiedere perdono
per il tempo sprecato, per i soldi spesi male,
per le parole inutili e per l'amore disprezzato,
perdono per le opere vuote,
per il lavoro mal fatto,
per il vivere senza entusiasmo
e per la preghiera sempre rimandata,
per tutte le mie dimenticanze e i miei silenzi,
semplicemente... ti chiedo perdono.

ringraziamentofine annoesame di coscienzapentimento

inviato da Qumran2, inserito il 31/12/2021

TESTO

4. Quando parli con Dio

Mons. Giuseppe Pecoraro, Cieli di luce, edizioni O.DI.PA, Palermo 1990, pag.75

Quando parli con Dio, non parlare solo di te stesso;
quando ti è possibile, parla insieme agli altri con Dio;
e quando parli con gli uomini, ricordati che anche Lui è presente e ti ascolta.

orazionepreghiera

4.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 23/06/2020

TESTO

5. La pace è finita, andate a Messa   1

Tonino Bello, Affliggere i consolati

Il frutto dell'eucaristia dovrebbe essere la condivisione dei beni. I nostri comportamenti invece sono l'inversione di questa logica. Le nostre messe dovrebbero smascherare i nuovi volti dell'idolatria. Le nostre messe dovrebbero metterci in crisi ogni volta. Per cui per evitare le crisi bisognerebbe ridurle il più possibile. Non fosse altro che per questo. Dovrebbero smascherare le nostre ipocrisie e le ipocrisie del mondo. Dovrebbero far posto all'audacia evangelica. Non dovrebbero servire agli oppressori.

Bonhoeffer diceva che non può cantare il canto gregoriano colui che sa che un fratello ebreo viene ammazzato. Non si può cantare il canto gregoriano quando si sa che il mondo va così.

Tante volte anche noi, presi da una fede flaccida, svenevole, abbiamo fatto dell'eucaristia un momento di compiacimenti estenuanti, che hanno snervato proprio la forza d'urto dell'eucaristia e ci hanno impedito di udire il grido dei Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto.

Se dall'eucaristia non parte una forza prorompente che cambia il mondo, che dà la voglia dell'inedito, allora sono eucaristie che non dicono niente.

Se dall'eucaristia non si scatena una forza prorompente che cambia il mondo, capace di dare a noi credenti l'audacia dello Spirito Santo, la voglia di scoprire l'inedito che c'è ancora nella nostra realtà umana, è inutile celebrare l'eucaristia. Questo è l'inedito nostro: la piazza. Lì ci dovrebbe sbattere il Signore, con una audacia nuova, con un coraggio nuovo. Ci dovrebbe portare là dove la gente soffre oggi. La Messa ci dovrebbe scaraventare fuori.

Anziché dire la messa è finita, andate in pace, dovremmo poter dire la pace è finita, andate a messa. Ché se vai a Messa finisce la tua pace.

eucaristiamessasolidarietàcambiamento

inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/06/2019

6. Natale: un nuovo inizio è sempre possibile   1

don Giovanni Benvenuto

Perché il Natale affascina tutti? Forse per la presenza di un bambino.
E forse perché quel Bambino ci dice che Dio ci è vicino, il che è già tanto.
A me il Natale piace perché mi fa pensare che è sempre possibile un nuovo inizio. Ne abbiamo così bisogno tutti quanti, di sapere che è possibile ricominciare.

Quando ci sembra che i nostri giorni siano tutti uguali. Quando ci manca quel qualcosa di speciale che ci fa alzare al mattino e ci fa battere il cuore, e ci dà lo stimolo per spegnere la sveglia e alzarci in piedi senza perdere inutilmente altro tempo.
O magari quando i giorni sono tutti diversi gli uni dagli altri, e allora ci pare che non ci sia nulla che li accomuni, perché la nostra vita non ha una direzione precisa. Perché senza una meta, anche il viaggio nei posti più diversi ci sembra senza significato.
In quei giorni il Natale ci ricorda che ogni giorno è un dono da accogliere e vivere.

Quando gli amici ci sembrano lontani e ci sentiamo piccoli, invisibili, e ci sentiamo come se non fossimo stati invitati a quella festa in cui tutti sembrano divertirsi ed essere al proprio posto.
Quando abbiamo sbagliato a dire quella cosa che ci pare abbia rovinato quel rapporto. Quando ci sentiamo soli, anche in mezzo ad una folla.
In quei giorni il Natale ci ricorda che ci basta il sorriso di un bambino per ritrovare il nostro posto nel mondo, e ricominciare.

Forse Gesù è nato per questo. Per dirmi che ogni giorno può essere un nuovo inizio, se Lui è con me.
Che ogni giorno può essere l'inizio di qualcosa di nuovo, dentro di me, se c'è Lui a lottare accanto a me.
Rinasci Gesù, dentro di me. Fa' rinascere anche me.
A Natale e ogni singolo giorno.



nataleattesainizioricominciaresperanzarinascita

5.0/5 (2 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 29/12/2018

TESTO

7. Lettera a Rut

don Tonino Bello, www.mosaicodipace.it

Carissima Rut, avrei voluto scriverti in ben altra circostanza.
Per approfondire ad esempio le ragioni di quell'universalismo della salvezza che hanno indotto Dio a includere anche te, unica straniera nell'albero della genealogia ebraica di Gesù.
Non ti nascondo infatti che quando nella messa viene proclamata la lista degli antenati di Cristo tramandataci da Matteo, mi sorprende e mi commuove sentir pronunciare il tuo nome di donna fugace come un fremito d'ala. Sembra un nome abbreviato per pudore. O intimidito di comparire in mezzo al ferrigno scrosciare dei nomi di tanti maschioni.

