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RACCONTO

41. Il parasole   1

Min-Hi era una graziosa e simpatica cinesina di dodici anni che viveva con la mamma e il papà in un villaggio al margine della foresta. Il compleanno di Min-Hi coincideva con la stagione calda, quando il sole scottava e la gente andava in cerca di ombra. Perciò, per il suo compleanno, ricevette in regalo un bel parasole.

«Posso andare a fare una passeggiata col mio nuovo parasole?», chiese alla mamma.
«Va bene, stai attenta però, e torna presto!».

Min-Hi stava camminando sul ciglio di una risaia, quando vide un enorme gorilla dondolarsi su un albero con le braccia penzoloni.

«Povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò Min-Hi. E, tremando tutta, si rincantucciò dietro il parasole. Ma non accadde niente... proprio niente! Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia del gorilla!

Non aveva fatto molta strada, quando intravide una grande ombra aggirarsi minacciosa fra i cespugli. Era un'enorme tigre che puntava silenziosamente verso di lei.

«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò sgomenta. E, tremando tutta, si accoccolò dietro il parasole. Ma non successe nulla... decisamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia di tigre.

Non era andata molto più lontano quando un'ombra nera sulla sua testa la fece guardare in alto. Su di lei stava calando un grosso uccello dalle enormi ali spiegate, con un becco adunco e gli unghioni affilati.

«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi sotto il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò terrorizzata. E tremando tutta si fece piccola sotto il parasole. Ma non successe nulla... assolutamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia dell'aquila.

Quando Min - Hi tornò a casa, raccontò alla mamma le sue tremende avventure.

«Ma hai guardato cosa c'è sul tuo parasole?», le chiese la mamma.
Min - Hi lo aprì e fece un salto per lo spavento.

Sopra il parasole c'era dipinto un drago coloratissimo e terrificante, con enormi artigli e narici fiammeggianti.

«Hai visto?» le chiese la mamma, «Contro il tuo potentissimo drago non c'è gorilla, tigre o rapace che tenga».

E aggiunse: «Il tuo parasole, farai bene a portarlo sempre con te».

E da quel giorno, Min - Hi non se lo fece certo dire due volte.

debolezzaforzariparodifesa

3.5/5 (2 voti)

inserito il 20/09/2013

PREGHIERA

42. Con te che sei la nostra pace   3

Comunità FMA dell'Eremo San Biagio, La Voce di San Biagio

Signore Gesù, tu hai detto:
Vi lascio la mia pace,
ve la do in modo diverso
da come la dà il mondo.
Hai anche detto
che dove alcuni sono uniti nel tuo nome,
Tu sarai certamente con loro.
Tu sei dunque qui in mezzo a noi.
Aiutaci a vivere insieme con te,
nello scorrere dei giorni:
con te che sei la nostra pace.

Aiutaci a riconoscerti in ognuno
che incontriamo.
Aiuta il nostro cuore
a passare nel tuo Cuore che, unito al Padre,
è aperto a ogni uomo, a ogni creatura
nell'alito vivificante dello Spirito Santo.

Aiuta gli occhi del nostro cuore
a riconoscerti sempre
nel volto di chi gioisce e di chi piange,
di chi ha successo nella vita
e di chi, stanco e deluso,
si scoraggia e deprime.

Aiutaci a credere che la tua pace
può abbattere il reticolato
delle nostre diffidenze e discordie,
può fiorire anche
nelle aride sabbie dei nostri egoismi
scoperchiati dalla tua Parola e vinti dalla Tua grazia.

Aiutaci, Gesù nostra Pace,
a presentarci al mondo con un volto da salvati,
con occhi pensosi ma vividi di speranza
con progetti di collaborazione
costruttiva con quanti,
da qualsiasi sponda religiosa politica razziale provengano,
siano come noi sinceramente decisi a volere il bene di tutti.

Aiutaci a fare della tua pace
il nostro stile di approccio relazionale
con ogni uomo e donna,
con ogni giovane e anziano
che scopre nell'adesione al tuo volere
la profonda e vera radice della pace.

Aiutaci, o Signore, a percorrere
tutti i sentieri della vita
nel sole della tua presenza
perché, sorretti dalla preghiera
dalla vita sacramentale
e da un rapporto positivo con ogni creatura,
giungiamo a bussare alla porta
della tua e nostra casa.
Proprio perché arriveremo insieme a tanti fratelli e sorelle da te pacificati,
noi lo sappiamo: tu ci spalancherai la porta
della pace e della gioia senza fine.

paceguerra

5.0/5 (3 voti)

inviato da Suor Monica, inserito il 06/09/2013

RACCONTO

43. La conquista della penna d'aquila   9

In riva ad un lago azzurro, sorgeva un tranquillo villaggio indiano. A mezzogiorno e a sera, dalle tende uscivano fumo e fragranti profumi che mettevano appetito ai piccoli indiani che giocavano.

Una sera d'estate, il clima del villaggio sembrò improvvisamente cambiare. Gli uomini della tribù si raccolsero tutti nella tenda di Bisonte Nero, il grande capo, per il consiglio dei saggi e degli anziani.

Si erano riuniti per una questione importante che riguardava i piccoli indiani che avevano compiuto sette anni, dovevano cioè decidere quale sarebbe stata la "prova di forza" che avrebbero dovuto superare per essere accettati come membri della tribù.

Era ormai calato il sole, quando dalla tenda uscirono gli uomini, gli anziani e il grande capo. I piccoli indiani si avvicinarono a Bisonte Nero impazienti di sapere quale sarebbe stata la prova di forza, e lui con voce solenne dichiarò: "Domani all'alba con il primo raggio di sole, partirete con le vostre canoe verso l'altra riva del lago e cercherete la penna d'aquila dorata che è nascosta in un posto segreto".

Al primo chiarore, apparvero dietro le montagne le ombre dei giovani indiani che portavano le loro canoe verso la riva del lago. Stavano tutti indaffarati a prepararsi quand'ecco arrivare, camminando lentamente, Falco Stanco, un vecchio indiano che abitava in un villaggio dall'altra parte del lago.

Il vecchio si avvicinò ai bambini e disse loro: "Sono vecchio e stanco e per tornare dalla mia tribù devo andare sull'altra riva del lago, e a piedi ci impiegherei una nottata. Qualcuno di voi mi potrebbe portare sulla sua canoa?".

