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TESTO

1. Hanno sloggiato Gesù

Chiara Lubich, Hanno sloggiato Gesù

S'avvicina Natale e le vie della città s'ammantano di luci.
Una fila interminabile di negozi, una ricchezza senza fine, ma esorbitante. A sinistra della nostra macchina ecco una serie di vetrine che si fanno notare. Al di là del vetro nevica graziosamente: illusione ottica. Poi bambini e bambine su slitte trainate da renne e animaletti waltdisneyani. E ancora slitte e babbo-Natale e cerbiatti, porcellini, lepri, rane burattine e nani rossi. Tutto si muove con garbo.
Ah! Ecco gli angioletti... Macché! Sono fatine, inventate di recente, quali addobbi al paesaggio bianco.
Un bambino coi genitori si leva sulle punte dei piedini e osserva, ammaliato.
Ma nel mio cuore l'incredulità e poi quasi la ribellione: questo mondo ricco si è "accalappiato" il Natale e tutto il suo contorno, e ha sloggiato Gesù!
Ama del Natale la poesia, l'ambiente, l'amicizia che suscita, i regali che suggerisce, le luci, le stelle, i canti.
Punta sul Natale per il guadagno migliore dell'anno.
Ma a Gesù non pensa.
"Venne fra i suoi e non lo ricevettero..."
"Non c'era posto per lui nell'albergo"... nemmeno a Natale.

Stanotte non ho dormito. Questo pensiero mi ha tenuta sveglia.
Se rinascessi farei tante cose. Se non avessi fondato l'Opera di Maria, ne fonderei una che serve i Natali degli uomini sulla terra. Stamperei le più belle cartoline del mondo. Sfornerei statue e statuette coll'arte più pregiata. Inciderei poesie, canzoni passate e presenti, illustrerei libri per piccoli e adulti su questo "mistero d'amore", stenderei canovacci per rappresentazioni e film.
Non so quel che farei...
Oggi ringrazio la Chiesa che ha salvato le immagini.
Quando sono stata, venticinque anni fa, in una terra in cui dominava l'ateismo, un sacerdote scolpiva statue d'angeli per ricordare il Cielo alla gente. Oggi lo capisco di più. Lo esige l'ateismo pratico che ora invade il mondo dappertutto.
Certo che questo tenersi il Natale e bandire invece il Neonato è qualche cosa che addolora.
Che almeno in tutte le nostre case si gridi Chi è nato, facendoGli festa come non mai.

nataleconsumismoGesù

inviato da Qumran2, inserito il 23/06/2020

TESTO

2. Il segreto del maestro

don Tonino Bello, Scrivo a voi... Lettere di un vescovo ai catechisti, EDB

Carissimi catechisti,

ogni volta che tornavo nel mio paese, andavo a trovarlo. Ultimamente si era incurvato e gli tremavano le mani. Ma per me è rimasto sempre il maestro di un tempo. Tornavo da lui per un dovere di gratitudine. Ma soprattutto condotto dalla speranza. Chi sa, mi dicevo, che non abbia, come nelle fiabe che ci raccontava in quarta elementare, una noce misteriosa da farmi schiacciare nei momenti difficili!

Di tutti gli insegnanti che ho avuto, lui era l'unico a provare soggezione di me. Me ne accorgevo dall'imbarazzo con cui, nel discorso con me, passava dal “lei” al “tu”. Mi hanno detto anche che era fiero di avermi avuto come discepolo. Forse però non ha mai saputo che se ancora tornavo da lui era perché avevo il presentimento che mi avrebbe aiutato a risolvere, come un tempo, qualche altro complicato problema, per il quale non mi bastavano più le quattro operazioni dell'aritmetica che lui mi aveva insegnato. Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.

Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?

Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.

Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.

Vorrei augurare a tutti voi che i vostri ragazzi provino per voi gli stessi sentimenti che ho provato io per il mio vecchio maestro delle elementari... statene certi: se restate saldi in Gesù e vi animerà una forte passione di trasmettere la sua Verità, essi, i vostri ragazzi di oggi, un giorno verranno a farvi visita. Sì, perché anche se saranno diventati professori dell'università gregoriana, torneranno da voi per recuperare quei frammenti di mistero, di cui non hanno ancora trovato spiegazione neppure sui libri di teologia.

Vi saluto, don Tonino Vescovo
3 marzo 1991

educareeducatoricatechistiinsegnaretestimoniaremaestridomandescuola

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/12/2018

TESTO

3. Lettera a Carlotta per il giorno della sua Prima Comunione

Anna Marinelli

Cara Carlotta, domani riceverai per la prima volta nella vita una minuscola particola fatta di grano ma che racchiude, per coloro che hanno fede, il Corpo, il Sangue, l'Anima e la Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo. Che mistero grande mia adorata Carlotta. Forse dopo il giorno della tua nascita e quello in cui ricevesti il Battesimo questo sarà il giorno, in assoluto, più importante della tua vita.

Non lasciarti distogliere dall'abito bianco, dalla ghirlanda che forse metterai tra i capelli, ai regali che ti aspetti di ricevere, dai parenti che verranno a vederti in chiesa...
La cosa più importante è Gesù, Gesù solo.

Lui, l'immenso incontenibile viene ad abitare nel piccolo muscolo di carne che è il tuo cuore, viene nella tua anima bianca e immacolata, viene nel tuo corpicino esile come un fiore.

Lui, il grande si umilia per amore e diventa piccolo piccolo, come un boccone di pane. Lo Spirito divino prende in prestito la materia del grano (di cui è fatta quella piccola ostia) per condividere con te la sua divinità, la sua grandezza.

Lo so, lo so, che sono parole troppo difficili da comprendere ora, ma ci avrà pensato la tua catechista a farti comprendere l'inspiegabile mistero. Le catechiste hanno dimestichezza a sminuzzare il pane del catechismo e nutrire le vostre angeliche intelligenze per facilitare l'approccio alla comprensione di tale misterioso avvenimento, a prepararvi a tale privilegiato incontro.

Quando riceverai Gesù, abbraccialo stretto stretto, chiudi gli occhi e digli parole d'amore. Digli che lo ami e lo ringrazi di tale visita, di tale dono.

Non guardarti intorno. Non voltarti a vedere se c'è la nonna, se c'è la zia... se la mamma ti sta fotografando... nessuno in quel Momento conta più di Gesù!
Quello è un momento imperdibile!

Non sprecarlo, non sciuparlo, non sminuirlo...In quel momento il tuo corpicino è diventato un tabernacolo vivente, gli angeli ti stanno svolazzando intorno perché dentro di te c'è il loro Signore!

E tu non distrarti, concedigli almeno dieci minuti per ringraziarlo e per pregarlo. Pregalo per la mamma, per il tuo papà, per la nonna, per il nonno che è in Paradiso... per tutti i bambini che non hanno pane, per quelli che non hanno casa, per quelli che attraversano il mare agitato sui gommoni, in cerca di una terra che li accolga. Prega per le tue amichette, prega per i tuoi insegnanti, prega per i tuoi parenti... prega anche per me. So che lo farai e di questo ti ringrazio e ti abbraccio con tutto il mio cuore.