Ti scrivo, invece, perché voglio sfogare con qualcuno la tristezza che mi devasta l'anima in questi giorni, alla vista di tanti stranieri che hanno invaso l'Italia, e verso i quali la nostra civiltà, che a parole si proclama multirazziale, multiculturale, multietnica, multireligiosa e multinonsoché non riesce ancora a dare accoglienze che abbiano sapore di umanità.
So bene che il problema dell'immigrazione richiede molta avvedutezza e merita risposte meno ingenue di quelle fornite da un romantico altruismo. Capisco anche le «buone ragioni» dei miei concittadini che temono chi sa quali destabilizzazioni negli assetti consolidati del loro sistema di vita. Ma mi lascia sovrappensiero il fatto che si stenti a capire le «buone ragioni» dei poveri allo sbando e che in questo esodo biblico non si riesca ancora a scorgere l'inquietante malessere di un mondo oppresso dall'ingiustizia e dalla miseria.
Tu mi sembri, allora, l'interlocutrice più adatta delle mie confidenze, dal momento che, avendo coniugato il verbo accogliere non solo nella forma attiva ma anche nella forma passiva, hai sperimentato la durezza dell'emigrazione nella duplice fase: l'esilio in patria e la ghettizzazione in terra straniera.
Non tutti conoscono la tua storia. Perciò mi scuserai se, nel rievocarne alcuni particolari, sfiorerò la discrezione e farò violenza al tuo riserbo.

Vivevi spensierata sulle alture di Moab, al di là del mar Morto, cullando sogni e parlando d'amore con le tue compagne, quando un giorno arrivò nel tuo paese una famiglia di spiantati. Erano stranieri, provenienti dalla terra di Canaan, colpita in quegli anni da una terribile carestia.
Ti impressionò subito la carnagione bruna dei due figli. Uno dei quali si accorse di te.
Ma tu eri ancora ragazzina. Tanto ragazzina, che il cuore si mise a battere di paura quando egli, con i gesti più che con le parole, venne dai tuoi genitori a chiederti come sposa.
Non so se in casa quel giorno accaddero scenate. Ma c'è da supporre che ti rinfacciarono tutta la loro disapprovazione. Che eri il disonore della famiglia. Che non ti avrebbero più riconosciuta come figlia. E che era un infamia girar le spalle tutt'una volta alla propria tradizione, alla propria lingua, alle proprie divinità, per correr dietro a una maledetto sconosciuto. E che, comunque, non avrebbero tollerato mai e poi mai, dopo averti cresciuta come un fiore, di doverti consegnare a uno di quei morti di fame. Accidenti a lui e a tutti quelli della sua razza!
Furono giorni amarissimi, ma alla fine la spuntasti tu, pur pagando caramente il prezzo della tua caparbietà.
Ti vedesti così tagliare tutti i ponti, e alla fine rimanesti sola. Al punto che, quando dopo dieci anni di tribolazione tuo marito morì e morirono anche il fratello e il padre di lui, decidesti di seguire Noemi, la suocera addolorata, che, non avendo più nessuno anche lei in quella amarissima terra straniera, volle rimpatriare.
«Dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta».

Varcasti così la frontiera, e cominciò per te la seconda fase della tua esperienza di “diversità”.
Un vero e proprio mestiere non ce l'avevi. Insieme con la qualifica professionale, ti mancava anche il libretto di lavoro, e a Betlemme, dove andasti ad abitare con Noemi, non ti vollero iscrivere nelle liste di collocamento. Sicché, per camparti la vita, essendo il tempo in cui si cominciava a mietere l'orzo, andasti a spigolare furtivamente nelle campagne.
O Dio, non era proprio lavoro nero, ma era certo un lavoro umiliante, perché scartato da tutti ed esposto alle molestie del mietitori.
Meno male che trovasti grazia presso un ricco massaro, un certo signor Booz, il quale ti prese a ben volere e ordinò ai suoi dipendenti: «Lasciatela spigolare anche tra i covoni e non le fate affronto; anzi lasciate cadere apposta per lei spighe dai mannelli; abbandonatele, perché essa le raccolga, e non sgridatela».
Ti andò veramente bene. Anzi meglio di così la sorte non poteva arriderti, dal momento che il massaro cominciò ad avere del tenero per te e addirittura ti volle sposare, tra la meraviglia di tutte le donne di Betlemme che creparono d'invidia. E brava la Moabita!

Carissima Rut, qualcuno potrebbe dire che, a proposito di immigrati, la tua vicenda non fa testo, perché, essendosi conclusa con la fatidica frase «e vissero felici e contenti», sembra appartenere più al genere delle telenovele che ai resoconti del telegiornale o ai servizi di Samarcanda, laddove le storie degli extracomunitari si intridono spesso di lacrime e di morte.
Io, invece, penso che nelle pieghe della tua avventura possiamo leggere il giudizio di Dio su questa impressionante transumanza di gente alla deriva.
La tua storia, insomma, ci interpella non solo con la forza esemplare del paradigma, ma anche con la sollecitazione di risposte intelligenti di fronte al fenomeno della presenza degli stranieri nel nostro territorio.
Anzitutto, ci dice che la fusione di etnie diverse è possibile: anzi, appartiene a quel pacco di progetti che costituiscono la sfida più drammatica per la sopravvivenza della nostra civiltà. La comunicazione con le culture altre, insomma non è un'utopia, né uno sterile sospiro di sognatori.