Il piccolo Volpe Astuta guarda gli altri e dice: "Ma noi dobbiamo fare la prova di forza!".

E tutti gli altri dissero: "No, non è possibile; se fosse un altro giorno sì, ma oggi dobbiamo correre".

"Eh, sì!", pensò Nuvola Rossa. "Se uno di noi prende sulla sua canoa Falco Stanco, rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna d'aquila. Ma che fatica dovrà fare, povero vecchio, per compiere il giro del lago. E come sarà triste se gli diremo tutti di no!". Nuvola Rossa si avvicinò al vecchio e disse, deciso: "Vieni, Falco Stanco; ti porto io!".

Gli altri sorpresi lo guardarono e pensarono: "Nuvola Rossa non è stato molto furbo, così rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna, ha perso la sua occasione, lui che è tra i ragazzi più abili!".

In quel momento spuntò il primo raggio di sole e con un grido di gioia i piccoli indiani partirono veloci. Nuvola Rossa vedeva i suoi amici molto più avanti di lui, ormai lontani, e gli venne il dubbio di aver sbagliato. Poi guardava Falco Stanco, aedeva il suo viso rugoso che sorrideva felice e sentiva nel suo cuore una voce che gli diceva: "Hai fatto bene, hai fatto bene!".

I piccoli indiani avevano già preso a cercare nei boschi, quando verso Mezzogiorno arrivò anche Nuvola Rossa. Il piccolo indiano era tutto sudato per la fatica e pensava che già vi era un vincitore. Ma, a quanto pareva, nessuno aveva ancora trovato la penna d'aquila.

Nuvola Rossa riprese forza e entusiasmo, salutò Falco Stanco e si accinse alla ricerca. Ma il vecchio indiano lo chiamò: "Aspetta, vieni qui! Ti devo dare una cosa!". Un po' a malincuore, Nuvola Rossa si fermò e andò verso Falco Stanco. "Ieri sera", proseguì l'anziano, "il grande capo del tuo villaggio mi ha detto: domani all'alba, quando vorrai tornare al tuo villaggio, recati dai piccoli indiani, chiedi loro di portarti sull'altra sponda, e a chi lo farà quando sarete arrivati, consegnagli questa". E Falco Stanco tirò fuori una meravigliosa penna d'aquila dorata!

Nuvola Rossa la afferrò e la sollevò con un urlo di gioia. Gli altri accorsero pieni di stupore.

Falco Stanco rivolgendosi a Nuvola Rossa disse: "Hai vinto la prova, perché la forza più grande è la forza dell'amore, e tu hai dimostrato di averla aiutandomi. Nuvola Rossa ha avuto il coraggio di fare quello che nessuno voleva fare!".

I piccoli indiani si guardarono l'un l'altro, poi dissero: "E' vero, la forza più grande è l'amore e adesso anche noi vogliamo fare come Nuvola Rossa!".

Falco Stanco li salutò con la mano e pensò: "Sì, questo è stato un giorno importante per i piccoli indiani perché hanno imparato che c'è qualcosa nella vita che vale più dell' arrivare primi".

amoresolidarietàdonaregratuitàgenerosità

4.7/5 (9 voti)

inserito il 10/07/2013

RACCONTO

44. Il flauto del pastore   5

C'era una volta un vecchio pastore, che amava la notte e conosceva bene il percorso degli astri. Appoggiato al suo bastone, con lo sguardo rivolto verso le stelle, il pastore stava immobile sul campo.
"Egli verrà!" disse.
"Quando verrà?" chiese il suo nipotino.
"Presto!".
Gli altri pastori risero.
"Presto!", lo schernirono. "Lo dici da tanti anni!".

Il vecchio non si curò del loro scherno. Soltanto il dubbio che vide sorgere negli occhi del nipote lo rattristò. Quando fosse morto, chi altri avrebbe riferito la predizione del profeta? Se lui fosse venuto presto! Il suo cuore era pieno di attesa.

"Porterà una corona d'oro?". La domanda del nipote interruppe i suoi pensieri. "Sì!".
"E una spada d'argento?". "Sì!".
"E un mantello purpureo?". "Sì! Sì!".

Il nipotino era contento. Il ragazzo era seduto su un masso e suonava il suo flauto. Il vecchio stava ad ascoltare. Il ragazzo suonava sempre meglio, la sua musica era sempre più pura. Si esercitava al mattino e alla sera, giorno dopo giorno. Voleva essere pronto per quando fosse venuto il re. Nessuno sapeva suonare come lui.

"Suoneresti anche per un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo?", chiese il vecchio.
"No!", disse il nipote.

Un re senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, come avrebbe potuto ricompensarlo per la sua musica? Non certo con oro e argento! Un re con corona, con spada e mantello purpureo l'avrebbe fatto ricco e gli altri sarebbero rimasti a bocca aperta, l'avrebbero invidiato.

Il vecchio pastore era triste. Ahimé, perché aveva promesso al nipote ciò a cui egli stesso non credeva? Come sarebbe venuto? Su nuvole dal cielo? Dall'eternità? Sarebbe stato un bambino? Povero o ricco? Di certo senza corona, senza spada e senza mantello purpureo, e tuttavia sarebbe stato più potente di tutti gli altri re. Come poteva farlo capire al suo nipotino?

Una notte in cielo comparvero i segni che il nonno così a lungo aveva cercato con gli occhi. Le stelle splendevano più chiare del solito. Sopra la città di Betlemme c'era una grande stella. E poi apparvero gli angeli e dissero: "Non abbiate paura! Oggi è nato il vostro Salvatore!".

Il ragazzo corse avanti, verso la luce. Sotto il mantello sentiva il flauto sul suo petto. Corse più in fretta che poteva. Arrivò per primo e guardò fisso il bambino, che stava in una greppia ed era avvolto in fasce. Un uomo e una donna lo contemplavano lieti. Gli altri pastori, che l'avevano raggiunto, si misero in ginocchio davanti al bambino. Il nonno lo adorava. Era dunque questo il re che gli aveva promesso?
No, doveva esserci un errore. Non avrebbe mai suonato qui.

Si voltò deluso, pieno di dispetto. Si allontanò nella notte. Non vide né l'immensità del cielo, né gli angeli che fluttuavano sopra la stalla.