Sai Carlotta, ricordo quel giorno che aspettavamo dietro una porta che ci comunicassero la tua nascita in questo mondo... quel giorno entrasti anche nella mia vita e lì resterai sempre, e non ne uscirai mai più. Ti voglio bene.
Tua zia Anna

prima comunioneeucaristiacatechismomessa

inviato da Anna Marinelli, inserito il 30/06/2017

PREGHIERA

4. O Cristo - Venerdì Santo 2017

Papa Francesco, Via Crucis al Colosseo, Venerdì Santo, 14 aprile 2017

O Cristo lasciato solo e tradito perfino dai tuoi e venduto a basso prezzo.
O Cristo giudicato dai peccatori, consegnato dai Capi.

O Cristo straziato nelle carni, incoronato di spine e vestito di porpora. O Cristo schiaffeggiato e atrocemente inchiodato.

O Cristo trafitto dalla lancia che ha squarciato il tuo cuore.

O Cristo morto e seppellito, tu che sei il Dio della vita e dell'esistenza.

O Cristo, nostro unico Salvatore, torniamo a Te anche quest'anno con gli occhi abbassati di vergogna e con il cuore pieno di speranza:

Di vergogna per tutte le immagini di devastazioni, di distruzioni e di naufragio che sono diventate ordinarie nella nostra vita;

Vergogna per il sangue innocente che quotidianamente viene versato di donne, di bambini, di immigrati e di persone perseguitate per il colore della loro pelle oppure per la loro appartenenza etnica e sociale e per la loro fede in Te;

Vergogna per le troppe volte che, come Giuda e Pietro, ti abbiamo venduto e tradito e lasciato solo a morire per i nostri peccati, scappando da codardi dalle nostre responsabilità;

Vergogna per il nostro silenzio dinanzi alle ingiustizie; per le nostre mani pigre nel dare e avide nello strappare e nel conquistare; per la nostra voce squillante nel difendere i nostri interessi e timida nel parlare di quelle dell'altrui; per i nostri piedi veloci sulla via del male e paralizzati su quella del bene;

Vergogna per tutte le volte che noi Vescovi, Sacerdoti, consacrati e consacrate abbiamo scandalizzato e ferito il tuo corpo, la Chiesa; e abbiamo dimenticato il nostro primo amore, il nostro primo entusiasmo e la nostra totale disponibilità, lasciando arrugginire il nostro cuore e la nostra consacrazione.

Tanta vergogna Signore ma il nostro cuore è nostalgioso anche della speranza fiduciosa che tu non ci tratti secondo i nostri meriti ma unicamente secondo l'abbondanza della tua Misericordia; che i nostri tradimenti non fanno venir meno l'immensità del tuo amore; che il tuo cuore, materno e paterno, non ci dimentica per la durezza delle nostre viscere;

La speranza sicura che i nostri nomi sono incisi nel tuo cuore e che siamo collocati nella pupilla dei tuoi occhi;

La speranza che la tua Croce trasforma i nostri cuori induriti in cuore di carne capaci di sognare, di perdonare e di amare; trasforma questa notte tenebrosa della tua croce in alba folgorante della tua Risurrezione;
La speranza che la tua fedeltà non si basa sulla nostra;

La speranza che la schiera di uomini e donne fedeli alla tua Croce continua e continuerà a vivere fedele come il lievito che da sapore e come la luce che apre nuove orizzonti nel corpo della nostra umanità ferita;

La speranza che la tua Chiesa cercherà di essere la voce che grida nel deserto dell'umanità per preparare la strada del tuo ritorno trionfale, quando verrai a giudicare i vivi e i morti;

La speranza che il bene vincerà nonostante la sua apparente sconfitta!

O Signore Gesù, Figlio di Dio, vittima innocente del nostro riscatto, dinanzi al tuo vessillo regale, al tuo mistero di morte e di gloria, dinanzi al tuo patibolo, ci inginocchiamo, invergognati e speranzosi, e ti chiediamo di lavarci nel lavacro del sangue e dell'acqua che uscirono dal tuo Cuore squarciato; di perdonare i nostri peccati e le nostre colpe;

Ti chiediamo di ricordarti dei nostri fratelli stroncati dalla violenza, dall'indifferenza e dalla guerra;

Ti chiediamo di spezzare le catene che ci tengono prigionieri nel nostro egoismo, nella nostra cecità volontaria e nella vanità dei nostri calcoli mondani.

O Cristo, ti chiediamo di insegnarci a non vergognarci mai della tua Croce, a non strumentalizzarla ma di onorarla e di adorarla, perché con essa Tu ci hai manifestato la mostruosità dei nostri peccati, la grandezza del tuo amore, l'ingiustizia dei nostri giudizi e la potenza della tua misericordia. Amen

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inviato da Qumran2, inserito il 15/04/2017

TESTO

5. Il grande mistero della Pasqua

Papa Francesco, Udienza generale 1° aprile 2015

A volte il buio della notte sembra penetrare nell'anima; a volte pensiamo: "ormai non c'è più nulla da fare", e il cuore non trova più la forza di amare... Ma proprio in quel buio Cristo accende il fuoco dell'amore di Dio: un bagliore rompe l'oscurità e annuncia un nuovo inizio, qualcosa incomincia nel buio più profondo. Noi sappiamo che la notte è "più notte", è più buia poco prima che incominci il giorno. Ma proprio in quel buio è Cristo che vince e che accende il fuoco dell'amore. La pietra del dolore è ribaltata lasciando spazio alla speranza. Ecco il grande mistero della Pasqua! In questa santa notte la Chiesa ci consegna la luce del Risorto, perché in noi non ci sia il rimpianto di chi dice "ormai...", ma la speranza di chi si apre a un presente pieno di futuro: Cristo ha vinto la morte, e noi con lui. La nostra vita non finisce davanti alla pietra di un sepolcro, la nostra vita va oltre con la speranza in Cristo che è risorto proprio da quel sepolcro. Come cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle del mattino, che sanno scorgere i segni del Risorto, come hanno fatto le donne e i discepoli accorsi al sepolcro all'alba del primo giorno della settimana.

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5.0/5 (3 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 17/06/2015

PREGHIERA

6. A Maria, Madre del silenzio

Papa Francesco

Madre del silenzio,
che custodisci il mistero di Dio,
liberaci dall'idolatria del presente,
a cui si condanna chi dimentica.
Purifica gli occhi dei Pastori
con il collirio della memoria:
torneremo alla freschezza delle origini,
per una Chiesa orante e penitente.

Madre della bellezza,
che fiorisce dalla fedeltà al lavoro quotidiano,
destaci dal torpore della pigrizia,
della meschinità e del disfattismo.
Rivesti i Pastori
di quella compassione che unifica e integra:
scopriremo la gioia
di una Chiesa serva, umile e fraterna.

Madre della tenerezza,
che avvolge di pazienza e di misericordia,
aiutaci a bruciare tristezze, impazienze e rigidità
di chi non conosce appartenenza.
Intercedi presso tuo Figlio
perché siano agili le nostre mani,
i nostri piedi e i nostri cuori:
edificheremo la Chiesa con la verità nella carità.
Madre, saremo il Popolo di Dio,
pellegrinante verso il Regno.
Amen.

mariapastoripretichiesacomunitàapostolatomisericordia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Alessandro Bianco, inserito il 16/06/2015

TESTO

7. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione lunga)

don Primo Mazzolari, Scritti

«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».

Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.

* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

«Gesù sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre»...

Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli; ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre allo spirituale, dal parziale all'universale, dal temporale all'eterno.

