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TESTO La fraternità é frutto della maturità dei figli di Dio.

padre Tino Treccani

XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (16/09/2001)

Vangelo: Lc: 15,1-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Forma breve (Lc 15, 1-10):

In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

Il cap. 15 è il cuore del vangelo di Luca. Peccatori pubblici si avvicinano a Gesù, mentre farisei e dottori della legge contestano questa solidarietà. Accompagnando Paolo, Luca vede che non poche volte i giudei cercano di ostacolare la vita dei missionari, specialmente a rispetto della contaminazione rituale e della cattiva fama: nei pasti, ognuno infilava la mano nella stessa pentola che conteneva il cibo. Agire così, secondo i puri, era contaminarsi.

Possiamo così identificare i personaggi delle parabole della pecora perduta (vv. 4-7), della moneta d'argento smarrita (vv. 8-10) e del padre misericordioso (vv. 11-32): il pastore che cerca la pecora perduta, la donna che scopa la casa per trovare la moneta, ed il padre del "figlio prodigo", sono lo stesso Dio che manifesta il suo amore nella pratica di Gesù. La pecora perduta, la moneta smarrita e il figlio più giovane sono i peccatori (gli esclusi, i dazieri ed i pagani convertiti), la ricchezza di Dio. Egli li cerca instancabilmente. Senza di loro, Dio si sente vuoto. Il figlio maggiore è Israele, coloro che si giudicano "irreprensibili" per il fatto di praticare i comandamenti (chiara allusione ai farisei ed ai dottori della legge.

Qualcuno ha notato, nelle tre parabole, una percentuale importante: nella prima, Dio cerca la pecora perduta, che rappresenta solamente l'1% del gregge; nella seconda, la moneta ritrovata rappresenta il 10% di quanto la donna possiede; nella parabola del padre misericordioso, il figlio che ritorna è il 50% dei figli di questo signore.

Dividiamo questa parabola del "figlio prodigo" in 4 sezioni.


1. Il padre ed il figlio più giovane (v. 12): imparzialità

E' una scena breve e osata: il figlio minore chiede la sua parte di eredità. Generalmente questo si faceva dopo la morte del padre. Mancando questo, il primogenito assumeva la gestione dei beni, restando con parte doppia. Il padre non reagisce: per lui tutti i figli sono uguali ed hanno gli stessi diritti.

2. Il figlio più giovane (vv. 13-19): irresponsabilità

Lontano dalle attenzioni del padre, la vita del giovane è estremamente ambigua. Paga il prezzo della sua immaturità. Straniero in terra straniera, vive la condizione di servo: cessa di essere figlio per diventare schiavo. La sua condizione è estremamente umiliante, infatti sorveglia dei maiali (animali impuri per eccellenza per i giudei) e disputa con loro un poco di cibo (v. 16). Toccando il fondo del pozzo dell'umiliazione (escluso dalla macabra "mensa comune" con i porci), programma la possibilità del ritorno. Il suo discorso di presentazione comporta tre parti: ammissione del peccato; coscienza della perdita della figliolanza; richiesta per essere ammesso come servo (vv. 18-19).

3. Il padre ed il figlio più giovane (vv. 20-24): figliolanza riconquistata

Sembra che il padre mai abbia smesso di sperare nel ritorno del figlio. Vedendolo lontano, si riempie di compassione. Questo verbo (in greco: splagchnizomai), nei vangeli è sempre attribuito a Gesù. Solamente il buon samaritano (Lc 10,33) è capace di una simile azione (per questo si può dire che è una azione divina). E' la compassione di Dio con la sofferenza e l'umiliazione umane (cfr. Mt 9,36; 14,14; 15,32; 18,27; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13).