Quando alle porte della città si celebrarono le tue nozze col massaro di Betlemme, gli anziani rivolsero a Booz tuo marito uno splendido augurio, che vale tutto un trattato sulla integrazione al razziale: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa di Israele».
In secondo luogo, la tua storia ci provoca a vincere gli istinti xenofobi che ci dormono dentro. Che si ammantano di ragioni patriottiche. Che scatenano all'interno delle nostre raffinatissime città, inqualificabili atteggiamenti di rifiuto, di discriminazione, di violenza, di razzismo. E che implorano dalle istituzioni con martellante coralità, rigorosi provvedimenti di forza.
Siamo vittime di una insopportabile prudenza, e scorgiamo sempre angoscianti minacce dietro l'angolo.
Perché lo straniero mette in crisi sostanzialmente due cose: la nostra sicurezza e la nostra identità.
Da una parte, infatti, ci toglie il lavoro, ci contende la casa, ci riduce gli spazi, entra in competizione con noi, decostruisce l'articolazione dei nostri interessi economici. Dall'altra, sembra attentare ai nostri connotati, sfida la compattezza del nostro mondo spirituale, relativizza i nostri altari, sfibra il deposito delle nostre tradizioni.

Ebbene, la tua storia ci fa capire che la segregazione è la risposta più sbagliata al problema razziale, così come rappresenta una iattura simmetrica il tentativo di voler assorbire nelle stratificazioni della nostra cultura i tratti emergenti della «diversità» altrui, senza lasciarne neppure la traccia. Solo la progressiva intersezione di aree di valori sarà capace di creare il terreno, calcando il quale nessuno debba sentirsi in esilio.

Grazie, dolcissima Rut, per questo tuo incredibile messaggio di universalità che lasci cadere dai tuoi covoni.
Dietro i quali, alla ricerca dei tratti di un mondo più solidale, siamo venuti anche noi a spigolare.

Luglio 1991

stranierimigrantimigrazionidiversitàaccoglienzaintegrazionemulticulturalità

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

8. Dieci ladri della tua energia   2

Dalai Lama

1. Lascia andare le persone che solo condividono lamentele, problemi, storie disastrose, paura e giudizio sugli altri. Se qualcuno cerca un cestino per buttare la sua immondizia, fa sì che non sia la tua mente.

2. Paga i tuoi debiti in tempo. Nel contempo fai pagare a chi ti deve o scegli di lasciarlo andare, se ormai non lo può fare.

3. Mantieni le tue promesse. Se non l'hai fatto, domandati perché fai fatica. Hai sempre il diritto di cambiare opinione, scusarti, compensare, rinegoziare e offrire un'alternativa ad una promessa non mantenuta; ma non farlo diventare un'abitudine. Il modo più semplice di evitare di non fare una cosa che prometti di fare e dire NO subito.

4. Elimina nel possibile e delega i compiti che preferisci non fare e dedica il tuo tempo a fare quelli che ti piacciono.

5. Permettiti di riposare quando ti serve e dati il permesso di agire se hai un'occasione buona.

6. Butta, raccogli e organizza, niente ti prende più energia di uno spazio disordinato e pieno di cose del passato che ormai non ti servono più.

7. Dà priorità alla tua salute, senza il macchinario del tuo corpo lavorando al massimo, non puoi fare molto. Fai delle pause.

8. Affronta le situazioni tossiche che stai tollerando, da riscattare un amico o un famigliare, fino a tollerare azioni negative di un compagno o un gruppo; prendi l'azione necessaria.

9. Accetta. Non per rassegnazione, ma niente ti fa perdere più energia di litigare con una situazione che non puoi cambiare.

10. Perdona, lascia andare una situazione che è causa di dolore, puoi sempre scegliere di lasciare il dolore del ricordo.

serenitàcrescita personaleaccettazioneperdonosalutelibertà

3.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018

TESTO

9. Il vero significato dell'Avvento   1

Goffredo Boselli

Per John Henry Newman il nome del cristiano è “colui che attende il Signore”. Invece dobbiamo riconoscerlo: da secoli, in occidente, l'attesa della venuta del Signore è una dimensione perlopiù assente nella vita di fede dei cristiani. Era il rammarico di Ignazio Silone che scriveva: "Mi sono stancato di cristiani che aspettano la venuta del loro Signore con la stessa indifferenza con cui si aspetta l'arrivo dell'autobus".

Rivelatore di questa realtà è il modo abituale di comprendere e vivere l'Avvento. Io sono persuaso che l'Avvento è il tempo liturgico oggi meno compreso nel suo valore e nel suo significato. Lo si è ridotto a tempo di preparazione alla festa del Natale. Che tristezza! Non si comprende che l'Avvento è la chiave di tutto l'anno liturgico: l'escatologia è la verità dimenticata dell'intero anno liturgico.

L'Avvento è la chiave per comprendere la celebrazione delle feste della manifestazione del Signore nella carne: i fatti che hanno immediatamente preceduto la nascita di Gesù Cristo, la sua nascita a Betlemme, la manifestazione ai Magi, il battesimo nel Giordano fino alle nozze di Cana. Capiti nella loro intelligenza spirituale, i testi liturgici dell'Avvento esprimo non l'attesa di una nascita già avvenuta nella storia una volta per tutte, quanto piuttosto l'attesa della definitiva venuta di Cristo nella gloria.

