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TESTO

1. Zaccheo sul sicomoro

Giuseppe Impastato S.I.

Ora tocca a lui, a Gesù.
Sento una indicibile nostalgia.
Stamattina mi ha preso un colpo
quando un amico mi disse:
"Sai, c'è Gesù, il Maestro, a Gerico.
E tra poco passerà da queste parti,
per andare a Gerusalemme".
Mi ha preso un colpo, e non so come,
mi è venuta una gran voglia di vederti!
Ma che? sto parlando come se fosse qui!

Mi sono messo a correre. Una spinta,
non so come sia successo.
Ti volevo vedere. E, come dicevo,
mi son messo a correre,
come quando ero bambino.
Che figuraccia, correre come i ragazzini!
Avresti dovuto vedere le facce
di clienti e conoscenti.
Ma io ho continuato, perché non m'interessa
quello che può dire la gente.

Ce l'ho fatta ad arrampicarmi.
Ho sete di te, e mi brucia questa sete
di vederti. Mi basterà vederti?
Non so.
Ho paura di ciò che potrà capitarmi.
Me ne starò qui, abbastanza nascosto,
per vederlo senza farmi vedere.
Ora tocca a te, Gesù.

Il cuore mi dice che oggi
sarà un giorno indimenticabile.
Perché sono stanco,
stanco di maneggiare denaro,
di rendere la gente più arrabbiata,
di vedermi l'odio di tutti in faccia.

Mi son fatto una posizione, sì.
Tutti mi rispettano, mi temono.
Ma io non ce la faccio più a rubare,
a esigere, a fare i conti, a controllare,
ad arricchirmi. Sono diventato anche io
spietato, come i romani. Gentaglia!

Certe volte mi sono vergognato
vedendo piangere i miei fratelli ebrei.
Già, fratelli. Sono stato un carnefice.
Ho fatto disperare. Io, sì, disperare.
Quanti mi hanno implorato,
quanti mi hanno maledetto.
Qualche volta avrei voluto restituire i soldi,
fare la spesa per le famiglie sfortunate.
Ma c'era sempre qualche sodato romano
accanto, a controllarmi.
Ma ora non ce la faccio più.

Eccolo!!! Arriva. E' proprio lui.
Che occhi attenti, che occhi buoni.
Non guarda come guardo io.
Guarda dentro, guarda con amore.
Ora capisco come la gente gli vada dietro.
Mi avevano detto che la gente ascolta,
lo segue, cambia vita. E' proprio vero.
Che faccio ora? Scendo dall'albero?
Mi piacerebbe invitarlo a casa mia.

"Zaccheo, scendi. Subito".
Dice a me? Conosce il mio nome!
Come se sappia tutto di me!
“Scendi subito! Oggi devo fermarmi da te”
Ma certo! Era quello che sognavo.
Ho fatto bene a venire qui.
"Gesù, sono onorato di averti a casa mia".

Ora sono contento. Finalmente.
Contento come quand'ero bambino.
Ora posso cambiare. Potrò guardare tutti negli occhi.
Mi guardano tutti, sorpresi.
"Subito! Devo... fermarmi... A casa tua!"
E' un sogno!
Zaccheo, corri.

incontrare Gesùzaccheoattesamisericordia

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 29/12/2018

TESTO

2. Il segreto del maestro

don Tonino Bello, Scrivo a voi... Lettere di un vescovo ai catechisti, EDB

Carissimi catechisti,

ogni volta che tornavo nel mio paese, andavo a trovarlo. Ultimamente si era incurvato e gli tremavano le mani. Ma per me è rimasto sempre il maestro di un tempo. Tornavo da lui per un dovere di gratitudine. Ma soprattutto condotto dalla speranza. Chi sa, mi dicevo, che non abbia, come nelle fiabe che ci raccontava in quarta elementare, una noce misteriosa da farmi schiacciare nei momenti difficili!

Di tutti gli insegnanti che ho avuto, lui era l'unico a provare soggezione di me. Me ne accorgevo dall'imbarazzo con cui, nel discorso con me, passava dal “lei” al “tu”. Mi hanno detto anche che era fiero di avermi avuto come discepolo. Forse però non ha mai saputo che se ancora tornavo da lui era perché avevo il presentimento che mi avrebbe aiutato a risolvere, come un tempo, qualche altro complicato problema, per il quale non mi bastavano più le quattro operazioni dell'aritmetica che lui mi aveva insegnato. Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.

Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?

Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.

Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.

Vorrei augurare a tutti voi che i vostri ragazzi provino per voi gli stessi sentimenti che ho provato io per il mio vecchio maestro delle elementari... statene certi: se restate saldi in Gesù e vi animerà una forte passione di trasmettere la sua Verità, essi, i vostri ragazzi di oggi, un giorno verranno a farvi visita. Sì, perché anche se saranno diventati professori dell'università gregoriana, torneranno da voi per recuperare quei frammenti di mistero, di cui non hanno ancora trovato spiegazione neppure sui libri di teologia.

Vi saluto, don Tonino Vescovo
3 marzo 1991

educareeducatoricatechistiinsegnaretestimoniaremaestridomandescuola

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/12/2018

RACCONTO

3. Il tavolino della nonna

Robin Sharma, Il monaco che vendette la sua Ferrari

C'era una volta una vecchierella che restò vedova del suo adorato marito. Allora andò a vivere con il figlio, la nuora e la loro figlioletta. Un giorno dopo l'altro la sua vista si indeboliva, e il suo udito peggiorava. Le sue mani tremavano al punto che a volte le cadevano i piselli dal piatto, o versava la zuppa. Non sopportando più il disordine che lei involontariamente creava, un giorno il figlio e la nuora sistemarono un tavolino vicino all'angolo delle scope, e da allora la fecero mangiare lì, tutta sola. All'ora di pranzo la nonnina li guardava con gli occhi pieni di lacrime, ma loro le rivolgevano la parola solo per redarguirla quando le cadeva il cucchiaio.

Una sera, appena prima di cena, la bambina era seduta sul pavimento a giocare con le costruzioni. «Che cosa stai costruendo?», le domandò sollecito suo padre. «Sto costruendo un tavolino per te e la mamma, così quando sarete vecchi potrete mangiare nell'angolino». Per un momento, che sembrò durare un'eternità, il padre e la madre rimasero muti, poi scoppiarono a piangere. Si erano resi conto della crudeltà del loro comportamento, e del dolore arrecato alla vecchierella. Da quel giorno la nonna mangiò insieme a loro al grande tavolo da pranzo e se le cadeva un boccone o la forchetta, nessuno ci faceva più caso.

I genitori di questa storia non sono cattive persone. Avevano bisogno soltanto della scintilla della consapevolezza per accendere la candela della compassione. La compassione e i gesti quotidiani di gentilezza rendono la nostra vita assai più ricca. Ogni mattina rifletti sul bene che potrai fare agli altri durante il giorno. Un elogio sincero a chi meno se lo aspetta, un gesto di affetto regalato a un amico nel momento del bisogno, qualche piccola attenzione dimostrata ai tuoi cari senza nessuna ragione particolare, sono benedizioni della vita.

vecchiaiacompassionegentilezzabontàaccettazionepazienza

inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2018

TESTO

4. Auguri di Natale non in serie

don Tonino Bello

Carissimi,
formulare gli auguri di Natale dovrebbe essere la cosa più semplice di questo mondo. Invece, quest'anno sto provando tanta difficoltà. Ho scritto e riscritto cento volte l'attacco di questa lettera, ma mi è parso di dire sempre delle cose estremamente banali. Come sono banali certi presepi bell'e confezionati che si acquistano ai grandi magazzini. Saranno anche attraenti con i loro svolazzi di angeli e con i loro muschi di plastica. Ma sono freddi. Perché fatti in serie.
Ecco: è proprio la «serialità» che mi mette in crisi. Ho l'impressione, cioè, di esporre anch'io la mia merce preconfezionata, e poi lasciare che ognuno si serva da solo, come nei self-service di certi ristoranti.
È qui lo sbaglio: nella pretesa di voler trovare delle formule standard, buone per tutti. Invece, a Natale, non si possono porgere auguri indistinti.

Dire buon Natale a te, Ignazio, che vivi immobilizzato da anni, dopo quel terribile incidente stradale che ti ha ridotto a un rudere, è molto diverso che dire Buon Natale a te, Franco, che hai fatto spese pazze per rinnovarti l'attrezzatura sciistica, e il 25 dicembre lo passerai in montagna, dove hai già prenotato l'albergo per la settimana bianca. Tu, Ignazio, la stella cometa del presepe non la vedi neanche, perché non puoi muovere la testa dal guanciale. E, allora, devo descrivertela io, e dirti che essa fa luce anche per te, e assicurarti che Gesù è venuto a dare senso alla tua tragedia e che, nella Notte Santa, anzi, ogni notte della tua vita, egli trasloca dalla mangiatoia per venirti accanto e farsi scaldare da te. Tu, Franco, la stella cometa non la vedi perché non hai tempo per pensare a queste cose, e in testa hai ben altre stelle. E, allora, devo provocartene io la nostalgia, e dirti che le lampade dei ritrovi mondani dove consumi le tue notti e i tuoi soldi, non fanno luce sufficiente a dar senso alla tua vita.

Dire buon Natale a te, Katia, che il 26 andrai all'altare con Cosimo, è molto diverso che dire buon Natale a Rosaria, che il mese scorso ha firmato la separazione consensuale, dopo che Gigi se n'è andato con un'altra. Perché a te, Katia, basterà l'invito a vedere nel presepe la celebrazione nuziale suprema di Dio che prende in sposa l'umanità, e già ti sentirai coinvolta nel mistero dell'incarnazione. A te, Rosaria, invece, che per la prima volta le feste le passerai sola in casa, e che non hai voglia neppure di andare a pranzo dai tuoi, occorrerà tutta la mia discrezione per farti capire che non è molto dissimile il ripudio subito da Gesù nella notte santa. Buon Natale, Rosaria. E buon Natale anche a Gigi, perché, scorgendo nel bambino del presepe il mistero della fedeltà di Dio, torni presto a casa.

Dire buon Natale a te, carissimo Nicola, che mi sei tanto vicino con la tua amicizia ma anche tanto lontano con l'ateismo che professi, è molto diverso che dire buon Natale a te, don Donato, che le parole di santità, tu sei bravo a dirmele più di quanto io non sappia fare con te. Perché tu, don Donato, hai un cuore che trabocca di tenerezza, e quando parli del Verbo che scende sulla terra e diventa l'Emmanuele, cioè il Dio con noi, si vede che ci credi a quello che dici, e daresti la vita perché anche gli altri ponessero lo sguardo su quel pozzo di luce che rischia di accecare i tuoi occhi. Mentre tu, Nicola, davanti al presepe resti impassibile, e il bue e l'asino ti fanno sorridere, e l'incanto di quella notte ti sembra una fuga dalla realtà, e rassomigli tanto a qualcuno di quei pastori (qualcuno ci deve essere pur stato!) che, all'apparizione degli angeli, non si è neppure scomposto ed è rimasto a scaldarsi davanti al fuoco del suo scetticismo. Non voglio forzare la tua coscienza: ma sei proprio sicuro che, quel bambino non abbia nulla da dirti, e che questo mistero (che tu vorresti confinare tra le favole) di Dio fatto uomo per amore, sia completamente estraneo al tuo bisogno di felicità? Auguri, comunque, perché la tua irreprensibile onestà umana trovi nella culla di Betlemme la sua sorgente e il suo estuario.

Dire buon Natale a te, Corrado, che vivi nella casa di riposo, e la sera ti lasci cullare dalle nenie pastorali, e te ne vai sulle ali della fantasia ai tempi di quando eri bambino, e la tua anima brulica di ricordi più di quanto i tratturi del presepe non brulichino di percorelle, e pensi che questo sarà forse il tuo ultimo Natale, e ti raffiguri già il momento in cui Gesù lo contemplerai faccia a faccia con i tuoi occhi... è molto diverso che fare gli auguri a te, Antonietta, che hai vent'anni e tutti dicono che non sei più quella di una volta, e l'altro giorno mi hai confidato che non fai più parte del coro e che forse quest'anno non ti confesserai neppure. Buon Natale, Antonietta. Pregherò perché tu possa trovare cinque minuti per piangere da sola davanti alla culla, e in quel pianto tu possa sperimentare le stesse emozioni di quando la semplice carta stagnola del presepe ti faceva trasalire di felicità.

Un conto è dire buon Natale a te, Gianni, che stai in ospedale e oggi anche i medici se ne sono andati e tu non vedi l'ora che arrivi il momento delle visite per poter parlare con qualcuno, e un conto è dire buon Natale a te, Piero, che in carcere nessuno verrà a trovare dopo che ne hai combinate di tutti i colori perfino a tuo padre e a tua madre. Auguri a tutti e due, comunque, e ai vostri compagni di corsia o di cella: Gesù Cristo vi restituisca la salute del corpo e quella dello spirito.

Buon Natale a te, Carmela, che sei rimasta vedova. A te, Marina, che sei felice perché le cose vanno bene. A te, Michele, che ti disperi perché le cose vanno male. A te, Mussif, e a tutti i profughi albanesi che vivono insieme nella casa di accoglienza. A te, Sahid, che guardi alla televisioni gli spettacoli dell'Unicef sui bambini irakeni e slavi decimati dalla fame, e, per un'associazione di immagini non certo molto strana, pensi ai tuoi figli che hai lasciato in Tunisia.

Dopo che l'ho poggiata sull'altare, profumata d'incenso e grondante ancora di benedizioni divine, voglio dare la mano a tutti, sicuro che nessuno tirerà indietro la sua.

Perché a Natale, felice o triste che sia, fedele o miscredente, miserabile o miliardario, ognuno avverte, chi sa per quale mistero, che di quel bambino «avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia», una volta che l'ha conosciuto, non può più fare a meno.

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inserito il 19/02/2018

TESTO

5. Lettera d'amore di Dio per te   2

Aleteia

Figliolo mio,

forse non mi conosci, ma Io so tutto di te. So quando ti siedi e quando ti alzi, conosco ogni passo che fai e so il numero esatto dei capelli sulla tua testa, perché sei stato fatto a mia immagine. Ti ho conosciuto prima che tu nascessi, ti ho scelto quando ho pianificato la creazione, non sei stato un errore, perché ogni tuo giorno è già scritto nel mio Libro. Sei stato fatto in modo meraviglioso, Io ti ho formato nel ventre di tua madre e ti ho preso dal suo grembo il giorno in cui sei nato.

Chi non mi conosce mi ha presentato in modo sbagliato, non sono né lontano né arrabbiato, ma sono l'espressione perfetta dell'amore, manifestato in mio Figlio Gesù... ed è mio desiderio amarti, semplicemente perché sei stato creato per essere mio figlio e affinché Io sia tuo Padre.

Io sono colui che provvede ad ogni tua esigenza, il mio piano per il futuro è pieno di speranza. Perché ti amo di un amore eterno. I miei pensieri per te sono smisurati, sono come la sabbia del mare. Sono vicino a te per salvarti, in te mi rallegro e gioisco. Non smetterò mai di farti del bene: se ascolti la mia parola e la metti in pratica, sarai il mio tesoro speciale.

Voglio con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima che tu prosperi, desidero mostrarti cose grandi e meravigliose. Se mi cerchi con tutto il cuore mi incontrerai... Trova il tuo diletto in me e Io ti concederò i desideri del tuo cuore. Perché sono Io che suscito in te ciò che tu vuoi. Sono potente, e posso fare in te molto più di quanto tu immagini.

Sono il Padre che ti consola in tutte le tue tribolazioni, sono vicino a te quanto il tuo cuore è ferito. Vedo che a volte sei tanto lontano da me, e arrivo a temere di perderti per sempre. Ieri ti ho visto molto triste e avrei voluto privarti di questo dolore. Ho gridato ai quattro venti, ma non sei venuto a cercarmi. Ti ho visto parlare con i tuoi amici, ti ho visto mangiare fuori orario e ho camminato con te nella strada verso casa. Ho quasi visto con i tuoi occhi ciò che stavi guardando tu, ciò che ti ha provocato tanta nostalgia. Avrei voluto che tu mi prestassi ascolto. Ma non l'hai fatto, e quindi ho aspettato tutto il giorno.

Ti ho donato un bel tramonto a conclusione delle tue giornate, e una leggera brezza per permetterti di riposare meglio. Ti ho aspettato, dopo un giorno così frenetico, ma non sei mai venuto. La scorsa notte ti ho visto dormire e ti ho voluto toccare la fronte. Ti ho mandato dei raggi di luna dentro casa per vedere se ti fossi svegliato, ma hai continuato a dormire.

Ti parlo all'orecchio attraverso le foglie degli alberi e il profumo dei fiori, grido a te nei ruscelli di montagna, e attraverso gli uccelli canto il mio amore per te. Ti rivesto del calore del sole e profumo l'aria della natura con l'aroma della natura. Ascolto il silenzio dentro di te e provo a suscitare in te dei buoni desideri. Non sono lontano, sono nel tuo cuore. Regala uno sguardo d'amore a tutti coloro che ti circondano, e mi troverai, in ogni momento.

Oggi ho cercato qualcuno che mi prestasse le sue mani per scriverti, d'ora in poi scriverò direttamente nel tuo cuore. Se me lo permetti, devi solo dirmi ‘Sì'... So che è difficile vivere in questo mondo, lo è davvero, ma se confidi in me ti darò nuove forze. A partire da oggi. Parla con me, scarica i tuoi pesi e le tue ansie su di me. Ho sempre tempo per te, raccontami ogni cosa, piangi se vuoi, asciugherò ogni tua lacrima e accarezzerò il tuo volto.

Chiamami a qualsiasi ora del giorno o della notte, non dormo mai e ti risponderò sempre. Se tu riuscissi a guardare l'universo con amore, a vederti nello specchio con umiltà, a mostrare tenerezza a chi ti sorride, misericordia a chi ti chiede compassione e perdono a chi ti fa piangere... la mia voce diventerà il tuo pensiero.

Come il pastore guida le sue pecore, così io ti conduco vicino al mio cuore. Un giorno asciugherò ogni lacrima dai tuoi occhi ed eliminerò tutto il dolore che hai sofferto sulla terra. Ti amo tanto, al punto da aver mandato mio Figlio Gesù affinché tu abbia vita eterna. Perché in Gesù ho rivelato il mio Amore per te, Lui è la rappresentazione esatta del mio essere. È venuto per dimostrarti che Io sono dalla tua parte, non contro di te. È venuto per dirti che non ricorderò più dei tuoi peccati. Gesù è morto affinché tu possa riconciliarti con me, la Sua morte è stata la massima espressione del mio amore per te... Ho dato ogni cosa per avere il tuo amore...

Vieni a casa e celebra la festa più grande che il Cielo abbia mai visto... Sono sempre stato, e sempre sarò, tuo Padre. La domanda è: vuoi essere mio figlio? Sono con le braccia aperte, aspetto te. Devi soltanto ricevere mio Figlio Gesù nel tuo cuore.
Ti abbraccio e non me ne vado. Resto al tuo fianco. Ti amo!
Con affetto: tuo papà, Dio.

amore di DioDio padrepaternità di Diorapporto con Dio

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inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018

RACCONTO

6. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

RACCONTO

7. La corda della dignità   3

Don Luca Murdaca, https://ilbuongiorno.wordpress.com

C'era un bambino che tutti i giorni chiedeva un pezzo di pane al nonno, poi lo metteva in tasca e si inoltrava nella foresta per poi riapparire dopo una decina di minuti. Dopo un paio di settimane il nonno incuriosito segue il nipotino e lo vede fermarsi in un pozzo abbandonato, tirato fuori il pezzo di pane lo getta nel pozzo, rassicurando: «Torno domani non piangere». Il nonno si avvicina e vede in fondo al pozzo un bambino di un'altra tribù che piangendo continuava a dire nel suo dialetto: «Aiuto, ti prego, salvami». Allora il nonno si rivolge al nipotino dicendo: «Che bravo nipotino che ho, che si prende cura di un bambino affamato, ma se conoscessi il suo dialetto, sapresti che lui ogni giorno ti diceva: "Grazie fratellino per il pane, ma la prossima volta, ti prego, porta una corda per tirarmi su!"».

Alcune volte il pane che doniamo ai poveri non è sufficiente, alcune volte i poveri hanno bisogno di una corda, per tirarsi fuori da quel pozzo di povertà che li rende così tristi.
Ti prego Signore, illumina coloro che hanno la possibilità di fabbricare quelle corde per poter sollevare tanti fratelli caduti nel pozzo poco dignitoso della povertà.

povertàresponsabilitàamiciziaaiutosolidarietà

inviato da Don Luca Murdaca, inserito il 08/05/2017

TESTO

8. Le mani addosso

Marina Guarino, Vertigine, ed. Rupe Mutevole, 2010

Lo sento piangere e lamentarsi
in quel giardino dove gli ulivi
contorti e misteriosi
somigliano agli uomini:
attaccati tenacemente alla terra
piegati dalle avversità
eppure protesi nel loro slancio.

La volontà si assopisce subito
in Giacomo e Giovanni
il loro viso è nascosto dall'ombra
io guardo la casupola del torchio
lontana,
disegnata dalla luna.

Ascolto con angoscia
la sua voce rotta dalla paura
mentre prega il Padre
con quello stesso amore
che Lui conosce
dapprima che la luce fosse
di custodirci dai venti della perfidia
e sollevarci dalle onde di ogni tempesta.

Poi la stanchezza mi benda gli occhi
fin quando odo i passi frettolosi
di chi avrebbe messo le mani
addosso al Giusto.

passionevenerdì santoorto degli ulivi

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inviato da Marina Guarino, inserito il 22/03/2016

RACCONTO

9. Dio è come lo zucchero   7

Mancavano cinque minuti alle 16. Trenta bambini, tutti della quinta elementare, quel pomeriggio, erano eccezionalmente irrequieti, agitati, emozionati, chiassosi, rumorosi. Alle ore 16 in punto arrivò la maestra per iniziare l'esame scritto di catechismo: i promossi sarebbero stati ammessi alla prima comunione, esattamente una settimana dopo. Immediatamente un silenzio generale piombó nella sala dove erano seduti i bambini in attesa delle domande.

Prima domanda: "Chi mi sa dire con parole sue chi è Dio?", cominciò a dettare la maestra.
Seconda domanda: "Come fate a sapere che Dio esiste, se nessuno l'ha mai visto?".

Dopo venti minuti, tutti avevano consegnate le risposte. La maestra lesse ad una ad una le prime ventinove; erano piú o meno ripetizione di parole dette e ascoltate molte volte: "Dio è nostro Padre, ha fatto la terra, il mare e tutto ciò che esiste" Le risposte erano esatte, per cui si erano guadagnati la promozione alla Prima Comunione.

Poi chiamò Ernestino, un piccolo vispo bambino biondo, lo fece avvicinare al suo tavolo e gli consegnò il suo foglietto, dicendogli di leggerlo ad alta voce davanti a tutti i suoi compagni. Ernestino, temendo una pesante umiliazione davanti a tutta la classe, con la conseguente bocciatura, cominciò a piangere. La maestra lo rassicurò e lo incoraggiò. Singhiozzando Ernestino lesse:

"Dio è come lo zucchero che la mamma ogni mattina scioglie nel latte per prepararmi la colazione. Io non vedo lo zucchero nella tazza, ma se la mamma non lo mette, ne sento subito la mancanza. Ecco, Dio è così, anche se non lo vediamo. Se lui non c'è la nostra vita è amara, è senza gusto".

Un applauso forte riempì l'aula e la maestra ringraziò Ernestino per la risposta così originale, semplice e vera. Poi completò: "Vedete bambini, ciò che ci fa saggi non è il sapere molte cose, ma l'essere convinti che Dio fa parte della nostra vita".

Se la nostra vita è amara, forse è perché manca lo zucchero...

rapporto con Diopreghierainterioritàfede

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inviato da Qumran2, inserito il 08/02/2016

TESTO

10. La famiglia ferita

Papa Francesco, Udienza generale, Mercoledì 24 giugno 2015

Nella famiglia, tutto è legato assieme: quando la sua anima è ferita in qualche punto, l'infezione contagia tutti. E quando un uomo e una donna, che si sono impegnati ad essere "una sola carne" e a formare una famiglia, pensano ossessivamente alle proprie esigenze di libertà e di gratificazione, questa distorsione intacca profondamente il cuore e la vita dei figli. Tante volte i bambini si nascondono per piangere da soli... Dobbiamo capire bene questo. Marito e moglie sono una sola carne. Ma le loro creature sono carne della loro carne.

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inviato da Paola Berrettini, inserito il 03/02/2016

PREGHIERA

11. Preghiera di Papa Francesco per il Giubileo della misericordia   3

Papa Francesco, Giubileo dedicato alla Misericordia (8/12/2015 - 20/12/2016)

Signore Gesù Cristo,
tu ci hai insegnato a essere misericordiosi come il Padre celeste,
e ci hai detto che chi vede te vede lui.
Mostraci il tuo volto e saremo salvi.

Il tuo sguardo pieno di amore liberò Zaccheo e Matteo dalla schiavitù del denaro;
l'adultera e la Maddalena dal porre la felicità solo in una creatura;
fece piangere Pietro dopo il tradimento,
e assicurò il Paradiso al ladrone pentito.
Fa' che ognuno di noi ascolti come rivolta a sé la parola che dicesti alla samaritana:
Se tu conoscessi il dono di Dio!

