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RACCONTO

1. Il tagliapietre scontento

Piero Ferrucci, La forza della gentilezza, Oscar Mondadori 2005

C'era una volta un uomo che odiava il suo lavoro. Era un tagliapietre, e doveva faticare tutto il giorno per una misera paga. «Che orrendo modo di vivere», pensava. «Come mi piacerebbe essere un riccone che può oziare tutto il giorno.» A un certo punto il suo desiderio divenne così intenso che si tramutò in realtà. Il tagliapietre sentì una voce che diceva: «Tu sei ciò che vuoi essere». Divenne ricco e poté avere da subito tutto ciò che aveva da sempre desiderato: una casa bellissima, cibo squisito, svaghi meravigliosi.

Era felice, ma dopo un po' vide passare il re in una processione e penso: «Lui è più potente di me, come vorrei essere io nei suoi panni!», di nuovo udì la voce e, come per magia, divenne il re. Era diventato l'uomo più potente del mondo. Ah, che ebbrezza il potere! Tutti gli obbedivano, tutti lo temevano, era felice, ma non completamente. A poco a poco si fece strada in lui una certa insoddisfazione che lo solleticava maligna. «Voglio ancora di più» pensò. Voglio voglio voglio. Vide il sole nel cielo, e pensò: «Il sole e ancora più potente di me, voglio essere il sole!».

Ed ecco che divenne il sole. Luminoso, grande, fortissimo. Dominava il cielo e la terra. Nulla e nessuno poteva esistere senza di lui. Che felicità! E che importanza! Però poi si accorse che sotto di lui le nuvole gli impedivano di vedere il paesaggio. Erano mobili e leggere. Invece di stare fisse nel cielo, potevano assumere infinite forme e al tramonto si coloravano di tinte stupende. Vivevano senza preoccupazioni ed erano libere. Che invidia.

Ma l'invidia durò poco. Sentì di nuovo la voce: «Tu sei ciò che vuoi essere». E fu subito nube. Era un piacere essere sospesa nell'aria, mobile, vaporosa. Si divertiva a prendere forme sempre diverse, ora spessa e opaca, ora bianca e ricca, ora sottile come un ricamo. Ma la nuvola d'un tratto dovette condensarsi in goccioloni di pioggia, che andarono a colpire una roccia di granito. Che impatto. La roccia era lì da millenni. Dura e solida. E invece le misere gocce di acqua si rompevano sul granito e scorrevano fino a essere assorbite dalla terra e comparire per sempre. Come sarebbe stato bello essere roccia, pensò.

Subito divenne roccia. Per un po' si godette la vita. Finalmente aveva trovato la stabilità. Ora si sentiva sicuro. «È la sicurezza che cercavo, dopo tutto, e di qui non mi muove più nessuno.» Le gocce di pioggia lo colpivano e scendevano lungo i suoi fianchi. Era un massaggio piacevole. Un omaggio. Il sole l'accarezzava con i suoi raggi. Com'era bello venire riscaldati! Il vento lo rinfrescava. Le stelle lo guardavano. Aveva raggiunto la completezza.

Un giorno, però, vide una figura che si stagliava all'orizzonte. Era un uomo un po' curvo con un grosso martello. Un tagliapietre. Incominciò a battere con il martello su di lui. Più che male sentì sgomento. Il tagliapietre era ancora più forte e poteva decidere del suo destino. «Come vorrei essere il tagliapietre» pensò.

E così il tagliapietre fu di nuovo tagliapietre. Dopo essere stato tutto ciò che avrebbe voluto essere, divenne di nuovo ciò che era sempre stato. Ma questa volta era felice, tagliare le pietre era diventato un'arte, il suono del martello era musica, la fatica alla fine della giornata era il benessere di chi aveva fatto bene il suo lavoro. E quella notte in sogno ebbe una meravigliosa visione della cattedrale che le sue pietre avrebbero contribuito a formare. Gli pareva che non ci fosse niente di meglio che essere ciò che era. Era rivelazione bellissima che, sapeva, non lo e mai abbandonato. Era la gratitudine.