Il distacco, che prepara il transito, non può avvenire che per un accrescimento d'amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».

Un «passaggio» o una «conversione» che diminuisse le affezioni naturali e ci sottraesse alle parziali emozioni che tali affetti giustamente ci comandano, non sarebbe un'ascensione.

Si sale verso il Padre, con cuore purificato, ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescerne il valore nella santità.

Niente ci deve impedire di portare «sino alla fine», nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.

Proprio quando Gesù sa che «il diavolo aveva già messo in cuore» a Giuda Iscariota di tradirlo, quando ha la certezza che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare a Dio «...si levò da tavola, depose le sue vesti e preso un asciugatoio, se ne cinse...».

Facendosi uomo aveva preso «la forma del servo». Ma nessuno se n'era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava sul monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.

Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L'amore ve l'avrebbe fissato per sempre e in un gesto che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.

«Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio».

Non ha cominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per subito gustare l'estrema ripugnanza di servire l'inservibile, di amare l'inamabile.

Quando arriva a Pietro si sente dire: - Tu Signore, lavare i piedi a me? - Pietro misurava soltanto la propria miseria, e non poneva l'occhio sul mandato di carità che lo avrebbe impegnato come seguace di Cristo, per tutta la vita.

- Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo. Capiva il fatto dell'umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva dargli attraverso il mistero dell'umiliazione. Pietro voleva aver parte con Cristo immaginando chi sa quali ricompense; per questo era disposto a farsi lavare anche le mani e il capo. Neanche il primo degli apostoli sapeva che l'unica condizione per aver parte con lui, è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.

«Come dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: - Capite quel che vi ho fatto?».

E poiché gli apostoli non capivano l'istituzione della carità, che doveva precedere di poco l'istituzione del sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione.

«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro v'ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v'ho fatto io».

L'istituzione dell'eucaristia si chiude con parole quasi eguali: - Fate questo in memoria di me.

I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza eucaristica della presenza della carità, dimenticando che non si può capire una mensa dalla quale, almeno uno, dietro l'esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del mistero.

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Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.

Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.

I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

Clicca qui per la versione breve.

lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo

inviato da Qumran, inserito il 09/06/2015

TESTO

8. Lettera a Giuseppe   7

Tonino Bello, La carezza di Dio. Lettera a Giuseppe

Dimmi, Giuseppe, quand'è che hai conosciuto Maria?
Forse, un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio, con l'anfora sul capo e con la mano sul fianco snello come lo stelo di un fiordaliso?
O forse, un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazareth conversava in disparte sotto l'arco della Sinagoga?
O forse, un meriggio d'estate, in un campo di grano, mentre, abbassando gli occhi splendidi per non rivelare il pudore della povertà, si adattava all'umiliante mestiere di spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e tu non lo sapevi... e poi, tu, nella notte, hai intriso il cuscino con lacrime di felicità?
Ti scriveva lettere d'amore?
Forse sì!
E il sorriso, con cui accompagni il cenno degli occhi verso l'armadio delle tinte e delle vernici, mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!

Poi, una notte, hai preso il coraggio a due mani, sei andato sotto la sua finestra, profumata di basilico e di menta, e le hai cantato, sommessamente, le strofe del Cantico dei Cantici:
"Alzati, amica mia, mia bella e vieni!
Perché, ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia e se n'è andata.
I fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna.
Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza.
Alzati, amica mia, mia bella e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro".

E la tua amica, la tua bella, la tua colomba si è alzata davvero.
È venuta sulla strada, facendoti trasalire.
Ti ha preso la mano nella sua e, mentre il cuore ti scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi capirla.
Ti ha parlato di:
Jahvé, di un Angelo del Signore, di un Mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo, di un progetto più grande dell'universo e più alto del firmamento, che vi sovrastava.
Poi, ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio, e di dimenticarla per sempre.

Fu, allora, che la stringesti per la prima volta al cuore e le dicesti tremando:
"Per te, rinuncio volentieri ai miei piani.
Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia stare con te".
Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente. [...]
E io penso che hai avuto più coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore.
Lei ha puntato tutto sull'onnipotenza del Creatore.
Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura.
Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza.
La carità ha fatto il resto, in te e in lei.

fedesperanzaGiuseppeMariaMadonnasogniabbandonofiduciaprogetto di Dio

3.2/5 (10 voti)

inviato da Sandra Aral, inserito il 23/09/2012

TESTO

9. Il primo tabernacolo   1

don Primo Mazzolari, Il Vangelo del reduce, 1945

"E Maria diede alla luce il suo figliuolo e lo fasciò e lo pose a giacere in una greppia".
La stalla fu la prima chiesa e la greppia il primo tabernacolo, dopo il seno purissimo di Maria. Ogni cosa può diventare un ostensorio del suo amore. Anzi, le più umili, le più spregiate ne rispettano meglio il mistero, lasciandone trasparire e conservandone il divino incanto.

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4.7/5 (3 voti)

inviato da Paola Berrettini, inserito il 24/12/2011

RACCONTO

10. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

TESTO

11. E' possibile pregare o meditare scandendo i tempi della giornata?   2

Jean-Marie Lustiger, Avvenire del 30/11/2008

Ecco i consigli dell'arcivescovo di Parigi: «Obbligatevi a spezzare il ritmo frenetico delle nostre metropoli. Fatelo sui mezzi pubblici e nelle pause del lavoro». Uno scritto inedito del cardinale Francese morto un anno fa.

Come pregare durante il giorno? La tradizione della Chiesa raccomanda di pregare sette volte al giorno. Perché? Una prima ragione è che il popolo d'Israele offriva il proprio tempo a Dio in sette preghiere quotidiane, in momenti fissi, nel Tempio o almeno voltati verso di esso: «Sette volte al giorno io ti lodo» ci rammenta il salmista (Salmo 118,164). Una seconda ragione è che il Cristo stesso ha pregato così, fedele alla fede del popolo di Dio. La terza ragione è che i discepoli di Gesù hanno pregato così: gli apostoli (vedi Atti 3,1: Pietro e Giovanni) e i primi cristiani di Gerusalemme «assidui nelle preghiere» (vedi Atti 2,42; 10,3-4: Cornelio nella sua visione); poi le comunità cristiane e, più tardi, le comunità monastiche. E così anche i religiosi e le religiose, i preti, sono stati chiamati a recitare o a cantare in sette riprese le «ore» dell'«ufficio» (che significa «dovere», «incarico», «missione» di preghiera), facendo una pausa per cantare i salmi, meditare la Scrittura, intercedere per i bisogni degli uomini e rendere gloria a Dio. La Chiesa invita ogni cristiano a scandire la propria giornata con una preghiera ripetuta, deliberata, voluta per amore, fede, speranza.

Prima di sapere se è bene pregare due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte al giorno, un consiglio pratico: associate i momenti di preghiera a gesti fissi, a punti di passaggio obbligati che scandiscono le vostre giornate.

Per esempio: per coloro che lavorano e in genere hanno orari stabili, esiste pure un momento in cui lasciate il vostro domicilio e vi recate al lavoro... a piedi o in auto, in metropolitana o in autobus. A un orario preciso. E ciò vi prende un determinato tempo, sia all'andata sia al ritorno. Perché quindi non associare dei tempi di preghiera a quelli di spostamento?

