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TESTO Felice chi spera nel Signore

don Marco Pratesi  

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VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (11/02/2007)

Brano biblico: Ger 17,5-8 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, 17disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone,

20Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:

«Beati voi, poveri,

perché vostro è il regno di Dio.

21Beati voi, che ora avete fame,

perché sarete saziati.

Beati voi, che ora piangete,

perché riderete.

22Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. 23Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.

24Ma guai a voi, ricchi,

perché avete già ricevuto la vostra consolazione.

25Guai a voi, che ora siete sazi,

perché avrete fame.

Guai a voi, che ora ridete,

perché sarete nel dolore e piangerete.

26Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti.

Fondamentale, nella sua semplicità, l'insegnamento che ci viene dalla prima lettura. Come le beatitudini di Luca, esso risulta composto da due quadri speculari.

Il primo riguarda chi trova la sua sicurezza, il suo appoggio, nella "carne", cioè nelle risorse umane, di qualunque tipo. La Scrittura ci dipinge ampiamente questo atteggiamento: chi confida negli uomini potenti (Sal 118,9) e chi in se stesso (Sal 49,14); chi nella violenza (Sal 62,11) e chi nel tempio (Ger 7,14); chi nelle proprie risorse personali (cuore, Pr 28,26) e chi nei beni materiali (Sal 49,7). Comunque si fa della carne il proprio "braccio", dice alla lettera il testo. Il "braccio" significa la propria forza, la potenza. Il messaggio è chiaro. Si incorre nella maledizione ogni volta che ci sentiamo forti di qualcosa indipendentemente dal Signore.

"Maledizione". Fa un po' paura, ma è semplicemente (si fa per dire) la condanna alla sterilità. Il paragone dell'arbusto nella steppa è parlante: si tratta di una pianta che conduce vita stentata e non conosce mai rigoglio, al più sopravvive. Questa è l'inevitabile sorte di chi allontana il suo cuore dal Signore per attaccarlo ad altro.

Dall'altro lato: benedizione, dunque fecondità, vitalità. Un vigore che non viene mai meno, perché le radici vanno a pescare da una fonte inestinguibile, che è il Signore. Allora la siccità non farà altro che far risaltare con più evidenza la profondità di queste radici. Non è questa la funzione dei periodi di aridità spirituale? In quei momenti siamo chiamati a prendere sempre più profonda coscienza di questa radice nascosta che è in noi, per la quale attingiamo in modo misterioso, oltre le visuali umane, al Signore. L'aridità ci sfida a ritirare la nostra fiducia dalle risorse umane, per investirla sempre più nel Signore. Quanto si sbaglia quando, non appena arriva il tempo della siccità, ci facciamo prendere dal panico, concludiamo di non aver fede, o addirittura ritiriamo la nostra apertura di credito a Dio! È proprio quello il momento di "dar gloria a Dio", nel senso di manifestare la sua grandezza, la quale appunto si svelerà - se ci fidiamo di lui - nel fatto che l'albero non appassisce per nulla, come umanamente ci si aspetterebbe. Quello è tempo nel quale si fruttifica.

Allora, siamone ben convinti: "Beato chi pone la speranza nel Signore".

I commenti di don Marco sono pubblicati dal Centro Editoriale Dehoniano - EDB nel libro Stabile come il cielo.

 

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