Domandiamoci: ma com'è possibile che la liturgia cristiana, che è sempre memoriale della morte e risurrezione di Cristo finché egli venga, faccia di noi cristiani gente per la quale il Signore non è ancora nato e dobbiamo attendere la sua nascita? Se la liturgia dell'Avvento ci costringesse a immedesimarci in coloro che duemila anni fa attesero la nascita di Gesù, la liturgia sarebbe nient'altro che l'artefice di un complesso sociodramma, ossia di una rievocazione ritualizzata degli eventi fondatori del cristianesimo. La nascita non la si attende ma la si commemora (commemoratio nativitatis Domini nostri Jesu Christi), ciò che si attende è invece la parusia che è il compimento del mistero Pasquale.

Il modo di vivere l'Avvento è il simbolo della diffusa perdita della dimensione escatologica che è uno dei tratti distintivi del cristianesimo moderno e contemporaneo occidentale. La progressiva spiritualizzazione dell'escatologia ha portato l'esistenza cristiana a soffrire di un male grave: l'amnesia della parusia. Osservando come la malattia del nostro tempo sia la volontà di dimenticare l'avvento di Dio, J.B. Metz in una preziosa meditazione sull'Avvento pone una domanda:

"Domandiamoci una volta in questi giorni di Avvento e di Natale: non agiamo forse, segretamente, come se Dio fosse restato tutto alle nostre spalle, come se noi - frutti tardivi di questo ventesimo secolo post Christum natum - potessimo trovare Dio solamente in un facile e malinconico sguardo del nostro cuore, una debole luce riflessa alla grotta di Betlemme, al bambino che ci è stato dato?

Abbiamo noi qualche cosa di più della visione di questo bambino negli occhi, quando nelle nostre preghiere e nei nostri canti proclamiamo: è l'Avvento di Dio? Pendiamo qualche cosa di più del Dio dei nostri ricordi e dei nostri sogni? Cerchiamo realmente Dio anche nel nostro futuro? Siamo uomini dell'Avvento, che hanno nel cuore l'urgenza della venuta di Cristo, e con gli occhi che spiano, cercando negli orizzonti della propria vita il suo volto albeggiante?".

Oggi, dobbiamo riconoscerlo, vi è una patologia nel modo di vivere l'Avvento. In realtà l'Avvento è il solo specifico cristiano, perché un tempo di digiuno e penitenza come la Quaresima la condividiamo con l'islam, il tempo della Pasqua con l'ebraismo, ma l'attesa della venuta del Kyrios è solo cristiana. Solo noi cristiani attendiamo il ritorno di Cristo da lui stesso promesse: "Sì vengo presto! Amen" (Ap 22,20). Per questo, privare l'anno liturgico della sua costitutiva dimensione escatologica significa sottrarre alla fede cristiana la dimensione della speranza.

Così compreso e vissuto, l'Avvento sarebbe il tempo dell'anno liturgico più eloquente per i credenti di oggi. Uomini e donne che faticano a sperare perché privati di ogni speranza, a volte perfino incapaci di sperare. Per questo, occorre fare attenzione a liturgie troppo festanti al limite del superficiale, eccessive nei toni e negli accenti, quasi che si debba sempre e a ogni costo far festa.

Domandiamoci: si è altrettanto capaci di offrire ai credenti liturgie capaci di suscitare la speranza, di nutrirla. Liturgie capaci di dare ragioni per sperare a cuori stanchi e affaticati, capaci di risollevare quanti, come i discepoli di Emmaus, si fermano “con il volto triste”. Lo sappiamo, la fatica a credere ad avere fiducia negli altri, nella vita, nel futuro, è uno dei tratti che caratterizzano l'uomo e la donna occidentali dei nostri giorni e questo non può non segnare anche la fede del credente contemporaneo.

Comprendere l'anno liturgico come un ciclo, un anello chiuso su di sé ma come un movimento elicoidale che mette la vede in cammino significa, nel preciso contesto antropologico, culturale e sociale nel quale viviamo, comprendere che le nostre liturgie, e più in generale le celebrazioni dei sacramenti, sono oggi chiamate ad ospitare un modo di vivere la fede, anche tra i credenti più assidui, che non è più, come un tempo, la somma di certezze incrollabili ma è l'espressione di un desiderio di qualcosa e di qualcuno in cui poter sperare, così che credere significa aggrapparsi a una speranza.

Oggi la fede è, infatti, perlopiù esperimentata come l'apertura a una speranza. Nutrire la speranza, questo oggi è il compito primo dell'anno liturgico, dare ragioni per alimentare per esercitarsi a credere che si sono realtà non visibili, e queste realtà sono la nostra salvezza. Uscire dalla precarietà in cui ci si trova per entrare un giorno nella condizione di beatitudine in Dio. “Solo la speranza nella vita eterna ci fa propriamente cristiani”, ha scritto Agostino.