Secondo esempio: siete madre di famiglia e rimanete a casa, ma avete dei figli da portare e riprendere a scuola in momenti precisi della giornata. Un altro obbligo che segna una pausa: i pasti, anche se a causa di forza maggiore o cattiva abitudine mangiate solo un panino o pranzate in piedi. Perché non trasformare queste interruzioni nella giornata in punti di riferimento per una breve preghiera?

Sì, andate a cercare nella vostra giornata questi momenti più o meno regolari di interruzione delle occupazioni, di cambiamento nel ritmo di vostra vita: inizio e fine del lavoro, pasti, tempi di viaggio ecc.

Associate a questi momenti la decisione di pregare, anche solo per un breve istante, il tempo di fare l'occhiolino a Dio. Datevi l'obbligo rigoroso, qualunque cosa accada, di consacrare quindi anche solo trenta secondi o un minuto a dare un nuovo orientamento alle vostre diverse occupazioni sotto lo sguardo di Dio.
La preghiera così, pervaderà quanto vi sarà dato vivere.

Quando andate al lavoro forse intanto rimuginate sui colleghi che ritroverete, sulle difficoltà da affrontare in un ufficio in cui lavorate in due o in tre; le personalità cozzano maggiormente quando la vicinanza è troppo stretta e quotidiana. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, fa' che io viva questo rapporto quotidiano nella vera carità. Permettimi di scoprire le esigenze dell'amore fraterno nella luce della Passione di Cristo che mi renderà sopportabile lo sforzo richiesto».

Se lavorate in un grande centro commerciale, forse rimuginerete sulle centinaia di volti che vi scorreranno davanti senza che abbiate il tempo di guardarli. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, ti prego per tutte quelle persone che passeranno davanti a me e alle quali cercherò di sorridere.

Anche se non ne ho la forza quando mi insultano e mi trattano come fossi una macchina calcolatrice».

Insomma, approfittate al meglio, durante la vostra giornata, di questi punti di passaggio obbligati, dei momenti in cui disponete di un po' di margine e vi lasciano, se siete vigili, un piccolo spazio di libertà interiore per riprendere fiato in Dio.

Si può pregare nella metropolitana o sui mezzi pubblici? Io l'ho fatto. Ho utilizzato diversi metodi secondo i momenti della mia vita o le circostanze. Ci fu un tempo in cui mi ero abituato a mettere i tappi nelle orecchie per isolarmi e poter avere un minimo di silenzio, tanto ero esasperato dal rumore. Pregavo così, senza per questo tagliar fuori le persone che mi erano attorno visto che potevo ancora essere presente a essi con lo sguardo, senza però scrutarli, senza fissarli, senza essere indiscreto nel modo di guardarli. Il silenzio fisico dell'orecchio mi permetteva di essere ancora più libero nell'accoglienza. In altri periodi, invece, ho vissuto un'esperienza esattamente contraria. Ognuno di noi fa come può, ma in nessun caso dobbiamo ritenere che sia impossibile pregare.

Ecco un altro suggerimento. Scommetto che lungo il vostro tragitto, dalla stazione della metropolitana o dalla fermata dell'autobus fino a casa o al posto di lavoro, potete incontrare, nel raggio di trecento o cinquecento metri, una chiesa o una cappella (una piccola deviazione vi consentirebbe di camminare un po'). A Parigi si può fare. In quella tal chiesa potete pregare in tranquillità o, al contrario, essere continuamente disturbati; può essere adatta o meno alla vostra sensibilità: questo è un altro discorso. Ma c'è una chiesa con il Santissimo Sacramento. Perciò, camminate per qualche centinaio di metri in più; vi ci vorranno dieci minuti, e un po' d'esercizio non farà male alla vostra linea... Entrate in chiesa e andate fino al Santissimo Sacramento. Inginocchiatevi e pregate. Se non potete di più, fatelo per dieci secondi. Ringraziate Dio Padre per il mistero dell'Eucaristia nel quale siete inclusi, per la presenza del Cristo nella sua Chiesa. Lasciatevi andare all'adorazione con il Cristo, nel Cristo, tramite la forza dello Spirito. Rendete grazie a Dio. Rialzatevi.
Fatevi un bel segno della croce e ripartite.

preghierapregaretempoquotidianitàperseveranzafedeltà nella preghiera

4.7/5 (3 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 05/09/2010

PREGHIERA

12. Salve, o nostra Madre   2

Teodoto di Ancyra, da Carlo Carretto, Beata te che hai creduto

Salve, o nostra tanto bramata letizia!
Salve, o esultanza della Chiesa!
Salve, o nome pieno di profumo!
Salve, o viso illuminato dalla luce di Dio
e che emana bellezza!
Salve, o memoriale tutto di venerazione!
Salve, o vello salutare e spirituale!
Salve, o chiara madre della luce nascente!
Salve, o intemerata madre della santità!
Salve, o fonte zampillante d'acqua viva!
Salve, o madre novella e modellatrice della nuova nascita!
Salve, o madre piena di mistero e inspiegabile!...
Salve, o vaso d'alabastro dell'unguento di santificazione!
Salve, tu che valorizzi la verginità!
Salve, o modesto spazio, che ha accolto in sé Colui che il mondo non può contenere!

madremaria

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inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010

TESTO

13. Che cos'è un sacerdote? Meditazione dettata in occasione di una prima messa

Karl Rahner, Sul sacerdozio

Nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita...

Come popolo dei redenti in Gesù Cristo, noi presentiamo sugli altari della Chiesa il sacrificio della Nuova Alleanza. Anche in un giorno come questo, non possiamo far niente di più di quello che facciamo sempre. Si compie infatti qualcosa che è così alto da non essere suscettibile di reale accrescimento: si fa presente in mezzo a noi il Signore di tutti i secoli, il cuore del mondo e, insieme, l'azione del suo amore che muove le stelle e tutto accoglie nella gloria di Dio.

E tuttavia nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita, finché un giorno la sua vita intera sarà consumata in quel sacrificio, che egli celebra ogni giorno e nella cui accettazione soltanto tutta la realtà terrena trova la propria accettazione nell'infinita maestà di Dio. Perché celebriamo solennemente questo giorno? Forse che la Chiesa vuol indurre i suoi fedeli a concedere, per così dire, anticipati allori ad un giovane, il quale non ha fatto ancora niente altro che offrire a Dio il suo cuore e la sua vita, mentre sarebbe lecito glorificare solo il sacrificio interamente compiuto? No, noi non celebriamo un uomo: celebriamo solo il sacerdozio di Gesù Cristo. Celebriamo la Chiesa, tutta la Chiesa di tutti i redenti, i santificati, i chiamati alla vita eterna: quella di cui noi tutti facciamo parte, sia che siamo preti o 'soltanto' credenti e santificati. Poiché noi tutti apparteniamo all'unico Corpo del Cristo in modo tale che ciò che ad uno viene concesso di grazia, dignità e potenza è grazia ed elevazione per tutti, ed in maniera tale che nel servizio e nella vocazione di uno si manifesta la santa dignità di tutti.

Che cos'è un sacerdote?