Tu sei il volto visibile del Padre invisibile,
del Dio che manifesta la sua onnipotenza soprattutto con il perdono e la misericordia:
fa' che la Chiesa sia nel mondo il volto visibile di te, suo Signore, risorto e nella gloria.
Hai voluto che i tuoi ministri fossero anch'essi rivestiti di debolezza
per sentire giusta compassione per quelli che sono nel l'ignoranza
e nell'errore; fa' che chiunque si accosti a uno di loro si senta atteso, amato e perdonato da Dio.

Manda il tuo Spirito e consacraci tutti con la sua unzione
perché il Giubileo della Misericordia sia un anno di grazia del Signore
e la sua Chiesa con rinnovato entusiasmo possa portare ai poveri il lieto messaggio, proclamare ai prigionieri e agli oppressi la libertà e ai ciechi restituire la vista.

Lo chiediamo per intercessione di Maria Madre della Misericordia
a te che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.

Clicca qui per la preghiera, con immagine, da stampare.

misericordiaperdonomisericordia di Dio

5.0/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 17/06/2015

TESTO

12. A coloro che non trovano pace

Tonino Bello

Carissimi,

l'idea di rivolgermi a voi mi è venuta stasera quando, recitando i vespri, ho trovato questa invocazione: «Metti, Signore, una salutare inquietudine in coloro che si sono allontanati da te, per colpa propria o per gli scandali altrui».

Per prima cosa mi son chiesto se, nel numero delle mie conoscenze, ci fosse qualcuno che poteva essere raggiunto da questa preghiera.

E mi sono ricordato dite, Giampiero, che, dopo essere passato per tutta la trafila dei gruppi giovanili della parrocchia, un giorno te ne sei andato e non ti sei fatto più vedere.

L'altra sera ti ho incontrato per caso. Pioveva. Eri fermo sul marciapiede e ti ho dato un passaggio. In macchina mi hai chiesto con sufficienza se durante la quaresima continuavo a predicare le «solite chiacchiere» ai giovani, riuniti in cattedrale. Ci son rimasto male, perché mi hai detto chiaro e tondo che tu ormai a quelle cose non ci credevi più da un pezzo, e che al politecnico stavi trovando risposte più utili di quelle che ti davano i preti.

Mi hai raccontato che a Torino hai conosciuto Gigi, ex seminarista e mio alunno di ginnasio, il quale ti parla spesso di me. Ho notato che avevi una punta d'ironia e sembrava che ti divertissi quando hai aggiunto che ora sta con una ragazza, bestemmia come un turco, e fuma lo spinello.

Quando all'improvviso ti ho chiesto se eri felice, mi hai risposto che ne avremmo parlato un'altra volta, perché dovevi scendere e poi era troppo tardi.

Addio, Giampiero! L'invocazione del breviario stasera la rivolgo al Signore per te. E per Gigi. E la rivolgo anche per te, Maria, che ti sei allontanata senza una plausibile ragione. Facevi parte del coro. Ora a messa non ci vai nemmeno a Pasqua. Tu dici che hai visto troppe cose storte anche in chiesa, e che non ti aspettavi certe pugnalate alle spalle proprio da coloro che credono in Dio. Non so che cosa ti sia successo di preciso. Ma l'altro giorno, quando sei venuta da me per implorare un ricovero urgente al Gemelli a favore del tuo bambino che sta male, e io ti ho esortata ad aver fiducia in Dio, e tu sei scoppiata a piangere dicendomi che in Dio non ci credi più... mi è parso di leggere in quelle lacrime, oltre alla paura di poter perdere il figlio, anche l'amarezza di aver perduto il Padre.

Non temere, Maria. Pregherò io per il tuo bambino, perché guarisca presto. Ma anche per te, perché il Signore ti metta nel cuore una salutare inquietudine.

Vedo che non afferri il senso di una preghiera del genere. Di inquietudini nei hai già tante e non è proprio il caso che mi metta anch'io ad aumentartene la dose. Tu sai bene, però, che in fondo io imploro la tua pace. Ecco, infatti, come il breviario prolunga l'invocazione su coloro che si sono allontanati da Dio: «Fa' che ritornino a te e rimangano sempre nel tuo amore».

E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po' per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.

Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell'inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt'altro che rara la coesistenza di Dio con l'insoddisfazione cronica dello spirito.

Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell'irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l'avrei anch'io da confidarvelo.

A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un'altra piega all'esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l'anima ce l'avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c'è bicchiere d'acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.

A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.
Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.

Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.

O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.

Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola: «O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

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inviato da Francesco De Luca, inserito il 16/06/2015

RACCONTO

13. La morte del pessimismo

Leggenda araba

C'era una volta un vecchio, così vecchio che non ricordava neppure di essere stato giovane. E forse non lo era mai stato. In tutto il tempo che era stato in vita, ancora non aveva imparato a vivere. E, non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.

Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere. Nulla esisteva al mondo che potesse addolorarlo e stupirlo. Trascorreva i suoi giorni inoperosi sulla soglia della sua capanna, guardando con occhi indifferenti il cielo, quello zaffiro immenso che Allah pulisce ogni giorno con la soffice bambagia delle nuvole. A volte qualcuno si fermava ad interrogarlo. Così carico d'anni qual era, la gente lo credeva molto saggio e cercava di trarre qualche consiglio dalla sua secolare esperienza.

«Che cosa dobbiamo fare per conquistare la gioia?» gli chiedevano i giovani. «La gioia è un'invenzione degli stolti», rispondeva lui.

Passavano uomini dall'animo nobile, apostoli bramosi di rendersi utili: «In che modo possiamo sacrificarci, per giovare ai nostri fratelli?» gli domandavano. «Chi si sacrifica per l'umanità è un pazzo», rispondeva il vecchio con un ghigno sinistro.

«Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?», domandavano i padri e le madri. «I figli sono serpi», rispondeva il vecchio. «Da essi non ci si può aspettare che morsi velenosi».

Anche gli artisti e i poeti, nella loro ingenuità, si recavano talvolta a consultare quell'uomo. «Insegnaci ad esprimere quell'anelito che abbiamo nel cuore!», gli dicevano. «Fareste meglio a tacere», sogghignava il vegliardo.

Le convinzioni malvagie di colui che non sapeva né vivere né morire, poco a poco si diffondevano nel mondo. L'Amore, la Bontà, la Poesia, investiti dal ventaccio del Pessimismo (poiché tale era il nome del Vecchio), si appannavano e inaridivano. L'esistenza umana veniva sommersa in una gora di stagnante malinconia.

Alla fine Allah si rese conto dello sfacelo che il Pessimismo operava nel mondo, e decise di porvi riparo. «Poveretto», pensò, «scommetto che nessuno gli ha mai dato un bacio». Chiamò un bambino e gli disse: «Va' a dare un bacio a quel povero vecchio».

Subito il bambino obbedì: mise le braccia intorno al collo del vecchio e gli scoccò un bacio sulla faccia rugosa. Il vegliardo fu molto stupito - lui che non si stupiva di niente. Difatti, nessuno mai gli aveva dato un bacio. E così il Pessimismo aperse gli occhi alla vita, e morì sorridendo al bambino che lo aveva baciato.

pessimismoottimismofiduciasorrisotenerezza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015

PREGHIERA

14. Signore, riconciliami con me stesso   7

Signore, riconciliami con me stesso.
Come potrei incontrare e amare gli altri
se non mi incontro e non mi amo più?

Signore, tu che mi ami cosi come sono
e non come mi sogno,
aiutami ad accettare la mia condizione di uomo,
limitato ma chiamato a superarsi.

Insegnami a vivere con le mie ombre e le mie luci,
con le mie dolcezze e le mie collere,
i miei sorrisi e le mie lacrime,
il mio, passato e il mio presente.

Fa' che mi accolga come tu m'accogli,
che mi ami come tu mi ami.
Liberami dalla perfezione che mi voglio dare,
aprimi alla santità che vuoi accordarmi.

Risparmiami i rimorsi di chi
rientra in se stesso per non uscirne più,
spaventato e disperato di fronte al peccato.

Accordami il pentimento
che incontra il silenzio del tuo sguardo
pieno di tenerezza e di pietà.

E se devo piangere,
non sia su me stesso
ma sull'amore offeso.

La tua tenerezza
mi faccia esistere ai miei stessi occhi!
Spalanca la porta della mia prigione
che io stesso chiudo a chiave!

Dammi il coraggio di uscire da me stesso.
Dimmi che tutto è possibile per chi crede.
Dimmi che posso ancora guarire,
nella luce del tuo sguardo e della tua parola.

accettazione di séperdonomisericordiaaccettazioneamore di Dio

4.3/5 (6 voti)

inviato da Qumran, inserito il 05/05/2015

TESTO

15. Povero fratello Giuda   3

Primo Mazzolari, Bozzolo, Giovedì Santo 1958

Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell'anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore.

Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po' di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: "Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo!" Amico! Questa parola che vi dice l'infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa anche capire perché io l'ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l'amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore...

Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda...

Io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l'ultimo momento, ricordando quella parola e l'accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni...

speranzaperdonoconversionepeccatomisericordiarapporto con Diotradimentodisperazionegiovedì santo

4.6/5 (5 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 21/06/2014

RACCONTO

16. Il flauto del pastore   5

C'era una volta un vecchio pastore, che amava la notte e conosceva bene il percorso degli astri. Appoggiato al suo bastone, con lo sguardo rivolto verso le stelle, il pastore stava immobile sul campo.
"Egli verrà!" disse.
"Quando verrà?" chiese il suo nipotino.
"Presto!".
Gli altri pastori risero.
"Presto!", lo schernirono. "Lo dici da tanti anni!".

Il vecchio non si curò del loro scherno. Soltanto il dubbio che vide sorgere negli occhi del nipote lo rattristò. Quando fosse morto, chi altri avrebbe riferito la predizione del profeta? Se lui fosse venuto presto! Il suo cuore era pieno di attesa.

"Porterà una corona d'oro?". La domanda del nipote interruppe i suoi pensieri. "Sì!".
"E una spada d'argento?". "Sì!".
"E un mantello purpureo?". "Sì! Sì!".

Il nipotino era contento. Il ragazzo era seduto su un masso e suonava il suo flauto. Il vecchio stava ad ascoltare. Il ragazzo suonava sempre meglio, la sua musica era sempre più pura. Si esercitava al mattino e alla sera, giorno dopo giorno. Voleva essere pronto per quando fosse venuto il re. Nessuno sapeva suonare come lui.

"Suoneresti anche per un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo?", chiese il vecchio.
"No!", disse il nipote.

Un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, come avrebbe potuto ricompensarlo per la sua musica? Non certo con oro e argento! Un re con corona, con spada e mantello purpureo l'avrebbe fatto ricco e gli altri sarebbero rimasti a bocca aperta, l'avrebbero invidiato.

Il vecchio pastore era triste. Ahimé, perché aveva promesso al nipote ciò a cui egli stesso non credeva? Come sarebbe venuto? Su nuvole dal cielo? Dall'eternità? Sarebbe stato un bambino? Povero o ricco? Di certo senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, e tuttavia sarebbe stato più potente di tutti gli altri re. Come poteva farlo capire al suo nipotino?

Una notte in cielo comparvero i segni che il nonno così a lungo aveva cercato con gli occhi. Le stelle splendevano più chiare del solito. Sopra la città di Betlemme c'era una grande stella. E poi apparvero gli angeli e dissero: "Non abbiate paura! Oggi è nato il vostro Salvatore!".

Il ragazzo corse avanti, verso la luce. Sotto il mantello sentiva il flauto sul suo petto. Corse più in fretta che poteva. Arrivò per primo e guardò fisso il bambino, che stava in una greppia ed era avvolto in fasce. Un uomo e una donna lo contemplavano lieti. Gli altri pastori, che l'avevano raggiunto, si misero in ginocchio davanti al bambino. Il nonno lo adorava. Era dunque questo il re che gli aveva promesso?
No, doveva esserci un errore. Non avrebbe mai suonato qui.

Si voltò deluso, pieno di dispetto. Si allontanò nella notte. Non vide né l'immensità del cielo, né gli angeli che fluttuavano sopra la stalla.

Ma poi sentì piangere il bambino. Non voleva sentirlo. Si tappò le orecchie e corse via. Ma quel pianto lo perseguitava, gli toccava il cuore e infine lo costrinse a tornare verso la greppia.
Eccolo là, per la seconda volta.

Vide che Maria, Giuseppe e anche i pastori erano spaventati e cercavano di consolare il bambino piangente. Ma tutto era inutile. Che cosa poteva avere il bimbo?

Non c'era altro da fare. Tirò fuori il suo flauto da sotto il mantello e si mise a suonare. Il bambino si quietò subito. Si spense anche l'ultimo, piccolo singhiozzo che aveva in gola. Guardò il ragazzo e gli sorrise.

Allora egli si rallegrò, e sentì che quel sorriso lo arricchiva più di tutto l'oro e l'argento del mondo.

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inviato da Qumran2, inserito il 18/03/2013

RACCONTO

17. Le tre case   2

Bingo davvero, ed. Paoline

C'era una volta un uomo piccolo come la punta di un ago. Anzi, più piccolo ancora. Era piccolo, ma aveva una voglia matta di crescere! Pensa: dopo appena 15 giorni da quando aveva incominciato a vivere, era già 125 mila volte più grande. Incredibile!! Eppure proprio vero.

L'uomo abitava in una strana casa che girava per la città, correva, si piegava fino a terra; di notte, poi, si coricava e al mattino si alzava. La casa era interessante e tiepida, ma aveva un grande difetto: era tutta buia come un sacco chiuso. Là dentro non si poteva vedere niente: né formiche, né cavalli, né automobili.

"Basta, disse finalmente un giorno l'uomo, dopo nove mesi; basta: voglio uscire, voglio uscire...". Si mise a spingere...ed eccolo fuori! "Oh, finalmente posso correre, giocare, fare il bagno, nuotare...Altro che la casa di prima! Questa sì che è stupenda: qui c'è il sole, ci sono le piante, i fiori, la neve...".

Per ottant'anni l'uomo, tutte le mattine, alzava le braccia e diceva: "Che bella questa terra!". Era felice e contento. Però un giorno incominciò a diventare triste.

Vedeva che il sole tramontava e veniva la notte; le piante perdevano le foglie e diventavano brutte; i fiori diventavano fieno e la neve, fango. Allora si mise a sognare un'altra casa dove vi fossero tanti alberi verdi, i fiori rossi, la neve bianca e il sole splendente. Mentre pensava, morì. Tutti si misero a piangere..

Lui, invece, rideva! Vien da non credere, eppure lui rideva, rideva...

Sfido io! Appena morto, gli si spalancarono le porte di una casa dove c'erano cose che non ti puoi immaginare. Un Papà buono - un vero Amore! - lo abbracciò; una Mamma bella - una vera meraviglia! - lo baciò. Lo baciò e lo prese per mano: "Vieni a giocare con noi! Vedi, qui tutto è nuovo: la terra è nuova, le stelle sono nuove. Vieni!".

L'uomo non capiva più niente. "Ma non sono morto, io?". "No, no, gli gridarono milioni e milioni di voci: sei vivo, vivo per sempre!". Pazzo di gioia, l'uomo si mise a correre, a far capriole nei prati che non finivano mai, in mezzo ai fiori che non appassivano mai. "Qui son proprio a casa mia - gridava - a casa mia!".

Così finisce la storia delle tre case. Storia vera: storia mia e storia tua. Storia di tutti gli uomini che camminano su questa terra e, di tanto in tanto, guardano al cielo dove invece di piangere, tutti sono nella gioia accanto a Gesù, Maria e tutti i santi.

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inviato da Milena Pavan, inserito il 21/09/2012

TESTO

18. Non sono gran cosa   3

Jorge Luis Borges

Non posso darti soluzioni per tutti i problemi della vita. Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori.
Posso, però ascoltarli e dividerli con te.
Non posso cambiare né il tuo passato né il tuo futuro; però, quando serve sarò vicino a te.
Non posso cancellare la tua sofferenza; posso, però, piangere con te.
Non sono gran cosa, però sono tutto quello che posso essere.

amiciziacondivisionevicinanza

4.0/5 (4 voti)

inviato da Giacinta Gariboldi, inserito il 20/09/2012

PREGHIERA

19. Mio Dio eccomi   1

Antonietta Milella

Mio Dio eccomi.

Signore, quanto vorrei poterti dire così, quanto vorrei potermi fidare di te al punto da presentarmi davanti a te così come sono, senza preparare le parole, senza pensare a come sono vestita, senza timore di non essere accettata.

Come vorrei, Signore, buttarmi nelle tue braccia con gli occhi chiusi, fare il grande salto, superare le acque che sotto si muovono e rumoreggiano ostili, incurante dell'abisso che ci separa, senza paura di essere risucchiata dai gorghi di morte, senza ali che mi sollevino in alto.

Come vorrei Signore potermi affidare completamente a te al punto da dimenticare la distanza e il vuoto che si apre davanti ai miei occhi.

Sono, Signore, ancora tutta impastata di paura, di pregiudizi, di dubbi, sono ancora troppo preoccupata di me e di ciò che tu potresti dire, fare o pensare.

Signore mio Dio, eccomi davanti a te, questa mattina: i miei vestiti li vedi, sono quelli di cui non ancora riesco a fare a meno, il mio cuore non ancora si apre stabilmente al tuo amore, le braccia sono contratte, incapaci ti tendersi verso di te, la mente non riesce ancora a farsi da parte perché il desiderio di studiarti, capirti possederti è troppo grande.

Signore mio Dio eccomi con tutte le imperfezioni di cui sono piena, eccomi con tutte le contraddizioni che mi porto addosso, mio Dio eccomi con la mia incapacità di vivere la fede in modo semplice e sereno, mio Dio eccomi anche se non riesco a ritornare bambina, non riesco a ridiventare piccola come quelli a cui hai promesso il regno dei cieli..

Mio Dio eccomi ancora tanto attaccata alla terra, a questa sponda del mare, così tanto timorosa di prendere il largo, abbandonando le reti a terra, le mie sicurezze, lasciando la barca con cui sono abituata ad andare a pescare da sola, a prendere pesci destinati ad imbandire una mensa alla quale spesso dimentico d'invitarti.

Mio Dio eccomi, con lo sguardo perso nel vuoto, rivolto al mare che tu mi inviti ad attraversare, a solcare con la tua barca, incominciando il cammino a piedi nudi, camminando sull'acqua, che pure si muove e mi ricorda l'insidia che si cela sotto di essa.

Mio Dio eccomi, con la paura a procedere ferma e salda sulla strada che tu mi indichi.

Ti vedo allargare le braccia, ti vedo guardarmi negli occhi, con amore, con autorevolezza.

Mio Dio eccomi: Dio di amore, di misericordia, di giustizia, Dio padre e madre, Dio di tenerezza, Dio di compassione, Dio buono, Dio che mi stai aspettando, perché smetta di piangere e di avere paura.
Mio Dio eccomi

affidamentofedefiduciarapporto con Diopauracoraggiolimiti

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inviato da Antonietta Milella, inserito il 20/09/2012

TESTO

20. La gioia e il dolore   1

Kahlil Gibran, Il profeta

Allora una donna chiese: Parlaci della Gioia e del dolore.

Ed egli rispose: La vostra gioia è il dolore stesso senza maschera. E la fonte stessa dalla quale scaturisce il vostro riso, è stata spesso piena di lacrime. E come potrebbe essere diversamente? Quanto più a fondo scava il dolore nel vostro essere, tanta più gioia potrete contenere. Quando siete felici, guardate in fondo al vostro cuore e scoprirete che è solo quello che vi ha procurato dolore a darvi gioia. Quando siete tristi, guardate ancora dentro di voi e scoprirete di piangere per quella che è stata la vostra gioia. Alcuni dicono: "La gioia è più grande del dolore", altri dicono: "No, è più grande il dolore". Ma io vi dico che sono inseparabili. In verità siete bilance che oscillano tra il dolore e la gioia. Soltanto quando siete vuoti, state fermi in equilibrio.

gioiadoloresofferenzafelicitàequilibrio

4.7/5 (3 voti)

inviato da Roberto Verrani, inserito il 20/09/2012

PREGHIERA

21. Angelus

Paul Claudel

E' mezzogiorno. Vedo la chiesa aperta. Bisogna entrare.
Madre di Gesù Cristo, io non vengo a pregare.
Non ho nulla da offrire e niente da chiedere.
Vengo solamente, o Mamma, a guardarti.
Guardarti, piangere di felicità, sapere
che sono tuo figlio e che tu sei là.
Non dire nulla, guardare il tuo viso
e lasciar cantare il cuore col suo linguaggio.
Perché tu sei bella, perché tu sei immacolata,
la creatura come uscita da Dio
al mattino del suo splendore originale
perché tu sei la madre di Gesù Cristo,
che è la verità nelle tue braccia.

mariamadonnaangelus

inviato da Qumran2, inserito il 31/05/2012

TESTO

22. Non piangere, o Madre

Non piangere per me, o Madre, vedendo nella tomba
il Figlio che senza seme hai concepito in grembo:
perché io risorgerò e sarò glorificato e,
poiché io sono Dio, incessantemente innalzerò nella gloria
coloro che con fede e amore magnificano te.

Per mio volere la terra mi ricopre,
ma tremano i custodi dell'ade
vedendomi avvolto, o Madre, nella veste insanguinata della vendetta:
perché io, Dio, ho abbattuto i nemici della croce
e di nuovo risorgerò e ti magnificherò.

Esulti il creato, si rallegrino gli abitanti della terra:
è stato spogliato, l'ade, il nemico!
Vengano avanti le donne con gli aromi:
io libero Adamo insieme a Eva e a tutta la loro stirpe
e il terzo giorno risusciterò

All'ora della nascita straordinaria
del tuo Figlio che non ha principio,
hai sfuggito le doglie in beatitudine soprannaturale;
ma ora, vedendo morto il tuo Dio, senza respiro,
sei orribilmente straziata dal dolore.
Risorgi dunque, Signore vittorioso, perché tua Madre sia magnificata.
Amen.

sabato santomadre di Diomaria

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 08/04/2012

PREGHIERA

23. Popolo di perdonati   2

Don Angelo Saporiti

Signore Gesù,
spesso mi sono chiesto che razza di Chiesa è la tua?
Davanti a tanta gente che viene in chiesa solo per farsi vedere,
o per abitudine, o per sentirsi a posto con la coscienza,
malignando e spettegolando sugli altri
qualche volta ho pensato anche io come tanti:
basta, me ne vado, non vengo più,
meglio credere solo in Dio, ma non nella Chiesa.
E non mi accorgevo che ragionando in questo modo,
stavo anche io giudicando, stavo lanciando pietre contro altri tuoi figli,
stavo uccidendo i miei fratelli e le mie sorelle.
Ma tu, Signore, nella tua bontà
hai fermato la mia mano.
Ogni volta che giudicavo, ogni volta che pensavo di andarmene,
tu, Signore, mi hai sempre messo davanti i miei sbagli,
le mie falsità, le mie imperfezioni, i miei tradimenti,
la mia fede fragile, il mio peccato quotidiano...
Ti prego, Signore,
fa' che ogni volta che vorrei lanciare una pietra contro la Chiesa
o contro qualcuno della mia comunità,
fammi capire che la tua Chiesa
è un popolo di perdonati, non di giusti o di perfetti.
Fammi capire che la Chiesa
non è un tribunale,
ma una casa abitata da gente perdonata.
Fammi capire, Signore,
che tu non vuoi una Chiesa di ghiaccio,
ma una Chiesa con un cuore caldo
capace di accogliere senza ferire,
di amare senza pretendere,
di perdonare senza rinfacciare,
di dire la verità senza far piangere.
Questa è la Chiesa che tu vuoi
e che anche io
ogni giorno mi impegnerò a costruire
con il tuo aiuto e la tua grazia.
Amen.

chiesaperdonogiudiziocomunitàpopolo di Dio

5.0/5 (3 voti)

inviato da Don Angelo Saporiti, inserito il 07/04/2012

PREGHIERA

24. Preghiera per la morte di un amico   3

È facile, Signore, pensare alla tua croce
e commuoverci appena,
guardando un film il venerdì santo.
È la tua morte, Signore.
È facile pregare Maria, tua madre,
immaginandola anche sotto la croce.
Era il suo dolore.
È facile, Signore, esultare di gioia
nella notte di Pasqua.
Quella è la tua resurrezione.
Ma quando si tratta di un figlio,
un fratello, un amico,
tutto, improvvisamente, diventa difficile
e cerchiamo un senso ed una risposta
che non possiamo trovare.
Quanto è piccola e fragile la nostra fede!
Questa è la nostra preghiera oggi:
rendi vera e forte la nostra fede;
aiutaci ad accogliere i tuoi progetti,
anche quando sono umanamente incomprensibili,
con la certezza che ogni cosa in te
ha un significato.
Aiutaci a piangere, ma con speranza,
e a cantare la tua resurrezione
non con le parole,
ma con la nostra vita.

mortefedevita eternacrocevenerdì santoluttosperanza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Flavia Facchini, inserito il 22/01/2012

RACCONTO

25. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

amoresacrificiodonazionedonareamicizia

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

TESTO

26. La preghiera

S. Giovanni Maria Vianney, Omelia per la V Domenica dopo Pasqua

Per mostrarvi il potere della preghiera e le grazie che essa vi attira dal cielo, vi dirò che è soltanto con la preghiera che tutti i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che la pioggia è per la terra. Concimate una terra quanto volete, se manca la pioggia, tutto ciò che farete non servirà a nulla. Così, fate opere buone quanto volete, se non pregate spesso e come si deve, non sarete mai salvati; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di fare ricorso a Dio; le fa temere la sua debolezza.