Ma poi sentì piangere il bambino. Non voleva sentirlo. Si tappò le orecchie e corse via. Ma quel pianto lo perseguitava, gli toccava il cuore e infine lo costrinse a tornare verso la greppia.
Eccolo là, per la seconda volta.

Vide che Maria, Giuseppe e anche i pastori erano spaventati e cercavano di consolare il bambino piangente. Ma tutto era inutile. Che cosa poteva avere il bimbo?

Non c'era altro da fare. Tirò fuori il suo flauto da sotto il mantello e si mise a suonare. Il bambino si quietò subito. Si spense anche l'ultimo, piccolo singhiozzo che aveva in gola. Guardò il ragazzo e gli sorrise.

Allora egli si rallegrò, e sentì che quel sorriso lo arricchiva più di tutto l'oro e l'argento del mondo.

natalepastoriGesù bambinoMariaGiuseppedonodonaregioiainterioritàesteriorità

4.2/5 (5 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 18/03/2013

PREGHIERA

45. Maria, donna innamorata   3

don Tonino Bello, Maria, donna dei nostri giorni

I love you. Je t'aime. Te quiero. Ich liebe Dich. Ti voglio bene, insomma.

Io non so se ai tempi di Maria si adoperassero gli stessi messaggi d'amore, teneri come giaculatorie e rapidi come graffiti, che le ragazze di oggi incidono furtivamente sul libro di storia o sugli zaini colorati dei loro compagni di scuola.

Penso, però, che, se non proprio con la penna a sfera sui jeans, o con i gessetti sui muri, le adolescenti di Palestina si comportassero come le loro coetanee di oggi.

Con «stilo di scriba veloce» su una corteccia di sicomòro, o con la punta del vincastro sulle sabbie dei pascoli, un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento, antico e sempre nuovo, che scuote l'anima di ogni essere umano quando si apre al mistero della vita: ti voglio bene!

Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell'esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell'universo.

Ha assaporato pure lei la gioia degli incontri, l'attesa delle feste, gli slanci dell'amicizia, l'ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo.

Cresceva come un'anfora sotto le mani del vasaio, e tutti si interrogavano sul mistero di quella trasparenza senza scorie e di quella freschezza senza ombre.

Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: «Maria, ti amo». Lei gli rispose, veloce come un brivido: «Anch'io». E nell'iride degli occhi le sfavillarono, riflesse, tutte le stelle del firmamento.

Le compagne, che sui prati sfogliavano con lei i petali di verbena, non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura. Il sabato la vedevano assorta nell'esperienza sovrumana dell'estasi, quando, nei cori della sinagoga, cantava: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora ti cerco: di te ha sete l'anima mia come terra deserta, arida, senz' acqua». Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d'amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato, con le cadenze del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto è riconoscibile tra mille... I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua... Il suo aspetto è come quello del Libano, magnifico tra i cedri...».

Per loro, questa composizione era un'impresa disperata. Per Maria, invece, era come mettere insieme i due emistichi d'un versetto dei salmi.

Per loro, l'amore umano che sperimentavano era come l'acqua di una cisterna: limpidissima, sì, ma con tanti detriti sul fondo. Bastava un nonnulla perché i fondigli si rimescolassero e le acque divenissero torbide. Per lei, no.

Non potevano mai capire, le ragazze di Nazaret, che l'amore di Maria non aveva fondigli, perché il suo era un pozzo senza fondo.

Santa Maria, donna innamorata, roveto inestinguibile di amore, noi dobbiamo chiederti perdono per aver fatto un torto alla tua umanità. Ti abbiamo ritenuta capace solo di fiamme che si alzano verso il cielo, ma poi, forse per paura di contaminarti con le cose della terra, ti abbiamo esclusa dall'esperienza delle piccole scintille di quaggiù. Tu, invece, rogo di carità per il Creatore, ci sei maestra anche di come si amano le creature. Aiutaci, perciò, a ricomporre le assurde dissociazioni con cui, in tema di amore, portiamo avanti contabilità separate: una per il cielo (troppo povera in verità), e l'altra per la terra (ricca di voci, ma anemica di contenuti) .

Facci capire che l'amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall'unico incendio di Dio. Ma facci comprendere anche che, con lo stesso fuoco, oltre che accendere lampade di gioia, abbiamo la triste possibilità di fare terra bruciata delle cose più belle della vita.

Perciò, Santa Maria, donna innamorata, se è vero, come canta la liturgia, che tu sei la «Madre del bell'amore», accoglici alla tua scuola. lnsegnaci ad amare. È un'arte difficile che si impara lentamente. Perché si tratta di liberare la brace, senza spegnerla, da tante stratificazioni di cenere.

Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio. Soffrire per far cadere le squame dell'egoismo. Togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa. Desiderare la felicità dell'altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione.

Santa Maria, donna innamorata, visto che il Signore ti ha detto: «Sono in te tutte le mie sorgenti», facci percepire che è sempre l'amore la rete sotterranea di quelle lame improvvise di felicità, che in alcuni momenti della vita ti trapassano lo spirito, ti riconciliano con le cose e ti danno la gioia di esistere.

Solo tu puoi farci cogliere la santità che soggiace a quegli arcani trasalimenti dello spirito, quando il cuore sembra fermarsi o battere più forte, dinanzi al miracolo delle cose: i pastelli del tramonto, il profumo dell'oceano, la pioggia nel pineto, l'ultima neve di primavera, gli accordi di mille violini suonati dal vento, tutti i colori dell'arcobaleno... Vaporano allora, dal sotto suolo delle memorie, aneliti religiosi di pace, che si congiungono con attese di approdi futuri, e ti fanno sentire la presenza di Dio.

Aiutaci, perché, in quegli attimi veloci di innamoramento con l'universo, possiamo intuire che le salmodie notturne delle claustrali e i balletti delle danzatrici del Bolscjoi hanno la medesima sorgente di carità. E che la fonte ispiratrice della melodia che al mattino risuona in una cattedrale è la stessa del ritornello che si sente giungere la sera... da una rotonda sul mare: «Parlami d'amore, Mariù».