Il tagliapietre in questa storia compie un passaggio essenziale. Dalla rivendicazione («Voglio questo, voglio quello») alla gratitudine («Sono contento di ciò che ho»). Nella prima c'è dualità, perché vogliamo ciò che non abbiamo. Ci presentiamo al mondo chiedendo, sentiamo di avere un diritto. Talora ciò che vogliamo lo chiediamo con passione, magari con prepotenza, e una volta che lo abbiamo ottenuto ci viene voglia di qualcos'altro. Gli altri sono nostri concorrenti e li guardiamo con sospetto. Nel secondo stato c'è unità, perché, invece di recriminare e protestare, diventiamo tutt'uno con ciò che ci è dato. Questo è il momento che ho sempre aspettato, pensiamo. Questo è ciò per cui vale la pena di vivere. Gli altri sono amici, non avversari. Sentiamo ogni cellula del nostro essere che dice grazie. «Gratefulness is heaven itself» diceva il poeta inglese William Blake: la gratitudine è il paradiso.

felicitàaccontentarsigratitudinelavoro

inviato da Qumran, inserito il 01/12/2017

ESPERIENZA

2. Andate in missione per cercare luoghi e modi per dare la vita

Roberta Pignone

Questo titolo un po' strano è quello che meglio descrive il mio viaggio in Bangladesh fatto proprio lo scorso settembre. Fin dall'inizio del mio cammino di preparazione al PIME, iniziato lo scorso ottobre, ho sempre avuto come motivazione principale quella di scoprire cosa avrei potuto fare come medico in una Missione.

E così mi sono completamente affidata a questo cammino, io ho deciso di parteciparvi, tutto il resto mi è stato donato.

Nel mese di aprile ho saputo che la mia destinazione sarebbe stata il Bangladesh.

Non sapevo nulla di questo paese, solo che è il più povero del mondo...

Sono partita per questa esperienza caricata molto positivamente, la gioia e la curiosità erano davvero grandi, ma avevo anche un po' di paura. Le aspettative erano molte ma ho voluto un po' accantonarle dicendo: "Lascio al Signore di decidere quello che vorrà donarmi con questa esperienza".

Al momento della partenza sapevo solo che io, a differenza delle due ragazze che sono partite con me, sarei stata da sola in un'altra missione più a nord del paese, dove mi aspettava il lavoro in un dispensario.

Il primo impatto all'arrivo a Dahka è stato davvero traumatico, la prima sera i miei sentimenti e le emozioni erano incontrollabili continuavo a ripetermi: Perché sono qui? Non potevo seguire i consigli di chi mi ha sempre un po' scoraggiato in questo viaggio?!. Ma chi me lo ha fatto fare? Voglio tornare a casa!

Dahka è una città lasciata a metà, tutto è stato iniziato ma ben poco è stato portato a termine, grande caos, forti rumori, traffico peggio che a Milano, odori nauseabondi...

Ma in fondo la mia destinazione era un piccolo villaggio del nord, questo mi faceva avere la speranza che le cose sarebbero cambiate.

Dopo due giorni ho raggiunto Boldipukur, la mia piccola e accogliente missione. Le case diroccate hanno lasciato spazio al verde che è la nota caratteristica del B, qua la gente vive nelle capanne in mezzo alla natura, proprio intorno alla missione.
Uno spettacolo meraviglioso!

Così le angosce e le paure che mi avevano accompagnato fino a quel momento hanno lasciato spazio ad una sensazione di pace. Sono stata ospite di una piccola comunità di cinque suore, tre bengalesi e due italiane, suor Eleonora e suor Mariangela. Mi sono sentita subito ben accolta, mi sentivo come a casa mia.

A differenza di Dahka dove sono stata solo spettatrice di un mondo che sentivo estremamente estraneo a me e anche un po' ostile, in questo ambiente sono dovuta scendere allo scoperto, entrando nella quotidianità di questa gente, nelle loro case, nelle loro vite.

Sono entrata con timore, quasi in punta di piedi per non voler far notare troppo la differenza e mi sono scontrata subito con una povertà che disarma e fa cadere tutte le certezze.

Appena arrivata in missione mi hanno mostrato la mia camera e subito mi ha colto una sensazione di disagio: non funzionava il ventilatore, assolutamente necessario per affrontare alcuni momenti della giornata, e l'acqua che scendeva dal mio rubinetto era arancione. "Voglio tornare a casa" e il solito "Chi me lo ha fatto fare?!".

In risposta a queste mie domande mi hanno portato a fare un giro nel villaggio appena fuori le mura della missione e ho visto gente che vive nelle capanne, in una unica stanza c'è tutto e soprattutto nessuna comodità, niente ventilatore, niente acqua corrente, solo la luce per chi è fortunato.

La povertà che ho incontrato nel piccolo villaggio è diversa da quella di Dahka, è una povertà dignitosa, hanno davvero poco per il loro sostentamento, ma quel poco lo condividono.