Il padre vuole ricuperare totalmente il figlio perso. Non permette che il figlio ripeta il discorso di presentazione e soprattutto evita che faccia la richiesta di "essere trattato come servo". Immediatamente i servi sono chiamati per vestire il figlio, devolvendogli la dignità, come un ospite importante. Ordina che gli mettano l'anello, dandogli pieni poteri (forse l'anello era il sigillo della famiglia, con il quale il portatore poteva disporre dei beni della stessa) e che calzi i sandali, segno della libertà conquistata. Infine fa uccidere il bue grasso: la ricorrenza era molto importante: aveva recuperato il suo figlio (in greco, con l'articolo, dà l'impressione che fosse l'unico figlio che aveva). E' una vera resurrezione. Per due volte, il figlio aveva detto: "Mi alzerò" (in greco "anastàs", vv.18.20, termine che si riferisce alla risurrezione, anàstasis), e il padre, per due volte lo aveva considerato morto (vv.24-32).

4. Il padre ed il figlio maggiore (vv.25-32): invito alla riconciliazione

Fino ad ora il figlio maggiore era rimasto fuori dalla scena. Si aveva l'impressione che fosse veramente un figlio ideale. Ma le sue dichiarazioni lo condannano. La sua irresponsabilità fondamentale è non voler riconciliarsi, non aderire al progetto del padre (v. 28). Sappiamo chi è per le parole che indirizza al padre: "Da tanti anni ti servo (v.29). Cioè non conduce la sua vita sulla relazione padre-figlio, ma su quella di padrone-servo; e fino ad ora si comporta come uno degli impiegati del v. 22. E' radicale nel giudizio verso il fratello minore: lo calunnia di aver sperperato tutto con prostitute (v. 30; cfr. v. 139 e non ammette chiamarlo fratello. Si limita a dire "questo tuo figlio" (v. 30). Il padre tenta suscitare la riconciliazione: "Mio figlio... questo tuo fratello era morto ed è ritornato in vita" (vv.31-32). Il vero padre vuole figli autentici, e questa autenticità esige la riconciliazione, costi ciò che costi.

La parabola non dice se il figlio maggiore accettò la riconciliazione per "entrare in casa", o se preferì "restare fuori dalla festa". La risposta la deve dare il cristiano con la sua pratica in favore degli esclusi.

Per riflettere

Autenticità e riconciliazione sono i segni chiari della rinascita cui siamo chiamati. Continuiamo il cammino verso Gerusalemme, sulle strade e sui sentieri della nostra vita, intrecciata di relazioni, di sangue e di fratellanza, di amicizia e di rifiuto. Tutto dipende se vogliamo partecipare alla festa. Le garanzie di una gioia profonda ci sono date dallo stesso Padre che non fa distinzioni di meriti o di peccati. A Lui interessa la Vita dei suoi figli. La sua compassione non si esprime mai in sentenze di condanna. Da lontano ci segue, col cuore gonfio, ansioso e pieno di speranza. Sembra quasi che abbia bisogno della nostra irresponsabilità per mostrare la sua autenticità di padre. Addirittura nemmeno opina a rispetto della nostra pretesa libertà. Ci lascia fare, come e meglio crediamo, senza anatemi di scomuniche o spauracchi di castighi infernali. Sa bene che fuori della sua casa, possiamo prendere delle grosse cantonate e sa che queste ci rinsaviscono per abbandonare una vita di servi e di schiavi e riconquistare la figliolanza genuina. E' questo ciò che più gli sta a cuore. Nemmeno teme la morte dei suoi figli, perché sa che possono ritornare a vivere.

Spesso ci intestardiamo nel voler stare fuori dalla festa. E per mascherare questa paura di vivere, ci permettiamo il lusso di calunniare, di spregiare, di fingere che i nostri simili nemmeno siano i nostri fratelli. Sempre uno stupido orgoglio a farci credere che noi siamo i santi, i giusti, perché paghiamo i doveri della nostra servitù. Se invece cambiassimo di ottica, cioè, se ci sforzassimo di vivere una relazione filiale con Colui che ci ha dato la vita, daremmo meno tempo al meravigliarci delle pecche altrui e cominceremmo seriamente a pensare al nostro cammino di conversione. Pensavamo di aver fatto il bene, il dovuto e per tanti anni, forse per una vita intiera, e abbiamo solo servito, con la paura e senz'altro, senza intimità col Padre. Allora dovremmo diventare tutti degli scavezzacolli per essere santi? No, solamente togliere dal nostro cuore la paura di riconciliarci; dobbiamo credere che il perdono può eliminare i sensi di colpa per fare spazio alla Sua misericordia.