Il cristiano conta per tutto su Dio solo, e niente su se stesso. Sì, è per mezzo della preghiera che tutti i giusti hanno perseverato. Del resto, ci accorgiamo noi stessi che appena trascuriamo le nostre preghiere, perdiamo subito il gusto delle cose del cielo: pensiamo solo alla terra; e se riprendiamola preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero e il desiderio delle cose del cielo. Sì, se abbiamo la fortuna di essere nella grazia di Dio, o faremo ricorso alla preghiera, o saremo certi di non perseverare per molto tempo nella via del cielo.

In secondo luogo, diciamo che tutti i peccatori debbono, senza un miracolo straordinario che accade rarissimamente, la loro conversione soltanto alla preghiera. Vedete santa Monica, ciò che fa per chiedere la conversione di suo figlio: ora essa è al piede del suo crocifisso a pregare e piangere; ora si trova presso persone che sono sagge, per chiedere il soccorso delle loro preghiere. Guardate lo stesso sant'Agostino, quando volle seriamente convertirsi... Si, per quanto fossimo peccatori, se avessimo fatto ricorso alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che il buon Dio ci perdonerebbe.

Ah!, fratelli miei, non meravigliamoci del fatto che il demonio fa tutto ciò che può per farci tralasciare le nostre preghiere, e farcele dire male; è che capisce molto meglio di noi quanto la preghiera è temibile nell'inferno, e che è impossibile che il buon Dio possa rifiutarci ciò che gli chiediamo per mezzo della preghiera...

Non sono né le lunghe né le belle preghiere che il buon Dio guarda, ma quelle che si fanno dal profondo del cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Dio. Eccovene un bell'esempio. Viene riferito nella vita di san Bonaventura, grande dottore della Chiesa, che un religioso assai semplice gli dice: «Padre, io che sono poco istruito, lei pensa che posso pregare il buon Dio e amarlo?».

San Bonaventura gli dice: «Ah, amico, sono questi principalmente che il buon Dio ama di più e che gli sono più graditi». Questo buon religioso, tutto meravigliato da una notizia così buona, va a mettersi alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: «Venite, amici, ho una buona notizia da darvi; il dottore Bonaventura m'ha detto che noi altri, anche se ignoranti, possiamo amare il buon Dio quanto i dotti. Quale felicità per noi poter amare il buon Dio e piacergli, senza sapere niente!».

Da questo, vi dirò che non c'è niente di più facile che il pregare il buon Dio, e che non c'è nulla di più consolante.

Diciamo che la preghiera è una elevazione del nostro cuore verso Dio. Diciamo meglio, è il dolce colloquio di un bambino con il padre suo, di un suddito con il suo re, di un servo con il suo padrone, di un amico con il suo amico, nel cui cuore depone i suoi dispiaceri e le sue pene.

preghierarapporto con Dioconversionecrescita interiore

inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney, Roma, inserito il 10/03/2011

PREGHIERA

27. Preghiera dell'infermiere   1

O Signore Dio, Padre e Madre di chi spera in te, in punta di piedi sono entrato in questa cappella ed ho rotto il tuo silenzio per affidare a te la mia missione di infermiere.

Il mio è un compito di grande responsabilità e per questo ti ringrazio! Ogni giorno il dono prezioso della vita passa per le mie mani, perché io lo custodisca e me ne prenda cura in ragione delle mie capacità, confidando nella tua carezza e nel tuo conforto, quando la sfida diventa cosa troppo ardua.

Fra le tue mani voglio deporre ognuna di quelle vite che mi sono affidate, ogni mio paziente, perché il tuo conforto tenga uniti me e loro in un solo unico abbraccio.

Lascia che sia il tuo sorriso a riempire le mie giornate, a fare così di me immagine lieta della tua grazia e della tua bontà!

Fa' che sia la forza della tua compassione a guidare le mie mani tutte quelle volte in cui l'impotenza davanti alla malattia rischia di bloccare le mie azioni; ogni volta che ho bisogno di sentire tutta la tenerezza di un Padre per prendermi cura delle piaghe di un figlio, del dolore di un fratello; per ciascuna di quelle circostanze in cui sarebbe cosa più facile abbandonarsi alle lacrime o voltare le spalle! Lascia che il mio cuore senta ogni giorno più forte la ricchezza dell'unico e vero amore...il tuo!

Concedimi quel vigore speciale che viene dalla mitezza e dalla serenità, perché con umiltà e pazienza, sia sempre pronto a rispondere ad ogni campanello che squilla... con solerzia, disponibilità e volto lieto! Rendi celere ogni mia azione, anche nelle più piccole mansioni, anche di fronte ad un paziente ansioso e petulante. Lascia che io possa comprendere la difficoltà e la paura di chi si affida alle mie mani, perché non dell'ansia o della petulanza io mi sappia preoccupare ma del disagio e della fragilità di una persona da cui spesso queste provengono!

Fa' di me il più docile strumento della tua tenerezza per chi, anziano, debole, povero e solo, incrocia i miei passi lungo la corsia.

Fa' che io sia un valido collaboratore per ognuno dei miei colleghi!

Lascia che i miei occhi sappiano scorgere, con gioia, i lineamenti del volto di Cristo sofferente in ogni ammalato che viene affidato alle mie cure!

Lascia che le mie braccia si confondano con le tue ogni volta che il dolore di chi soffre ha bisogno di trovare sul tuo petto un porto sicuro, un luogo di dolcezza nel quale rifugiarsi anche soltanto per piangere o per affidare al silenzio la tenerezza di una preghiera.

Anche nelle giornate più confuse, lascia che ognuno dei miei pazienti possa scorgere in me l'immagine di una mano tesa: sarà la tua mano che guiderà la mia a farsi consolazione per tutti coloro che si sentono abbandonati.

Allo stesso modo ti prego di rendermi capace di trovare sempre in te la forza per essere dolce e comprensivo verso tutti i parenti ansiosi e preoccupati per i loro cari! Le mie parole siano cariche, per ognuno, della tua bontà e della tua grazia! Fa' di me valido strumento della tua empatia, perché io non sia capace solo di "sentire", ma soprattutto di "ascoltare" tutti con attenzione e premura.

Voglio essere un infermiere che sappia farsi samaritano per tutti quelli che incontra nel suo reparto! Per questo vorrei possedere soltanto due armi: la luce del tuo sorriso e la forza della tua costante, silenziosa e discreta presenza al mio fianco.

E mi affido a Maria, donna di compassione e di amore! Che lei mi prenda per mano nel mio servizio e mi conduca nel sentiero della sofferenza con la gioia infinita nel cuore. Amen

saluteservizioinfermiere

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inviato da Don Gianni Mattia, inserito il 19/02/2011

TESTO

28. La voce di Dio   1

Cristina Carmagnola

Ho sentito Dio che gorgogliava,
in un limpido ruscelletto nel bosco.
Ho sentito Dio che pigolava,
come un piccolo pulcino giallo affamato.
Ho sentito Dio che rideva,
come ride un bimbo che vede una farfalla colorata.
Ho sentito Dio che russava,
nell'operaio stanco, ma soddisfatto del suo lavoro.
Ho sentito Dio che cantava,
come una mamma canta una dolce ninnananna.
Ma l'ho sentito piangere,
con le lacrime di un popolo distrutto dalla guerra.
L'ho sentito gridare "Papà, aiuto!!",
sulle labbra arse di un bimbo inseguito dai soldati.
E l'ho sentito disperato,
nei richiami speranzosi di un papà che cerca il suo bambino.
Ho sentito Dio tuonare forte,
come il cuore di coloro che scappano e si nascondono,
e come il temporale, che cela il loro pianto.
Ho sentito Dio chiedere "Perché?",
con la voce stanca e spenta di un uomo privato di tutto,
anche della libertà.
L'ho sentito stupirsi,
in un bambino che si accorge con tristezza infinita che,
dove c'è ciò che si legge nelle ultime frasi,
le prime non troveranno mai posto.
Spero, un giorno, di sentirlo dire "basta!",
nella mia voce, nella voce di te che leggi,
nella voce del mondo... nella sua voce.

doloresofferenzapresenza di Dio

inviato da Cristina Carmagnola, inserito il 14/08/2010

RACCONTO

29. Il grande burrone   6

Bruno Ferrero, Cerchi nell'Acqua, ElleDiCi

Un uomo sempre scontento di sé e degli altri continuava a brontolare con Dio perché diceva: "Ma chi l'ha detto che ognuno deve portare la sua croce? Possibile che non esista un mezzo per evitarla? Sono veramente stufo dei miei pesi quotidiani!" Il Buon Dio gli rispose con un sogno. Vide che la vita degli uomini sulla Terra era una sterminata processione. Ognuno camminava con la sua croce sulle spalle. Lentamente, ma inesorabilmente, un passo dopo l'altro. Anche lui era nell'interminabile corteo e avanzava a fatica con la sua croce personale. Dopo un po' si accorse che la sua croce era troppo lunga: per questo faceva fatica ad avanzare. "Sarebbe sufficiente accorciarla un po' e tribolerei molto meno", si disse, e con un taglio deciso accorciò la sua croce d'un bel pezzo. Quando ripartì si accorse che ora poteva camminare molto più speditamente e senza tanta fatica giunse a quella che sembrava la meta della processione. Era un burrone: una larga ferita nel terreno, oltre la quale però cominciava la "terra della felicità eterna". Era una visione incantevole quella che si vedeva dall'altra parte del burrone. Ma non c'erano ponti, né passerelle per attraversare. Eppure gli uomini passavano con facilità. Ognuno si toglieva la croce dalle spalle, l'appoggiava sui bordi del burrone e poi ci passava sopra. Le croci sembravano fatte su misura: congiungevano esattamente i due margini del precipizio. Passavano tutti, ma non lui: aveva accorciato la sua croce e ora era troppo corta e non arrivava dall'altra parte del baratro. Si mise a piangere e a disperarsi: "Ah, se l'avessi saputo...".

La croce è l'unica via di salvezza per gli uomini, l'unico ponte che conduce alla vita eterna.

crocesalvezzaaccettazione

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inviato da Qumran2, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

30. L'asinello che portò Gesù   3

Mariolina Puddu

In un campo pascolavano un'asina con il suo puledro. Era stato svezzato da poco e talvolta, quando si metteva nei guai, cercava ancora il conforto della sua mamma.

Il suo nome era Lollo e aveva grandi orecchie appuntite e occhioni scuri, intelligenti e furbi. Come tutti i cuccioli era birbaccione, chiassoso, prepotente. Appena poteva si allontanava verso i confini del campo cercando di sconfinare e, quando il padrone andava a riprenderlo, puntava le zampe sul terreno e non c'era modo di smuoverlo. Bisognava trascinarlo e quanto erano acuti i suoi ragli di protesta! Il padrone ancora non si decideva a metterlo al lavoro: era talmente giovane e testone!

Una bella mattina di primavera giungono nel campo degli uomini, parlottano un po' col padrone e poi cominciano a guardare verso Lollo. Erano venuti infatti a fare una richiesta curiosa che riguardava proprio lui. Questi uomini erano servi di un tale, un certo Nazareno e, mandati da questo, volevano in prestito proprio Lollo. Serviva al loro Maestro per entrare in Gerusalemme.

Il padrone era perplesso: "Macché Lollo! Per il vostro Maestro ci vuole un cavallo. Io non ce l'ho, ma il mio vicino è un soldato e certamente sarà contento di prestarvi il suo bel cavallo bianco".

Ma quelli insistevano, si erano proprio fissati! Volevano un asino che fosse giovane che non avesse mai lavorato. "E' il Maestro che lo chiede - dicevano - ma non temere te lo restituiremo".

Il padrone alzava gli occhi al cielo: "Ma allora proprio non capite, quest'asino non è adatto! E' prepotente, testone e farà fare a me e al vostro Maestro una brutta figura. E' capace di fermarsi in mezzo alla strada e di non voler più camminare, se gli gira, incomincia a ragliare così forte e non la finisce più, e poi, morde!".

E i servi a lui: "Così come è, lo vuole il Maestro, e Lui non sbaglia! Se ha chiesto quest'asino avrà i suoi buoni motivi!". Il padrone allora, avvilito, prende un pezzo di corda, lo butta intorno al collo di Lollo e lo consegna ai servi. Lollo è troppo interessato alla faccenda per pensare a fare i capricci, e docile si lascia legare e condurre fuori del campo.

Fatta poca strada arrivano a un bivio, poco fuori Gerusalemme. Ci sono uomini, donne e anche bambini che attorniano un giovane uomo. I servi dirigono proprio verso di Lui: "Ecco, Maestro, questo è l'asino che avevi chiesto". Il Maestro si volta, si avvicina a Lollo, allunga una mano, lo accarezza sulla testa e lo guarda. Anche Lollo alza gli occhi verso questo bizzarro Maestro che ha voluto a tutti i costi averlo come cavalcatura, e i suoi occhi si immergono nello sguardo del Maestro: "Mai nessuno mi aveva guardato così" - dirà poi Lollo - "neanche la mia mamma". E' come se con un solo sguardo il Maestro mi dicesse: "Non temere, va bene così. Sì sei un po' un brigante, ma ce la puoi fare. Io mi fido di te e ti voglio bene! Coraggio! Cominciamo questo viaggio, sarai tu a portarmi a Gerusalemme".

Lollo sente come un fuoco dentro il suo cuore, è contento e un po' ha voglia di piangere, senza motivo... Mansueto si lascia mettere un mantello rosso sulla groppa, si lascia montare dal Maestro e, lentamente, incominciano il loro viaggio verso Gerusalemme. Via via che si avvicinano alla città la gente diventa più numerosa. Stendono per terra dei mantelli rossi, hanno in mano dei rami di palma e di ulivo, li agitano e gridano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell'alto dei cieli!".

Lollo si sente davvero un asinello importante... Tutti fanno festa alla persona che lui sta portando in groppa, bardato con quel bel manto rosso! Anche i bambini fanno festa e alcune bambine portano dei fiori.

Ad un tratto una voce si leva dalla folla e chiede: "Chi è quest'uomo?".
Qualcuno risponde: "E' Gesù, da Nazareth di Galilea!".
"Che cosa ha fatto?".
"Io sono vedova, Gesù ha risuscitato il mio unico figlio. Eccolo!".
"Io ero muto per colpa di un demonio e Gesù mi ha liberato".
"Io avevo questa mano come morta e lui mi ha detto: Stendila! E la mia mano è tornata come nuova! Ha fatto bene ogni cosa!".

Lollo ascolta tutto quello che la gente dice sull'uomo che sta accompagnando a Gerusalemme. "Ora capisco perché alcuni chiamano Gesù il Signore!". La folla è al colmo della gioia e della festa. Gesù è pronto per entrare nel tempio. Prima di allontanarsi, con la mano sfiora lentamente il muso dell'asinello. Gesù e Lollo si guardano per un lungo istante.

Gesù capisce ciò che l'asinello gli vuol dire:
"Grazie Signore di avermi cercato.
Tu hai avuto bisogno di me e hai avuto fiducia in me!
D'ora in poi, anche se non credo che riuscirò ad essere sempre bravo, voglio provare ad essere come tu mi vedi.
Forse scalcerò ancora e certamente raglierò ogni tanto ma non potrò mai dimenticare che hai avuto fiducia in me.
Grazie Gesù, anche io ti voglio bene".

domenica delle palmefiduciasguardo di Dio

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inviato da Mariolina Puddu, inserito il 25/03/2010

RACCONTO

31. Una nuvoletta in viaggio   2

In un giorno d'Autunno, il Vento soffiava dispettoso facendo volare le foglie. Una piccola Nuvoletta che stava passeggiando lì vicino, gli disse: "Ciao Vento, posso giocare con te?". Il Vento allora chiese: "Cosa potresti fare? Sai soffiare?". La nuvoletta ci provò: "...fff... fff... no non sono capace", disse sconsolata. Allora il Vento le rispose: "Tu non sei capace di soffiare come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò triste.

Più avanti incontrò l'Estate e il Sole splendeva luminoso nel cielo. Allora si avvicinò e disse: "Ciao Sole, posso giocare con te?". Ma il Sole seccato le rispose: "Non vedi che ti sei messa troppo vicina a me? Mi stai oscurando! Vattene via, tu non sei capace di splendere come me e nemmeno di creare calore!". E la Nuvoletta se ne andò sempre più triste.

Poco più in là c'era l'Inverno e la neve cadeva leggera, così la Nuvoletta si fermò e chiese: "Ciao Neve, posso giocare con te?". La Neve la squadrò dalla testa ai piedi e sussurrò: "Ma tu sei capace di far nevicare?". La nuvoletta ci provò e si sforzò talmente tanto che da grigia divenne nera, ma di Neve niente. "No, non credo di esserne capace", brontolò la nuvoletta emettendo un tuono. "Shhh!", la zittì la Neve, "allora non puoi aiutarmi. Io cado silenziosa, tu sei troppo rumorosa! Tu non sei capace di cadere leggera e coprire il paesaggio come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò ancora più triste.

Ormai era sconsolata, quando trovò la Primavera e sentì qualcuno piangere. Si chinò e vide un piccolo Fiorellino che singhiozzava disperato, allora si avvicinò e gli chiese il perché di tanta tristezza. E il Fiorellino rispose: "Ho sete, sto per morire, puoi aiutarmi?". "Non lo so, io non so fare quasi niente.., non so soffiare come il vento, non so splendere come il sole, non so cadere leggera come la neve, e nessuno mi vuole...". Così dicendo la Nuvoletta si mise a piangere e le sue lacrime diventarono tante gocce di pioggia, che dissetarono il Fiorellino. Da quel giorno la Nuvoletta e il Fiorellino diventarono molto amici e capirono di aver bisogno l'uno dell'altra per essere felici.

amiciziadiversitàreciprocità

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inviato da Caterina, inserito il 08/12/2009

RACCONTO

32. Il Natale di Martin   1

Leone Tolstoi

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: - La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.

Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.

L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica! - rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera - rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.

Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta.

Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.

Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: «Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me».
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

natalesolidarietàgratuitàriconoscere Dio

4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 24/11/2009

RACCONTO

33. Il pinguino colorato   5

Bruno Ferrero, Storie belle e buone

Quando mise fuori la testa dall'uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell'Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l'orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito. Tutti i pinguini presenti applaudirono.
"È un ottimo segno!" disse lo zio Fortebecco.
"È impaziente di affrontare la vita".
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.
Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non potè sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.

Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all'enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.

Nella banda dei "pinguini irsuti", chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l'incontrastato boss.

"Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?", gli chiedeva la mamma, un po' in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.

Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
"Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!"
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
"E' tutta colpa tua!".
"No, tua!".
"E' colpa di Filippo!".
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:
"Non ne posso più!".

I colori della vita
Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
"Che barba! Un posto tutto bianco, grigio e nero. Dove nessuno si fa i fatti suoi... Deve pur esserci un paese colorato. Pieno di gente colorata. Potrei diventare anch'io pieno di colori... Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!"
E, impulsivo com'era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall'Isola Azzurra.

Approdò alla Terraferma.
Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale. I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.

"Adesso sono libero e faccio come mi pare", si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d'ali alle sue spalle lo mise in guardia. Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po', facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia. Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò. Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
"Aah!", fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche. Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:
"Bene! Comincio ad essere colorato".
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
"Ehi, amico!!", Una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
"Ti ho visto sistemare il cormorano", disse il gabbiano. "Sei un duro, tu".
"Certo", rispose Filippo.
"Ti invito a pranzo", insinuò furbescamente il gabbiano.
"Che cosa vuoi dire?".
"Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici? In due non oseranno farci niente".
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi. I due briganti mulinavano ali e becchi.
Alla fine, Filippo si guardò il petto: era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d'uovo.
"Altri colori!", si disse. "Questa è vita".
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutti.

Il grande salto
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un'otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente "Il pinguino colorato". Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c'erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un' epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?
Il pensiero dell'Isola Azzurra prese a torturarlo.
Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po' di nostalgia dell'allegra comunità dei pinguini.
"Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo", si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.

Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell'Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
"Un mostro! Un mostro!".
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore. Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
"Ma perché? Idioti, sono io, non mi riconoscete?", brontolava Filippo.
"Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato". La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
"Ma in che stato sei...".
"Bentornato, Filippo", gli disse anche il papà. Ma non lo toccò.
Le comari tutt'intorno borbottavano: "Che disgrazia! Poveri genitori...".
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell'Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.

Ma come si fa a tornare indietro?
"Papà", chiese.
"Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile".
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
"C'è un mezzo solo: devi tuffarti dalla Grande Cascata. Laggiù l'acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere. Ma è tremendamente rischioso. Ci vorrà il tuo coraggio. Te la senti di farlo?".
"Si, papà".
La voce si sparse in un attimo.
Nel giro di pochi minuti c'erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un "Oh!" sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo. Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice. Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell'acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso: "Urrà!", che coprì perfino il tuonare dell'acqua.



L'esperienza nascosta nel racconto:
Il pinguino Filippo è annoiato dalla vita di tutti i giorni che è soltanto "bianca, grigia e nera". Sono molti i ragazzi di oggi che considerano noioso ciò che è normale.
La cultura in cui sono immersi è sempre alla ricerca di eccitanti per i sensi, per la mente, per lo spirito.
Questa ricerca travolge limiti e regole. Filippo cerca i colori, li trova diventando ingiusto, ladro, cattivo.
Soltanto quando è davvero diventato colorato si accorge del prezzo da pagare: l'insoddisfazione personale e soprattutto l'allontanamento dalla sua famiglia e dalla comunità. È il prezzo del male, del peccato: essere tagliati fuori, perdere l'identità.
Ma nella comunità dell'Isola Azzurra c'è il modo di cancellare tutto, di ricominciare. E' quello che succede nella Chiesa: Dio ci dà la possibilità di cancellare tutti i colori sbagliati.
Bisogna solo avere il coraggio di buttarsi nella Grande Cascata dell'Amore infinito di Dio che è il Sacramento della Riconciliazione.

Per il dialogo:
L'educatore deve aiutare i ragazzi a percepire il significato simbolico della storia del pinguino Filippo e a riflettere contemporaneamente sulla realtà che anche loro stanno vivendo. Lo può fare con alcune domande:
- Perché il pinguino Filippo decide di partire dalla sua isola?
- Vi è mai venuta la voglia di "mollare tutto"? Quando? Perché?
- Secondo voi, che cosa sono i colori che Filippo cerca?
- Di che tipo sono i colori che Filippo trova? Vi ricordano qualcosa?
- Ci sono certe cose che i ragazzi di oggi desiderano ma che, secondo voi, sono un male? Ne sapete ricordare qualcuna?
- Perché Filippo non viene riconosciuto e accettato nella sua comunità?
- Nella nostra comunità parrocchiale c'è qualche modo particolare per riconoscere di aver sbagliato e per riaccettare quelli che riconoscono di aver commesso il male?

Per l'attività:
I ragazzi possono fare l'esame di coscienza con un cartellone sul quale si trovano i "colori sbagliati": (il rosso dell'ira, il giallo dell'invidia, il viola delle parolacce, il rosa della pigrizia, ecc...)

Anche la Bibbia racconta...
L'evangelista Giovanni (13, 21-30), racconta il tradimento di Giuda e lo conclude con queste parole: "Egli subito uscì. Ed era notte". Il peccato è uscire dalla luce della comunità degli amici di Gesù ed entrare nella notte.

riconciliazioneperdonoconfessionediversitàpeccato

3.8/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 17/07/2009

TESTO

34. Lavorare per il cielo

San Giovanni Maria Vianney

Molti sono i cristiani, figli miei, che non sanno assolutamente perché sono al mondo... "Mio Dio, perché mi hai messo al mondo?". "Per salvarti". "E perché vuoi salvarmi?". "Perché ti amo".

Com'è bello conoscere, amare e servire Dio! Non abbiamo nient'altro da fare in questa vita. Tutto ciò che facciamo al di fuori di questo, è tempo perso. Bisogna agire soltanto per Dio, mettere le nostre opere nelle sue mani... Svegliandosi al mattino bisogna dire: "Oggi voglio lavorare per te, mio Dio! Accetterò tutto quello che vorrai inviarmi in quanto tuo dono. Offro me stesso in sacrificio. Tuttavia, mio Dio, io non posso nulla senza di te: aiutami!".

Oh! Come rimpiangeremo, in punto di morte, tutto il tempo che avremo dedicato ai piaceri, alle conversazioni inutili, al riposo anziché dedicarlo alla mortificazione, alla preghiera, alle buone opere, a pensare alla nostra miseria, a piangere sui nostri peccati! Allora ci renderemo conto di non aver fatto nulla per il cielo.

Che triste, figli miei! La maggior parte dei cristiani non fa altro che lavorare per soddisfare questo "cadavere" che presto marcirà sotto terra, senza alcun riguardo per la povera anima, che è destinata ad essere felice o infelice per l'eternità. La loro mancanza di spirito e di buon senso fa accapponare la pelle!