Mariainnamoramentoamore

4.0/5 (4 voti)

inviato da Barbara Battilana, inserito il 13/03/2013

TESTO

46. Il bene   1

Benjamin Franklin

Il bene che gli uomini possono fare da soli è ben poco in confronto a quello che possono fare uniti.

benecomunitàunionecomunione

3.0/5 (3 voti)

inviato da Cinzia Novello, inserito il 16/12/2012

TESTO

47. Di sogni e di meraviglia   2

Luciano Mendes de Almeida

Tante volte si sogna con gli occhi aperti, con la carta e la penna in mano, scrivendo, organizzando i pensieri, immaginando i passi per arrivare a concretizzare quello che non è solo un sogno, ma è una chiamata a fare del bene, ad andare incontro alla pecora smarrita, alle persone bisognose, alle popolazioni che si trovano nella fame, nella guerra, nella sventura.

I sogni sono belli, perché si trasformano tante volte in realtà. C'è qualche cosa in più.

Diceva Helder Camara che il sogno che si sogna da solo non è altro che sogno, ma quello che sogniamo insieme è il sogno che si fa realtà. Proprio perché nell'essere condiviso con gli altri crea unione e collaborazione, porta frutto di vita e di fraternità.

sognifare del benefraternitàcondivisioneportare frutto

4.0/5 (3 voti)

inviato da Simona Pirlo, inserito il 28/10/2012

TESTO

48. Calma, soavità e pace

Papa Giovanni XXIII

Ancora più calma, ancora più calma e soavità e pace nelle cose mie. Se non posso fare tutto il bene che credo necessario al profitto delle anime nella missione affidatami, non mi debbo per nulla né turbare, né inquietare. Tutto il Signore sa volgere al trionfo del suo Regno, anche il mio non poter fare di più.

pastoralecalmaserenitàsenso del limitepacetranquillità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 20/09/2012

TESTO

49. Parlami d'Amore (versione 2)   3

Michel Quoist, Parlami d'amore, Sei, Torino 1987, pp. 104-107

L'amore non è la folgorazione della bellezza
davanti a un volto che d'improvviso s'illumina per te,
perché la vera bellezza è il riflesso dell'anima,
ma l'anima è oltre, e la cerchi tremando.

L'amore non è seduzione di un'intelligenza viva e sciolta
che scorre in parole e idee per piacerti,
perché l'intelligenza può splendere di mille barbagli
senza essere autentico diamante nascosto nelle profondità dell'amato.

L'amore non è l'emozione di fronte a un cuore
che batte per te
più di quanto non batta per gli altri,
né quella meraviglia d'essere scelto, eletto,
senza motivo ai tuoi occhi
che valga questa follia,
perché un cuore può un giorno turbarsi per un altro,
e lasciarti sanguinare, in lacrime,
senza che il tuo amore muoia.

L'amore non è voglia di catturare, di afferrare
l'oggetto del tuo desiderio,
sia esso cuore, corpo, mente o tutti e tre insieme,
perché l'altro non è "oggetto";
e se lo prendi per te, lo mangi e lo distruggi,
è te che ami credendo di amare l'altro.

Folgorazione e seduzione, fame e fremiti,
emozione e sgorgare di desideri,
tutto ciò è bello e necessario, nell'uomo, nella donna,
ma soltanto per aiutare ad amare chi accetta di amare.

E' la porta socchiusa e le finestre spalancate,
è il vento che entra a folate,
è il richiamo del largo, è il mormorio di Dio
che invitano a uscire dalla casa sbarrata
per andare verso un altro
che hai scelto per colmare la tua vita
perché lo ami e lo vuoi amare.

Amare è volere l'altro libero e non sedurlo,
è liberarlo dai suoi lacci se ne rimane prigioniero,
perché anche lui possa dire: ti amo,
senza esservi spinto dai suoi desideri non domati.

Amare è con tutte le forze volere il bene dell'altro,
anche prima del tuo,
è fare di tutto perché l'amato cresca, e poi sbocci e fiorisca
diventando ogni giorno l'uomo che deve essere
e non quello che tu vuoi modellare
sull'immagine dei tuoi sogni.

Amare è dare il tuo corpo, e non prendere il suo,
ma accogliere il suo quando si offre per essere condiviso,
è raccoglierti, arricchirti,
per offrire all'amato più che mille carezze e folli abbracci,
la tua vita intera raccolta nelle braccia del tuo "io".

Amare è offrirti all'altro,
anche se questi ad un certo momento si rifiuta,
è dare senza tenere il conto di quello che l'altro ti dà,
pagando il prezzo alto senza mai reclamare il resto,
ed è supremo amore perdonare
quando l'amato purtroppo si sottrae,
tentando di consegnare ad altri ciò che ti aveva promesso.

Amare è credere nell'altro e dargli fiducia,
credere nelle sue forze nascoste, nella vita che ha in sé;
e quali che siano le pietre da tagliare
per appianare la strada,
è decidere da uomo ragionevole
di avviarsi coraggiosamente per il viaggio del tempo.

Non per cento giorni, per mille, e neppure per diecimila,
ma per un pellegrinaggio che non finirà,
perché è un pellegrinaggio che durerà
"sempre"...

Se amare è questo, come potrò riuscirci?
Ero scoraggiato...
Non avevo ancora capito...
che l'amore era un fine da raggiungere
e non un punto di partenza
e che, per cercare di riuscirci,
bisognava lottare per tutto il tempo della vita.
Io volevo tutto e subito.

Questo era il mio errore.
Dovevo accettare di adottare
il passo lento e regolare,
il passo dell'autentico montanaro.

Clicca qui per un altro testo di Michel Quoist sullo stesso tema.

amoreinnamoramentoamaredonarsigratuitàlibertàcrescerematurità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 20/09/2012

PREGHIERA

50. Preghiera di inizio campo estivo   1

Signore, eccoci qui davanti a te.
Oggi comincia per noi un'esperienza nuova.
Non sappiamo cosa ci riserverà.
Insieme ai nostri zaini e borse, portiamo con noi la nostra storia personale,
i nostri sogni, la voglia di stare insieme e di fare nuove amicizie.
Vogliamo soprattutto conoscerti, Signore,
perché mai come in questo tempo della nostra vita sei così misterioso...
Solo se ti conosciamo possiamo sceglierti come riferimento forte
capace di aiutarci a trovare la strada giusta per noi.
Facci sperimentare che tu, in tanti modi, sei accanto a noi e parli alla nostra vita.
La tua parola entri dentro di noi e ci insegni a dire un "grande sì",
così come hanno fatto tutte quelle persone che hanno scelto di seguirti donando la loro vita a te.
Signore, benedici queste giornate,
i nostri animatori, la vita di ciascuno di noi.
Rendici testimoni di fraternità e di amicizia,
col coraggio di dire a quanti incontreremo che tu sei il bene,
la gioia, il perdono, l'amore che non abbandona mai.
Amen.

campo scuolagrestanimatorieducatori

inviato da Pierluigi Ruggiero, inserito il 23/08/2012

ESPERIENZA

51. Aiutami a nascere   2

Tanino Minuta, Città nuova, n. 24, 2009

Gelida mattina d'inverno. Alla fermata attendo il bus 61. Dal cancello principale del cimitero che sta di fronte vedo uscire una vecchietta che cammina lentamente, appoggiandosi ricurva ad un malfermo bastoncino. Si avvicina alle strisce pedonali per attraversare. Ma una dopo l'altra le macchine le passano veloci davanti. Finalmente una macchina si ferma e la lascia camminare lentamente. Lei, giratasi, continua a guardare grata verso l'auto che l'ha lasciata passare.