Egli è un uomo
Quando Paolo, nella lettera agli Ebrei, parla del prete, la prima cosa che dice è che il prete è scelto fra gli uomini. A tal punto che perfino l'eterno sommo sacerdote Gesù Cristo, nato da donna, soggetto alla legge, pellegrino attraverso la valle di questa realtà peritura, volle essere il figlio dell'uomo, un uomo, trovato in tutto simile a noi. Il prete è un uomo. Non è fatto, dunque, di un legno diverso da quello di cui tutti siete fatti: è vostro fratello. Egli continua a condividere la sorte dell'uomo anche dopo che la destra di Dio, attraverso la mano del vescovo, si è posata su di lui: la sorte dei deboli, la sorte di quelli che sono stanchi, scoraggiati, inadeguati, peccatori. Gli uomini, però, se l'hanno a male, se uno si presenta nel nome di Dio, pur essendo soltanto un uomo: vogliono messaggeri più splendi, araldi più convincenti, cuori più ardenti. Accoglierebbero volentieri dei vittoriosi, di quegli uomini che hanno sempre una risposta a tutto e un rimedio per tutto. Terribile illusione! Quelli che vengono sono deboli, in timore e tremore, uomini che devono anch'essi continuamente pregare: Signore, io credo, aiuta la mia incredulità! che devono anch'essi continuamente battersi il petto: Signore, abbi pietà di me, povero peccatore! Eppure essi proclamano la fede che vince il mondo e portano la grazia, che trasforma i peccatori e i perduti in santi e redenti. Sono uomini quelli che vengono. Vengono e dicono, con la loro povera umanità: vedete, Dio ha misericordia di uomini come noi; vedete, per i poveri e per gli stolti, per i disperati e per i moribondi è sorta la stella della grazia. Dicono, come messaggeri umani dell'eterno Dio: non vi adirate contro di noi! Noi sappiamo di portare il tesoro di Dio in vasi di argilla; sappiamo che la nostra ombra offusca continuamente la divina luce che dobbiamo portarvi. Siate misericordiosi verso di noi, non giudicate, abbiate pietà della debolezza sulla quale Dio ha posato il fardello troppo pesante della sua grazia. Considerate come una promessa per voi stessi il fatto che noi siamo uomini: riconoscete da ciò che Dio non ha orrore degli uomini. Voi avrete un giorno paura e orrore di voi stessi, quando avrete sperimentato anche in voi che cosa è l'uomo, che cosa c'è nell'uomo. Beati voi, allora, che non vi siete scandalizzati dell'uomo che è nel prete. Egli è un uomo, affinché voi crediate che la grazia di Dio può essere concessa all'uomo, al pover'uomo, così com'è.

Il sacerdote è un messaggero della verità di Dio
Nella verità di Dio c'è qualcosa di inquietante e insieme di beato. Essa è del tutto semplice, e non fa progressi così rapidi come la verità degli uomini, che diventano tanto sapienti da arrivare, da ultimo, alla fabbricazione delle bombe atomiche. Spesso la verità di Dio penetra nei cuori degli uomini, senza che essi lo sappiano: solo in piccola parte la sua venuta si manifesta, per esempio nell'umiltà silenziosa del cuore, in un'oscura nostalgia dello spirito, nella rassegnazione con cui uno accetta le tacite e mai autogiustificantesi disposizioni del destino. Ma quando viene, per quanto piccola, con la forza dello Spirito Santo, essa è tutta presente, e vi è già in essa anche l'inizio dell'amore e della vita eterna. E tutta questa semplice, unica verità di Dio, per mezzo della quale Dio afferma se stesso nel più profondo del cuore dell'uomo, è la Verità, che è presente nel mondo, perché stillata dal cuore trafitto del Cristo Dio. Perciò questa verità vuole farsi carne nella parola umana; vuole penetrare in tutti i pensieri e le parole degli uomini; vuole divenire il tema permanente di una sinfonia infinita, che risuona attraverso tutti gli spazi del cosmo; vuole essere spiegata e proclamata; vuole entrare attraverso le porte dell'udito nel cuore degli uomini; vuole salire e sorgere dal cuore degli uomini, sua più intima dimora, per penetrare anche in tutti i settori della vita umana, per essere predicata da tutti i tetti, per congiungersi, infine, con ogni verità umana, correggendola e purificandola, salvandola e portandola a compimento. Perciò vi sono messaggeri di questa verità, messaggeri umani. Essi vengono con parole umane, ma queste sono ripiene di verità divina. E dicono una cosa antichissima e tuttavia non mai ancora compresa: dicono la verità, che sola non avvizzisce, sola non si logora, sola non si consuma. Dicono Dio: il Dio dell'eterna gloria, il Dio della vita eterna; dicono che Dio stesso è la nostra vita; proclamano che la morte non è la fine; che l'astuzia del mondo è stoltezza e miopia; che vi è un giudizio, una giustizia ed una vita eterna. Dicono sempre la stessa cosa, monotonamente, infinite volte. La dicono a se stessi ed agli altri, poiché gli uni e gli altri devono confessare di non aver ancora mai compreso ciò che viene predicato: Dio, il Dio vivente, il vero Dio, il Dio rivelato, Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo; Dio, che riversa prodigalmente la propria infinità nel nostro cuore, senza che noi ce ne accorgiamo; Dio, che fa della nostra spaventosa precarietà l'inizio della vita eterna - e noi non vogliamo crederlo. Questo dicono i messaggeri. Per questo hanno studiato e meditato; tutto questo si sono sforzati, spesso disperatamente, di far penetrare anche nella meschinità del proprio spirito e nell'angustia del proprio cuore. Eppure non ci sono ancora riusciti: sono ancora apprendisti di Dio. E tuttavia, Dio ordina loro di mettersi a parlare di ciò che essi stessi hanno compreso soltanto a metà. Ed essi cominciano. Balbettano, sono impacciati, sanno bene che tutto ciò che hanno da dire suona così strano, così inverosimile, sulla bocca di un uomo. Ma vanno e parlano. E, oh meraviglia! trovano perfino degli uomini che, attraverso il loro strano discorso, percepiscono la Parola di Dio; uomini nel cui cuore la Parola penetra, giudicando, salvando e portando la serenità, la consolazione e la forza nella debolezza, sebbene siano essi a dirla, e sebbene portino così male il messaggio. Ma Dio è con loro. Con loro, nonostante la loro miseria e il loro peccato. Essi non predicano se stessi, ma Gesù Cristo, predicano nel suo nome, e sono confusi fino in fondo al cuore per ciò che egli ha detto loro: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Ma egli ha detto proprio così. E dunque essi vanno e parlano. Sanno che si può essere un bronzo sonante e un cembalo tintinnante, e che ci si può perdere dopo aver predicato agli altri: ma non si sono scelti da sé. Sono stati chiamati e inviati, e così devono andare e predicare, opportunamente e importunamente. Vanno per i campi del mondo e spargono il seme di Dio: sono pieni di riconoscenza quando un poco ne germoglia, e implorano per sé la misericordia di Dio, affinché non ne rimanga sterile troppo per colpa loro. Seminano fra le lacrime, e per lo più un altro raccoglie ciò che essi hanno seminato. Ma essi lo sanno: la parola di Dio deve diffondersi dovunque e portar frutto, perché essa è la felice Verità di Dio, la luce dei cuori, la consolazione nella morte e la speranza della vita eterna.