Vedete, figli miei, non bisogna dimenticare che abbiamo un'anima da salvare ed un'eternità che ci aspetta. Il mondo, le ricchezze, i piaceri, gli onori passeranno; il cielo e l'inferno non passeranno mai. Stiamo quindi attenti!

I santi non hanno cominciato tutti bene, ma hanno finito tutti bene. Noi abbiamo cominciato male: finiamo bene, e potremo un giorno congiungerci a loro in cielo.

salvezzascopo della vita

5.0/5 (1 voto)

inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney - Roma, inserito il 26/06/2009

PREGHIERA

35. A sera colloquio con il Signore   1

Ignazio Patané

La giornata è finita. Nel pensiero
scorrono le ore trascorse e come ho saputo impiegare,
o Signore, questo tuo dono d'amore.
Sento di aver fatto poco o niente e
ti chiedo perdono.
Signore, ti ho visitato in chiesa
per pochi secondi soltanto!

"Figlio mio, quei pochi secondi
hanno alleviato il peso della solitudine a cui
mi condannano tanti tuoi fratelli".

Signore, ho recitato in un giorno soltanto tre o quattro
giaculatorie!

"Figlio mio, quando pronunzi il mio nome,
il mio cuore sussulta di gioia. Averlo fatto
per tre o quattro volte, mi rende uguamente felice".

Signore, so che ho fatto qualcosa
che ti ha lacerato il cuore e ho paura che ti
voglia allontanare da me!

"Figlio mio, capita che mi fai anche piangere,
ma non dubitare mai della mia presenza
accanto a te. Io sono al tuo fianco,
soprattutto nei momenti del tuo maggior bisogno".

Signore, ti ringrazio con tutto il cuore!

"Figlio mio, i piccoli gesti d'amore che oggi
hai compiuto, anche per te i più insignificanti,
sono sorrisi che hai fatto fiorire sul mio volto.
Sorrisi che hanno asciugato tante mie lacrime.
Promettimi che per ogni giorno che ti darò da vivere,
mi procurerai sempre un sorriso in più".

Signore, te lo prometto!

"Adesso, figlio mio, deponi nelle mie mani
l'offerta del tuo sonno. Io veglierò accanto a te
mentre tu dormi".

Grazie Signore. Buona notte Gesù!

preghieraesame di coscienzaquotidiano

inviato da Anna Buscemi, inserito il 02/06/2009

TESTO

36. Cristo all'Onu   1

Spinto dalla folla stanca
Cristo arrivò al palazzo dell'Onu.
Aveva la faccia stanca del disoccupato,
il passo incerto del profugo,
le spalle curve del minatore,
l'occhio triste dell'emigrato,
le mani incerte dell'uomo del sud,
l'occhio assente del drogato,
il cuore assetato del giovane.
Non era raccomandato da nessuno,
solo il pianto degli umili lo spingeva,
la giustizia per i deboli era la sua forza.
Bussò...c'era il veto,
per lui gli uomini non erano liberi;
sulla soglia della civiltà trovò la barbarie.
Lesse i diritti degli uomini, ne ebbe compassione.
L'uomo ha diritto alla vita...
e un bimbo palestinese gli disse che non era vero.
L'uomo ha diritto all'istruzione...
e un campesino gli disse che non era vero.
L'uomo ha diritto alla pace...
e una vedova di guerra gli disse che non era vero.
L'uomo ha diritto alla famiglia...
e un ragazzo disadattato gli chiese
che cosa significassero quelle parole.
L'uomo ha diritto al vestito...
e un barbone moriva di freddo
fra porpore e tessuti firmati.
L'uomo ha diritto alla libertà...
un'afgano si mise a piangere.
L'uomo ha diritto alla verità...
e un sorriso ironico risuonò
all'interno del Palazzo, dei molti Palazzi.
Cristo scese dal Palazzo di vetro.
Quando la folla gli chiese il risultato della visita,
allargò le braccia:
era ancora crocifisso come il venerdì santo.
Poi la folla dileguò...pioveva...
...Cristo rimase là, sotto la pioggia, come tanti altri;
nessuno si fermò,
nessuno lo invitò a salire in macchina.
Oggi è ancora là.
Quando gli passeremo davanti ci fermerà
e cercherà di farci capire
che anche tu, anche io
siamo colpevoli di averlo crocifisso nel mondo di oggi,
fuori dal palazzo di vetro,
a New York, a Londra, a Roma, a Mosca...
forse anche a casa tua,
nel tuo cuore,
nella tua gente,
nella nostra gente.

stranieroaccoglienza

inviato da Vincenzo Pasqualucci, inserito il 02/06/2009

RACCONTO

37. Il sogno di Maria   2

Giuseppe, ho fatto un sogno che non riesco proprio a comprendere, ma credo che riguardava la nascita di nostro figlio.

La gente stava facendo i preparativi con sei settimane d'anticipo: decoravano le case, compravano vestiti nuovi, uscivano spesso a fare spese e compravano regali molto elaborati.

Era tutto molto strano, perché i regali non erano per nostro figlio: li avvolgevano in fogli vistosi, li legavano con dei nastri preziosi e poi li mettevano sotto un albero. Sì, Giuseppe, un albero dentro le case; quella gente aveva decorato un albero e i rami erano pieni di ciondoli brillanti e in cima all'albero c'era una figura – mi sembrò che fosse un angelo – veramente molto bella.

Dopo ho visto una tavola splendidamente imbandita con piatti deliziosi e tanti vini: tutto sembrava squisito e tutti erano contenti, ma noi non eravamo stati invitati.

Si vedeva che la gente era felice, sorridente e perfino emozionata quando si scambiavano i regali, ma...

Sai, Giuseppe? Non rimaneva alcun regalo per nostro figlio e mi dava l'impressione che nessuno lo conoscesse perché nessuno fece mai il suo nome. Non ti sembra strano che la gente si dia tanto da fare e spenda tanto nei preparativi per celebrare il compleanno di qualcuno che non nominano mai e che forse neppure conoscono? Ebbi la strana sensazione che se nostro figlio fosse entrato in quelle case si sarebbe sentito un intruso.

Tutto era così bello e la gente così contenta, ma io avevo una gran voglia di piangere perché nostro figlio era completamente ignorato.

Che tristezza per Gesù non essere desiderato nella sua festa di compleanno!

Sono contenta perché si è trattato solamente di un sogno, ma che terribile sarebbe se ciò divenisse realtà!...

natale

5.0/5 (2 voti)

inviato da Roberto Jori, inserito il 03/05/2009

TESTO

38. C'ero anch'io...   3

Mariangela Forabosco

C'ero anch'io, Signore Gesù, quella notte, nel giardino del Getsemani!
Ero lì, con i tuoi Apostoli ancora sconvolti per tutto quello che ti avevano sentito dire, quella sera; per quei piedi lavati proprio da te, il Maestro; per quel incomprensibile, straziante annuncio della tua imminente morte!

Ero lì, e ti ho visto piangere lacrime e sudare sangue, ti ho sentito implorare il Padre tuo di allontanare l'amaro calice della passione che sentivi vicino...io non capivo!

Avrei voluto inginocchiarmi accanto a te, sulle pietre aguzze, asciugare il tuo sudore di sangue, accarezzare il tuo volto sconvolto, implorarti di fuggire lontano, di metterti in salvo dalla crudeltà degli uomini, ma ti ho sentito dire:" Non sia fatta la mia, ma la tua volontà, Padre"!
Il peso di queste parole è stato troppo grande, per me: ti ho lasciato solo, mi sono allontanata e ho dormito, insieme ai tuoi apostoli.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel pretorio di Pilato!
Ero lì, e sentivo la folla rumoreggiare, fuori; erano come impazziti, tanto da scegliere, urlando, la liberazione di Barabba e la tua condanna.

Ero lì, quando i soldati ti legavano alla colonna; ero lì, quando i flagelli incidevano la tua carne, quando la tua schiena si inarcava per il dolore atroce. Avrei voluto strappare di mano ai soldati quelle fruste che si accanivano sulla tua carne innocente, avrei voluto liberare quelle tue mani che avevano portato sollievo a tante persone, avrei voluto gridare la mia rabbia per tanto strazio, ma non ho saputo fare altro che rintanarmi in un cantuccio nascosto: ho avuto paura di svelare apertamente il mio amore per te, avevo paura di essere riconosciuta come tua sorella, tua amica e mi sono nascosta.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quel mattino, nel cortile del pretorio, quando Pilato ti consegnò ai soldati per la crocifissione!

Ero lì, quando l'intera coorte iniziò a torturare il tuo corpo martoriato dalla flagellazione. Ti rivestirono di porpora e, intrecciata una corona con pungentissime spine, te la conficcarono nel capo, profondamente; si inginocchiavano davanti a te, uomo dei dolori, dicendoti:"Salve, re dei Giudei!", e ti sputavano addosso e continuavano a percuotere il tuo corpo straziato.

Avrei voluto strappare spina per spina dal tuo capo, avrei voluto liberare il tuo santo corpo da tanta crudeltà, avrei voluto gridare a tutti che si ricordassero quante parole sananti avevi pronunciato, quanti peccati avevi perdonato, con quelle labbra ora tumefatte e sanguinanti. Invece, ancora una volta mi sono nascosta dietro le mie paure, la mia voglia di quieto vivere, la tentazione di non impicciarmi, di non rischiare, e sono fuggita.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quando, carico della croce, percorrevi la via che portava al luogo del supplizio. Tanta gente urlava, ai lati, e ti scherniva: erano gli stessi che la domenica delle Palme stendevano i loro mantelli sotto i tuoi passi e ti chiamavano "Figlio di Davide".

Ero lì, quando cadevi sotto il peso di quel legno! Avrei voluto togliertelo di dosso, asciugarti il volto come ha fatto la Veronica, offrirti dell'acqua, gridarti il mio dolore e la rabbia che provavo nel vederti sopportare così passivamente tanta crudeltà. Invece, non ho trovato il coraggio di farmi riconoscere; ho preferito assistere al tuo martirio senza compromettermi troppo.
Ti ho lasciato solo!

C'ero anch'io, Signore Gesù, quando i colpi del martello risuonavano nell'universo e il Figlio di Dio veniva inchiodato ad una croce, tra due malfattori. Ero lì, quando, ormai allo stremo, trovavi la forza di perdonare i tuoi carnefici "perché non sanno quello che fanno": così hai detto!

Ero lì, quando hai consegnato tua Madre a Giovanni e Giovanni a tua Madre; c'ero anch'io, in quella consegna; c'ero anch'io, in quel perdono; c'era anche la mia salvezza, in quel "tutto è compiuto"! Avrei voluto abbracciare quella croce, che tratteneva il tuo corpo ormai senza vita; avrei voluto strappare di mano la spada che ti ha trafitto il costato; avrei voluto dare la mia vita per la tua, ma, ormai, era troppo tardi, tutto era irrimediabilmente finito!

C'ero anch'io, Signore Gesù, davanti al sepolcro vuoto, quel mattino del primo giorno della settimana! Ero lì, con le altre donne, con Pietro, con Giovanni, con la Maddalena, a guardare stupita la pietra rimossa, le bende piegate, a chiedermi dove fosse il mio Signore.

Ero lì, e non capivo, perché la mia fede era provata duramente dalla tua morte, ma anche perché sapevo di averti lasciato solo, e il mio cuore mi suggeriva rimorso e rimpianto.

Ero lì, e piangevo e avrei voluto ancora una volta fuggire lontano, nascondermi al mio stesso dolore, consapevole che avevo cercato tanto il mio Signore, ma che la mia paura me l'aveva fatto perdere per sempre! Ed ecco che, improvvisamente, quando stavo per andarmene, sconsolata, ho sentito una voce dolcissima chiamarmi per nome: era la tua voce, Signore Gesù!

Eri tornato, eri vivo, eri lì, davanti a me; eri venuto a cercarmi e mi avevi trovata. I miei abbandoni, i miei tradimenti li hai presto dimenticati; hai voluto dirmi che tu sei il vivente, che non mi lascerai mai, che la morte è vinta per sempre ed io sto partecipando, insieme a tutta la creazione, alla tua risurrezione.

Cristo è risorto, alleluia!

crocepassionerisurrezionepasquaresurrezionepauratradimentogetsemanitestimonianzavergogna

5.0/5 (2 voti)

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 21/03/2008

TESTO

39. L'amore è... voler amare   2

Charles de Foucauld

L'amore consiste non nel sentire che si ama, ma nel voler amare; quando si vuol amare, si ama; quando si vuol amare sopra ogni cosa, si ama sopra ogni cosa. Se accade che si soccomba a una tentazione, è perché l'amore è troppo debole, non perché esso non c'è: bisogna piangere, come san Pietro, pentirsi, come san Pietro, umiliarsi, come lui, ma sempre come lui dire tre volte: «Io ti amo, io ti amo, tu sai che malgrado le mie debolezze e i miei peccati io ti amo».

volontàamareamoregenerositàcostanzafedeltàdebolezzaforza

1.0/5 (1 voto)

inviato da Chiara, inserito il 11/11/2007

TESTO

40. Sogno una comunità...

Rivista Consacrazione e servizio

Sogno una comunità formata da fratelli e sorelle, ma il cui termine «fratello» o «sorella» non venga appiccicato addosso dall'abitudine, ma guadagnato, sudato da tutti, giorno per giorno. Sogno una comunità in cui il «reale» sia la legge fondamentale da cui dipendono tutte le altre leggi. Il reale: ossia queste persone concrete, con questa mentalità, con questa cultura, con questa formazione, con queste doti, con questa età, in questa situazione particolare, in questo ambiente, con questa missione da compiere, in questo tempo.

Sogno una comunità in cui venga riconosciuto il primato della persona. E tutti siano convinti che il «bene comune» non può che coincidere sempre con il bene delle singole persone. Una comunità costruita in rapporto alle persone. Una comunità in cui le strutture e le opere siano in funzione dell'equilibrio, dello sviluppo, della crescita delle persone.

Sogno una comunità nella quale l'uguaglianza fondamentale di tutti i membri venga riconosciuta e accentuata con tutti i mezzi. Sogno una comunità in cui manchino i privilegiati; semmai i privilegiati siano i piccoli, i deboli, gli ultimi, una comunità nella quale domini la «mentalità della catena», secondo cui la forza e la consistenza della catena nel suo insieme viene data dall'anello più debole.

Sogno una comunità in cui non ci sia tempo da perdere per le sciocchezze e i pettegolezzi, per le insinuazioni, i sospetti, le maldicenze, le chiacchiere: dove ci si ama non c'è mai tempo da perdere, perché nulla ci può assorbire come l'amore. Una comunità in cui nessuno si prenda troppo sul serio, ma ognuno si senta preso sul serio dagli altri.

Sogno una comunità in cui venga scoraggiato bruscamente ogni tentativo, da qualunque parte si manifesti, di parlare male di una persona assente. Una comunità in cui tutti si trovino «al sicuro». Ossia ognuno si trovi al sicuro in fatto di libertà, dignità, rispetto e, soprattutto, responsabilità personale.

Sogno una comunità in cui ciascuno abbia il coraggio di esprimere liberamente il proprio pensiero. In cui le opinioni espresse dai singoli vengano prese in considerazione per il peso effettivo degli argomenti portati, e non per le altre valutazioni opportunistiche, autoritarie o emozionali. Una comunità in cui ogni membro venga considerato da tutti gli altri «uno di cui ci si può fidare». E ciascuno si impegni ad esserlo per davvero.

Sogno una comunità nella quale tutti si lascino mettere in discussione e il linguaggio sia schietto, e non si abbia paura della verità; anche perché lo stile abituale è uno stile di verità che penetra, scomoda, ma non umilia nessuno. Una verità che guarisce sia pure dolorosamente, ma non ferisce, perché... felicità è poter dire la verità senza far piangere nessuno.

Sogno una comunità in cui tutti quelli che si «atteggiano» a maestri vengano condannati a vivere le parole; tutti quelli che si atteggiano a «giudici» vengano condannati a sentirsi complici. Una comunità in cui l'unico sospetto valido sia il sospetto che qualche fratello o sorella non ricevano la quota d'amore che spetta loro.

Sogno venti, cinquanta, mille comunità che dimostrino che.. ho sognato la realtà!

comunitàunitàgruppochiesa

inviato da Naldi Franco, inserito il 18/08/2007

ESPERIENZA

41. L'ultima parola non è la morte

Anthony Bloom, Vivere nella Chiesa

La protagonista di questa storia vera ci credeva sul serio. Durante la seconda guerra mondiale, una monaca russa, madre Maria, fu imprigionata dai nazisti in un campo di concentramento.

Un giorno era presente a un appello nel quale venivano sorteggiate le donne destinate alla camera a gas. Una di queste condannate - una ragazza ancora giovane - urlava in preda alla disperazione: fino a quel momento, aveva nutrito la speranza di riuscire a sopravvivere e di conoscere ancora la libertà e la gioia di vivere.

Madre Maria, non riuscendo a sostituirla, le si avvicinò e le disse: «Non piangere. L'ultima parola non è la morte, ma la vita. Ne sono talmente sicura che verrò con te nella camera a gas».

Si unì alle condannate ed entrò con loro per morirvi.

mortevitavita eternaparadisofedesperanza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Liliana Belloro, inserito il 07/06/2007

PREGHIERA

42. Santa Maria, vergine del mattino

Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, ed. S. Paolo, cap 31

Santa Maria, vergine del mattino,
donaci la gioia di intuire,
pur tra le tante foschie dell'aurora,
le speranze del giorno nuovo.

Ispiraci parole di coraggio.
Non farci tremare la voce quando,
a dispetto di tante cattiverie e di tanti peccati
che invecchiano il mondo,
osiamo annunciare che verranno tempi migliori.

Non permettere che sulle nostre labbra
il lamento prevalga mai sullo stupore,
che lo sconforto sovrasti l'operosità,
che lo scetticismo schiacci l'entusiasmo,
e che la pesantezza del passato
ci impedisca di far credito sul futuro.

Aiutaci a scommettere con più audacia sui giovani,
e preservaci dalla tentazione di blandirli
con la furbizia di sterili parole,
consapevoli che solo dalle nostre scelte di autenticità e di coerenza
essi saranno disposti ancora a lasciarsi sedurre.

Moltiplica le nostre energie
perché sappiamo investirle
nell'unico affare ancora redditizio sul mercato della civiltà:
la prevenzione delle nuove generazioni
dai mali atroci che oggi rendono corto il respiro della terra.

Dai alle nostre voci la cadenza degli alleluia pasquali.
Intridi di sogni le sabbie del nostro realismo.
Rendici cultori delle calde utopie
dalle cui feritoie sanguina la speranza sul mondo.

Aiutaci a comprendere
che additare le gemme che spuntano sui rami
vale più che piangere sulle foglie che cadono.

E infondici la sicurezza di chi già vede l'oriente
incendiarsi ai primi raggi del sole.

Maria

inviato da Qumran2, inserito il 24/05/2007

PREGHIERA

43. Preghiera del clown

Dal film "Il più comico spettacolo del mondo"

Noi ti ringraziamo nostro buon Protettore per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo.Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa' che sulla nostra mensa non venga mai a mancare pane ed applausi. Noi ti chiediamo protezione, ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa' che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini. Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l'unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa' che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore. Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi, dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamante le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po' perché essi non sanno, un po' per amor Tuo, e un po' perché hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C'è tanta gente che si diverte a far piangere l'umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.

felicitàamoreserviziointerioritàgioiaclownpagliaccio

inviato da Annamaria Bassini, inserito il 07/04/2007

RACCONTO

44. Il cappellino   3

Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali

"Se non me lo lasci fare non potrò andare a scuola! Mi vergognerei troppo... È terribilmente importante, mamma!". Elena scoppiò a piangere. Era la sua arma più efficace. "Uffa, fa' come vuoi...", brontolò la madre, sbattendo il cucchiaino nel lavello. "Sembrerai un mostro. Peggio per te!".

In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta più o meno simile. Erano i ragazzi della Seconda B della Scuola Media "Carlo Alberto di Savoia". Per quel giorno avevano preso una decisione importante. Ma gli allievi della Seconda B erano 25.

In effetti, solo nella venticinquesima famiglia, le cose stavano andando in un modo diverso. Elisabetta era un concentrato di apprensione, la mamma e il papà cercavano di incoraggiarla. Era la quindicesima volta che la ragazzina correva a guardarsi allo specchio. "Mi prenderanno in giro, lo so. Pensa a Marisa che non mi sopporta o a Paolo che mi chiama canna da pesca! Non aspetteranno altro!".

Grossi lacrimoni salati ricominciarono a scorrere sulle guance della ragazzina. Cercò di sistemarsi il cappellino sportivo che le stava un po' largo. Il papà la guardò con la sua aria tranquilla: "Coraggio Elisabetta. Ti ricresceranno presto. Stai reagendo molto bene alla cura e fra qualche mese starai benissimo". "Sì, ma guarda!". Elisabetta indicò con aria affranta la sua testa che si rifletteva nello specchio, lucida e rosea.

La cura contro il tumore che l'aveva colpita due mesi prima le aveva fatto cadere tutti i capelli. La mamma la abbracciò: "Forza Elisabetta! Si abitueranno presto, vedrai...".

Elisabetta tirò su con il naso, si infilò il cappellino, prese lo zainetto e si avviò. Davanti alla porta della Seconda B, il cuore le martellava forte. Chiuse gli occhi ed entrò. Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco, vide qualcosa di strano. Tutti, ma proprio tutti, i suoi compagni avevano un cappellino in testa!

Si voltarono verso di lei e sorridendo si tolsero il cappello esclamando: "Bentornata Elisabetta!". Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera dei suoi riccioli, anche Paolo, anche Elena e Giangi e Francesca... Tutti! Ma proprio tutti! Si alzarono e abbracciarono Elisabetta che non sapeva se piangere o ridere e mormorava soltanto: "Grazie...". Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati, che non si era rasato i capelli, semplicemente perché era pelato di suo e aveva la testa come una palla da biliardo.

condivisionesolidarietàamicizia

3.5/5 (2 voti)

inviato da Liliana Belloro, inserito il 06/11/2006

PREGHIERA

45. Quando mi sarò unito a te   1

S. Agostino, Le confessioni, X, 28

Quando mi sarò unito a te
con tutto il mio essere,
non sentirò più dolore o pena;
la mia sarà vera vita,
tutta piena di te.
Tu sollevi in alto colui che riempi di te;
io non sono ancora pieno di te,
sono un peso a me stesso.
Gioie di cui dovrei piangere contrastano in me
con pene di cui dovrei gioire,
e non so da che parte stia la vittoria.
Abbi pietà di me, Signore!
Non ti nascondo le mie ferite.
Tu sei il medico, io sono malato;
tu sei misericordioso, io infelice.

rapporto con Diomisericordia di Dioconversionegioiafelicità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 25/10/2006

TESTO

46. L'uccellino e il sole divino

S. Teresa di Lisieux, Storia di un'anima

Gesù, Gesù, se è tanto delizioso il desiderio di amarti, che sarà possederti, godere del tuo amore?

In qual modo può, un'anima imperfetta quanto la mia, aspirare a possedere la pienezza dell'Amore? Gesù, mio primo, mio solo Amico, tu che amo unicamente, dimmi, quale mistero è questo? Perché non riservi queste aspirazioni immense alle anime grandi, alle aquile che roteano altissime? Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po' di piuma lieve; non sono un'aquila, ho dell'aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fissare il Sole divino, il Sole dell'Amore, e il mio cuore prova tutte le aspirazioni dell'aquila... L'uccellino vorrebbe volare verso quel Sole che affascina gli occhi, vorrebbe imitare le aquile, sue sorelle che vede elevarsi fino alla divina dimora della santissima Trinità... Ahimé! Tutto quello che può fare, è sollevare le sue alucce, ma volar via, questo non è nelle sue piccole possibilità. Che ne sarà di lui? Morirà di dolore vedendosi così impotente? No! L'uccellino non se ne affliggerà nemmeno. Con un abbandono audace vuol fissare ancora il suo Sole divino: niente gli fa paura, né vento, né pioggia, e se le nuvole pesanti nascondono l'Astro d'amore, l'uccellino non cambia posto, sa che di là dalle nubi il Sole splende sempre, che la sua luce non si offuscherà nemmeno per un attimo.

In certi momenti il suo cuore si trova assalito dalla tempesta, gli pare che non esistano altre cose se non le nubi che lo circondano; e allora è il momento della gioia perfetta per il povero esserino debole. Che felicità per lui restare lì ugualmente, e fissare la luce invisibile la quale si nasconde alla sua fede! Gesù, fino da ora capisco il tuo amore per l'uccellino, perché non si allontana da te... Ma io lo so, e tu lo sai, spesso questo cosino minimo e imperfetto, pur rimanendo al suo posto (cioè sotto i raggi del Sole), si lascia distrarre un poco dalla sua occupazione unica, becca un granellino di qua o di là, corre dietro a un vermiciattolo... Poi, trovando una pozzanghera, si bagna le piume appena spuntate, vede un fiore che gli piace, allora la sua piccola testa si occupa di quel fiore... e poi, non potendo planare come le aquile, il povero uccellino s'interessa ancora alle piccolezze della terra. Tuttavia, dopo questi malestri, invece di andare a nascondersi in un angolino per piangere la sua miseria e morir di pentimento, l'uccellino si volge verso il Sole amato, presenta ai raggi benefici le alucce bagnate, geme come la rondine, e con un canto dolce racconta tutti i particolari della sua infedeltà, pensando nel suo abbandono temerario di acquistare così maggior diritto, attirare più pienamente l'amore di Colui che non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.