Le vado incontro per aiutarla a salire il gradino del marciapiede. Dentro di me ribolle l'indignazione

per quanti non si sono fermati. Lei, offrendomi la mano per essere aiutata, guarda ancora la macchina, ormai lontana, che l'aveva fatta passare. Poi, con un sorriso di indicibile bellezza, mi chiede: «Vero che c'è tanta bontà in questo mondo?».

Quando arriva il 61 l'aiuto a salire. In mezzo a tanti volti che sembrano delle casseforti sigillate, quella nonnina mi sembra sia il tesoro che il bus sta trasportando senza che nessuno lo sappia. La guardo ancora, sorpreso per la lezione che mi ha dato. Lei non ha tenuto conto di chi non si era fermato, ha visto soltanto chi le aveva permesso di passare. Non ha visto altro.

Le dico: «Come sarebbe diverso il mondo se vedessimo soltanto il bene e non il male». Interviene a questo punto un signore seduto vicino: «Allora sì che fallirebbero telegiornali e rotocalchi. Di cosa si nutrirebbe la politica? Veleno, veleno è l'unica risorsa di ogni potere. Soltanto la malvagità equilibra il mondo. Odio ci vuole, sempre di più. Sto andando a denunciare il mio vicino di casa che con le sue orge notturne non ci lascia dormire. Lui ci avvelena la vita e io l'unica cosa che posso fare è distruggerlo. E stavolta se la passerà male!».

La vecchietta lo guarda con materna comprensione; poi, fattasi seria: «Avevo un figlio, che ha vissuto forse come il suo vicino di casa. È morto a trentatrè anni per overdose. Tutte le mattine lo vado a salutare. Quando sono alla tomba mi sembra di rivederlo nella culla, piccolo, indifeso, bisognoso di tutta la mia protezione. Ormai nulla può fargli male, eppure è come se mi chiedesse di proteggerlo ancora. L'unica cosa che posso fare è continuare a difenderlo.

«L'unico figlio. Mio marito ed io abbiamo lavorato duramente per assicurargli una vita migliore della nostra. Ma è stato più infelice di noi. Amicizie sbagliate. Per un ragazzo buono e pulito come lui la scivolata è stata veloce. Per anni non abbiamo saputo dov'era. Poi, attraverso un suo vecchio amico, siamo venuti a sapere che gironzolava come un barbone alla periferia della città. Mio marito è riuscito a trovarlo. Era irriconoscibile. Sembrava più vecchio del padre. Ha accettato di essere curato. In ospedale si comportava come un animale ferito. Parlava poco, lui che era un brillante intrattenitore delle feste.

«Un giorno mi ha detto: "Non c'è cosa peggiore per un uomo che sapere di essere inutile. Niente è più soffocante dell'inutilità". Non serviva ripetergli che per noi era importante. Era come se in lui fosse bruciata la radice della vita.

«Uscito dall'ospedale è sparito, senza dirci niente, come la prima volta. Mio marito è morto di crepacuore. Io avevo speranza.

«Quando sono venuti a dirmi che l'avevano trovato morto, si è chiusa la speranza. Chissà da quanto tempo era morto. Non me l'hanno fatto mai vedere. Nella sua giacca, hanno trovato delle frasi scritte su carta da sigarette o droga, la grafia era la sua: "La vita non mantiene mai le sue promesse. Se tu esistessi, faresti giustizia. Il male ha tutti i poteri. Tu non sei mai nato su questa Terra. Se ci fossi, ti chiederei di ricrearmi".

«Povero figlio mio, chissà che dolori ha provato! Il nostro amore non è bastato! Si apriva davanti a me la strada della disperazione, oppure... rigenerare mio figlio. Per amore di lui ho cominciato a vivere per gli altri e non per me. Ciò mi ha aiutato a rinascere e a rigenerare mio figlio. In qualche modo era come se Dio mi avesse affidato il compito di possedere un amore che non avevo mai avuto. Certo che senza la fede non ce l'avrei fatta. La fede ha delle risorse di forza che, quando meno te lo aspetti, si mostrano in tutta la loro potenza. Ora mio figlio palpita in me».

Il signore che le siede accanto, nonostante la sua statura, sembra diventato piccolo e insicuro. Come disorientato. Poi le chiede, quasi balbettando, se può fare qualche cosa per lei. La vecchietta, come se attendesse la richiesta, risponde veloce: «Il suo vicino potrebbe essere suo figlio che vuole essere ricreato!».

Soltanto il rumore del motore vibra nell'aria. Quando lei si alza per dirigersi alla fermata, il signore l'accompagna. Mi salutano tutti e due. Scende anche lui. Il palazzo dove prima aveva detto di essere diretto non era da quelle parti. Mentre il bus si allontana vedo sul marciapiede quel grande uomo che offre il braccio alla vecchietta. L'atmosfera di Natale colora la città e abbraccia il bus, le macchine, la gente.

«Vero che c'è tanta bontà in questo mondo?», echeggia in me la piccola voce di una fragile donna quasi piegata su un bastoncino instabile. Mi guardo in giro. La gente chiusa nei cappotti e nei cuori è fragile e indifesa. La commozione è forte.