Oggi è molto difficile parlare di speranza, dare ragioni per speranza, eppure questo è il compito oggi dell'anno liturgico, perché la mancanza di speranza rende l'uomo estraneo al tempo, irrimediabilmente assente a questo tempo presente. La speranza è esattamente questo: volere infinitamente il finito, è vivere eternamente il tempo. Come ha scritto Emmanuel Mounier in un saggio dedicato a Péguy, la speranza “rifà ciò che l'abitudine disfa. È la sorgente di tutte le nascite spirituali, di ogni libertà, di ogni novità. Semina cominciamenti là dove l'abitudine immette morte”.

avventoanno liturgicoattesasperanzaparusia

inviato da Francesco De Luca, inserito il 15/01/2018

TESTO

10. Considerare il fratello un candidato all'unità

Chiara Lubich, Payerne (Svizzera), 26 settembre 1982

Ecco la prima idea che può già rivoluzionare la nostra anima se noi siamo sensibili al soprannaturale: la fratellanza universale che ci libera da tutte le schiavitù, perché siamo schiavi delle divisioni fra poveri e ricchi, fra generazioni: padri e figlioli, fra bianchi e neri, fra razze, fra nazionalità, persino fra cantone e cantone siamo schiavi, ci critichiamo; ci sono degli ostacoli, delle barriere. No, La prima idea è svincolarsi da tutte le schiavitù e vedere in tutti gli uomini, in tutti gli uomini...

- Ma anche nel mio bambino?
- Anche in quella donna lì così chiacchierona?
- Anche in quel vecchio rimbambito?
- Anche in quella povera lì?
- Anche in quell'ebreo?
- Anche in quello lì? ma possibile?

Sì, in tutti, in tutti, in tutti vedere dei possibili candidati all'unità con Dio e all'unità fra di noi.
Ecco, bisogna spalancare il cuore, rompere tutti gli argini e mettersi in cuore la fratellanza universale: io vivo per la fratellanza universale!
Dunque, se tutti siamo fratelli, dobbiamo amare tutti, dobbiamo amare tutti, dobbiamo amare tutti. Guardate, sembra una parolina, è una rivoluzione! Dobbiamo amare tutti. "Anche quella signora che sta di là della mia porta? Ma mi critica, mi guarda male, e poi è un tipo!" Anche lei, dobbiamo amare tutti!

unitàamorefratellanzagratuitàdivisionipregiudizi

inviato da Qumran2, inserito il 02/12/2017

RACCONTO

11. La favola del colibrì

Antica leggenda africana

Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all'avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà.

Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l'incendio stava per arrivare anche lì.

Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d'acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento.

Il colibrì, però, non si perse d'animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d'acqua che lasciava cadere sulle fiamme.

La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: «Cosa stai facendo?». L'uccellino gli rispose: «Cerco di spegnere l'incendio!».

Il leone si mise a ridere: «Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?» e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l'uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un'altra goccia d'acqua.

A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco.

Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d'acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme.

Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d'animale si prodigarono insieme per spegnere l'incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume.

Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell'antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell'aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.

A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l'arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l'incendio poteva dirsi ormai domato.

Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco.

Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: «Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d'acqua può essere importante e che insieme si può spegnere un grande incendio. D'ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo».

impegnopiccole coseresponsabilitàimportanza delle piccole cosefiduciasperanzapositivitàesempiocollaborazione

inviato da Qumran, inserito il 01/12/2017

TESTO

12. Conversione

San Cipriano di Cartagine, Lettera a Donato

Un tempo io giacevo nelle tenebre di una notte buia; mi trovavo come sballottato sul mare del mondo che mi gettava in tutte le direzioni; incerto delle vie che mi si paravano innanzi, vagavo in balia di me stesso e non ero consapevole della mia vita.

Lontano dalla verità e dalla luce, ritenevo che fosse davvero difficile e duro, per i miei sentimenti di quel periodo, ciò che la misericordia di Dio mi prometteva per portarmi alla salvezza.

Reputavo fosse difficile poter nuovamente rinascere e deporre le abitudini precedenti, anche se il battesimo nell'acqua della salvezza mi rinnovava a nuova vita. Stimavo ugualmente difficile che un uomo potesse cambiare la mente e l'animo senza mutare nel suo fisico.

Continuavo a dirmi: «Come sarà possibile una conversione così grande da liberarmi tutto ad un tratto da ciò che fin dalla nascita si solidificò come quando si colloca del materiale e lo si ammucchia in depositi? Come sarà possibile liberarmi di quelle abitudini che ho indebitamente contratte?».

Spesso mi trovavo con questi pensieri. Ero legato dai moltissimi errori della mia vita passata e non credevo di potermene liberare. I vizi aderivano alla mia vita e io continuavo ad assecondarli. Non pensavo più di poter raggiungere i beni migliori; per questo favorivo ciò che mi nuoceva come se fosse qualcosa che ormai mi appartenesse e fosse cresciuto con me.

Ma sopraggiunse l'aiuto dell'acqua che rigenera. La corruzione della vita precedente venne cancellata e dall'alto si diffuse una luce nel mio cuore purificato e mondo. Ricevetti dal cielo lo Spirito e attraverso una seconda nascita diventai un uomo nuovo.

Dopo questo evento, ciò che era segnato dal dubbio improvvisamente divenne, in modo che non saprei descrivere, una certezza; quello che era impenetrabile e pieno di tenebra mi apparve accessibile e luminoso.

Potevo raggiungere quello che prima mi sembrava assurdo e fare quello che finora ritenevo impossibile. Avevo così la possibilità di capire come fosse terreno l'uomo di prima, nato dalla carne e schiavo dei vizi.