Se l'Astro adorato rimane sordo al lamento cinguettato della sua creaturina, se rimane velato, ebbene, la creaturina resta bagnata, accetta di essere intirizzita di freddo, e si rallegra ancora di questa sofferenza che ha pur mentata... Gesù, com'è felice il tuo uccellino di essere debole e piccolo. Oh, che sarebbe di lui se fosse grande? Mai avrebbe l'audacia di comparire alla tua presenza, di sonnecchiare dinanzi a te... Si, ecco un'altra debolezza dell'uccellino: quando vuoi fissare il Sole divino e le nuvole gli impediscono di vedere anche un solo raggio, nonostante la sua buona volontà gli occhi gli si chiudono, la testolina si nasconde sotto l'ala, e il povero esserino si addormenta, credendo di fissar sempre il suo Astro amato. Quando si desta, non si cruccia; il suo cuoricino rimane in pace, ricomincia il suo ufficio d'amore, invoca gli Angeli e i Santi i quali s'innalzano come aquile verso il fuoco divorante oggetto della sua brama, e le aquile, impietosite, proteggono il fratellino, e mettono in fuga gli avvoltoi che vorrebbero divorarlo.

Gli avvoltoi, immagini dei demoni, l'uccellino non li teme, non è destinato a diventar la loro preda, bensì sarà preda dell'Aquila che egli contempla nel centro del Sole d'amore. O Verbo divino, tu sei l'Aquila adorata, io ti amo. Tu mi attiri, sei tu che, slanciandoti verso la terra dell'esilio, hai voluto soffrire e morire per attirare le anime fino al seno dell'intimità eterna della Santissima Trinità, sei tu che, risalendo verso la Luce inaccessibile ove soggiornerai sempre, resti pur sempre nella valle delle lacrime, nascosto entro l'aspetto di un'Ostia bianca... Aquila eterna, tu vuoi nutrire della tua sostanza divina me, povero esserino che rientrerei nel nulla se il tuo sguardo divino non mi desse la vita minuto per minuto. Oh, Gesù, lasciami dire, nell'eccesso della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva fino alla follia... Come vuoi che, dinanzi a questa follia, il mio cuore non si slanci verso te? Come potrebbe aver limiti la mia fiducia? Per te, lo so, i Santi hanno fatto anch'essi delle follie, hanno fatto grandi cose perché erano aquile.

Gesù, sono troppo piccola per fare cose grandi, e la follia mia è sperare che il tuo Amore mi accolga come vittima! La mia follia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, perché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell'Amore con le ali stesse dell'Aquila divina... Così, per quanto tempo tu lo vorrai, o mio Amato, il tuo uccellino rimarrà senza forza e senza ali; terrà sempre fissi in te gli occhi; vuole essere affascinato dal tuo sguardo divino, vuol diventare preda del tuo Amore... Un giorno, oso sperare, Aquila adorata, verrai in cerca del tuo uccellino, e risalendo con lui al focolare dell'Amore, lo immergerai per l'eternità nell'abisso ardente di quell'Amore al quale egli si è offerto come vittima...

O Gesù, perché non posso dire a tutte le piccole anime quanto ineffabile è la tua condiscendenza... Sento che se, cosa impossibile, tu trovassi un'anima più debole, più piccola della mia, ti compiaceresti di colmarla con favori anche più grandi, se si abbandonasse con fiducia completa alla tua misericordia infinita. Ma perché desiderare di comunicare i tuoi segreti d'amore, Gesù, non sei tu solo che me li hai insegnati, e non puoi forse rivelarti ad altri? Sì, lo so, e ti scongiuro di farlo, ti supplico di abbassare il tuo sguardo divino sopra un gran numero di piccole anime... Ti supplico di scegliere una Legione di piccole vittime degne del tuo Amore....

abbandono in Diorapporto con Dio

inviato da Debora Cavallone, inserito il 14/07/2006

TESTO

47. Non dire non posso

Monaco nel mondo

È una parola che pronunciamo con troppa leggerezza.
È una parola micidiale.
È una parola che spesso liquida i problemi senza lasciarceli neppure affrontare.
È una parola che molto spesso uccide la nostra carità.
Ho ricevuto una lettera da un lebbrosario: è di una nostra sorella che vive tra i lebbrosi.
Scriveva:
"Oggi ho avuto tanta forza da una scena che Dio mi ha messo sotto gli occhi: ho visto un povero lebbroso che non camminava più, un lebbroso che si trascinava senza gambe. L'ho visto aiutare un bambino poliomielitico a camminare. Il piccolo era aggrappato alle sue spalle e lui si trascinava carponi intorno alla capanna per farlo camminare. La scena mi ha fatto piangere".
Ha commosso anche me e ho chiesto perdono a Dio per tutte le volte che davanti ad una carità ho detto: non posso.
Ci siamo tanto abituati a quelle due parole che le portiamo in noi costantemente. È un cliché preparato al nostro egoismo.
Quando è che in realtà "non possiamo"?
Se non possiamo fare noi, possiamo almeno trovare chi farà per noi.
se non possiamo fare oggni, possiamo fare domani.
Se non possiamo fare tutto, possiamo almeno fare qualcosa.
È tremendo dire: non posso!
È una ghigliottina della carità cristiana.
Bisogna bandire quelle parole.
Quando non posso veramente, posso almeno calarmi nel bisogno del fratello e versare una lacrima con lui.

caritàsolidarietàdisponibilitàimpegno

5.0/5 (1 voto)

inviato da F. Carlo, inserito il 08/12/2005

TESTO

48. Le beatitudini

Primo Mazzolari

...oggi leggo le beatitudini... leggo, non predico. Le beatitudini non si predicano: non sono per gli altri. Nessuno può darle a parole. Se le predico, tutti notano che io ne sono fuori. Cristo no, lui solo parla dal di dentro di ogni beatitudine: lui povero, mite, pacifico, misericordioso, lui il percosso, il morente... Che non si possano predicare l'ho capito bene in un lontano Ognissanti, quando mi fu imposto dietro minaccia: Tu prete oggi non predicherai... E quel giorno il prete ha letto soltanto: ma nel leggere egli piangeva e gli altri piangevano. Le parole che hanno la virtù di far piangere, o di gioia o di vergogna, non si predicano...

beatitudinipredicaretestimonianza

inviato da Luca Peyron, inserito il 21/06/2005

PREGHIERA

49. Dal più piccolo fiore

S. Teresa di Lisieux

Sì, mio amato, ecco come si consumerà la mia vita...
Non ho altro mezzo per provarti il mio amore che gettare fiori,
vale a dire non lasciarmi sfuggire alcun piccolo sacrificio,
alcuno sguardo, alcuna parola;
approfittare di tutte le cose più piccole
e compierle per amore.

Voglio soffrire per amore
e gioire per amore,
e così getterò dei fiori
davanti al tuo trono;
non ne incontrerò nessuno
senza sfogliarlo per te...

Poi, mentre getto i miei fiori, canterò
(si può forse piangere compiendo un gesto così gioioso?),
canterò anche quando mi sarà dato
di cogliere i miei fiori in mezzo alle spine,
e il mio canto sarà tanto più melodioso
quanto più le spine saranno lunghe e pungenti.

amoreofferta a Diosacrificiooffertaoffertorio

inserito il 19/06/2005

RACCONTO

50. Il fiore più bello

In un paesino di montagna c'è un'usanza molto bella. Ogni primavera si svolge una gara tra tutti gli abitanti. Ciascuno cerca di trovare il primo fiore della primavera. Chi trova il primo fiore sarà il vincitore e avrà fortuna per tutto l'anno. A questa gara partecipano tutti, giovani e vecchi. Quest'anno, quando la neve iniziava a sciogliersi e larghi squarci di terra umida rimanevano liberi, tutti gli abitanti di quel paesino partirono alla ricerca del primo fiore. Per ore e ore iniziarono a cercare alle pendici del monte, ma non trovarono alcun fiore.

Stavano già ritornando verso casa quando il grido di un bambino attirò l'attenzione di tutti. "È qui! L'ho trovato". Tutti accorsero per vedere. Quel bambino aveva trovato il primo fiore, sbocciato in mezzo alle rocce, qualche metro sotto il ciglio di un terribile dirupo. Il bambino indicava col braccio teso giù in basso, ma non poteva raggiungerlo perché aveva paura di precipitare nel terribile burrone. Il bambino però desiderava quel fiore anche perché voleva vincere la gara.

Cinque uomini forti portarono una corda. Intendevano legare il bambino e calarlo fino al fiore. Il bambino però aveva paura. Aveva paura che la corda si rompesse e di cadere nel burrone. "No, no - diceva piangendo - ho paura!". Gli fecero vedere una corda più forte e quindici uomini che l'avrebbero tenuto. Tutti lo incoraggiavano. Ad un tratto il bambino cessò di piangere. Tutti fecero silenzio per sentire che cosa avrebbe fatto il bambino. "Va bene - disse il bambino - andrò giù se mio padre terrà la corda!".

Dio Padreaffidamento in Dioabbandono in Dio

inviato da Don Gianni Castignoli, inserito il 23/04/2005

TESTO

51. Si cerca un uomo

Primo Mazzolari

Si cerca per la Chiesa
un prete capace di rinascere
nello Spirito ogni giorno.

Si cerca per la Chiesa un uomo
senza paura del domani
senza paura dell'oggi
senza complessi del passato.

Si cerca per la Chiesa un uomo
che non abbia paura di cambiare
che non cambi per cambiare
che non parli per parlare.

Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di vivere insieme agli altri
di lavorare insieme
di piangere insieme
di ridere insieme
di amare insieme
di sognare insieme.

Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di perdere senza sentirsi distrutto
di mettere in dubbio senza perdere la fede
di portare la pace dove c'è inquietudine
e inquietudine dove c'è pace.

Si cerca per la Chiesa un uomo
che sappia usare le mani per benedire
e indicare la strada da seguire.

Si cerca per la Chiesa un uomo
senza molti mezzi,
ma con molto da fare,
un uomo che nelle crisi
non cerchi altro lavoro,
ma come meglio lavorare.

Si cerca per la Chiesa un uomo
che trovi la sua libertà
nel vivere e nel servire
e non nel fare quello che vuole.

Si cerca per la Chiesa un uomo
che abbia nostalgia di Dio,
che abbia nostalgia della Chiesa,
nostalgia della gente,
nostalgia della povertà di Gesù,
nostalgia dell'obbedienza di Gesù.

Si cerca per la Chiesa un uomo
che non confonda la preghiera
con le parole dette d'abitudine,
la spiritualità col sentimentalismo,
la chiamata con l'interesse,
il servizio con la sistemazione.

Si cerca per la Chiesa un uomo
capace di morire per lei,
ma ancora più capace di vivere per la Chiesa;
un uomo capace di diventare ministro di Cristo,
profeta di Dio, un uomo che parli con la sua vita.

Si cerca per la Chiesa un uomo.

parrocopretesacerdotesacerdoziovocazione

inviato da Anna Barbi, inserito il 23/01/2005

RACCONTO

52. Portami ciò che nella tua vita è imperfetto...   1

E' la notte di Natale. Tommaso sogna che sta andando insieme ai pastori e ai Re Magi verso la stalla quando si trova improvvisamente davanti a Gesù Bambino che giace nella mangiatoia. Tommaso si accorge di essere a mani vuote. Tutti hanno portato qualcosa: solo lui è senza doni!

Avvilito dice subito: "Prometto di darti la cosa più bella che ho. Ti regalo la mia nuova bicicletta, anzi il mio trenino elettrico".

Il bambino nel presepe scuote la testa e sorridendo dice: "Io non voglio il tuo trenino elettrico. Dammi il tuo tema in classe!".

"Il mio ultimo tema?" balbetta il ragazzino. "Ma ho preso un insufficiente!".

"Appunto, proprio per questo lo vorrei" dice Gesù. "Devi darmi sempre tutto quello che è insufficiente, imperfetto. Per questo sono venuto nel mondo. Ma vorrei un'altra cosa ancora da te: la tua tazza del latte".

A questo punto Tommaso si rattrista: "La mia tazza? Ma è rotta!".

"Proprio per questo la vorrei avere" dice Gesù Bambino. "Tu mi puoi portare tutto quello che si rompe nella tua vita. Perché io sono capace di risanarlo".

Il ragazzino sentì di nuovo la voce del Bambino Gesù: "Vorrei una terza cosa da te: vorrei la risposta che hai dato a tua mamma quando ti ha chiesto come mai si è rotta la tazza del latte".

Allora Tommaso inizia a piangere e confessa tra le lacrime: "Ma le ho detto una bugia, quella volta. Ho detto alla mamma che la tazza era caduta per caso, ma in realtà l'ho gettata a terra io, per rabbia".

"Per questo vorrei avere quella tua risposta" risponde sicuro Gesù Bambino. "Portami sempre tutto quello che nella tua vita è cattivo, bugiardo, dispettoso e malvagio. Sono venuto nel mondo per perdonarti, per prenderti la mano e insegnarti la via".

Gesù sorride di nuovo a Tommaso, mentre lui guarda, comprende e si meraviglia....

Quest'anno hai già pensato cosa "regalare" della tua vita al Signore Gesù?

natalemisericordia di Diorapporto con Dio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 14/01/2005

ESPERIENZA

53. Dalla droga alla consacrazione

Orizzonti news 10/2003

Per ventidue anni ho vissuto nell'inferno della droga, della solitudine, della malattia, della morte... Mio padre è morto quando avevo cinque anni, mia madre faceva la prostituta, due fratelli più grandi si bucavano, così io a tredici anni ho cominciato a bucarmi, a quattordici anni mi hanno detto che ero sieropositivo... un trauma!

Le cose sono andate sempre peggio. In carcere ho dovuto crescere in fretta, per difendermi dai grandi, e si è creata in me una grande rabbia, cattiveria. Qualche anno dopo mia madre è morta ed io sono rimasto solo, dopo tre anni muore anche mio fratello di AIDS... allora sono crollato, mi sono lasciato andare definitivamente alla droga ed a tutto ciò che mi addormentava il cervello. Sono andato avanti così per anni, senza capire che senso avesse per me vivere; ho incominciato a stare male fisicamente, a vedere tanti amici morire per overdose, per malattia, ad essere sempre più solo e ad odiare tutti. Per schivare il carcere sono entrato in una comunità, ci sono rimasto per sedici mesi, ma non è cambiato nulla, come sono uscito sono ricaduto subito, ho riprovato qualche anno dopo presso un'altra struttura, ma ci sono rimasto ancora meno, solo quattro mesi, e così mi sono arreso.

Nel 2000 sono stato ricoverato in ospedale per una polmonite, ho subito un piccolo intervento per introdurre una vena artificiale, e per uno sbaglio ho contratto un'epatite Delta fulminante. Dopo una settimana, appena uscito dal coma, mi sono trovato di fronte un prete, che mi ha dato l'estrema unzione; non potevo muovermi, e sono scoppiato a piangere, cosa che credevo di non saper più fare... Avrei dovuto capire tante cose, in quel momento, invece sono ritornato subito al mio "mondo".

Due anni fa la mia compagna, con cui vivevo da diversi anni, anche lei tossicodipendente sieropositiva, si è suicidata. Non ho mai desiderato morire come in quei giorni.

E' allora che qualcuno mi ha parlato di Nuovi Orizzonti, ma non ne volevo sapere, poi per fare un favore a qualcuno ci sono entrato; non è stato facile, ma non posso dimenticarmi l'amore che mi ha dato Lolli (Loredana, che insieme a Giulio e la figlioletta Miriam sono ora in Brasile, ndr), tutto ciò che mi ha insegnato, poi Alessandra, che non si è mai arresa, ed è riuscita a farmi abbandonare a Dio ed a far sì che Lui potesse cambiarmi.

Ora, nonostante tutti i problemi che ho, mi sento felice, vivo, amato; questa casa la sento la mia famiglia, ho deciso di fare le promesse di consacrazione, perché sento di voler donare questa mia vita a tutte le persone che soffrono come ho sofferto io e non sanno che c'è Qualcuno che ci ama infinitamente.

Non so perché mi mette nel cuore tutte queste cose, ma voglio testimoniarle a tutti.

Grazie!

sofferenzadrogasperanzavita nuova

inviato da Alfonso Gargano, inserito il 05/10/2004

TESTO

54. Dolcezza senza spine

Ai tiepidi raggi del sole pomeridiano trionfavano per tutto il bosco i colori dell'autunno e Mirella, una giovanissima castagna ancora ben chiusa nel suo riccio, se li godeva compiaciuta, dondolandosi con sicurezza in cima al ramo più alto del Castagno Valerio.

«Che vista fantastica!», pensava tra sé, contemplando le pendici del monte e l'intera vallata baciata dal sole autunnale; «Un panorama meraviglioso, davvero meraviglioso...», sussurrava estasiata.

- Mai quanto te! - mormorò una voce suadente che proveniva dal basso; Mirella si chinò per vedere chi avesse parlato e scorse la Vespa Rachele, che con il suo inconfondibile ronzio le fu rapidamente accanto.

- Guarda che spine, che magnifiche spine! Mai visto un riccio come il tuo! Spine aguzze come punte di lancia, affilate come spade, fitte come un esercito schierato a battaglia! Altro che il mio pungiglione! La tua sì che è una bella difesa, una vera corazza! Abbine sempre cura e tientela cara: sia questo il tuo tesoro e il tuo vanto! - e con la stessa fulminea rapidità con cui era comparsa, sfrecciò via ronzando.

Mirella rimase un po' perplessa: da quando era nata non aveva fatto altro che guardarsi attorno, ammirando una dopo l'altra le infinite meraviglie di cui di giorno in giorno si scopriva circondata. Non aveva mai badato al suo riccio, né si preoccupava di come fossero le sue spine. Ora però, lusingata dai complimenti di Rachele, cominciò a farci caso e nel giro di breve tempo si convinse di essere effettivamente una gran bella castagna, anzi, forse proprio la più bella tra tutte quelle che Valerio poteva contare sui suoi rami.

«Non a caso abito sui ramo più alto e ricevo per prima il bacio del sole!» - ripeteva tra sé - «Perfino le foglie, per farmi spazio; si stanno ritirando una alla volta, volando via silenziose... certo per permettere a tutti di ammirare meglio me!», concludeva convinta.

- Attenta, figlia mia! - la riprese un giorno babbo Valerio - Bada bene di non montare in superbia! Non sei nata per essere ammirata, ma per...

- Ci mancavano solo le prediche del vecchio padre! - lo interruppe brontolando Mirella - Sei proprio incontentabile, papà! Anziché andare orgoglioso di una figlia così bella, ti metti a fare critiche e osservazioni!

Babbo Valerio rimase in silenzio; «Capirà a sue spese quello che non vuole ascoltare da me», pensò addolorato, e con un profondo sospiro rivolse lo sguardo al cielo: fosche nubi si stavano addensando e già oscuravano le cime dei monti vicini. Raffiche di vento gelido si abbatterono ben presto sul bosco, che per tutta la notte fu flagellato da un violento temporale.

Il mattino seguente, Mirella si svegliò contusa e indolenzita. «Dove sono?», si chiese stupefatta guardandosi attorno: si trovava infatti malamente adagiata tra vecchie foglie fradice di pioggia, in mezzo ad una vasta pozzanghera che lambiva le radici del Castagno Valerio.

- Benvenuta tra noi, Mirella! - le disse amichevolmente il Fungo Tebaldo, un porcino grassoccio dall'aria assai cordiale, circondato da una nidiata di figlioletti di varia statura. - Dopo aver sperimentato l'ebbrezza dei rami più alti, era conoscerai anche gli amici della terra!

Mirella si guardò intorno con aria schifiltosa: non era per niente contenta di trovarsi tutta inzaccherata in mezzo al fango e soprattutto temeva per la salute e la bellezza del suo riccio. Senza curarsi di rispondere al fungo Tebaldo si specchiò preoccupata nell'acqua melmosa della pozzanghera. «Ahimè!» - esclamò rabbrividendo - «Cosa mi è successo?». Una profonda ferita aveva spaccato la buccia verdastra del suo amato riccio, lasciando intravedere il guscio d'un bel marrone lucido.

- Niente di grave, piccola! - cercò di rassicurarla il Lombrico Gustavo - È assolutamente normale che una castagna prima o poi esca dal riccio! Non vorrai per caso startene rinchiusa lì dentro per sempre?

- Viscido e molle come sei, ti conviene startene alla larga senza ironizzare sulle mie sventure - ribatté con asprezza Mirella - Altrimenti assaggerai le mie spine e ti passerà la voglia di fare lo spiritoso!

- Via, via. Gustavo non intendeva offenderti - soggiunse la Lumaca Giannina - ma solo tranquillizzarti. E poi, permettimi di dirti con tutta franchezza che saresti molto più bella senza quell'enorme casco spinoso.

- Vuoi dire che quaggiù non vanno di moda le spine? - chiese con interesse Mirella.

- Assolutamente no! Apprezziamo molto di più tutto ciò che è morbido e tenero - intervenne gentilmente Luciana, la moglie del Fungo Tebaldo - e se vuoi un consiglio schiettamente femminile il colore del tuo guscio è così lucido e bello che ci guadagneresti soltanto a metterlo in mostra anziché tenerlo nascosto!

Mirella si lasciò persuadere e pian piano uscì spontaneamente dal riccio, abbandonandolo per sempre. Nel giro di pochi giorni fece amicizia con tutti gli abitanti del Sottobosco ed era certa che la simpatia che le dimostravano fosse dovuta in massima parte alla splendente lucentezza del suo guscio, di cui era assai fiera. Un mattino, però, quando il sole era da poco spuntato e i suoi raggi cominciavano a filtrare tra i rami degli alberi, il silenzio del bosco fu rotto da un insolito calpestio e dal vociare confuso di un gruppo di ragazzi. Erano degli scout e portavano in spalla pesanti zaini, tra le mani invece sporte e cestini. Avanzavano allegramente, cantando e fischiettando e in breve furono nei pressi del Castagno Valerio.

- Alt! Fermi tutti! - gridò il capo scout, poi si curvò ed esclamò compiaciuto: - Che meraviglia, ragazzi! Venite a vedere!

Mirella pensò subito che si trattasse di lei, dell'eccezionale splendore del suo guscio castano, e cominciò a gongolare, immaginandosi già di essere portata a valle ed esposta nella vetrina di qualche prestigiosa boutique di città. «Speriamo che si tratti di una gioielleria...», fantasticava tra sé, ma i suoi sogni di gloria furono drasticamente interrotti quando si accorse che tutti gli scout non si stavano minimamente curando né di lei né del suo guscio, ma unicamente del Fungo Tebaldo.

- È un porcino! - dichiarò con sicurezza il capo e dopo averlo colto delicatamente lo mostrò a tutti i ragazzi, che si affollarono intorno a lui per guardarlo da vicino.

- Avanti, ora! Continuiamo la raccolta! - E subito gli scout si sparpagliarono tra gli alberi facendo a gara a chi raccoglieva più castagne: fu così che anche Mirella finì senza tanti complimenti dentro un canestro di vimini insieme a numerose compagne.

Quella sera, mentre il falò rischiarava coi suoi bagliori la radura dove si erano accampati gli scout, Mirella domandò preoccupata: - Che ne sarà di noi, amiche mie?

- Saremo finalmente liberate! - rispose con gioia Donatella, l'anziana del gruppo.

- Liberate? E da che? Vuoi forse dire che ci lasceranno andare?

- Ma no! Ciascuna di noi sarà finalmente liberata da questo odioso guscio che ci tiene prigioniere impedendoci di essere veramente noi stesse!

- Ma io non mi sento affatto prigioniera! - esclamò inorridita Mirella - E poi non ho nessuna intenzione di perdere il mio guscio: è così bello! Non sono affatto disposta a lasciarlo!

Mentre ancora stava parlando, una ruvida mano raccolse dal canestro una manciata di castagne, tra cui anche lei, e dopo aver aperto un coltellino a serramanico cominciò ad inciderle ad una ad una.

- Ahi! - strillò disperata la povera Mirella, mentre una profonda ferita solcava irrimediabilmente il suo amato guscio. «Sono perduta...» pensava tristemente - «E il peggio è che le mie compagne non mi capiscono! Ci fosse almeno papà Valerio o il Fungo Tebaldo a consolarmi... e invece mi sento così sola».

In quel momento, però, a piangere di malinconia sulla propria solitudine non era solo Mirella: anche Martino, un lupetto di otto anni alle prese con la sua prima uscita di branco, non aveva nessuna voglia di cantare con i compagni seduti attorno al falò e pensava con tanta nostalgia alla sua mamma. Guardava fisso a terra e non alzò gli occhi nemmeno quando si levò un coro di applausi e di gioiose esclamazioni: una padella forata era stata posta sul fuoco con la prima razione di castagne, e tra queste c'era anche Mirella. Alla vista del fuoco e delle scintille, la poveretta rabbrividì di terrore, dicendo per sempre addio al suo caro guscio che nel giro di breve tempo rimase secco e mezzo carbonizzato.

- Coraggio, Martino! - disse amorevolmente Silvana, una dei capi, vedendo la tristezza del suo lupetto e prendendolo in braccio.
- Voglio la mia mamma... singhiozzò lui imbronciato.