È come se ogni sguardo spento mi stia implorando: «Aiutami a nascere, fammi da madre!».

amorevitabontàpositivitàrinasceresperanzasenso della vita

4.7/5 (6 voti)

inviato da Fernanda Plomitallo, inserito il 12/08/2012

TESTO

52. Fare il bene per...

François de La Rochefoucauld, Massime, 1678

Spesso si fa del bene per poter impunemente fare del male.

benemalemalizia

inserito il 11/08/2012

TESTO

53. Fare il bene

Cesare Cantù, Attenzione! Riflessi di un popolano (Milano, 1871)

Eccellente modo di fare il bene è la ferma risoluzione di combattere il male.

benemale

5.0/5 (1 voto)

inviato da Mariarosa Bosani, inserito il 11/08/2012

RACCONTO

54. Il cinghiale e la formica   2

Le grida si sentivano sino al limitare della foresta. C'era pure una musica assordante che infastidiva parecchio. Martina la formica decise che ne aveva abbastanza e chiese il permesso di smettere di lavorare per andare a vedere che cosa stava succedendo.

Non fu difficile per lei capire da dove proveniva tutto quel rumore e anche indovinare chi poteva esserne il responsabile. Grugno, il cinghiale nero più arrogante del Bosco, stava festeggiando il suo compleanno con altri animali di cui, stando a quanto riferiva la Talpa Cesira - nota ai più per essere sempre la prima a sapere tutte le novità - era meglio diffidare. Spiedini, avanzi di cibo e bottiglie di bibite erano rovesciati ovunque.

"Ma come ti permetti di fare tutto questo baccano!" urlò la piccola formica con tutto il fiato che aveva in gola. Grugno, infastidito da quella brusca interruzione, alzò un sopracciglio con fare superiore e ringhiò: "Piccolo, insignificante animale che non sei altro! Come osi interrompere la MIA festa! Non vedi che ho ospiti? Io non ho bisogno del permesso di nessuno per divertirmi", e così dicendo scagliò con una zampa una lattina vuota verso Martina. La formichina la scansò per un pelo e rispose "Tu non hai rispetto per niente e nessuno ma ricorda che un po' di umiltà sta bene anche in casa degli animali più grossi!" e così dicendo se ne andò imprecando a bassa voce.

Passò il tempo, Martina continuò a lavorare incessantemente con le sue colleghe per garantirsi un inverno abbondante di cibo. Un giorno venne a sapere (sempre dalla solita Cesira la Talpa) che Grugno, durante una delle sue scorribande, si era rotto una zampa. Il cinghiale si diceva fosse a letto, solo e impossibilitato a procurarsi il cibo, e data la scarsa simpatia che nutriva tra gli animali del Bosco, non c'era da meravigliarsi che nessuno fosse andato a trovarlo.

Martina pensò e ripensò, e infine decise di preparare una bella teglia di maccheroni e di portarla  a Grugno. Lo trovò mesto, dimesso e nei suoi occhi tutta la superbia era sparita. Non appena si accorse della formichina una lacrima scese silenziosa sulle sue ispide guance: "Io - cominciò - non sono cattivo. Volevo dimostrare a tutti di essere il più forte e il più importante fra gli animali del Bosco. Ho mancato di rispetto a te, Martina, e a tutti gli altri e ti chiedo scusa".

"Non solo ci hai deriso e trattato male - replicò la formica - ma durante tutte quelle feste che hai fatto hai sprecato un sacco di cibo che ti sarebbe potuto tornare utile in questo momento. Ora mangia, rimettiti in forma e spero che questa lezione ti sia servita a qualcosa". E così dicendo pensò di averlo redarguito abbastanza e con un mezzo sorriso gli porse la teglia, certa che a volte la vita insegna più di mille discorsi.

rispettoperdonoarroganzadebolezza

3.5/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 24/06/2012

TESTO

55. Le cinque tappe dell'amore

Silvana Lunardi

Ho voluto fare un viaggio in un'altra terra per scoprire le differenze tra gli uomini.

Nella mia prima tappa ho incontrato un bambino i suoi occhi erano pieni di gioia e curiosità; guardandolo bene ho scoperto che anche negli occhi dei bimbi della mia terra c'è la stessa gioia e curiosità.

Nella seconda tappa ho visto un contadino, era sudato con la schiena bruciata dal sole, le sue mani ferite e callose. Ho scoperto poi che anche nella mia terra i contadini sudano per il pane di ogni giorno.

Continuando il mio viaggio mi sono fermata per la terza volta, la mia terza tappa, qui ho visto una madre che cullava il suo bimbo, cantava una dolce melodia per addormentarlo, nei miei ricordi ho rivisto gli occhi di mia madre e ho risentito in fondo al cuore la ninnananna che mi cantava, sì anche nella mia terra le mamme sono piene d'amore.

Nella quarta tappa, ho incontrato un povero, chiedeva l'elemosina, la sua mano era tesa verso di me, nel suo sguardo tanta vergogna e desolazione, anche nella mia terra la povertà è uguale.

Alla fine del mio viaggio, nell'ultima tappa, la quinta, ho visto un uomo che pregava, il suo volto sprigionava serenità, le sue mani erano giunte e il capo chino, era immobile! Sembrava vivere in un'altra dimensione.

Mi sono inginocchiata al suo fianco e mi sono messa davanti a Dio, ho pregato, in quel momento ho capito che non esistono differenze tra gli uomini, tutti seguono un'unica strada, quella dell'amore!

uguaglianzaumanitàfraternità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Silvana Lunardi, inserito il 24/06/2012

TESTO

56. Cuore Trafitto

Amici della Zizzi, Commento al Vangelo Giovanni 19-31-37

La nostra salvezza è venuta dal cuore trafitto di Gesù. La salvezza del nostro prossimo deve passare attraverso le ferite che infliggeranno al nostro cuore.

Vi siete mai domandati perché ci sono così tanti divorzi? Perché molte persone iniziano a fare volontariato e poi smettono o cambiano direzione? Perché in tanti lasciano la fede? Il motivo alla base di tutto è la paura di farsi male.

Quando tra marito e moglie si crea un malinteso, o non sono d'accordo su qualcosa bisognerebbe parlarne, ma ciò provoca dolore, turbamento, doversi dire cose spiacevoli ed in molti casi si evita. Così accade che da una piccola cosa si vengano a creare brutte situazioni dalle quali è poi difficile uscirne. Se nella rete di un pescatore si forma un piccolo nodo, se non lo si leva subito, darà origine a due piccoli nodi, che a loro volta creeranno quattro piccoli nodi e poi otto ed in men che non si dica diverranno una matassa talmente intricata che la soluzione più veloce diventerà il taglio della rete.