Il sacerdote è il dispensatore dei divini misteri
La parola, che Dio ha posto sulla bocca del prete, non è una semplice parola generica, che viene pronunciata nel vago. È la parola di Dio, deve perciò riguardare anche i singoli, nella loro individualità originale e nella loro irrepetibile storicità. Deve essere detta a ciascun uomo in particolare: al mattino della vita, quando egli comincia a creare nel tempo una eternità; nei molti monotoni giorni del suo pellegrinaggio, in cui egli deve cercare faticosamente se stesso, attraverso tutte le vallate e gli errori di una vita umana; nella cupa disperazione della colpa; in quel sacro istante, in cui sembra che, dalla pienezza del tempo che muore, debba venir fuori per sempre il frutto dell'eternità nella morte. In tali istanti, il prete deve dire la parola di Dio, la parola potente e creatrice di Dio, la parola che non dice, bensì opera, la parola sacramentale: io ti battezzo; io ti assolvo dai tuoi peccati; questo è il mio Corpo. Tali parole, pronunziate nel nome del Cristo, il pret le dice applicandole alla concreta situazione dell'uomo. Ed esse apportano ciò che proclamano, operano quello che annunziano, perché sono parole di Dio. Grazie a queste parole sacramentali, il prete è, al tempo stesso, l'uomo più privo di potenza e il più potente, poiché esse non sono assolutamente più parole sue, ma parole interamente del Cristo: egli, però, ha il diritto di dirle, di ripeterle continuamente, di dirle con pazienza e con fede, instancabilmente. Tutte le altre parole, che egli deve pur dire, nella predica e nell'insegnamento, non sono altro che un'eco, una spiegazione, un commento, aggiunto alle eterne parole fondamentali della sua esistenza sacerdotale, che egli pronunzia nell'amministrare i sacramenti, accompagnandole col gesto santo, che utilizza i poveri elementi della terra per celarvi la beatitudine del cielo, fecondandoli con la parola del Cristo. Munito dunque della parola efficace del Cristo, egli dispensa i misteri del Cristo, i sacramenti. Gli uomini, per lo più, vogliono da lui qualcos'altro: il pane, la soluzione dei problemi sociali, ricette per poter essere felici su questa terra. Si irritano e si annoiano, se si continua a ripetere loro sempre soltanto parole, che si devono credere, che producono effetto solo nella divina eternità e il cui valore non si può negoziare sui mercati del mondo. Ma il prete continua a ripetere la sua parola, la parola dei sacramenti. Il loro effetto non si può provare nei laboratori degli uomini, che vogliono riconoscere come reale solo ciò che si manifesta concretamente. Ma l'effetto c'è. E così, da quella parola, ha inizio il destino dei figli di Dio, si compie il perdono dei peccatori, si celebra il banchetto della vita eterna, scaturisce dalle tenebrose profondità della morte la luce che non conosce tramonto. Col suo dono e con la sua offerta dei misteri di Dio, il prete se ne sta, come uno che sia estraneo al mondo, agli angoli delle vie, dinanzi ai quali passa in fretta il corteo interminabile degli uomini e della loro storia, precipitando non si sa bene se verso la morte o verso la vita. Chi si arresta, chi accetta l'offerta di questo viandante tra due mondi che è il prete, costui riceve i misteri di Dio, per lui si realizza nel tempo l'eternità, dalla morte la vita, dalle tenebre la luce, e si fa manifesta la presenza di Dio. E colui che ha il potere di penetrare nella situazione sempre unica del singolo queste parole della presenza e dell'efficacia sacramentale del Dio vivente nello spazio della santa Chiesa, noi lo chiamiamo il prete.

Al sacerdote è affidato il sacrificio
Abbiamo cominciato a parlare dell'opera del prete nel mondo; dobbiamo intraprendere la trattazione, più esplicita di quanto finora sia stata, del mistero che nel Corpo della Chiesa è paragonabile al cuore, in quanto apporta al regolare battito del polso dei singoli membri la forza nutritiva del sangue. Il prete è l'uomo a cui è affidata l'offerta sacrificale della Chiesa, la ripetizione liturgica della Cena del Cristo, e poiché proprio questo è l'aspetto più intimo e supremo dell'esistenza sacerdotale, noi celebriamo solennemente l'inizio di tale vita non già con un battesimo che egli celebri per la prima volta, o con la parola dell'assoluzione che pronunzi per la prima volta, bensì col sacrificio della messa che egli celebra per la prima volta e noi con lui. Qui, in questo momento, tutto si raccoglie: gli uomini, la Chiesa, Dio, il Cristo, il sacrificio della Croce, i vivi e i morti, l'angoscia terrena e la beatitudine celeste. Qui, infatti, il Signore glorioso è in mezzo alla sua comunità: la comunità dei santificati e redenti, che il prete, per mandato ricevuto dal Cristo, con pieni poteri che provengono dall'alto, e non dal basso, conduce dinanzi al trono della Grazia, affinché essa comunità offra il Signore, reso presente mediante la parola del prete, come offerta di tutta la Chiesa, all'eterno Padre, in lode del suo nome e per la salvezza di tutti quelli che celebrano il sacrificio e in esso sono ricordati con amore e fedeltà. Avendone ricevuto facoltà dal Cristo stesso, che ama la sua Chiesa e a lei ha fatto dono del proprio sacrificio, il prete può celebrare in nome di tutti, con tutti e per tutti, il sacrificio dell'eterna riconciliazione. E se è vero che in questa vocazione egli è stato da Dio sollevato più in alto di tutti gli altri, è anche vero che egli è divorato e consumato al massimo, in un puro servizio di Dio, per gli uomini. Egli acquista, in questo momento, il diritto di portare il Corpo del Signore e di prendere il calice della salvezza, riempito del prezzo del riscatto del mondo, non già per essere lui, il prete, innalzato, bensì perché ne venga salvezza per tutto il popolo di Dio. E ciò che, nel giorno della sua prima messa, egli fa', circondato dalla gioia degli altri, lo farà tutti i giorni. Tutti i giorni, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle grigie mattine di ogni giorno, e nelle ore terribili, che non sono risparmiate a nessuna vita. E sempre questa piccola, povera celebrazione racchiuderà in sé il contenuto, e al tempo stesso la soluzione, di tutti gli enigmi dell'esistenza: il Corpo, che venne immolato, e il Sangue, che fu versato per il perdono dei peccati. Sempre, tutto ciò sarà contenuto in questa piccola mezz'ora, perché in essa è presente, come il Sacrificato e il Vittorioso insieme, colui che è in sé l'unità reale dell'enigma e della sua soluzione, l'unità della terra e del cielo, l'unità dell'uomo e di Dio, nella celebrazione di quell'istante unico in cui, sulla Croce, l'estrema lontananza tra loro divenne inseparabile vicinanza.

