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TESTO Intimità: ascolto del quotidiano

don Maurizio Prandi

III Domenica di Quaresima (Anno C) (11/03/2007)

Vangelo: Lc 13,1-9 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 13,1-9

1In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. 8Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

In queste prime due settimane di cammino verso la festa di Pasqua è risuonata, con modalità diverse, una parola: intimità. La scorsa settimana dicevo che potremmo connotare così il tempo forte che stiamo vivendo: la Quaresima è il tempo dell'intimità. Un'intimità cercata e desiderata anche a prezzo della fatica: fatica di andare nel deserto, fatica della solitudine, fatica del salire sul monte insieme a Gesù, fatica di stare a contatto con la verità di sé nella preghiera.

La Liturgia della Parola che la Chiesa ci consegna per la terza domenica di Quaresima continua a nutrire la nostra vita di fede percorrendo lo stesso solco, seguendo lo stesso filone. Mi riferisco alla prima lettura ed al vangelo provando ad usare come chiave interpretativa la categoria dell'intimità.

I^ lettura. Mi pare di capire qui che l'intimità parte dalla quotidianità. Gli eventi della vita quotidiana, compresi i gesti ripetitivi del lavoro di ogni giorno, diventano occasione di ascolto di una parola di Dio a Mosè: la quotidianità è uno dei luoghi attraverso i quali Dio parla all'uomo. E' nel quotidiano che incontriamo Dio, è nell'ordinario della nostra vita che lo straordinario di Dio ci viene incontro.... È sempre nel quotidiano, anche quello più semplicemente vissuto, che Dio ci chiama per nome: Mosè! Mosè! In Mosè ognuno di noi è chiamato per nome, amato personalmente, inviato per una missione. Mi pare che possiamo anche dire che solo a patto di considerare il quotidiano come occasione è possibile l'incontro, è possibile l'intimità, è possibile sentirci chiamati per nome ma non solo. E' nel quotidiano che riceviamo il nome di Dio: Io sono colui che sono, cioè colui che è presente, che agisce efficacemente, colui che non abbandona, colui che si fa accanto all'umanità, colui che guarda alla miseria del suo popolo e decide di liberarlo dalla sua schiavitù. L'intimità parte dall'essere dentro il suo popolo da parte di Dio. Una interpretazione rabbinica di questo episodio dice che il roveto è il popolo d'Israele, un popolo tra le spine, un popolo nell'afflizione. E la fiamma che arde è Dio. Dio è dentro il suo popolo che soffre, è immerso nelle sue sofferenze. Non un Dio fuori quindi, ma dentro, e dentro per sempre. Il nome di Dio allora è io ci sono, ci sono per voi. Sono nella vostra storia, così come sono stato nella storia dei vostri padri, perché io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Io non mi ritiro. Io ci sono per voi. Sono il fuoco nelle vostre spine (A. Casati).

Questo brano tratto dal libro dell'esodo ci racconta anche due gesti dell'intimità:

- prima di tutto Mosè riceve l'invito a togliersi i sandali. Come dire che l'incontro con il Signore avviene soltanto se ci si spoglia di tutte quelle false sicurezze di cui tante volte si è troppo ricchi. Siamo spesso corazzati e chiusi e l'abbandono in Dio ci risulta estremamente difficile. A quel gesto è legato l'avvicinarsi... possiamo avvicinarci a Dio solo se ci togliamo i sandali, solo se ci spogliamo, solo se desideriamo rimanere di fronte a Lui così come siamo, senza protezioni, senza maschere, senza finzioni. Il suolo toccato dai piedi nudi di Mosè è un suolo sacro... mi venivano in mente cose che ho visto da poco, come i piedi nudi dei bambini (ma anche degli adulti) di Cuba ed altre che ho visto una dozzina di anni fa, come i piedi nudi degli albanesi a Valona, Scutari, Lac... forse anche noi dovremmo toglierci le nostre calzature quando calpestiamo la terra dei poveri, perché è una terra sacra.

- L'altro gesto dell'intimità è quello di velarsi il volto. Vedere il Signore significava morire e allora Mosè non vuole guardare, ha paura, come dice il libro dell'Esodo: Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio. Paura di morire certamente, ma forse anche la paura di capire che cosa il Signore possa volere da Lui. Mi piace anche leggere nel gesto di Mosè il desiderio di non vedere tutto subito, ma di lasciarsi raggiungere progressivamente dal mistero d'amore di Dio che si rivela all'uomo e che contemporaneamente rivela all'uomo il suo vero volto: a Mosè infatti, in questo incontro viene detto chi egli veramente è: figlio amato da un Dio che continua a farsi vicino.

Il libro dell' Esodo ci dice allora una qualcosa di molto importante relativamente alla conversione, che resta l'imperativo fondamentale della Quaresima: convertirsi è permettere al Signore di raggiungerci e svelarci la nostra condizione di figli amati, avvolti nel suo abbraccio. Primo passo da fare per noi è di vincere la tentazione di difenderci permettendo alla luce di Dio di illuminarci.