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inviato da Qumran, inserito il 26/09/2017

TESTO

13. Il re della risata

Piero Ferrucci, La forza della gentilezza, Oscar Mondadori 2005

Un giorno conducevo un seminario di studio, e qualcuno mi indicò il signor X, un tizio con la barbetta bianca, dicendomi: «Sentissi quanto è divertente quell'uomo! È un vero campione di umorismo». Lo guardai, e mi parve una specie di folletto simpatico che andava in giro distribuendo allegria. Prima che incominciasse il lavoro di gruppo l'ho salutato dicendogli: «Ho sentito dire che sei il re della risata». Quest'uomo, piccolo e timido, rimase molto sorpreso, come se nessuno gli avesse mai detto una cosa del genere. Durante il seminario, notai che aveva l'aria compiaciuta e sorrideva a se stesso. Mi aspettavo delle battute divertenti, e presto queste arrivarono, una dopo l'altra, una meglio dell'altra. Finita la mattinata, mi avvicinai alla persona che ore prima mi aveva indicato il campione di umorismo, e accennando al signor X dissi: «Avevi proprio ragione, è una persona molto divertente». «Ma che cosa hai capito? Io parlavo di quell'altro», mi rispose, indicando invece il signor Y, un individuo alto e magro, con la faccia un po' irritata, che era stato zitto tutto il tempo.

Chiamando il signor X "il re della risata", e attribuendogli un titolo quasi usurpato, gli avevo permesso di esprimere un lato di se stesso che nessuno di solito percepiva e affermava in lui. Per un equivoco casuale io avevo visto il suo humour, la sua qualità nascosta, e l'avevo attivata. Se avessi cercato di vedere in lui la possibilità di volare o di parlare persiano antico, non si sarebbe messo a volare o a parlare persiano antico. Io ho visto qualcosa che era possibile, e che per il fatto di essere visto è diventato reale.

Può sembrare strano che, cambiando un pensiero nella mia mente, cambi qualcosa in un'altra persona. Ma questo è strano solo se sottovalutiamo l'importanza della nostra mente, e se non teniamo conto dei mille modi in cui interagiamo di continuo. Svariate ricerche già da parecchi anni hanno dimostrato che esiste un "effetto Pigmalione": se io cambio la mia percezione di te, anche tu cambierai.

Gli alunni, se considerati i più intelligenti dall'insegnante, diventano più intelligenti. Gli impiegati, se percepiti più competenti ed efficienti dai superiori, diventano più competenti ed efficienti. Il nostro sguardo è come un raggio di luce che cade su una pianta in ombra, la rende visibile, la nutre, la stimola a crescere.

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inviato da Qumran2, inserito il 21/08/2017

RACCONTO

14. I baffi del leone   2

Antica favola etiope

Un uomo, rimasto vedovo, con un figlio ancora bambino, sposò una giovane donna. Nel giorno del matrimonio, la donna, commossa dal dolore così evidente sul viso del bambino, fece una promessa a se stessa: «Aiuterò questo bambino a guarire dal suo dolore e sarò per lui una buona madre».
Da quel momento ogni suo pensiero ed energia furono spesi per questo obiettivo, ma invano.
Il bambino opponeva un netto rifiuto a tutte le sue attenzioni e cure. I cibi preparati amorevolmente non erano buoni come quelli della mamma naturale, i vestiti lavati e rammendati venivano sporcati e strappati di proposito, i baci ricevuti venivano prontamente ripuliti col dorso della mano, gli abbracci allontanati, e così via. Per quanto la donna cercasse di consolare il dolore del bambino e si sforzasse di conquistare il suo affetto non incontrava altro che rifiuto e rabbia.

Un giorno, al colmo del dispiacere e del senso d'impotenza, decise, tra le lacrime, di chiedere consiglio allo stregone del villaggio.
«Ti supplico! Aiutami! Prepara una magia così ch'io possa conquistare l'amore di questo bambino! Ti pagherò quanto vorrai! Aiutami Stregone!».
«Va bene, ti aiuterò e preparerò questa magia, ma è essenziale che tu mi porti due baffi del leone più feroce della foresta».
«Ma Stregone! E' impossibile! Non c'è nessuna speranza allora! Se mi avvicinerò a quel leone mi sbranerà! Non conquisterò mai l'amore di questo bambino».
«Mi dispiace donna, ma questa è la condizione necessaria per la magia».

La donna, in lacrime, si avviò verso la sua capanna ancora più scoraggiata. Dopo una notte insonne, resasi conto che in nessun modo avrebbe rinunciato al suo proposito di conquistare l'affetto del bambino, la giovane sposa decise di procurarsi i baffi del leone ad ogni costo.
La mattina seguente si mise in cammino verso la foresta con una ciotola di carne sul capo. Giunta al limitare del territorio del leone depose la ciotola a terra e fece quindi ritorno verso la sua capanna.
Il giorno successivo, poco dopo l'alba, si avviò nuovamente con una nuova ciotola piena di carne verso la foresta, ma questa volta depositando il tutto qualche passo più avanti, nel territorio del re della foresta.
Il terzo giorno ancora una ciotola di carne e ancora qualche passo più avanti.
Il quarto giorno lo stesso.
Così il quinto, il sesto, il decimo, il ventesimo, il trentesimo, il centesimo... giorno.
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, avanzando con coraggio e costanza. Fino a vedere la tana e l'animale, e poi, dopo giorni, ad incontrare il leone che ormai attendeva la sua ciotola di carne e osservava placido la donna, concedendole di avvicinarsi.