- La mamma è contentissima che tu sia qui, Martino! E domani sera, quando la rivedrai, avrai molte cose belle da raccontarle. Per esempio, adesso c'è una sorpresa che ti aspetta.
- Che cos'è? chiese incuriosito Martino.

- Si chiamano caldarroste e sono proprio le castagne che abbiamo raccolto insieme stamattina. Prova ad assaggiarne una!

Il bimbo stese la mano e la prima che gli capitò fu proprio Mirella, che aveva sentito tutto ed era piena di compassione per il povero lupetto. «Come vorrei consolarlo! So benissimo anch'io cosa vuol dire sentirsi soli e tristi!». Così pensando non si accorse nemmeno che Silvana le aveva completamente spaccato e tolto il guscio: non rimaneva altro che la polpa, calda, dorata e fragrante.

- Assaggia, Martino! Sentirai com'è dolce e tenera! Ti piacerà molto più delle palatine e dei pop-corn che ti dà la mamma quando guardi i cartoni animati alla televisione!

Martino non si fece pregare: era la prima castagna che assaporava e gli parve così dolce e gustosa che dimenticò in un baleno tutte le sue malinconie.

- Che buona! - esclamò sorridendo, asciugandosi una lacrima con il dorso della mano. Poi, con gli occhi che scintillavano di gioia al riverbero del falò, si mise a cantare all'unisono con gli altri ragazzi.

E Mirella? Si era ormai completamente dissolta, ma aveva l'impressione che le si fosse sciolto anche quel carico di tristezza che la opprimeva. «Avevi ragione, papà Valerio!» - pensò. - «Non sono nata per essere ammirata, ma... per lasciarmi mangiare!».

E per la prima volta nella sua vita si sentì felice. Veramente felice.

Imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29)

consegnarsidono di séamoresacrificio

inviato da Don Silvano Zanella, inserito il 05/10/2004

PREGHIERA

55. Preghiera di un padre   2

Grazie Signore per avermi donato i miei figli,
grazie per avermi fatto provare la gioia di una vita che nasce,
di un bimbo che sorride e dona amore,
di una luce che illumina un mondo grigio.
Grazie Signore per le notti in bianco,
per le preoccupazioni ed i dolori,
perché ho capito cosa vuol dire amare.
Aiutami o Signore ad imparare a far camminare i miei figli,
in un mondo privo di valori veri.
Aiutami o Signore ad essere un buon padre,
non perfetto, ma un buon padre.
Grazie Signore per ogni ora che passo con loro
e li vedo crescere e cambiare, piangere e amare.
Grazie Signore, ti sento vicino come un padre al figlio.

paternitàfamigliapadrefigligenitori

inserito il 07/08/2004

RACCONTO

56. La donna   2

Quando il Signore fece la donna era il suo sesto giorno di lavoro, facendo straordinari. Apparve un angelo e disse: «Perché usi tanto tempo nel fare questo?»

E il Signore rispose: «Hai visto il formulario delle specifiche che possiede? Deve essere completamente lavabile ma non di plastica, ha duecento parti mobili e tutte sostituibili, funziona a caffè e resti di pranzo, ha un grembo nel quale stanno due bambini allo stesso tempo, possiede un bacio che può curare qualsiasi cosa, da un ginocchio sbucciato ad un cuore rotto ed ha sei paia di mani».

L'angelo era sorpreso da tutti i requisiti che la donna possedeva. «Sei paia di mani! Non è possibile!»
«Il problema non sono le mani, sono i tre paia di occhi che le madri devono avere», rispose il Signore.
«Tutto questo nel modello standard?», chiese l'Angelo.

Il Signore assentì con il capo. «Sì, un paio d'occhi servono affinché possa vedere attraverso una porta chiusa chiedendo ai figli cosa stanno facendo, nonostante lo sappia. Un altro paio sono nella parte posteriore della testa per vedere cose che ha bisogno di conoscere nonostante nessuno pensi che sia necessario.Il terzo paio sono nella parte anteriore della testa. Questi servono quando vede i figli smarriti e guardandoli dice loro che li capisce e li ama comunque senza bisogno di dire una parola».

L'Angelo cercò di fermare il Signore: «Questo è un carico troppo grande per la donna!».
«Ascolta il resto delle specifiche!», protestò il Signore. «Si cura da sola quando è ammalata, può alimentare una famiglia con qualsiasi cosa e può far sì che un bambino di nove anni resti sotto la doccia».

L'Angelo si avvicinò e toccò la donna: «Però, l'hai fatta tanto morbida, Signore!».
«Lei è morbida e dolce» disse il Signore, «però allo stesso tempo l'ho fatta forte. Non hai alcuna idea di quanto possa essere resistente e di quanto possa sopportare».
«Potrà pensare?» chiese l'Angelo.
Il Signore rispose: «Non solo sarà capace di pensare ma anche di ragionare e di negoziare».

L'Angelo notò qualcosa, si stirò e toccò la guancia della donna.
«Oh! Sembra che questo modello abbia una perdita. Gliel'ho detto che stava cercando di metterci troppe cose!».
«Questa non è una perdita, obiettò il Signore, questa è una lacrima!».
«E a cosa servono le lacrime?» chiese l'Angelo.
Il Signore disse: «Le lacrime sono la forma nella quale esprime la sua allegria, il suo dolore, il disincanto, la solarità, il suo orgoglio».

L'Angelo era impressionato. «Sei un genio Signore! Hai davvero pensato a tutto, visto che le donne sono veramente meravigliose!».

E il Signore aggiunse: «Le donne hanno una forza che meraviglia gli uomini. Crescono i figli, sopportano le difficoltà, portano carichi pesanti, tacciono quando vorrebbero gridare. Cantano quando vorrebbero piangere. Piangono quando sono felici e ridono quando sono nervose. Litigano per ciò in cui credono. Si sollevano contro le ingiustizie. Non accettano un NO come risposta quando credono che esista una soluzione migliore. Se sono in ristrettezze comprano le scarpe nuove per i figli e non per se stesse. Accompagnano dal medico un amico spaventato. Amano incondizionatamente. Trionfano. Hanno il cuore rotto quando muore un amico. Soffrono quando perdono un membro della famiglia ma riescono ad essere forti quando non c'è più nulla da cui trarre energia. Sanno che un abbraccio ad un bacio possono aggiustare un cuore rotto. Le donne sono fatte di tutte le misure, le forme ed i colori. Amministrano, volano, camminano o ti mandano e-mail per dirti quanto ti amano. Le donne fanno più che trasmettere luce, portano allegria e speranza, compassione ed ideali. Le donne hanno infinite cose da dire e da dare. Sì, il cuore delle donne è meraviglioso».

donnamadrefiglifamiglia

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inviato da Giovanna Carosini, inserito il 29/07/2004

RACCONTO

57. Antonio, mister D.I.O. per gli amici, e Camilla   1

Mauro Bianchi

Antonio aveva finalmente realizzato il suo progetto, lo scopo della sua esistenza, realizzare una via che unisse tutti i popoli del mondo e per questo venne nominato Dottore In Onniscienza, per gli amici Mr. D.I.O.. Per celebrare l'avvenimento venne realizzato un grandissimo museo, un museo particolare a dire la verità, sempre aperto, 24 ore su 24 e 365 giorni all'anno, un museo dove non si paga il biglietto d' ingresso e tutti coloro che lo visitano non vogliono più andare via e, nonostante tutto, più gente entra e più cresce lo spazio disponibile per altra gente ancora.

Il pezzo forte di questo museo, illuminato da una luce particolare, che lo rende ancora più affascinante, è Camilla, una vecchia e assai malandata Jeep. Camilla era la macchina con cui Mr. D.I.O si spostava in giro per il mondo per studiare, progettare e realizzare il suo disegno. A dire il vero Mr. D.I.O. aveva in testa anche come doveva essere Camilla, innanzitutto il colore della carrozzeria, bianco o nero, rosso, giallo, o quel verde olivastro tanto esotico per lui non facevano alcuna differenza, anche la forma esterna non era di grande importanza, tozza o filante, alta o bassa per lui era la stessa cosa. Le cose veramente importanti per lui erano altre, ad esempio dei buoni fari per poter vedere nell'oscurità, una buona radio per captare anche le voci più lontane, delle ruote sempre capaci di sorreggerne il peso e un cuore, pardon, un motore che non si stancasse mai di farla andare avanti, anche piano, ma sempre avanti, e dei finestrini ampi, per poter vedere bene all'esterno, non solo le bellezze di questo mondo, ma anche e soprattutto per non perdere mai la direzione giusta in cui procedere e riuscire a vedere e interpretare i segnali che Mr. D.I.O., man mano che costruiva la via metteva per evitare che altri si perdessero.

Anche se può sembrare strano fin dai primi tempi in cui i due si trovarono a lavorare insieme capirono entrambi che l'altro aveva qualcosa di speciale, Antonio era convinto che Camilla lo potesse in qualche modo sentire, e Camilla, dal canto suo, sembrava intuirne i pensieri. Anzi, da quella volta che Antonio mise mano al suo computer di bordo aveva maturato una specie di autocoscienza e spesso si chiedeva se i segnali erano abbastanza chiari, se, per esempio, su una strada apparentemente facile anziché un semplice limite di velocità era il caso di mettere anche un avviso del tipo "attento alla curva puoi ucciderti o uccidere qualcun altro", o mettere nei posteggi dei cartelli con la scritta "non rubare il posteggio a chi sta aspettando da prima di te"oppure decorare le macchine nuove con scritte del tipo "non desiderarmi solo perché sono più nuova della tua", o altri ancora che potessero in qualche modo essere di maggior aiuto alle persone intente a raggiungere la propria meta.

Con il passare del tempo l'intesa cresceva sempre di più, tanto che Camilla ogni tanto si permetteva di agire come di testa sua e Mr. D.I.O. la lasciava fare, anche se ogni tanto non rispettava le regole, tagliare per i prati per accorciare la strada o passare con il semaforo arancione per la fretta in fin dei conti erano delle infrazioni venali e comunque lui era sempre lì, pronto a riportarla in carreggiata. I due andarono avanti così per moltissimi anni, Camilla di tanto in tanto usciva di strada, Antonio la riprendeva e se restava qualche piccolo segno sulla carrozzeria non importava, importante era andare avanti, sempre e insieme. Tutto sembrava procedere per il meglio fino a quando Camilla in qualche modo intuì che per lei Mr. D.I.O. aveva in mente qualcosa di speciale, da quel momento fu presa da una strana smania di correre e fare di testa sua. Antonio faceva ricorso a tutta la sua pazienza e abilità per tenere Camilla in strada e ci riuscì sempre fino a quando, ormai vicinissimi al museo dove Camilla avrebbe trovato il suo posto d'onore, Camilla per la smania di arrivare prima uscì dalla strada segnata e, incurante dei cartelli di attenzione, imboccò quella che sembrava una bellissima scorciatoia, una strada larga, ben asfaltata e leggermente in discesa. Viaggiare su quella strada era bellissimo e non si faceva neanche fatica ma inesorabilmente la discesa si faceva sempre più ripida e la strada più stretta e tortuosa, Camilla provò a frenare ma ormai era troppo tardi e i freni non ressero allo sforzo, provò allora ad uscire dalla strada, sperando di riuscire a fermarsi strisciando contro gli alberi che la fiancheggiavano.

Dopo aver strisciato su molti alberi, sobbalzato su innumerevoli sassi Camilla finalmente terminò la sua corsa dentro un fosso, era veramente malridotta, il suo desiderio in quel momento era di farsi rottamare quando si accorse che Antonio non c' era, probabilmente era stato sbalzato fuori durante la sua folle corsa, in quel momento fu presa dal panico, si rese conto di essere veramente sola, capì che anche quando faceva di testa sua Mr. D.I.O. le era comunque vicino, pronto a correggerla e perdonare gli sbagli. Fu questo a farle trovare la forza di rimettersi in moto, in fondo il motore era forte e lentamente e con fatica riuscì a riportarla sulla giusta via anche se la carrozzeria era ammaccata, le ruote non perfettamente allineate e i fari, già appannati dagli anni, sembravano sul punto di piangere (era solo il lavafari rotto che perdeva acqua).

Quando si fermò un attimo per raffreddare l'acqua del radiatore Camilla si accorse che Antonio, Mr. D.I.O. per gli amici, era lì seduto su un paracarro che la guardava ammirato, appena l'acqua nel radiatore si raffreddò Antonio si rimise al volante e portò Camilla nel suo museo e la sistemò al posto che si meritava, il migliore. Ai visitatori che gli chiedevano come mai Camilla, così malridotta era al posto d' onore Mr. D.I.O. dava questa risposta, Avevo un progetto, ma da solo non lo potevo realizzare, avevo bisogno di qualcuno che mi portasse per il mondo, avevo bisogno di qualcuno su cui poter contare, avevo bisogno di qualcuno a cui dare fiducia nella certezza che, anche se talvolta per fare di testa sua sorvola su alcune regole, trova poi il coraggio di ammettere i propri sbagli e la forza per tornare sulla strada segnata, perché è solo nella luce che la illumina che Camilla mette in risalto le sue doti, quelle che le hanno permesso di riuscire a fare tutto questo.

regolepeccatopentimentoperdonouomorapporto con Dio

inviato da Mauro Bianchi, inserito il 27/07/2004

RACCONTO

58. Un papà per natale   1

Storie di Natale

«Mi raccomando, non stropicciateli subito!», Gabriella, la catechista, cominciò a distribuire i fogli e le buste ad ogni bambino. Fogli e buste avevano dei simpatici fregi dorati sull'angolo destro e un grazioso Bambin Gesù nella mangiatoia in quello sinistro. Fabio prese il suo foglio con un attimo di esitazione. Non aveva voglia di scrivere la lettera a Gesù Bambino, questa volta.
«Scrivete bene... e soprattutto, per una volta, siate sinceri! Quando avete finito piegate il foglio, infilatela nella busta e sigillate. Avete capito?», diceva Gabriella, che sparava le parole come una mitragliatrice. «Poi mettete le buste in questo cestino che porteremo insieme nel presepio grande della scuola. Avete capito?»
I bambini cominciarono a cinguettare.
«Io chiedo i pattini con le rotelle in linea», diceva Rosalba. «lo l'abbonamento all'antenna parabolica», annunciava Michael, che aveva il padre ingegnere.
«Io invece voglio la tuta della Juventus», proclamava Marco, lo sportivo del gruppo.
«E tu Fabio?», chiese Gabriella, arruffandogli affettuosamente i capelli.
«Adesso ci penso», rispose sottovoce il bambino.
Stringeva le labbra come se stesse per scoppiare a piangere. Si chinò sul foglio e con la sua grossa calligrafia infantile scrisse una frase. Una soltanto, breve, ma che gli veniva proprio dal cuore. Firmò: «Il tuo amico Fabio» e cominciò l'operazione di piegatura del foglio, con la solita diligenza, e la lingua che gli spuntava appena tra le labbra, a indicare tutto l'impegno che ci metteva.
Gabriella gli stava alle spalle e aveva potuto leggere la richiesta di Fabio. Tossì, perché le venivano le lacrime agli occhi. Lei intuiva la sofferenza che Fabio cercava di dissimulare, quel velo di malinconia che lo prendeva all'ora di andare a casa. Il papà di Fabio non c'era più. Se n'era andato. E il bambino ne soffriva tanto, come di una ferita che non si rimargina. La sua lettera a Gesù Bambino diceva così: «Caro Gesù Bambino, per Natale mandami un papà buono. Grazie. Il tuo amico Fabio».
«Credo sia la lettera più difficile che riceverai, caro Gesù», pensò Gabriella.
Le letterine furono raccolte, tra le proteste dei bambini che erano arrivati solo ad elencare una dozzina di richieste. Prima di collocarle nel presepio, con un gesto rapido, Gabriella mise la lettera di Fabio davanti a tutte le altre. «Comincia da questa, per favore», mormorò rivolta al Bambino di gesso, che se ne stava con le braccine spalancate sulla paglia finta della mangiatoia di plastica.

Venne il giorno di Natale. Fabio si svegliò presto, con l'eccitazione delle grandi giornate. Girandosi nel letto sentiva il fruscio della carta dei regali vicino ai piedi. Se ne stette un bel po' ad occhi chiusi, per godersi l'attesa della sorpresa. Era pur sempre Natale!
Aprì i pacchetti avvolti in carta colorata e dorata, lentamente. Riconobbe i regali dei nonni, quelli della mamma, la tuta da sci che di certo era un regalo dello zio Luigi. «Poi, ci sono anch'io!».
La voce, pacata e profonda, lo fece trasalire. C'era un uomo accanto al suo letto. Aveva i capelli scuri e ricciuti, una folta barba nera sul volto abbronzato, e un sorriso dolce come lo sguardo. Indossava una morbida felpa azzurra e pantaloni di fustagno. Fabio era soprattutto meravigliato dal fatto di non provare paura. Non era proprio un fifone, ma pauroso sì. E trovarsi uno sconosciuto improvvisamente accanto al letto, in condizioni normali, gli avrebbe provocato per lo meno una serie di urla terrificanti. Invece quell'uomo gli dava soltanto una serena sicurezza. Come se lo conoscesse da sempre.
In quel momento entrò la mamma: «Tanti auguri, tesoro!». Lo abbracciò. «Ti piacciono i regali?». Fabio ricambiò l'abbraccio. «Sì, grazie», mormorò.
«È presto ancora. Ti preparerò una buona colazione. Ma ora stai qui al caldo a pigrottare un po'». La mamma gli accarezzò i capelli e uscì.
«Ma... ma... non l'ha visto!», disse Fabio rivolto all'uomo misterioso.
«No. Io sono il tuo regalo, non il suo», sorrise l'uomo.

Cominciò così una giornata memorabile della vita di Fabio. Si alzò e si lavò a tempo di record. Nell'attesa, l'uomo aveva preso i quaderni di Fabio e li esaminava con interesse.
«Bravo!», disse alla fine. «Hai fatto dei bei progressi, ultimamente» .
Fabio annuì con fierezza. «Ho ancora qualche problema con le doppie...», aggiunse virtuosamente. «Ma ce la farai, ne sono certo», aggiunse l'uomo e gli mise una mano sulla spalla. Una sensazione bellissima per Fabio.
«Tu hai dei figli?», chiese, esitando ancora. «Ho un figlio, sì», rispose l'uomo. «Ma oggi, sei tu mio figlio». La mamma spuntò improvvisamente sulla porta. «Cosa fai? Parli da solo?».
«No... Dicevo una poesia ad alta voce». «Per favore, vai in cantina a prendere un barattolo di marmellata... Se vuoi la crostata a mezzogiorno!», continuò la mamma. Scendere in cantina per Fabio era una tortura. Tutte quelle ombre polverose lo riempivano di angoscia. Di solito faceva mille storie o fingeva di dimenticarsi.
Come se avesse capito tutto, l'uomo si alzò e disse: «Andiamo!», e lo prese per mano. Era una manona energica, tiepida, protettiva, che infondeva una tranquilla sicurezza.
Il cigolio della porta della cantina, che quando scendeva da solo gli ricordava lo stridio dei denti di un mostro nascosto nell'ombra, adesso gli sembrò comico. «Ci vorrebbe un po' d'olio sui cardini», disse.
La pacata presenza dell'uomo accanto a lui, trasformò la cantina, da antro polveroso disseminato di oscure insidie e misteriose presenze, in una stanza qualunque, zeppa di mobili vecchi, giochi rotti, qualche bottiglia e barattoli di pomodori pelati.
Prese un barattolo di marmellata e si girò per uscire. Ma l'uomo lo fermò.
«Perché non fai un giro con quella?», disse indicando una bicicletta nuova appoggiata al muro. Fabio arrossì. «Non ci so andare... Nessuno ha tempo per insegnarmi».
«Magnifico, infilati una giacca a vento e andiamo. Il viale è deserto».
Incredulo, il bambino portò la bicicletta sulla strada. L'uomo lo aiutò a salire in sella e gli disse di incominciare a pedalare. Fabio incominciò traballando, ma l'uomo reggeva saldamente la bicicletta e gli camminava accanto. Provarono e riprovarono. A tratti, l'uomo lasciava la presa e il bambino pedalava da solo, finché riuscì a trovare il punto di equilibrio e partì in una lunga felice pedalata. Aveva imparato.
«Grazie!», ansimò all'uomo che lo accolse fingendo di applaudire.
«Rientriamo, ora. Sei sudato e fa freddo». «Solo più un giro», supplicò il bambino. «D'accordo. Ma uno solo!».

Rientrò in casa gridando: «Ho imparato, mamma, ho imparato ad andare in bicicletta!».
«Da solo?», chiese la mamma.
«Beh... veramente...». L'uomo si portò l'indice sulle labbra e fece segno al bambino di tacere.
«Stai tranquillo un attimo che devo preparare il pranzo», continuò la mamma. «Fra un po' arrivano i nonni».
L'uomo aiutò il bambino a riporre la bicicletta e l'accompagnò nella sua cameretta. «Come farai per il pranzo?»
«Ti aspetterò qui. Ne approfitterò per rimettere in sesto il tuo armadio».
Infatti, quando tornò nella sua cameretta, Fabio vide che le ante dell'armadio chiudevano perfettamente e che i piani erano ben diritti. Sembrava un armadio nuovo.
«Ci sai fare», disse.
«È il mio mestiere», bisbigliò l'uomo, poi aggiunse: «Potresti insegnarmi questo gioco, intanto».
Giocarono una serie memorabile di partite a Scarabeo. Poi fecero una lunga passeggiata insieme (Fabio disse alla mamma che andava all'oratorio). A cena gli occhi del bambino brillavano di stanchezza e di felicità. La mamma lo fissava con qualche perplessità: non riusciva a capire perché il bambino continuasse a rivolgere lo sguardo verso il lato vuoto della tavola. Una volta lo sorprese addirittura a sorridere.
Fabio andò a letto prima del solito. Si infilò sotto le coperte e l'uomo gli sistemò la trapunta a scacchi bianchi e neri e si sedette sul letto accanto a lui.
«Diciamo le preghiere insieme, prima che arrivi la mamma?»
«Certo», disse l'uomo e sorrise.
Dopo le preghiere, l'uomo strinse la mano del bambino.
«Devi andartene, vero?», sussurrò Fabio.
«Eh sì!».

«Una giornata passa in fretta», ammise malinconicamente il bambino.
«Sei un bravo ragazzo e tutti ti vogliono bene. Devi voler bene alla mamma e anche al tuo papà. Dovunque sia, rimane il tuo papà».
«Io quando sarò grande e avrò dei bambini li amerò sempre e starò sempre con loro», promise Fabio. «Sì. È così che devi fare. E io, in qualche modo, ti sarò accanto e ti aiuterò».
«Non mi hai neanche detto come ti chiami». «Giuseppe».
L'uomo lo accarezzò. Le sue grosse mani da operaio sprigionavano un'infinita tenerezza.
«Sei stato il più bel regalo di Natale», bisbigliò Fabio prima di addormentarsi.

dononatale

5.0/5 (1 voto)

inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004

TESTO

59. L'amore secondo i bambini   3

1. L'amore è quando esci a mangiare e dai un sacco di patatine fritte a qualcuno senza volere che l'altro le dia a te. (Gianluca, 6 anni)

2. Quando nonna aveva l'artrite e non poteva mettersi più lo smalto, nonno lo faceva per lei anche se aveva l'artrite pure lui. Questo è l'amore. (Rebecca, 8 anni)

3. L'amore è quando la ragazza si mette il profumo, il ragazzo il dopobarba, poi escono insieme per annusarsi. (Martina, 5 anni)

4. L'amore è la prima cosa che si sente, prima che arrivi la cattiveria. (Carlo, 5 anni)

5. L'amore è quando qualcuno ti fa del male e tu sei molto arrabbiato, ma non strilli per non farlo piangere. (Susanna, 5 anni)

6. L'amore è quella cosa che ci fa sorridere quando siamo stanchi. (Tommaso, 4 anni)

7. L'amore è quando mamma fa il caffè per papà e lo assaggia prima per assicurarsi che sia buono. (Daniele, 7 anni)

8. L'amore è quando mamma dà a papà il pezzo più buono del pollo. (Elena, 5 anni)

9. L'amore è quando il mio cane mi lecca la faccia, anche se l'ho lasciato solo tutta la giornata. (Anna Maria, 4 anni)

10. Non bisogna mai dire "Ti amo" se non è vero. Ma se è vero bisogna dirlo tante volte. Le persone dimenticano. (Jessica, 8 anni)

amoreaffettoaffettività

5.0/5 (2 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 30/03/2004

RACCONTO

60. Quanto costa quel gelato?

Qualche tempo fa quando un gelato costava molto meno di oggi, un bambino di dieci anni entrò in un bar e si sedette al tavolino.
Una cameriera gli portò un bicchiere d'acqua.
"Quanto costa un Sundae?" chiese il bambino.
"Cinquanta centesimi" rispose la cameriera. Il bambino prese delle monete dalla tasca e cominciò a contarle.
"Bene, quanto costa un gelato semplice?" In quel momento c'erano altre persone che aspettavano e la ragazza cominciava un po' a perdere la pazienza.
"35 centesimi!" gli rispose la ragazza in maniera brusca.
Il bambino contò le monete ancora una volta e disse: "Allora mi porti un gelato semplice!".
La cameriera gli portò il gelato e il conto. Il bambino finì il suo gelato, pagò il conto alla cassa e uscì.
Quando la cameriera tornò al tavolo per pulirlo cominciò a piangere perché lì, ad un angolo del piatto, c'erano 15 centesimi di mancia per lei.

gratuitàgenerosità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Luciano Cantini, inserito il 30/04/2003

RACCONTO

61. La donna e la cipolla

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov VII, 3

Vedi, Aljòscecka, - scoppiò e ridere nervosamente Grùscegnka rivolgendosi a lui, - mi sono vantata con Rakìttka di aver dato una cipolla, ma con te non mi vanterò, a te parlerò con un'altra intenzione. E' soltanto una leggenda, ma una bella leggenda, che ancora bambina a sentito dalla mia Matrjòna, quella che adesso serve da me come cuoca. Senti com'è:

"C'era una volta una donna cattiva cattiva che morì, senza lasciarsi dietro nemmeno un'azione virtuosa. I diavoli l'afferrarono e la gettarono in un lago di fuoco. Ma il suo angelo custode era là e pensava: di quale suo azione virtuosa mi posso ricordare per dirla a Dio? Se ne ricordò una e disse a Dio: - Ha sradicato una cipolla nell'orto e l'ha data a una mendicante. E Dio gli rispose: - Prendi dunque quella stessa cipolla, tendila a lei nel lago, che vi si aggrappi e la tenga stretta, e se tu la tirerai fuori del lago, vada in paradiso; se invece la cipolla si strapperà, la donna rimanga dov'è ora. L'angelo corse della donna, le tese la cipolla: - Su, donna, le disse, attaccati e tieni. E si mise a tirarla cautamente, e l'aveva già quasi tirata fuori, ma gli altri peccatori che erano nel lago, quando videro che la traevano fuori, cominciarono ad aggrapparsi tutti a lei, per essere anch'essi tirati fuori. Ma la donna era cattiva cattiva e si mise a sparar calci contro di loro, dicendo: "E' me che si tira e non voi, la cipolla è mia e non vostra. Appena ebbe detto questo, la cipolla si strappò. E la donna cadde nel lago e brucia ancora. E l'angelo si mise a piangere e si allontanò".

caritàamorecondivisioneparadisomortevita eternagiudizio universaleegoismochiusura

5.0/5 (1 voto)

inserito il 01/04/2003

PREGHIERA

62. Signore, aiutami a capire   1

Don Valentino Salvoldi, Non si muore, si nasce due volte. L’ora della nostra nascita, Edizioni Messaggero, 2007

Signore, aiutami a capire
che non devo continuare
a piangere coloro che vivono presso di te.
Essi hanno già ciò a cui aspiro,
vedono e toccano
ciò che per me è pura speranza.
Sono immersi in quell'Amore
nel quale desidero perdermi.
Sono vivi nella bellezza
che non svanisce più,
immersi nella gioia
che nessun male offusca.
Fa', Signore, che i miei cari
mi conducano a te;
mi mandino scintille e lucciole
per guidarmi verso il regno di luce.
Rivestita di luce, ombra del Divino,
inondata di gioia, riflesso del tuo Amore,
per tutta l'eternità proclamerò
con loro la tua Misericordia.