Conclusione
È uomo, il prete, messaggero della Verità di Dio, dispensatore dei divini misteri, capace di rendere presente il sacrificio unico del Cristo. Sorte felice! Certo, ogni uomo ha da Dio la sua vocazione, la sorte a lui assegnata dalla eternità, il suo compito anche nel Corpo del Cristo, che è la Chiesa. Non vi è esistenza profana, per nessuno. Ma ciò che per la maggior parte è quasi soltanto la presenza della divina realtà nel profondo della loro più intima coscienza e nel silenzioso segreto della loro sfera privata, per il prete, chiamato da Dio, erompe da quella profondità per abbracciare tutta la estensione della vita. Tutto, in quella vita, Dio deve consumare e ridurre al servizio della sua signoria onnipotente. Questo è il destino del prete: vivere interamente nella manifesta vicinanza di Dio. Un destino beato e terribile a un tempo. Beato, perché Dio solo è la beatitudine; terribile, perché solo difficilmente l'uomo resiste in mezzo al tremendo splendore di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, che il progetto più sublime rimanga sempre anche il più frammentario. Nessuna meraviglia, che l'alta vocazione nasconda in sé anche il pericolo delle cadute estreme: il pericolo che esser prete voglia dire non dovere esser più uomo; il pericolo della perdita della pietà per gli uomini, dell'inaridirsi della sostanza umana; il pericolo della fuga lontano da Dio, verso la più familiare vicinanza degli uomini; il pericolo del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l'altissimo prezzo richiesto dall'esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Se si esamina attentamente questo destino beato e terribile del prete, si potrebbe rimanere colpiti, e quasi ammutolire per lo spavento, in questa festa, perché qui ha inizio ciò che nessun uomo, da solo, può portare a compimento. Ma noi confidiamo nella grazia di Dio: essa, non già noi, porterà a compimento ciò che ha iniziato. È fedele, infatti, colui che ha chiamato il prete, e non si pente dei doni di grazia che concede. E noi, in questa celebrazione del santo sacrificio, vogliamo pregare per la Chiesa sulla terra, che Dio mandi operai alla sua messe, perché gli operai sono pochi. Preghiamo per i nostri preti, che essi comincino nel timore e nella gioia del Signore e perseverino in fedele servizio sino alla beata fine, che noi tutti attendiamo, e in cui è il termine unico e beato di tutte le vocazioni, nell'infinita celebrazione del sacrificio eterno, in cui il Figlio, e noi in lui, tutto rimettiamo al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Amen.

tratto da www.donboscoland.it

sacerdotepretepresbitericleroanno sacerdotale

inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010

TESTO

14. La Messa

Già non è facile capire la Messa, farla conoscere ai bambini è impegnativo, ma sarà l'assiduità alla frequentazione a rivelargli il vero volto di Dio. La Messa è un gioioso incontro, è rigenerazione del cuore e della vita. Il compito difficile è avvicinare i bambini al mistero della santa Eucaristia, così come ci è stato trasmesso da Gesù e dalla Chiesa. Far capire ai bambini che la morte è una trasformazione che porta ad una vita nuova. Un'altra difficoltà è rappresentata dall'età dei bambini, certamente essi sono in grado di entusiasmarsi, ma non riescono ancora ad affrontare la riflessione, i momenti di silenzio e il mistero del miracolo che si compie sull'altare: pensiamo a quanto sia difficilmente comprensibile ed accessibile anche a noi adulti!

messaeucaristiabambini

inviato da Eugenia Linari, inserito il 05/06/2009

PREGHIERA

15. L'ospedale

Michel Quoist, Preghiere

Nel pomeriggio ho visitato un malato all'ospedale.
Di padiglione in padiglione, ho dovuto percorrere questa
Città della passione, indovinando i drammi nascosti
dai muri chiari e dai fiori delle aiuole.
Ho dovuto attraversare una prima sala;
camminavo sulla punta dei piedi cercando il malato,
li sfioravo con lo sguardo tutti, così come l'infermiere
tocca delicatamente una piaga per non far soffrire.
Mi sentivo a disagio,
come un non-iniziato sperduto in un tempio misterioso,
come un pagano nella navata di una chiesa.
In fondo alla seconda sala ho trovato il mio malato,
e davanti a lui ho pronunziato parole confuse, non sapendo che dire.

Signore, la sofferenza mi dà fastidio, mi opprime.
Non comprendo perché Tu la permetta.
Perché, o Signore?
Perché questo piccolo innocente, che da una settimana geme, atrocemente ustionato?
Quell'uomo che da tre giorni e tre notti agonizza invocando la mamma?
Quella donna dal cancro, che trovo invecchiata di dieci anni in un mese?
Quell'operaio caduto dalla sua impalcatura, fantoccio rotto poco prima dei vent'anni?
Quello straniero, povero relitto isolato, ridotto a piaga purulenta?
Quella ragazza ingessata e distesa su un asse da più di trenta anni?

Perché, o Signore?
Non comprendo.
Perché nel Mondo questa sofferenza
che urta,
chiude,
nausea,
spezza?
Perché questa mostruosa ed orrenda sofferenza,
che colpisce ciecamente, senza dare spiegazioni,
Si abbatte ingiustamente sul buono risparmiando il cattivo,
Sembra indietreggiare, respinta dalla scienza, ma ritorna
sotto altra forma, più potente e più sottile? Non comprendo.
La sofferenza è odiosa e mi fa paura,
Perché infatti quelli, Signore, e non gli altri?
Perché quelli e non io?

Figliuolo, non l'ho voluta io, tuo Dio, la sofferenza;
l'han voluta gli uomini.
L'hanno introdotta nel Mondo introducendo il peccato,
perché il peccato è un disordine ed il disordine fa male.
Ad ogni peccato, vedi,
corrisponde qualche parte nel Mondo e nel Tempo una sofferenza
E, più vi è peccato, più vi è sofferenza.
Ma io son venuto, io le ho prese tutte le vostre sofferenze
così come lo ho preso tutti i vostri peccati.
Io le ho prese ed io le ho sofferte prima di voi,
le ho voltate, trasfigurate. Ne ho fatto un tesoro:
esse sono un male, ancora, ma un male che serve,
perché delle vostre sofferenze io ho fatto la Redenzione.

La sofferenza è un mistero, che sola può rischiarare la luce della fede. Il male nel Mondo non è voluto da Dio. Gli uomini hanno disprezzato il suo Piano (peccato), hanno squilibrato l'uomo e l'universo e fatto nascere la sofferenza. Ma il Cristo è venuto a riparare il disordine. Della sofferenza inutile ha fatto lo strumento stesso della Redenzione.

Sopportava veramente le nostre sofferenze ed era accasciato dai nostri dolori. E noi lo stimavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri peccati, schiacciato per le nostre iniquità. Sopra di lui è il castigo che ci salva, e per le sue piaghe noi siamo stati risanati (Isaia 53,4.5).

sofferenzamaleredenzionesacrificiodolore

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inviato da Anna Barbi, inserito il 28/07/2004

TESTO

16. Scendi dalle stelle

Màrai Sàndor, Mennybõl az angyal, 1956, New York, tradotta da Agnes Preszler © 2003

Angelo, scendi dalle stelle, va' a Budapest,
va' veloce, tra rovine bruciate e fredde,
dove tra i carri armati russi tacciono le campane.
Dove non brilla Natale,
non ci sono addobbi sugli alberi,
non c'è altro che freddo, gelo e fame.
Di' a loro che lo sappiano,
parla ad alta voce nella notte,
angelo, porta loro il mistero di Natale.

Sbatti veloce le ali, vola veloce
perché ti aspettano tanto.
Non parlare a loro del mondo,
dove ora a lume di candela
in stanze calde si apparecchia.
Il prete in chiesa usa un linguaggio solenne,
fruscia la carta da regalo,
buoni intenzioni, parole sagge.
Sugli alberi candele romane.
Angelo, parlaci tu di Natale.

Racconta, perché è un miracolo,
che nella notte placida l'albero di natale
di un popolo povero si è acceso
e sono molti a fare il segno della croce.
Il popolo dei continenti lo guarda,
uno lo capisce, l'altro non l'afferra.
Scuotono il capo, è troppo per molti.
Pregano o si inorridiscono:
perché sull'albero non ci sono dolci,
ma l'Ungheria, il Cristo dei popoli.