Sino al giorno in cui la ciotola viene deposta davanti al leone, e la donna, col cuore in tumulto nel petto, capisce che è giunto il momento di agire.
Mentre l'animale, ormai perfettamente a suo agio con lei, divora il suo pasto, ecco che lei può strappare i due baffi preziosi senza che il leone neppure se ne accorga.
Allora sorridendo tra le lacrime, con i due baffi stretti al petto, corre a perdifiato verso la capanna dello stregone: «Stregone!!! Stregone!!! Ho i baffi!!! Puoi fare la tua magia!!!»

«Mi dispiace donna, non posso fare ciò che mi chiedi. Non bastano due baffi di leone per conquistare l'amore di un bambino. Non ho questo potere».
«Mi hai ingannata!!! Mi hai tradita! Mi hai fatto rischiare la vita per nulla! Perché? Perché l'hai fatto?». Urlava tra le lacrime la donna al culmine della disperazione. «Avevi promesso! Come farò adesso?».
Lo stregone, in silenzio, attende che la donna esaurisca le sue lacrime e la sua rabbia e poi risponde: «Io non posso compiere alcuna magia, donna. La magia è nelle tue mani. Guarda cos'hai fatto col leone. Ebbene, la magia è questa: fai col tuo bambino ciò che hai fatto col leone!».

Il Tempo. Ogni cosa necessita del suo tempo, ma c'è un tempo che pare infinito.
E' il tempo della trasformazione, del cambiamento, della guarigione, dell'attesa.
Quel tempo che vorremmo poter cancellare come d'incanto, o che almeno vorremmo accelerare. Soprattutto noi, noi che viviamo in questo momento storico e culturale dove il tutto dev'essere subito, dove ogni cosa si consuma in un attimo, dove l'attesa genera insofferenza e aggiunge spesso sofferenza alla sofferenza.
Non è possibile accelerare.
Ci sono ritmi e tempi che non possiamo modificare, che appartengono alla natura dell'uomo e all'universo.
Quando si dice: il tempo aggiusta tutto...
In realtà siamo noi e sono gli avvenimenti che necessitiamo di tempo per «aggiustarci». Noi per adeguarci, per abituarci, per trasformarci. Gli avvenimenti per evolvere, maturare, manifestarsi.
Non esistono interruttori.
Click! No, nessun click.
Solo la costanza, la tenacia e la paziente attesa mentre «si lavora per».

Illustrazione di Roberta Tezza

gentilezzapazienzaperseveranza

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inviato da Qumran2, inserito il 21/08/2017

RACCONTO

15. Riattacca quel ramo   4

Anthony De Mello, La preghiera della rana. Saggezza popolare dell'Oriente, Volume 2

Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.

«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha. «Taglia un ramo di quell'albero.»

Con un colpo solo di spada l'altro eseguì quanto richiesto, poi domandò:
«E ora che cosa devo fare?»
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.

«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere.»

«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere. Quella è roba da bambini. La vera forza sta nel creare e risanare.»

mortevitacuracuraredistruggerecrearecreazioneforzadebolezza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 15/07/2017

TESTO

16. Testamento di Raoul Follereau

Raoul Follereau

Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi. Scrivevo, venticinque anni fa: "O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l'uomo vivrà per l'uomo, o gli uomini moriranno". Tutti e tutti insieme.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire. Bisogna scegliere. Subito. E per sempre. Ieri, l'allarme. Domani, l'inferno.
I Grandi - questi giganti che hanno cessato di essere uomini - possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all'idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un'intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore. L'Apocalisse è all'angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire "no" al suicidio dell'umanità.
"Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere". Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele...
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me. Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare. Questa è l'ultima ambizione della mia vita, e l'oggetto di questo "testamento".

Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C'è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l'umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: "la pace, la pace", perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.
I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano. Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.
Allontanatevi dai mascalzoni dell'intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste "tecniche divinizzate" che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi "progressi" e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell'anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell'uomo. Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione! La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l'Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell'umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d'amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.

Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un "progresso" folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido "ho fame!" che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: Essere veramente fratelli.
Allora... domani?
Domani, siete voi.

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inviato da Fra Roberto Brunelli, inserito il 28/12/2016

TESTO

17. Amore e ricchezza

Abba Evagrio il monaco

Non è possibile che l'amore possa coesistere con la ricchezza. L'amore cristiano non solo distrugge l'avidità del possesso, ma la stessa nostra vita legata al tempo. Rimanendo attaccati a qualche bene esteriore, il nemico è sempre in vantaggio e su di noi getta i suoi lacci per provocare in noi risentimento, dove sa che il nostro cuore è ancora attaccato.

Abba Evagrio il monaco, monaco della Chiesa Orientale del IV secolo

ricchezzadenaroaviditàesterioritàinteriorità

inviato da Qumran2, inserito il 05/09/2016

TESTO

18. L'avarizia   1

San Zenone di Verona, L'avarizia, I, 10;11

L'avarizia è un'incantatrice, un dolce male, una maledizione per l'umanità tutta, in ogni tempo. Giustamente Dio odia l'avarizia: è una brama senza fondo, un desiderio di rapina che non ha confine, una tensione che non trova pace, che non conosce contento. Spezza la fedeltà, spegne ogni sentimento, pone se stessa al di sopra dei diritti divini e, con argomentazioni cavillose, riduce a nulla ogni diritto umano e, se le fosse possibile, usurperebbe il mondo intero.

avariziaavidità

inviato da Paola Berrettini, inserito il 05/09/2016

TESTO

19. Sognare   1

Gianni Fanzolato, Da Loreto nell'anno della misericordia 2015-2016

Chiudo gli occhi e mi butto fra le braccia della fantasia: e sogno.
Sognare è l'unico tesoro che nessuno ti può rubare e non costa niente.
Il sogno è il volo dell'anima, è passare il limite, è sfiorare la mente di Dio;
ti prende, ti circonda, ti sprona, ti affascina, ti strega e ti proietta all'infinito.