Scarica la raccolta completa di preghiere e testi di don Valentino Salvoldi

defuntianimemorteeternitàparadisovita eterna

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inviato da Immacolata Chetta, inserito il 01/04/2003

RACCONTO

63. L'incidente   3

Bruno Ferrero, A volte basta un raggio di sole

Una giovane donna tornava a casa dal lavoro in automobile. Guidava con molta attenzione perché l'auto che stava usando era nuova fiammante, ritirata il giorno prima dal concessionario e comprata con i risparmi soprattutto del marito che aveva fatto parecchie rinunce per poter acquistare quel modello.

Ad un incrocio particolarmente affollato, la donna ebbe un attimo di indecisione e con il parafango andò ad urtare il paraurti di un'altra macchina.

La giovane donna scoppiò in lacrime. Come avrebbe potuto spiegare il danno al marito? Il conducente dell'altra auto fu comprensivo, ma spiegò che dovevano scambiarsi il numero della patente e i dati del libretto.

La donna cercò i documenti in una grande busta di plastica marrone. Cadde fuori un pezzo di carta.

In una decisa calligrafia maschile vi erano queste parole: "In caso di incidente..., ricorda, tesoro, io amo te, non la macchina!"

Lo dovremmo ricordare tutti, sempre. Le persone contano, non le cose. Quanto facciamo per le cose, le macchine, le case, l'organizzazione, l'efficienza materiale! Se dedicassimo lo stesso tempo e la stessa attenzione alle persone, il mondo sarebbe diverso. Dovremmo ritrovare il tempo per ascoltare, guardarsi negli occhi, piangere insieme, incaraggiarsi, ridere, passeggiare...

Ed è solo questo che porteremo con noi davanti a Dio. Noi e la nostra capacità d'amare. Non le cose, neanche i vestiti, neanche questo corpo...

Un papà e il suo bambino camminavano sotto i portici di una via cittadina su cui si affacciavano negozi e grandi magazzini. Il papà portava una borsa di plastica piena di pacchetti e sbuffò, rivolto al bambino. "Ti ho preso la tuta rossa, ti ho preso il robot trasformabile ti ho preso la bustina dei calciatori... Che cosa devo ancora prenderti?".
"Prendimi la mano" rispose il bambino.

interioritàamoreesterioritàbeni materialicoppiamatrimoniosposigenitorifiglifamigliaavariziadistaccolibertà interiore

inviato da Patrizia Traverso, inserito il 01/04/2003

TESTO

64. Occasioni

Kahlil Gibran, La voce del maestro

Non rinunciare alla speranza,
non abbandonarti
alla disperazione
per ciò che è stato:
piangere l'irrecuperabile
è la peggiore delle debolezze umane.

Non essere come colui
che siede a lato del fuoco,
guarda la fiamma estinguersi,
poi soffia sulle ceneri.

Chi cerca di afferrare un'opportunità
quand'è passata
è come chi la vede avvicinarsi
ma non le va incontro.

speranzaottimismopassatopresentevalore del tempoopportunismoaudaciapositivitàcoraggio

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inviato da Ilaria Zocatella, inserito il 26/03/2003

TESTO

65. Gesù bambino, dai piedini rosa   1

Adriana Zarri, La scala di Giacobbe

Gesù bambino, dai piedini rosa
come la nostra carne,
come la nostra speranza,
come la nostra vita;
hai fatto bene a dimenticare la tua gloria
accanto alle trombe degli angeli
e a spegnere
quel concerto del cielo
hai fatto bene
a camminare come noi,
a faticare come noi,
ad aver fame e sete,
stanchezza e sonno,
gioia e dolore;
e a piangere con i nostri occhi.
Hai fatto bene
a mostrarci così
gli occhi di Dio,
la fame di Dio,
l'amore di Dio,
l'impotenza di Dio;
a dare un volto
a Colui che non ha volto,
a dare voce
al silenzio del Verbo.
Dio dai piedini rosa,
Dio che ha freddo e che piange;
piccolo cucciolo eterno,
caduto nello scorrere del tempo;
e che s'acquieta
in braccio a sua madre,
come un cucciolo d'uomo...

Nataleincarnazione

inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002

TESTO

66. Maria, tu non hai chiesto nulla di più

Santa Teresa del Bambino Gesù

Io so bene, o Vergine piena di grazia,
che a Nazaret tu sei vissuta poveramente,
senza chiedere nulla di più.
Né estasi, né miracoli, né altri fatti straordinari
abbellirono la tua vita, o Regina degli eletti.
Il numero degli umili, dei «piccoli»,
è assai grande sulla terra: essi possono
alzare gli occhi verso di te senza alcun timore.
Tu sei la madre incomparabile che cammina
con loro per la strada comune,
per guidarli al cielo.
O Madre diletta, in questo duro esilio
io voglio vivere sempre con te
e seguirti ogni giorno.
Mi tuffo rapita
nella tua contemplazione e scopro
gli abissi di amore del tuo cuore.
Tutti i miei timori svaniscono
sotto il tuo sguardo materno
che mi insegna a piangere e a gioire.

MadonnaMariaumiltà

inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002

TESTO

67. La chiesa che sogniamo

Sogniamo una Chiesa che cammina.
Da Gerusalemme verso la periferia.
Sogniamo una Chiesa che si ferma,
davanti all'uomo ferito.
Non chiede da dove vieni, a che religione appartieni, cosa pensi.
Si ferma semplicemente.
Sogniamo una Chiesa che non si lascia sedurre dalla paura.
Sta con i piccoli senza pretendere che siano perfetti.
Sogniamo una Chiesa che non si vergogna dell'uomo.
Lo abbraccia anche se è contaminato.
Sogniamo una Chiesa che non usa violenza.
Nelle parole, dure come le pietre.
Negli sguardi che sfuggono i volti.
Nei piedi che marciano con i più forti.
Sogniamo una Chiesa meno prudente.
Come lo fu il suo Maestro.
Sogniamo una Chiesa che non giudica.
Non condanna.
Non opprime.
Sogniamo una Chiesa che impari dai piccoli.
Senza paura di piangere.
E di ridere.
Di morire.
E di risorgere.
Sogniamo una Chiesa meno sicura.
Più fragile.
Come lo fu il suo Maestro.
Più umana come lui.
Sogniamo una Chiesa di Chiese.
Dove nessuno sia primo.
Dove nessuno sia ultimo.
Semplicemente discepola del suo Maestro.
Sogniamo una Chiesa che grida,
quando l'uomo grida.
Che danza quando l'uomo danza.
Che partorisce quando la donna partorisce.
Che muore quando la donna muore.
Sogniamo una Chiesa che non si difende.
Ma che difende i piccoli.
Sogniamo una Chiesa che perdona.
Che canti i salmi nella notte.
Che tenga le porte aperte delle proprie cattedrali.
Sogniamo una Chiesa che sogna. Il sogno del suo Maestro.
Che chiama nella notte come un bambino.
Perché vuole che quel sogno continui. Amen.

chiesacomunitàannunciotestimonianza

4.0/5 (1 voto)

inviato da Don Lorenzo Corradini, inserito il 10/12/2002

ESPERIENZA

68. Aiutare gli altri a vincere, questa è la cosa più importante   1

Qualche anno fa, alle paraolimpiadi di Seattle, nove atleti, tutti mentalmente o fisicamente disabilli erano pronti sulla linea di partenza dei 100 metri. Allo sparo della pistola, iniziarono la gara, non tutti correndo, ma con la voglia di arrivare e vincere.

Mentre correvano, un piccolo ragazzino cadde sull'alsfalto, fece un paio di capriole e cominciò a piangere. Gli altri otto sentirono il ragazzino piangere. Rallentarono e guardarono indietro. Si fermarono e tornarono indietro, ciascuno di loro. Una ragazza con la sindrome di Down si sedette accanto a lui e cominciò a baciarlo e a dire: "Adesso stai meglio?" Allora, tutti e nove si abbracciarono e camminarono verso la linea del traguardo. Tutti nello stadio si alzarono, e gli applausi andarono avanti per parecchi minuti.

Persone che erano presenti raccontano ancora la storia. Perché? Perché dentro di noi sappiamo che: la cosa importante nella vita va oltre il vincere per se stessi. La cosa importante in questa vita è aiutare gli altri vincere, anche se comporta rallentare e cambiare la nostra corsa.

amorecompetitivitàaiutarsi

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 03/12/2002

TESTO

69. Pensando un po' alla morte   1

Paulo Coelho

Credo che questo testo si potrà leggere in circa tre minuti. Ebbene, in questo lasso di tempo, moriranno 300 persone e ne nasceranno altre 620.

Forse io impiegherò mezz'ora per scriverlo: sono concentrato sul mio computer, sui libri accanto a me, sulle idee che mi vengono, sulle macchine che passano là fuori.

Tutto sembra assolutamente normale intorno a me. Invece, durante questi trenta minuti, sono morte 3.000 persone, e 6.200 hanno appena visto, per la prima volta, la luce del mondo.

Dove saranno queste migliaia di famiglie che hanno cominciato a piangere per la perdita di qualcuno, o a ridere per l'arrivo di un figlio, di un nipote, di un fratello?

Mi fermo e rifletto: forse molte di queste morti arrivano al termine di una lunga e dolorosa malattia, e certe persone saranno sollevate dall'Angelo che è venuto a prenderle. Inoltre, centinaia di questi bambini che sono appena nati quasi sicuramente saranno abbandonati nel prossimo minuto ed entreranno nelle statistiche di morte prima che io abbia finito questo testo.

Pensate. Ho appena dato uno sguardo a una semplice statistica e tutt'a un tratto inizio ad avvertire il senso di queste perdite e questi incontri, questi sorrisi e queste lacrime. Quanti staranno lasciando questa vita da soli, nelle loro stanze, senza che nessuno si renda conto di ciò che sta accadendo? Quanti nasceranno nascostamente e saranno abbandonati davanti alla porta di qualche ricovero o di qualche convento?

Rifletto: ho già fatto parte della statistica delle nascite e, un giorno, sarò incluso nel numero dei morti. Che bello: io sono pienamente consapevole che morirò. Da quando ho fatto il cammino di Santiago, ho capito che - anche se la vita continua e siamo tutti eterni - un giorno questa esistenza si concluderà.

Le persone pensano molto poco alla morte. Passano la vita preoccupandosi di vere e proprie assurdità, rimandano cose, tralasciano momenti importanti. Non rischiano, perché pensano sia pericoloso. Si lamentano molto, ma diventano codarde quando è il momento di prendere provvedimenti. Vogliono che tutto cambi, ma loro si rifiutano di cambiare.

Se pensassero un po' di più alla morte, non tralascerebbero mai di fare quella telefonata che manca. Sarebbero un po' più folli. Non avrebbero paura della fine di questa incarnazione - perché non si può temere qualcosa che accadrà comunque.

Gli Indios dicono: "Oggi è un giorno buono come qualsiasi altro per lasciare questo mondo". E uno stregone commentò una volta: "Che la morte sia sempre seduta al tuo fianco. Così, quando avrai bisogno di fare qualcosa di importante, essa ti darà la forza e il coraggio necessari".

Spero che tu, lettore, abbia letto fin qui. Sarebbe una stupidaggine spaventarsi per il titolo, perché tutti noi, prima o poi, moriremo. E solo chi accetta questo è pronto per la vita.

vitamortevita eternacoraggiocambiamentopaurasenso della vita

inviato da Federico Bernardi, inserito il 25/11/2002

RACCONTO

70. Piangere come bambini   1

Paulo Coelho, I racconti del maktub

Dice il maestro: "Se devi piangere, piangi come un bambino. Una volta sei stato un bambino, e una delle prime cose che hai imparato nella vita fu piangere, perché il pianto fa parte della vita. Non dimenticare di essere libero, e che mostrare le tue emozioni non è vergognoso. Urla, singhiozza forte, fai il chiasso che vuoi. Perché così è come piangono bambini, e loro conoscono il modo più veloce per confortare i loro cuori. Hai mai notato come i bambini smettono di piangere? Smettono perché qualcosa li distrae. Qualcosa li chiama alla prossima avventura. I bambini smettono di piangere velocemente. E così sarà per te. Ma solo se riesci a piangere come fanno i bambini".

diventare come bambini

inviato da Anna Lianza, inserito il 24/11/2002

RACCONTO

71. Festa grande per un pacco consegnato   1

Marina Parodi

C'era un uomo che di mestiere faceva il corriere espresso (sapete? quello che consegna nelle case i pacchi...). Come tutte le mattine, caricò il suo camion e si preparò al lungo giro di consegne. Quel giorno aveva 100 pezzi da consegnare.

Iniziò con una cassa di bottiglie di vino, che andava consegnata proprio all'ultimo piano di un lussuoso palazzo del centro. Con il fiatone suonò alla porta. Aprì un distinto signore: "Buongiorno, sì è per me, prego la metta qui, no un po' più in là, ecco perfetto, arrivederci!".

Poi fu la volta di una anziana signora, a cui trepidante consegnò un pacchetto con un preziosissimo anello. La donna annoiata e indifferente commentò solo: "Ah, lo metta lì con tutti gli altri, poi lo aprirò...".

A una giovane coppia doveva consegnare la lavatrice nuova. Mentre era in cucina e li aiutava a dismballare, i due iniziarono a litigare "Vedi, avevo ragione io: dovevamo prendere l'altro modello". "Invece no, abbiamo fatto bene a seguire il consiglio di mia madre". "Ma cosa dici, non vedi che sta malissimo vicino al frigo". "Piantala, si sa che tu hai un pessimo gusto!". "Perché secondo te era di buon gusto il regalo che tu mi hai fatto a Natale"... Il trasportatore se ne andò un po' imbarazzato.

Un pacco era destinato a un parroco. Era una statua molto bella, ma molto pesante. Il trasportatore era molto in difficoltà, e nell'entrare in sacrestia si ferì una mano contro un'acquasantiera. Ma il parroco lo accolse solo con un "Oh, finalmente me l'ha portata! Per favore faccia presto, si sbrighi. Sono impegnatissimo, tra 2 min e 40 sec. devo dire messa, tra 45 min c'è la lezione di catechismo, poi c'è la riunione con il gruppo della 3 età, poi il comitato di programmazione economica, poi i giovanissimi e la catechesi per famiglie. Capisce, no?, c'è tanto da fare: faccia presto!". Con la mano ancora dolorante il trasportatore uscì e andò a bagnarla alla fontana del sagrato.

Con il passare delle ore e il crescere della fatica, i pacchi pian piano diminuivano. Alla fine ne rimase solo uno. Quando arrivò all'indirizzo segnato sul pacco, aprì la porta un ragazzo: "No mi dispiace, il suo indirizzo è sbagliato, la signora Beatrice Bianchi (quello era il nome della destinataria) non abita più qui, si è trasferita almeno da un mese...". "E sa dove è andata ad abitare?". "No, io no, ma provi a chiedere al fruttivendolo all'angolo. Lui conosce tutti".

Il camionista si presentò al fruttivendolo e spiegò il suo problema: "Devo consegnare un pacco alla signora Beatrice Bianchi, ma ho l'indirizzo sbagliato. Lei sa dirmi dove posso trovarla?". "Ah, sì, si è trasferita, in un altro quartiere, me lo aveva detto, però l'indirizzo proprio non me lo ricordo... Provi a chiedere a Piero, lo trova là all'osteria, lui sicuramente lo sa".

Il camionista entrò nel fumoso bar e dietro un bicchiere di vino e un mazzo di carte, trovò Piero, un vecchietto con la barba bianca e due occhi azzurri come il cielo. "Ma sì la Beatrice! La conosciamo tutti qui, faceva la cameriera, è un peccato che si sia trasferita... Ecco, le scrivo il nuovo indirizzo".

Finalmente, dopo la lunga ricerca, il nostro amico si trovò di fronte alla porta dell'appartamento della signora Beatrice Bianchi. Il palazzo era in una delle zone più povere e degradate della città, lo squallore del luogo metteva proprio tristezza. Come aveva fatto con gli altri 99 pacchi, suonò e annunciò: "Signora, devo consegnarle un pacco". Aprì una giovane ragazza, mentre da una stanza interna si sentiva il pianto di un ragazzino. "Un pacco per me?". "Sì, signora; non è stato facile, ma sono contento di averla trovata...". "E cosa sarà mai? Non aspettavo pacchi... Oh... mi scusi, la sto lasciando sulla porta; prego, si accomodi, si sieda, posso offrirle un caffè? intanto guardiamo cosa c'è nel pacco...". Piacevolmente sorpreso, il corriere accettò volentieri l'invito. Il bambino intanto aveva smesso di piangere e si era avvicinato a osservare curioso quell'ospite sconosciuto.

Dopo aver versato il caffè all'ospite, Beatrice aprì il grosso pacco. Non poté trattenere un grido di gioia, quando ne vide il contenuto. Il pacco era pieno di cibi buonissimi, tra cui una grossa torta di compleanno. Insieme ai cibi una lettera. Quando la lesse, a Beatrice vennero gli occhi lucidi. Poi spiegò: "5 anni fa litigai violentemente con mia madre, e da allora non ci siamo più frequentate. Ora mi scrive che non vuole più discutere del passato, ma si è ricordata che oggi è il compleanno di Roberto, mio figlio e ci manda un po' di dolci per festeggiare. E pensare che proprio 10 minuti fa io stavo spiegando a Roberto che non avremmo potuto fare la festa con i suoi amici perché dopo aver pagato le bollette mi sono avanzati pochissimi soldi... È lei che ha permesso tutto questo! Io... io voglio ringraziarla. Si fermi e festeggi con noi!".

E così il trasportatore si trovò coinvolto in una festa piena di musica, allegria e risate, insieme con Beatrice, Roberto, i suoi amici e altre persone del vicinato. E alla fine della giornata, potete star certi, fu proprio lui il più contento per quel pacco con l'indirizzo sbagliato!

La storia può essere un punto di partenza per parlare di Dio che cerca tutti gli uomini, anche la pecorella smarrita... per suggerimenti sull'attività e per scaricare altre storielle simili, clicca qui.

rapporto con Diomisericordiapecorella smarrita

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 20/11/2002

RACCONTO

72. Pierino davanti al presepe

Pierino sogna... sta andando insieme ai pastori e ai Re Magi verso la stalla quando si trova improvvisamente davanti a Gesù Bambino che giace nella mangiatoia. Pierino si accorge di essere a mani vuote. Tutti hanno portato qualcosa: solo lui è senza doni.

Avvilito dice subito: "Prometto di darti la cosa più bella che ho. Ti regalo la mia nuova bicicletta, anzi il mio trenino elettrico".

Il bambino nel presepe scuote la testa e sorridendo dice: "Io non voglio il tuo trenino elettrico. Dammi il tuo tema in classe!".

"Il mio ultimo tema?" balbetta il ragazzino. "Ma ho preso un insufficiente!".

"Appunto, proprio per questo lo vorrei" dice Gesù. "Devi darmi sempre tutto quello che è insufficiente, imperfetto. Per questo sono venuto nel mondo. Ma vorrei un'altra cosa ancora da te: la tua tazza del latte".

A questo punto Pierino si rattrista: "La mia tazza? Ma è rotta!".

"Proprio per questo la vorrei avere" dice Gesù Bambino. "Tu mi puoi portare tutto quello che si rompe nella tua vita. Io sono capace di risanarlo".

Il ragazzino sentì di nuovo la voce del Bambino Gesù: "Vorrei una terza cosa da te: vorrei la risposta che hai dato a tua mamma quando ti ha chiesto come mai si è rotta la tazza del latte".

Allora Pierino inizia a piangere e confessa tra le lacrime: "Ma le ho detto una bugia, quella volta. Ho detto alla mamma che la tazza era caduta per caso, ma in realtà l'ho gettata a terra io, per rabbia".

"Per questo vorrei avere quella tua risposta" risponde sicuro Gesù Bambino. "Portami sempre tutto quello che nella tua vita è cattivo, bugiardo, dispettoso e malvagio. Sono venuto nel mondo per perdonarti, per prenderti la mano e insegnarti la via".

Gesù sorride di nuovo a Pierino, mentre lui guarda, comprende e... si meraviglia....

presepeNataleincarnazionemisericordia di Dioumiltàpiccolezzaperdono di Dio

inviato da Anna Lianza, inserito il 11/11/2002

RACCONTO

73. Le quattro candele

Le quattro candele, bruciano, si consumano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso, che si poteva ascoltare la loro conversazione...

La prima diceva:
"Io sono la pace,
ma gli uomini non riescono a mantenermi: penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!".
Così fu, e a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda diceva:
"Io sono la fede,
purtroppo non servo a nulla. Gli uomini non ne vogliono sapere di me, e per questo motivo non ha senso che io resti accesa".
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela, a sua volta disse:
"Io sono l'amore,
non ho la forza per continuare a rimanere accesa. Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza.
Essi odiano perfino coloro che più li amano, i loro familiari."
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

Inaspettatamente...
un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente. Impaurito per la semioscurità disse:
"Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!".

E così dicendo scoppiò in lacrime. Allora la quarta candela impietositasi disse:
"Non temere,
non piangere:
finché io sarò accesa,
potremo sempre riaccendere
le altre tre candele:
io sono la speranza".