Ma la soluzione c'è ed è molto semplice, ogni nodo che si forma lo si deve togliere con minuziosa pazienza.

In un rapporto, qualunque esso sia, si deve imparare a soffrire per il bene dell'altro e tanto maggiore e duratura è questa sofferenza, maggiore è il bene che all'altro deriverà.

Oggigiorno l'egoismo imperversa e una persona possa sacrificarsi per il prossimo è cosa assai rara da trovare, ma vedete che alone di amore che crea attorno, un alone nel quale anche chi soffre per gli altri troverà la sua pace e la sua gioia.

Gesù morendo sulla Croce ha sofferto ed è nata la fede. Dio soffrendo ogni giorno per noi che siamo suoi figli crea attorno a noi protezione e speranza.

Non facciamo così noi genitori verso i figli? Non siamo disposti a disposti a soffrire, a sacrificarci, a farci trafiggere il cuore per dargli un'opportunità in più?

famigliamatrimoniodivorzioseparazioneamoreproblemisoluzionedoloresacrificio

inviato da Riccardo Ripoli, inserito il 19/06/2012

RACCONTO

57. Le lenzuola sporche   3

Una coppia di sposi novelli andò ad abitare in una bella zona molto tranquilla della città. Una mattina, mentre bevevano il caffè insieme, il giovane marito si accorse, guardando attraverso la finestra aperta, che una vicina stendeva il bucato sullo stendibiancheria dal terrazzo e disse: "Ma guarda com'è sporca la biancheria di quella vicina! Non è capace di lavare? O forse, ha la lavatrice vecchia che non funziona bene? Oppure dovrebbe cambiare detersivo!... Ma qualcuno dovrebbe dirle di lavare meglio! O dovrebbe insegnarli come si lavano i panni!". La giovane moglie guardò e rimase zitta.

La stessa scena e lo stesso commento si ripeterono varie volte, mentre la vicina stendeva il suo bucato al sole e al vento perché si asciugasse.

Dopo qualche tempo, una mattina l'uomo si meravigliò nel vedere che la vicina stendeva la sua biancheria pulitissima e disse alla giovane moglie: "Guarda, la nostra vicina ha imparato a fare il bucato! Chi le avrà detto come si fa?".

La giovane moglie gli rispose: "Caro, nessuno le ha detto e le ha fatto vedere, semplicemente questa mattina, io mi sono alzata presto come sempre per prepararti la colazione e ho preso i tuoi occhiali e ho pulito le lenti!".

...Ed è proprio così anche nella vita... Tutto dipende dalla pulizia delle "lenti dei tuoi occhiali" attraverso cui si osservano i fatti. Prima di criticare, sarebbe meglio guardare bene se il nostro cuore e la nostra coscienza sono "pulite" per vedere meglio. Allora vedremo più nitidamente la pulizia del cuore del vicino...

non giudicaregiudicareapparenzevedere oltre le apparenzepregiudizi

4.8/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 08/05/2012

TESTO

58. Amore e comunione   1

Mariano Magrassi, Afferrati da Cristo

Dedichiamo brevemente attenzione ai gesti quotidiani che esprimono l'agàpe (amore) e costruiscono la koinonia (comunione). Al primo posto metterei una capacità infinita di comprensione e perdono. Non sta insieme una comunità dove i componenti non sono pronti a perdonarsi.

Bisogna anzitutto capire gli altri e accettarli come sono. Prendere i fratelli come Dio ce li manda e poi entrare in ciascuno, a partire da un gesto, da una parola, con una forte carica di simpatia, in modo da uscirne con la sua immagine, vera e non deformata. Spesso i pregiudizi fanno da schermo, si interpongono tra noi e i fratelli. Un filosofo ha definito la carità «l'attenzione prestata all'esistenza altrui».

Un altro elemento, importante per la comunione, è la prontezza a donarsi sulla linea del servizio. Un servizio che anzitutto deve afferrare tutto il mio essere, cioè devo fare di me quello che viene bene per gli altri. Aggiusto me stesso per essere gradito agli altri. È una carità che si fa con l'essere, prima che con l'azione.

Amare senza misura, né di intensità né di estensione. Quindi fraterna apertura a tutti. I fratelli non si scelgono, si accolgono senza discriminazione; basta escluderne uno per uccidere la carità. E dopo che l'ho accettato, il fratello, superando l'egoismo che è chiusura in me stesso, devo aprirmi a lui con una immensa speranza. Quando l'io si chiude in se stesso, intristisce. Quando invece diventa capace di rapporto, di comunione, allora si apre e fiorisce, come certi fiori che si schiudono quando sorge il sole.

Altro gesto di comunione è la correzione fraterna. Che sia un gesto cristiano non c'è alcun dubbio, perché si trova nel discorso ecclesiale di Matteo (18, 15-17). Ma è un'arte molto, molto difficile! Occorre intervenire nel momento giusto e col tono giusto. Deve nascere da un bisogno di amicizia che porge fraternamente all'altro una mano per risollevarsi. A sua volta, la correzione spinge chi la compie a togliere la trave dal proprio occhio.

Ma occorre pure sopportare se stessi, cioè accattare con serenità i propri limiti. Questo non lo riferisco ai peccati che dobbiamo cercare di eliminare, tutti; ma ai limiti che ci sono in ogni persona umana. Bisogna diventare scomplessati al riguardo; occorre saperci accettare come siamo, con lo sforzo quotidiano per renderci migliori. Allora si diventa uomini felici di vivere. È una cosa molto importante questa, perché l'uomo felice di vivere è capace di buoni rapporti con gli altri.

Accettare le diversità e saperle comporre nella comunione è un'altra cosa indispensabile. La diversità è voluta da Dio. La diversità è una ricchezza, purché non diventi contrasto. L'immagine più bella mi pare che l'abbia trovata Ignazio di Antiochia quando ha detto che siamo come una cetra, cha ha parecchie corde, e ogni corda suona la sua nota, ma ogni corda è armonizzata con l'altra. Se avessimo nella Chiesa un po' più di capacità di comporre queste differenze nella comunione! Si tratta di diversità a livello personale, non delle diversità sulle verità di fede; è chiaro che lì ci deve essere la perfetta comunione.