Che meraviglioso sognare un mondo dove tutti si abbracciano, mano nella mano,
e l'amore di ognuno fa crollare i muri, rompe barriere, spezza le guerre e semina pace.
Ma il sogno si fa duro, perché devo entrare nel cuore di tutti per dare la buona notizia
di quel sognatore che ci ha detto: "amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi".

E' bello sognare che ci sono più abbracci che bombe, più mani tese che armi puntate,
più gente che accoglie che bambini smarriti e annegati nei mari di un mondo diviso.
Cosa costa chiudere gli occhi e vedere che tutti i bambini della terra, di ogni colore
stanno facendo un grande girotondo, un arcobaleno di luce, perché amati da Dio.

Chi mi può rubare il fascino del sogno di Dio di fare del mondo una unica famiglia
dove non si guarda il colore, non c'è passaporto, ma basta la dignità di figli di Dio.
Mi possono togliere la libertà, impedire di parlare, ma non la sfida di volare in alto.
Dio mi sussurra la gioia di essere missionario della sua misericordia e mi accarezza.

Gesù, il grande sognatore che ha cambiato il sogno in un nuovo stile di vita,
si è identificato col migrante, col prigioniero, con l'ammalato, con chi ha fame.
"Ma, Signore, quel che tu dici è sogno, è utopia, la vita è dura, ad ognuno la sua pena."
"Se hai amore, mi vedrai presente nel povero, migrante e il sogno si farà benedizione."

Solo adesso, Signore, ho capito che devo aprire gli occhi, perché il sogno è reale;
ho sognato perché ho volato vicino a Te che mi hai trasmesso la forza di osare.
Sono una goccia d'amore nell'oceano del mondo, sogno e son desto, immerso nell'utopia
di Te che ci vuoi abbraccio, perdono, ponte e famiglia in un mondo possibile.

misericordiagiustiziaaccoglienzamigranti

inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 25/08/2016

RACCONTO

20. Il cuoco generoso

Maria Macrì

Un re molto potente volle fare un banchetto per il figlio che arrivava a casa dopo aver girato per le galassie del cielo. Ma quando il figlio arrivò subito si accorse che c'era qualcosa che non andava bene. Il giovane era sempre triste, spento, come se tutto quel girovagare per le stelle, i pianeti e i vari satelliti l'avesse sfinito.

Allora il re decise di far curare il suo unico figlio e decise perciò di chiamare i 3 medici più bravi e famosi della terra.

Arrivò il primo medico che visitò il giovane e disse: "Ho capito... questo ragazzo ha bisogno di oro, di tanto oro, perché dopo aver visto tutte le stelle del cielo sicuramente adesso sente la mancanza del loro luccichio...e quindi è triste per questo". Così il re fece portare tutto l'oro del mondo e riempì una stanza. Sì, per un po' di tempo, qualche giorno, il giovane sembrò un po' più contento, però dopo un po' ritornò ad essere triste.

Allora il re chiamò un altro dottore, il quale disse: "Ho capito... questo ragazzo ha bisogno di una bella giostra, perché dopo aver girato tutti i cieli con la sua navicella spaziale, sicuramente sente la mancanza del movimento e di tutta l'ebrezza che ha provato". Il re gli fece avere la giostra più bella e grande che si fosse mai vista ed effettivamente per qualche giorno il giovane fu un po' più contento. Ma poi si stufò anche della giostra e divenne più triste di prima.

Allora il re fece chiamare il terzo medico che visitò il ragazzo e disse: "Ho capito... questo ragazzo ha bisogno di stare in spazi aperti. E' molto triste, perché dopo essere vissuto nei cieli sconfinati adesso si trova a vivere in un castello che, per grande che sia, per lui è un posto molto piccolo ed angusto". Allora il re portò il figlio in un posto meraviglioso con prati, cascate, ruscelli, fiumi... Ed effettivamente per qualche giorno il giovane fu contento, ma dopo un po' divenne ancora più triste di prima.

Il re, disperato e piangente, non sapeva più cosa fare. Aveva chiamato i dottori più bravi della terra, ma senza alcun risultato.

Intanto un cuoco di corte che aveva sentito della malattia del giovane principe ed era molto dispiaciuto si avvicinò al re e gli fece una proposta: "Forse, mio sire, il giovane principe ha solo bisogno di un buon pranzetto... ormai i dottori hanno fatto tutto il possibile, perché non lasciate fare a me che so cucinare piatti prelibati?". Allora il re decise di provare quest'ultima possibilità.

Tutti i giorni il giovane cuoco si recava dal principe e gli faceva assaggiare un po' per volta, perché il giovane aveva anche perso l'appetito, i piatti preparati da lui e si intratteneva con il principe, gli raccontava quello che succedeva al castello e ascoltava volentieri i meravigliosi viaggi nelle galassie che il principe aveva compiuto in quegli anni... e un po' per volta il principe guarì completamente dalla sua malattia.

Che cosa ha fatto guarire il principe?

interioritàesterioritàascoltotenerezzaguarigione

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inviato da Qumran, inserito il 18/04/2016

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