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

Che non si spenga mai la speranza dentro il nostro cuore...
...e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza la Fede, la Pace e l'Amore!!!

speranzaamorefedepaceottimismopessimismoimportanza del singolo

4.0/5 (1 voto)

inviato da Sara Accorti, inserito il 28/08/2002

RACCONTO

74. La donna e la cipolla

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov

C'era una volta una donna cattiva cattiva che morì, senza lasciarsi dietro nemmeno un'azione virtuosa. I diavoli l'afferrarono e la gettarono in un lago di fuoco.
Ma il suo angelo custode era là e pensava: «Di quale sua azione virtuosa mi posso ricordare per dirla a Dio? Se ne ricordò una e disse a Dio: ha sradicato una cipolla nell'orto e l'ha data a una mendicante».
E Dio gli rispose: «Prendi dunque quella stessa cipolla, tendila a lei nel lago, che vi si aggrappi e la tenga stretta, e se tu la tirerai fuori del lago, vada in paradiso; se invece la cipolla si strapperà, la donna rimanga dov'è ora».
L'angelo corse dalla donna, le tese la cipolla: «Su, donna, le disse, attaccati e tieni».
E si mise a tirarla cautamente, e l'aveva già quasi tirata fuori, ma gli altri peccatori che erano nel lago, quando videro che la traevano fuori, cominciarono ad aggrapparsi tutti a lei, per essere anch'essi tirati fuori. Ma la donna era cattiva cattiva e si mise a sparar calci contro di loro, dicendo: «È me che si tira e non voi, la cipolla è mia e non vostra». Appena ebbe detto questo, la cipolla si strappò. E la donna cadde nel lago e brucia ancora.
E l'angelo si mise a piangere e si allontanò.

infernoamoresalvezzaaltruismodonareegoismoparadiso

inviato da Mariangela Molari, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

75. La principessa Anima

T.Spidlìk, Il professore Ulipispirus e altre storie

In mezzo alle montagne coperte di neve c'era una verde vallata con giardini, campi fertili, casette di artigiani. Sulla collina più alta c'era un castello dove abitava il vecchio principe con l'unica figlia, di nome Anima. Il principe e la principessa erano tutti e due buoni e la gente della valle li amava. Perciò tutti diventarono tristi quando si sparse la notizia che la principessa Anima era gravemente malata e non poteva uscire dal castello. Molti diedero consigli e portarono erbe medicinali. I medici arrivarono da paesi lontani. Ma nessun rimedio servì a niente. La principessa Anima peggiorava di giorno in giorno e la gente era sempre più triste.

Un giorno arrivò alla porta del castello una vecchietta sconosciuta. La presero per una mendicante e le diedero del pane in elemosina. Ma la vecchietta disse che voleva vedere la principessa malata. I servi non volevano lasciarla entrare e stavano a discutere con lei sul portone del castello finché il vecchio principe fu attirato dalle voci e uscì a vedere la strana vecchietta. Gli sembrò una buona donna e non trovò nessun motivo per non farla salire nella camera dove la figlia giaceva malata. "Dio mio, com'è dimagrita e com'è triste!", sospirò la vecchietta. "Purtroppo - gemette il principe - sembra che non vi sia più speranza". "Vi lamentate inutilmente - gli sussurrò all'orecchio la vecchietta - la principessa guarirà. Ha una malattia particolare. Non è nel corpo, è nell'anima. Per guarire ha bisogno di vedere il volto più bello che esiste sulla terra". Detto questo, la vecchietta improvvisamente sparì.

Al principe sembrava assai strano questo consiglio. Ma quando l'uomo è nella miseria si attacca a tutto. Così invitò pubblicamente tutte le più belle ragazze e i più bei giovani della sua terra a venire al castello. Il bel viso che guarirà la principessa, diceva il bando dei principe, riceverà una lauta ricompensa. Se si tratterà di un giovane, Anima diventerà sua moglie, nel caso di una ragazza, riceverà in dote la metà dell'eredità. Appena il bando fu pubblicato, tutta la più bella gioventù accorse al castello. I giovani sono tutti belli, e ognuno cercava di persuadersi di essere più bello degli altri. Ma tutto fu inutile. Anima peggiorava di giorno in giorno e diventava l'ombra di se stessa. Il principe piangeva, e nessuno riusciva a consolarlo.

Un pomeriggio la vecchietta sconosciuta comparve di nuovo al portone del castello. Di nuovo i servi non volevano lasciarla entrare e la prendevano in giro chiedendole se per caso credesse d'essere lei la più bella del mondo. Ma il principe anche stavolta fu attirato dal trambusto, accorse all'ingresso e condusse subito la vecchietta al capezzale della principessa. «Dio mio, com'è dimagrita e com'è debole!», esclamò la vecchietta. Il principe scoppiò a piangere. Ma la vecchietta aggiunse: " E' un bene che sia qui, sta morendo". Tutto il castello si riempì del pianto disperato del principe, a cui s'unì quello di tutti i servi e di tutte le guardie. Ma la vecchietta non badò affatto alla gran confusione che le sue parole avevano provocato. Corse al muro della stanza, tolse lo specchio che vi era appeso, s'avvicinò al letto e mise lo specchio davanti al volto agonizzante della principessa Anima. Successe il miracolo. La principessa vide il più bel volto dei mondo: era lei la più bella giovane della terra. Lo sguardo su se stessa la guarì all'istante e il pianto del castello si trasformò in grida di esultanza e di gioia.

Ora domanderete come finisce questa favola. Le favole non sono tutte uguali, e questa è una favola vera. La principessa Anima è l'anima umana, la più bella fra tutte le cose che esistono sulla terra. Purtroppo però non lo sa. Cerca la bellezza fuori di sé e non riesce a trovarla, perciò s'ammala e s'indebolisce. Solo quando riesce a conoscere se stessa e la sua bellezza interiore, allora guarisce e la sua gioia è senza fine. Per questo anche questa favola è senza il solito finale.

interiorità

inviato da Giuliana Babini, inserito il 01/06/2002

TESTO

76. Vivere la Pasqua

frère Roger di Taizè

Se la pianta non si orienta verso la luce, appassisce. Se il cristiano rifiuta di guardare la luce, se si ostina a guardare solo le tenebre, cammina verso una morte lenta; non può crescere né costruirsi in Cristo.

A poco a poco Cristo trasforma e trasfigura tutte le forze ribelli e contraddittorie che ci sono dentro di noi... Piangere sulla nostra ferita ci trasformerebbe in uno strazio, in una forza che aggredisce con violenza noi stessi e gli altri, soprattutto chi ci è più vicino. Una volta trasfigurata da Cristo, la ferita si trasforma in una fonte di energia, in una sorgente da cui scaturiscono le forze di comunione, di amicizia e comprensione.

Questa trasfigurazione è l'inizio della risurrezione sulla terra, è vivere la Pasqua insieme a Gesù; è un continuo passare dalla morte alla vita.

pasquarisurrezionepeccatoconversione

inviato da Mariangela Molari, inserito il 01/06/2002

TESTO

77. Se mi ami non piangere   3

Giacomo Perico, Resta con noi Signore, San Paolo Edizioni, 2011

Se mi ami non piangere! Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo, se tu potessi vedere e sentire quello che io vedo e sento in questi orizzonti senza fine, e in questa luce che tutto investe e penetra, tu non piangeresti se mi ami.

Qui si è ormai assorbiti dall'incanto di Dio, dalle sue espressioni di infinità bontà e dai riflessi della sua sconfinata bellezza. Le cose di un tempo sono così piccole e fuggevoli al confronto.

Mi è rimasto l'affetto per te: una tenerezza che non ho mai conosciuto.

Sono felice di averti incontrato nel tempo, anche se tutto era allora così fugace e limitato. Ora l'amore che mi stringe profondamente a te, è gioia pura e senza tramonto.

Mentre io vivo nella serena ed esaltante attesa del tuo arrivo tra noi, tu pensami così!

Nelle tue battaglie, nei tuoi momenti di sconforto e di solitudine, pensa a questa meravigliosa casa, dove non esiste la morte, dove ci disseteremo insieme, nel trasporto più intenso alla fonte inesauribile dell'amore e della felicità.

Non piangere più, se veramente mi ami!

sul web questo testo viene attribuito a Sant'Agostino ma dovrebbe essere di padre Giacomo Perico, sacerdote gesuita, ispirato dalla morte di suo padre .

morteparadisovita eternadefunti

5.0/5 (2 voti)

inviato da Mariangela Molari, inserito il 25/05/2002

PREGHIERA

78. Ho cercato Dio

Angelus Silesius

Ho cercato Dio
con la mia lampada così brillante
che tutti me la invidiavano.
Ho cercato Dio negli altri.
Ho cercato Dio
nelle piccolissime tane dei topi.
Ho cercato Dio nelle biblioteche.
Ho cercato Dio nelle università.
Ho cercato Dio
col telescopio e con microscopio.
Finché mi accorsi che
avevo dimenticato quello che cercavo.
Allora, spegnendo la mia lampada,
gettai le chiavi, e mi misi a piangere...
e subito, la sua Luce fu in me...

preghiera Diorapporto con Dioricerca di Dio

inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002

PREGHIERA

79. Lo sguardo

Michel Quoist

Adesso Signore, sto per chiudere le mie palpebre,
perché i miei occhi questa sera hanno finito il loro lavoro,
e il mio sguardo sta per rientrare nella mia anima
dopo aver girato una giornata nel giardino degli uomini.
Grazie, Signore, per i miei occhi, finestre aperte sullo spazio.
Grazie per lo sguardo che trasporta la mia anima
come il raggio generoso conduce la luce e il calore del tuo sole.
Io ti prego nella notte, affinché domani, Signore,
quando aprirò i miei occhi al chiarore del mattino,
essi siano pronti a servire la mia anima e il suo Dio.
Fa' che i miei occhi siano chiari, Signore,
e che il mio sguardo limpido dia fame di purezza.
Fa' che non sia sguardo deluso, disilluso, disperato.
Ma che sappia ammirare, estasiarsi, contemplare.
Concedi ai miei occhi di sapersi chiudere per ritrovarti meglio,
ma senza che si distolgano mai dal mondo perché essi ne hanno paura.
Concedi al mio sguardo di essere profondo
per riconoscere nel mondo la tua presenza.
E fa' che mai i miei occhi si chiudano sulla miseria degli uomini.
Che il mio sguardo, Signore, sia pulito e saldo,
ma sappia intenerirsi e che i miei occhi siano capaci di piangere.
Fa' che il mio sguardo non sporchi colui che tocca.
Che non disturbi ma plachi.
Che non rattristi ma comunichi Gioia.
Che non seduca per tener prigioniero,
ma sia invitante e aiuti a superare se stessi.
Fa' che disturbi il peccatore affinché vi riconosca la tua luce,
ma che sia solo un rimprovero per incoraggiare.
Fa' che il mio sguardo sconvolga, perché è un incontro, l'incontro con Dio.
Che sia l'appello, lo squillo di tromba
che mobilita tutto il mondo sulla soglia di casa,
non a causa mia, Signore, ma perché Tu stai per passare.
Affinché il mio sguardo sia tutto questo, Signore,
una volta di più, questa sera, io ti offro la mia anima.
Ti offro il mio corpo.
Ti offro i miei occhi così che guardando gli uomini, miei fratelli,
sia tu a guardarli,
e che attraverso me Tu faccia loro un richiamo.

sguardopurezzadonaretestimonianza

inviato da Mariangela Molari, inserito il 20/05/2002

TESTO

80. Prima ancora

Henri J. M. Nouwen, Sentirsi Amati

Prima ancora che qualsiasi essere umano ci vedesse, siamo stati visti dagli amorevoli occhi di Dio. Prima ancora che qualcuno ci sentisse piangere o ridere, siamo stati ascoltati dal nostro Dio che è tutto orecchie per noi. Prima ancora che qualcuno in questo mondo ci parlasse, la voce dell'amore eterno già ci parlava.

La nostra preziosità, unicità e individualità non ci sono state date da coloro che incontriamo nell'arco del tempo - della nostra breve esistenza cronologica - ma da Colui che ci ha scelto con infinito amore, un amore che esiste da tutta l'eternità e che durerà per tutta l'eternità.

creazioneamore di Dio

inviato da Mariangela Molari, inserito il 11/05/2002

RACCONTO

81. Il giorno degli uomini verdi   1

Bruno Ferrero, Tutte storie

Un giorno Dio, stufo delle guerre e delle violenze che si compivano sulla Terra, riunì tutti gli angeli e tenne loro questo discorso: "Avevo detto agli uomini: amatevi gli uni gli altri, e in vece si detestano, perché non sopportano le loro differenze. Ho deciso di impartire loro una buona lezione. Ordinò che a partire dal 1 maggio 2000 tutti gli esseri umani abbiano la stessa pelle color verde-mela, e che diventino tutti perfettamente uguali."

Il 1 maggio 2000 il professor O'Neil, premio Nobel per la biologia, si svegliò di soprassalto. Scese dal letto di pessimo umore e, guardatosi allo specchio, quasi che gli venne un colpo. Non si riconosceva più! Penso di sognare, ma dopo una bella doccia fredda il risultato non era cambiato, anzi, la sua pelle era di un verde ancor più splendente. Velocemente si recò in cucina per bersi un caffè e trovò la moglie... irriconoscibile, anche lei verde! Si collegò in videoconferenza con il suo collega giapponese Mite Mangiu, ma vide dall'altra parte del monitor una persona altrettanto verde! Erano tutti e due disperati!
Scene simili si ripetevano in ogni angolo del mondo.

Clinton telefonò in fretta al presidente russo, ma quasi che non riconoscevano più le loro voci, anch'esse cambiate, uguali cioè alle voci di tutti gli altri uomini nel mondo.

Alcuni dirottatori del Kashmir minacciavano di uccidere tutti gli indiani sull'aereo, ma non li distinguevano più dagli altri passeggeri e sconsolati si misero a piangere.

Un centinaio di calciatori si spacciarono per Del Piero chiedendo un aumento di stipendio, ma furono tutti scacciati a calcioni, compresi il vero Del Piero, verde anche lui e non solo di bile!

I politici anche loro erano tutti verdi, compreso Bertinotti, mentre i veri "Verdi" diedero le dimissioni perché ormai si ritenevano inutili!

Insomma, era un vero manicomio. Gli occidentali erano tutti sconsolati, avevano perso tutto perché ovviamente banche, borse, industrie non potevano più funzionare, dato che non si distinguevano più direttori da impiegati, lavoratori da ladri opportunisti... In Africa e nel terzo Mondo invece erano contenti, perché adesso non c'era più il colore diverso della pelle come fattore discriminante...

Però la situazione era davvero grave... ovunque regnava il panico.

Ci fu un grande summit di biologi, ma alla fine il professor O'Neil disse che non sapeva proprio che fare.

Di fronte a questa ammissione di impotenza il buon Dio decise di intervenire e di riportare tutto alla normalità.

Con grande sorpresa e gioia indescrivibile il 15 maggio 2000 la gente si risvegliò normale, scoprendo la bellezza dell'essere diversi gli uni dagli altri. La gente corse fuori ad abbracciarsi, russi e ceceni, cattolici e protestanti, musulmani e ebrei, neri e bianchi... fu come una nuova nascita per tutti.

Certo, non tutti i problemi furono risolti, ma almeno nessuno più si sentiva superiore agli altri solo perché era nato in occidente anziché al sud del mondo.

Dio riunì nuovamente tutti i suoi angeli e concluse dicendo: "Chissà fino a quando durerà?".

uguaglianzadifferenzemulticulturalitàrazzismo

inviato da Stefania Raspo, inserito il 08/05/2002

TESTO

82. Regala ciò che non hai

Alessandro Manzoni

Occupati dei guai,
dei problemi del tuo prossimo.
Prenditi a cuore gli affanni,
le esigenze di chi ti sta vicino.
Regala agli altri la luce che non hai,
la forza che non possiedi,
la speranza che senti vacillare in te,
la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio.
Arricchiscili con la tua povertà.
Regala un sorriso
quando hai voglia di piangere.
Produci serenità
dalla tempesta che hai dentro.
"Ecco, quello che non hai, te lo do".
Questo è il tuo paradosso.
Ti accorgerai che la gioia
a poco a poco entrerà in te,
invaderà il tuo essere,
diventerà veramente tua
nella misura in cui
l'avrai regalata agli altri.

solidarietàdonare

inviato da Luana Minto, inserito il 08/05/2002

TESTO

83. In principio uomini, infine santi

M. Raymond, L'uomo che si vendicò di Dio

Non ammiro Pietro che rinnega, spergiurando, il Cristo, né la sua fede vacillante quando cammina sulle acque. Ciò nonostante, il suo rinnegamento e la sua esitazione mi sono d'aiuto nel cammino della santità. Anch'io ho vacillato e sono caduto; e se non m'è dato di piangere come Pietro, posso almeno gridare con lui: "Salvami, o Signore, se non vuoi ch'io mi perda!".

Non posso ammirare Saulo che custodisce le vesti dei lapidatori di Stefano e cavalca da Gerusalemme a Damasco, spirante minacce e stragi contro tutti i cristiani. Sotto questo aspetto, Saulo, persecutore dei discepoli di Gesù è, a sua volta, un tipo detestabile. Tuttavia Saulo, divenuto Paolo mi incoraggia. Se lui poté cambiare l'odio in amore, la mia speranza vive ancora.

Analoghe riflessioni si possono fare con molti altri, anzi, con la maggior parte de santi. La debolezza dei loro inizi mi dà la forza, la loro santità finale ispirazione. Ringrazio Iddio per Agostino peccatore trasformato in santo; per Alfonso che, all'età di ottant'anni, dice a un tizio: "Se dobbiamo parlarci, collochiamo fra noi un tavolo: non si sa mai! C'è ancora del sangue nelle mie vene!".

Ringrazio Dio per tutti quelli che da principio non furono che uomini, ma in seguito, con la loro cooperazione, lo sforzo personale e il duro lavoro divennero virtuosi e spirituali.

santitàconversionepeccato

inviato da Mariangela Molari, inserito il 08/05/2002

TESTO

84. La preghiera

Kahlil Gibran, il Profeta

Allora una sacerdotessa disse: Parlaci della preghiera.
Ed egli rispose, dicendo:

Voi pregate nelle angustie e nel bisogno; ma io vorrei che voi pregaste anche nella gioia piena e nei giorni dell'abbondanza.
Poiché che altro è la preghiera se non l'espansione di voi stessi nell'etere vivente?
Ed è a voi di conforto versare nello spazio la vostra oscurità, ed è anche per voi di diletto versare nell'esterno la gioia mattinale del vostro cuore.
E se non potete fare a meno di piangere quando l'anima vi spinge alla preghiera, essa dovrebbe spingervi, comunque, fino al punto che attraverso le lacrime spunti il sorriso.
Quando pregate voi vi innalzate a incontrare nell'aria tutti coloro che in quel medesimo istante sono in preghiera, che mai, se non nella preghiera, potreste incontrare.
Perciò non sia questa vostra visita a quell'invisibile tempio che estasi e dolce comunione.
Poiché se intendeste entrare nel tempio non per altro che per chiedere, non ricevereste nulla:
E se entrate per umiliarvi, non sareste innalzati:
E se anche voleste entrare per intercedere per il bene di qualcun'altra non sarete esauditi.
Basta già che voi entriate nell'invisibile tempio.
Io non posso insegnarvi parole di preghiere.
Dio non ascolta le vostre parole, a meno che non le pronunci attraverso le vostre labbra.
Ed io non posso insegnarvi la preghiera dei mari, delle foreste, delle montagne.
Ma voi, nati dai monti, dalle foreste e dal mare potete ritrovare nei vostri cuori la loro preghiera.
E se solo state in ascolto nella quiete delle notti udrete mormorare:
"Dio nostro, che sei la nostra ala, è la tua volontà che vuole in noi,
è il tuo desiderio che desidera in noi,
è il tuo impulso in noi che può trasformare le nostre notti, che sono anche le tue notti, in giorni che siano anche i tuoi giorni.
Nulla possiamo noi chiederti, poiché tu conosci le nostre necessità prima ancora che nascano in noi:
Sei tu la nostra necessità; e nel darci più di te stesso, tu ci dai tutto".

preghierarapporto con Dio

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 03/05/2002

TESTO

85. Amore   2

Kahlil Gibran, Il profeta

Quando l'amore vi fa cenno, seguitelo,
benché le sue strade siano aspre e scoscese.
E quando le sue ali vi avvolgono,
abbandonatevi a lui,
benché la spada che nasconde tra le penne possa ferirvi.
E quando vi parla, credetegli,
anche se la sua voce può mandare in frantumi i vostri sogni
come il vento del nord lascia spoglio il giardino.
Perché come l'amore vi incorona, così vi crocifigge.
E come per voi è maturazione, così è anche potatura.
E come sale alla vostra cima e accarezza i rami più teneri che fremono al sole,
così discenderà alle vostre radici che scuoterà dove si aggrappano con più forza alla terra.
Come fastelli di grano vi raccoglierà.
Vi batterà per denudarvi.
Vi passerà al crivello per liberarvi dalla pula.
Vi macinerà fino a farvi farina.
Vi impasterà fino a rendervi plasmabili.
E poi vi assegnerà al fuoco sacro,
perché possiate diventare pane sacro nei sacri conviti di Dio.
Tutto questo farà in voi l'amore,
affinché conosciate i segreti del cuore,
e in quella conoscenza diventiate un frammento del cuore della vita.
Ma se avrete paura, e cercherete soltanto la pace dell'amore
ed il piacere dell'amore,
allora è meglio che copriate le vostre nudità,
e passiate lontano dall'aia dell'amore,
nel mondo senza stagioni dove potrete ridere,
ma non tutto il vostro riso,
e piangere, ma non tutto il vostro pianto.
L'amore non dà nulla all'infuori di sé,
né prende nulla se non da se stesso.
L'amore non possiede né vuol essere posseduto,
perché l'amore basta all'amore.
Quando amate non dovreste dire: "Dio è nel mio cuore".
Ma, semmai, "sono nel cuore di Dio".
E non crediate di guidare il corso dell'amore,
poiché l'amore, se vi trova degni,
guiderà lui il vostro corso.
L'amore non desidera che il proprio compimento.
Ma se amate e quindi avete desideri,
i vostri desideri siano questi:
sciogliersi e farsi simili a un ruscello
che scorra e canti nella notte la sua melodia;
conoscere il martirio della troppa tenerezza;
esser feriti dal vostro proprio intendere l'amore;
e sanguinare di buon grado, gioiosamente;
svegliarsi all'alba con un cuore alato
e dire grazie a un nuovo giorno d'amore;
Riposare al pomeriggio e meditare sull'estasi amorosa,
tornare a casa con gratitudine la sera,
e addormentarsi con una preghiera per chi amate nel cuore,
e un canto di lode sulle labbra.

amore

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cristiano Ciferri, inserito il 16/04/2002

TESTO

86. Ti voglio per amico   2

Padre Zezhino

Ti voglio per amico
ed è importante per me che tu lo sappia.
Però, anche se tu non lo sapessi e non ti interessasse saperlo,
ti vorrei bene lo stesso!
Non ti voglio bene per me, ti voglio bene per te!
Non sei una persona che voglio possedere,
sei una persona che voglio vedere sbocciare ogni giorno di più.
Se avrai tempo per me, sarò felice di stare insieme a te.
Se sarai occupato e non mi vorrai accanto, cercherò di capire.
Se cercherai il mio tempo, farò in modo di sbrigarmi,
perché immagino che non mi cercheresti senza una ragione:
per me la tua ragione sarà sempre importante.
Se vuoi piangere, ti offro le mie spalle.
Se vuoi urlare contro il mondo ti offro la mia voce,
se vuoi sorridere, ci sarò anch'io a sorridere con te.
Se vuoi pace e silenzio, cercherò di parlare, ma non troppo.
Se per caso cercherai di vedere in me l'unico amico che hai,
cercherò di farti trovare altri amici,
perché non potrei mai darti tutto ciò di cui hai bisogno.
Non voglio essere il tuo unico amico,
sembra bello, però non ti fa bene.
Hai bisogno di altri, come io ne ho bisogno.
Se si spegnerà la tua luce, prendi la mia.
Se la tua pace se ne va, ci sarà ancora la mia, prendila pure.
Se la tua fede si farà confusa, credi con me: in due si crede meglio.
Se avrai paura, uniamo le nostre paure,
forse troveremo il coraggio di vivere.
Allora non ti prometto di non deluderti mai!
Sai che sono umano e perciò posso sbagliare.
Non ti prometto di amarti come vuoi essere amato!
Non ti prometto niente di più che cercare di essere vicino a te e camminare insieme.
Voglio essere il tuo compagno, il tuo amico, il tuo fratello,
senza la presunzione di essere la tua unica forza.
Guardami negli occhi e cerca di immaginarmi come un ponte:
non devi restare in me, devi passare attraverso di me,
perché io sono tuo amico, perché sono tua strada verso l'Infinito,
perché sono il ponte che ti porta all'al di là,
e se non riuscissi a portarti più vicino a Dio,
non sarei stato un vero amico.
Ti voglio per amico.
Pensa a me come a un ponte nel tempo,
dopo di me troverai il vero amico: Dio.
Mi vuoi?

amicizia

inviato da Antonella Muscatello, inserito il 11/04/2002

PREGHIERA

87. Insegnami ad usare bene il tempo   3

Jean Guitton

Dio mio,
insegnami ad usare bene il tempo che tu mi dai
e ad impiegarlo bene, senza sciuparne.

Insegnami a prevedere senza tormentarmi,
insegnami a trarre profitto dagli errori passati,
senza lasciarmi prendere dagli scrupoli.

Insegnami ad immaginare l'avvenire
senza disperarmi che non possa essere
quale io l'immagino.

Insegnami a piangere sulle mie colpe
senza cadere nell'inquietudine.

Insegnami ad agire senza fretta,
e ad affrettarmi senza precipitazione.

Insegnami ad unire la fretta alla lentezza,
la serenità al fervore, lo zelo alla pace.

Aiutami quando comincio,
perché è proprio allora che io sono debole.

Veglia sulla mia attenzione quando lavoro,
e soprattutto riempi tu i vuoti delle mie opere.

Fa' che io ami il tempo
che tanto assomiglia alla tua grazia
perché esso porta tutte le opere alla loro fine
e alla loro perfezione
senza che noi abbiamo l'impressione
di parteciparvi in qualche modo.

temposerenitàsperanza

2.7/5 (3 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 05/04/2002