E le passano tanti davanti;
il soldato che l'ha trafitta;
il fariseo che l'ha venduta;
chi l'ha negata tre volte;
chi, dopo che intinse con lei nel piatto,
l'ha offerta per trenta monete d'argento,
e mentre la insultava e la picchiava,
le beveva sangue e mangiava il corpo.
Ora stanno là tutti a guardare,
ma nessun di loro osa parlarle.

Perché lei non parla più, non accusa,
guarda solo giù dalla croce, come Cristo.
E' strano questo albero di Natale,
chi l'ha portato, l'angelo o il diavolo?
Quelli che tirano a sorte la sua veste,
non sanno quello che fanno,
solo fiutano, sospettano
il mistero di questa notte,
perché questo è un strano Natale,
sull'albero c'è il popolo ungherese.

E il mondo parla di miracolo,
preti predicano coraggio,
l'uomo di stato lo commenta,
lo benedice anche il santo papa.
E gente di ogni tipo e rango,
chiede: a che cosa è servito?
Perché non aspettava in silenzio la fine,
e si estinse come la Sorte volle?
Perché si squarciò il cielo?
Perché un popolo ha detto: Ora basta!

Sono in molti a non capire
che cosa è questa inondazione,
perché si è mosso l'ordine del mondo?
Un popolo ha urlato. Poi fu il silenzio.
Ma ora tanti stanno a chiedere:
di carne ed ossa chi ha fatto legge?
E lo chiedono molti, sempre di più,
perché non lo afferrano proprio
loro che l'hanno avuto in eredità,
ma allora vale tanto la Libertà?

Angelo, porta loro la notizia,
che dal sangue sorge sempre nuova vita.
Si sono già incontrati diverse volte:
il Bambino, l'asino, il pastore.
Nel presepe, nel sogno
quando la Vita ha partorito,
a salvaguardare il miracolo
sono loro con il respiro.
Perché è accesa la Stella, spunta l'aurora
angelo del cielo, porta la notizia.

natale

inviato da Agnes Preszler, inserito il 20/12/2003

TESTO

17. La pace come cammino

Tonino Bello

A dire il vero non siamo molto abituati a
legare il termine pace a concetti dinamici.
Raramente sentiamo dire:
"Quell'uomo si affatica in pace",
"lotta in pace",
"strappa la vita coi denti in pace"...

Più consuete, nel nostro linguaggio,
sono invece le espressioni:
"Sta seduto in pace",
"sta leggendo in pace",
"medita in pace" e,
ovviamente, "riposa in pace".

La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia
da camera che lo zaino del viandante.
Più il comfort del salotto che i pericoli della strada.
Più il caminetto che l'officina brulicante di problemi.
Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli.
Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato.
Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.

Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire
che la pace non è un dato, ma una conquista.
Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno.
Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.

La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia.
Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.
Rifiuta la tentazione del godimento.
Non tollera atteggiamenti sedentari.
Non annulla la conflittualità.
Non ha molto da spartire con la banale "vita pacifica".

Sì, la pace prima che traguardo, è cammino.
E, per giunta, cammino in salita.
Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi,
i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici,
i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste.

Se è così, occorrono attese pazienti.
E sarà beato, perché operatore di pace,
non chi pretende di trovarsi all'arrivo senza essere mai partito, ma chi
parte.

Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista,
anche se mai - su questa terra s'intende - pienamente raggiunta.

paceimpegnoresponsabilità

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 30/04/2003

PREGHIERA

18. Preghiera di quaresima

Averardo Dini

Tra le sabbie del mio deserto,
sotto il sole infuocato del mio tempo,
cerco un pozzo che abbia acqua pulita,
capace di togliere la sete d'infinito che è dentro di me.
So che esiste da qualche parte
perché sono inquietato dal mistero
e devo trovarlo prima che scenda la notte.
Attingo acqua dal pozzo del denaro ed ho sempre più sete;
al pozzo del piacere e sento prosciugarmi la gola.
Attingo acqua al pozzo del successo
e mi sento annebbiare la vista,
al pozzo della pubblicità e mi ritrovo come uno schiavo.
Sono forse condannato a morire di sete,
inappagato cercatore di certezze assolute?
Ma se scavo dentro di me,
sotto la sabbia alta del mio peccato;
se scavo nei segni del tempo,
sotto la sabbia ammucchiata
dal vento arruffato del quotidiano,
trovo la sorgente di un'acqua viva e pura,
che disseta in eterno,
tanto che chi ne beve non ha più sete
perché è generata e filtrata
dal tuo amore, o Signore, generoso e gratuito,
era già promessa nei tempi antichi
ed ora è sgorgata in abbondanza nel segno della tua Parola.
Mi disseto a questa sorgente,
custodita dalla mia Chiesa,
che per questo si fa ogni giorno fontana del villaggio
per salvare tutti gli assetati del mondo.
Amen.

fededesertoricerca di sensoricerca di Diorapporto con Dioquaresima

inviato da Anna Lianza, inserito il 01/04/2003

PREGHIERA

19. Tempo di Avvento

Jean Galot, Vieni, Signore

Avvento, tempo dell'attesa e della speranza:
è la tua venuta, o Cristo, che vogliamo rivivere,
preparandoci più profondamente
nella fede e nell'amore.

Avvento, tempo della Chiesa affamata del Salvatore:
essa vuole ripeterti, volgendosi a te
con più insistenza, con un lungo sguardo,
che tu sei tutto per lei.

Avvento, tempo dei desideri più nobili dell'uomo
che più coscientemente convergono verso di te,
e che devono cercare in te, nel tuo mistero,
il loro compimento.

Avvento, tempo di silenzio e di raccoglimento,
in cui ci sforziamo d'ascoltare la Parola
che vuol venire a noi,
e di sentire i passi che si avvicinano.

Avvento, tempo dell'accoglienza
in cui tutto cerca di aprirsi,
in cui tutto vuol dilatarsi nei nostri cuori troppo stretti,
al fine di ricevere la grandezza infinita
del Dio che viene a noi.

avventoattesa

inviato da Anna Barbi, inserito il 04/12/2002

TESTO

20. Grazie a te, donna   2

Papa Giovanni Paolo II, Lettera di Giovanni Paolo II alle donne del 1995

Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell'essere umano nella gioia e nel travaglio di un'esperienza unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che viene alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita.

Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabilmente il tuo destino a quello di un uomo, in un rapporto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita.

Grazie a te, donna-figlia e donna-sorella, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita sociale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intuizione, della tua generosità e della tua costanza.

Grazie a te, donna-lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per l'indispensabile contributo che dai all'elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento, ad una concezione della vita sempre aperta al senso del «mistero», alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità.

Grazie a te, donna-consacrata, che sull'esempio della più grande delle donne, la Madre di Cristo, Verbo incarnato, ti apri con docilità e fedeltà all'amore di Dio, aiutando la Chiesa e l'intera umanità a vivere nei confronti di Dio una risposta «sponsale», che esprime meravigliosamente la comunione che Egli vuole stabilire con la sua creatura.

Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani.

donna

5.0/5 (1 voto)

inviato da Dario P., inserito il 26/11/2002

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