Il brano di vangelo che la Chiesa ci consegna in questa terza domenica di quaresima è un fortissimo invito alla conversione, la quale mi pare di poter dire che nasce da quella intimità che mi rende capace di scorgere il vero volto di Dio. In buona sostanza convertirsi è, stando a quanto l'evangelista Luca ci dice, abbandonare una falsa immagine di Dio, quella di un Dio giudice, per incontrare il Dio di Gesù Cristo.

Quale volto di Dio? Gesù parte dall'esperienza umana, dall'esperienza di due disgrazie che provocano la morte. Gli è appena stato portato l'annuncio di ciò che ha fatto Pilato con alcuni Galilei pellegrini a Gerusalemme: erano là per adorare Dio e Pilato li ha uccisi mentre offrivano i loro sacrifici. Ora, di fronte al fatto dei Galilei uccisi e pensando a quell'altro fatto, a tutti noto, di una torre che, a Gerusalemme, crollando, ha schiacciato diciotto persone, cosa pensare? Si può immaginare facilmente quale potesse essere, da parte della folla il tipo di lettura dei fatti registrati nel vangelo appena letto: se è andata così certamente se lo sono meritato! Ragionare a questo modo però vuol dire coltivare l'immagine di un Dio perverso che sorveglierebbe i comportamenti degli uomini e sarebbe pronto a punire qualsiasi trasgressione... oppure, quando non riusciamo a giustificare la presunta punizione di Dio ci domandiamo: ma che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Gesù vuole cancellare questi malintesi: Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico. Gesù rifiuta di giudicare quelli che sono stati colpiti dalla disgrazia. Non dice che non erano peccatori, nega solo che i primi lo fossero più di tutti gli altri Galilei, anche di quelli che lo ascoltano, e che i secondi lo fossero più di tutti gli abitanti di Gerusalemme. Implicitamente si rifiuta di collegare i fatti a un castigo di Dio. Il suo tempo non è il tempo del castigo, ma della misericordia, della conversione e del perdono. Ma c'è anche quella frase, ripetuta per due volte: ma se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo... quando Gesù parla della necessità di convertirsi per non subire la stessa sorte, non vuole affatto esercitare un ricatto... un noto biblista ha scritto: Gesù non ci ha abituati ad una predicazione terroristica... no, a Gesù sta a cuore rivelare il vero volto di Dio, ben diverso da quello di un Dio irascibile che si compiace nel sorprendere nella colpa e nel voler punire. Interpreto così: se non cambio idea su Dio, se Dio rimane un giudice spietato, se Dio è un vigile pronto a punirmi alla prima infrazione (M. Zundel parla in una sua meditazione del Dio-gendarme) è certo che sono già spiritualmente morto, come quelli uccisi da Pilato mentre andavano ad offrire sacrifici.

Ma il vangelo di domenica prossima (mi rifaccio ampiamente qui a E. Bianchi in Eucaristia e Parola ed. Vita e Pensiero) ci regala ancora una sorpresa... per spiegarsi ancora meglio Gesù racconta una parabola... racconta di un padrone che decide di eliminare dalla propria vigna una pianta di fico dalla quale, già da tre anni, non ha potuto raccogliere neppure un frutto. Siccome gli interlocutori di Gesù si erano permessi un giudizio nei confronti di coloro che erano morti, con questa parabola si vuole sottolineare che non spetta all'uomo giudicare sulla fecondità o sterilità dell'altro, e ancora meno spetta all'uomo estirpare o escludere chi si ritiene non dia frutti. L'infecondità dell'albero non è per il vignaiolo un chissà quale segno del cielo, ma al contrario diviene occasione di speranza, invito a lavorare ancora e ancor di più perché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Per tutte quelle volte che sono tentato fortemente di giudicare l'altro in base ai risultati che ottiene, questa parabola oppone, alla tentazione della durezza e dell'esclusione, la fatica raddoppiata dall'amore, l'amore come lavoro, come impegno, come fare tutto il possibile per. E comunque il vignaiolo si proibisce di dare giudizio inappellabile di sterilità sul fico e lascia al padrone della vigna questa difficile decisione: se no tu lo taglierai. Tu, non io. Gesù narra l'amore e la pazienza di Dio, radicalmente e sempre, anche di fronte alle situazioni più disperate, e lascia a Dio il giudizio (E. Bianchi). Infine la parabola del fico sterile ci dice che possiamo e dobbiamo imparare la pazienza, spesso manchiamo di attesa dei tempi degli altri... la pazienza è fiducia accordata, è arte di vivere e sostenere l'incompiutezza e l'inadeguatezza che vediamo negli altri e che dobbiamo saper vedere in noi stessi. Spesso pensiamo e crediamo che tutti debbano marciare ai nostri ritmi, ma i nostri tempi, ci dice il vangelo, non sono quelli degli altri. Il nostro pregare sia un intercedere per gli altri...nel vignaiolo che dice al padrone: lascialo ancora quest'anno vi è anche la figura dell'intercessore. Intercedere non significa semplicemente supplicare Dio per qualcun altro, ma compromettersi, con una grande assunzione di responsabilità, facendo tutto il possibile in prima persona per venire incontro alla situazione della persona per cui si prega. Non solo chiediamo l'intervento di Dio, ma in prima persona vogliamo anche prenderci cura.

 

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