Ho voluto conoscere la realtà della Sanità in B, suor Mariangela si è fatta carico di questa cosa e mi ha fatto vedere tutto quello che le era possibile, portandomi da una cittadina all'altra, consapevole che di fronte ad alcune realtà sarei rimasta senza parole.

Così ho visitato l'ospedale governativo di Rangpur, la città più grande vicino alla mia missione, una decina di chilometri, penso che le parole non riescano a rendere il significato di quello che ho visto: non credevo di essere in un ospedale. La struttura è fatiscente, mi verrebbe da paragonarla alla stazione centrale, ogni angolo di corridoio o di scala è utilizzato come bagno o spazzatura. Nel reparto di chirurgia generale, uno stanzone enorme nel quale sono ricoverati una cinquantina di persone, uomini e donne insieme, chi su di un letto dalle lenzuola putride, chi addirittura per terra adagiato su delle coperte di lana anch'esse molto sporche. Ogni paziente ha al suo fianco la famiglia per qualsiasi necessità, l'ospedale non dà cibo, ma nemmeno i farmaci necessari al ricovero. Tutto è a carico del paziente.

E' stato sufficiente vedere quel reparto per chiedere alla suora di portarmi via, non volevo veder più nulla e nel cuore la speranza che non succeda mai nulla per cui i missionari abbiano bisogno di un ricovero urgente.

La speranza si è accesa quando invece a Dinajpur ho visto l'ospedale gestito dai Missionari, una stretta al cuore, nella povertà e nella semplicità della struttura, riesco comunque a riconoscere un ospedale. Corridoi e stanze pulite, ognuno ha un proprio letto con lenzuola degne di essere chiamate tali.

L'esperienza comunque più significativa l'ho vissuta proprio al dispensario dove ho potuto agire direttamente.

Il dispensario raccoglie tutti i giorni dalle 100 alle 150 persone e più provenienti dai villaggi limitrofi, solo donne e bambini. Vi lavorano solo due suore infermiere, il numero di utenti sarebbe troppo alto con gli uomini.

Vengono fatte accomodare 5 o 6 persone tutte insieme e ognuno dice apertamente il proprio problema, non esiste certo la legge sulla privacy.

Così le suore gestiscono i loro pazienti, ascoltandoli, facendo diagnosi, consigliando terapie con farmaci che loro stessi devono pagare. E non si può certo eccedere con i farmaci, dipende da quanti soldi può offrire il paziente.

I primi giorni mi domandavo che senso avessero tali terapie che non duravano più di quattro giorni a dosi che da noi non utilizziamo nemmeno nei bambini. E ho fatto fatica a mettere da parte le mie conoscenze e le mie certezze per entrare in un'ottica che è completamente diversa dalla mia.

Ho subito pensato a come noi, facilmente, possiamo avere dei farmaci che ci aiutano e a quanti Km di strada devono fare loro per raggiungere il dispensario che copre un territorio vastissimo. Certo nei villaggi ci sono i loro dottori che nella maggior parte dei casi sono stregoni che impongono terapie che io non ho voluto nemmeno conoscere.

Certo che i ricordi sono davvero tanti e potrei stare raccontare per ore...

Prima di partire mi hanno consigliato di non andare a vivere un'esperienza di questo tipo con l'idea di andare a fare grandi cose, con l'idea di salvare il mondo, ma anzi, di lavorare poco e di guardare, ascoltare, imparare.

E così ho fatto, sono partita dicendo: "Non dirò di no a nulla e farò tutto quello che mi verrà proposto...".

Ora il sentimento che sento davvero forte nel mio cuore è quello della gratitudine, io non ho fatto assolutamente nulla in questa esperienza, ho solo ricevuto tanti doni.

E quello davvero più grosso è stato quello di una comunità accogliente che mi ha permesso di essere davvero libera di guardare, ascoltare, registrare tutto quello che veniva messo sul mio cammino.

Ho fatto migliaia di km per scoprire in terra straniera uomini e donne italiane, sì, i missionari!!

"Negli occhi una terra lontana, nel cuore una speranza, andare ai confini del mondo per far conoscere te" sono le parole di un canto che porto nel cuore da quando sono tornata e racchiudono davvero il senso del mio viaggio.

Porto nel cuore queste persone che mi hanno insegnato uno stile di vita davvero semplice e sobrio, il loro sguardo carico di amore, i loro sorrisi... riflesso di un amore più grande che li accompagna e li sostiene ogni giorno.

Non posso che chiedervi di pregare per queste persone perché possano davvero continuare questa grande opera che non è altro che la loro vita per Dio!

missionepovertàdonare

inviato da Mariangela Molari, inserito il 26/05/2002