Da ultimo occorre da parte di tutti una fraterna cooperazione al bene di tutto il corpo ecclesiale. La salute e la vitalità di un organismo risultano dall'apporto di tutti gli organi che lo compongono. La Chiesa è un corpo che ha bisogno di tutti: ognuno l'arricchisce col suo dono.

Il Signore ci renda capaci di moltiplicare ogni giorno i gesti di bontà intorno a noi. Questa comprensione verso gli altri non è per il cristiano pura filantropia, ma un modo di andare incontro al Cristo, perché il fratello è "sacramento di Gesù". Gesù mette sul suo conto quello che abbiamo fatto al più piccolo dei nostri - e suoi - fratelli.

amorecomunionecomunitàfratelloserviziocorrezione fraterna

inviato da Marco Sciddurlo, inserito il 06/05/2012

ESPERIENZA

59. Una predica nella festa dell'Epifania in India

Piero Gheddo, http://gheddo.missionline.org/?p=826

Nel 1965, in India, alla festa dell'Epifania, sono stato invitato a parlare nella chiesa di una cittadina dello stato di Andhra Pradesh, dove lavorano i missionari del Pime. Essendo l'unico prete disponibile, ho dovuto celebrare la Messa (ma allora si celebrava in latino!) e anche fare la predica dell'Epifania. Dato che sapevo solo poche parole di telegu, la lingua locale (una delle più importanti delle 18 lingue ufficiali dell'India, parlata da più di 80 milioni di indiani, con una letteratura molto ricca e antica), il vescovo di Warangal monsignor Alfonso Beretta mi aveva fatto accompagnare da un catechista che sapeva bene l'inglese. «Tu parla inglese andando adagio», mi aveva detto, «e lui tradurrà in telegu, frase per frase, parola per parola».

Così sono andato in quella grande chiesa di Kammameth (che oggi è Diocesi), piena di gente, col mio bel discorso scritto in inglese. Dopo la lettura del Vangelo, la gente si è seduta e io ho cominciato a parlare, facendo riflessioni sulla festa liturgica, sul significato teologico dell'Epifania. A ogni frase mi fermavo e lasciavo al catechista il tempo di tradurre. Ma, man mano che andavo avanti nella predica, mi accorgevo che mentre le mie frasi erano brevi, il catechista parlava a lungo; e poi, io non citavo nessun nome proprio, ma lui continuava a citare Baldassarre, Melchiorre e Gaspare.

Dopo la Messa gli chiedo come aveva tradotto la mia predica e mi sento rispondere: «Padre, tu dicevi cose troppo difficili che io capivo poco e i nostri fedeli, gente semplice, non avrebbero capito nulla e non sapevo come tradurre. Allora ho raccontato alla gente la storia dei tre Re Magi, chi erano, da dove venivano e cosa hanno fatto quando sono tornati alle loro case dopo aver visto Gesù. Forse tu non sai, ma in India c'è la tradizione che i Magi erano indiani. Io li ho ambientati nei nostri villaggi telegu, in modo che tutti li sentissero come loro antenati. Ma non preoccuparti, ai nostri fedeli la tua predica è piaciuta molto, anche perché hanno capito tutto e adesso le vicende della vita di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre le racconteranno anche ad altri».

Quell'episodio mi ha fatto capire una grande verità: il Vangelo è il racconto di un fatto, di un avvenimento, di una notizia; cioè comunica la «Buona Notizia» e usa un linguaggio estremamente concreto, che invita a cambiare vita, a convertirci. Gesù parla con parabole, cioè racconta dei fatti che avrebbero potuto anche essere veri, per dare un'indicazione morale. Non fa come in certe prediche di noi sacerdoti, che la gente non ascolta o non capisce, perché disincarnate dalla vita quotidiana. Essere cristiani significa vivere la vita di Cristo e offrire agli uomini degli esempi concreti di vite spese per Dio e per il prossimo. Quello che convince o scuote e fa riflettere i non credenti o i non praticanti non sono i ragionamenti o le dimostrazioni filosofiche o teologiche (ci vogliono anche queste, ma a luogo e tempo debito)., sebbene i buoni esempi delle vite di Gesù, di Maria e dei santi. E anche dei Re Magi che venivano dall'Oriente!

Anche la nostra vita cristiana deve diventare, agli occhi di chi non crede, un annunzio di salvezza, una testimonianza di fede e di bontà. Nessuno riesce mai a essere un vero cristiano, perché il modello di Gesù è infinitamente al di là delle nostre piccole persone: ma quel che importa è la sincera volontà di camminare per la via che Cristo ci ha indicato. Non preoccupiamoci troppo delle nostre cadute, quando sono sinceramente combattute e detestate, quando ripetiamo ogni giorno al Signore il nostro pentimento e la volontà di togliere il peccato dalla nostra vita. «La santità», diceva Santa Teresina del Bambino Gesù, «non è una salita verso la perfezione, ma una discesa verso la vera umiltà» .

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

TESTO

60. Ogni giorno è unico   1

Francisco Fernàndez Carvajal, Parlare con Dio

Per scandire la nostra vita il Signore ci ha dato la notte e il giorno.
«Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia».

E ogni nuovo giorno ci ricorda che dobbiamo proseguire i lavori interrotti e rinnovare i progetti e le speranze. Ogni giorno comincia, in un certo modo, con una nascita e finisce con una morte; ogni giornata è come una vita in miniatura. Alla fine il nostro passaggio nel mondo sarà stato santo e gradito a Dio se avremo fatto in modo che ogni giornata piacesse a Dio, dall'alba al tramonto.

«Il giorno al giorno ne affida il messaggio»; il giorno di ieri sussurra all'oggi, e suggerisce da parte del Signore:
«Comincia bene. Comportati bene "adesso", senza ricordarti di "ieri" che è già passato, e senza preoccuparti di "domani", che non sai se per te arriverà».

Viviamo ogni giornata come se fosse l'unica che abbiamo da offrire a Dio, cercando di fare bene le cose, e riportando a Dio, con la contrizione, quelle che abbiamo fatto male. Un giorno sarà l'ultimo, e anch'esso l'avremo dedicato a nostro Padre. Allora, se avremo vissuto offrendo a Dio la nostra vita e rinnovando l'offerta di giorno in giorno, udiremo Gesù dirci, come ha detto al buon ladrone: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

tempogiornataoggipresentevitasenso della vitavalore del tempo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Alessio Capone, inserito il 09/04/2012

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