Ed il processo di riconciliazione non si restringe al nostro intimo, al nostro privato; si deve allargare a quanti sono esclusi e condannati dalla società in cui viviamo; è necessario credere che tanti "persi" possono rivivere; è far sì che la festa della Vita sia veramente per tutti e non per qualche privilegiato. Essere devoto della legge è cosa buona, ma attenzione a non perdere il suo significato vero: è lei al servizio dell'uomo, e non viceversa. Forse non accettiamo di condividere la gioia di Dio per il ritorno del peccatore; abbiamo paura a dare il bacio della perfetta comunione e continuiamo come figli maggiorenni basando la nostra giustizia sulla legge e non sulla misericordia. Di riscontro, Dio, Padre buono, non vuole giudicare il figlio prodigo, ma abbracciarlo e, come al figlio maggiore, continua ad offrirci il suo invito per vincere la nostra acidità e partecipare della gioia della riconciliazione.

Riconciliarci nella e con la comunità è far cadere le barriere che ci dividono in categorie, che ci cosificano; riconciliarci nella Chiesa è credere che esiste un unico Padre buono e nessuno possiede il monopolio della santità, se non il servizio samaritano, quello di fasciare le ferite e prendersi cura di chi soffre. Riconciliarci con la natura, madre paziente e violentata dall'ingordigia umana dell'avere; riconciliarci col sole che brilla sui buoni e sui cattivi. Riconciliarci è unirci in cerchio attorno al dispensatore di Vita e non costruire piramidi o babeli dove gli uni schiacciano gli altri.

Cristiani riconciliati sanno portare l'eucaristia dall'altare alla piazza, alla strada, in famiglia, sul lavoro, come servizio di vita piena ed abbondante, come dignità e onestà nei rapporti umani, come compassione fraterna verso chi giace schiacciato dal peccato proprio e altrui. É anche saper varcare l'orizzonte della propria finestra, patria e continente per lasciare spazio e fare risuonare il grido degli affamati che magari ci toccano solo a livello di curiosità, veicolata dai mezzi di comunicazione. Se veramente siamo innestati nel Cristo, dobbiamo essere e agire come creature nuove in virtù della stessa riconciliazione che Cristo ha realizzato e della quale ci ha fatto ministri.

Siamo tutti scossi dai dolorosissimi avvenimenti accaduti giorni fa a Nuova York. Troppo sangue innocente, prezzo dell'idolatria del denaro e del potere armato. É il sogno di Nabucodonosor vedendo sgretolarsi l'imponente statua di oro, ferro e bronzo, ma dai piedi di sabbia. Prima di tacciare terrorista qualsiasi persona, popolo o altro, c'è un serio esame di coscienza da fare: vari governi hanno armato Saddam Hussein; finito l'incanto degli interessi tutta la stampa dell'impero lo dipinge come un terrorista pericoloso. Lo stesso è avvenuto per l'Afganistan. E la lista è lunga. Dove non sono in gioco gli interessi economici del governo americano e dei suoi alleati, i paesi possono scannarsi, sparire dalla faccia della terra e nessuno si ricorda o ci pensa. La paranoia del nostro sistema neoliberale ha creato le basi per trasformare la fantascienza dell' "Inferno nella torre" in mortale realtà. Sono segni, deplorevoli quanto vogliamo, ma che parlano chiaro. Rousseau diceva: "Una società è democratica quando nessuno è tanto povero che debba vendersi e qualcuno tanto ricco che possa comprare qualcuno." Credo che la nostra democrazia occidentale non è per niente democrazia; men che meno di radice cristiana. La misericordia del padre buono della parabola di oggi è la denuncia ad ogni tipo di calcolo e di potenza che ha diviso il nostro pianeta. Il mio vescovo, nella riunione mensile di pastorale, diceva che il neoliberalismo è "autofago", si mangia da se stesso, si auto-distrugge perché la produzione si è saturata e le persone non hanno più condizioni di comprare. Non solo nei paesi poveri, anche in quelli cosiddetti sviluppati e ricchi. Giustizia deve essere fatta contro gli autori di questi attentati disumani; ma c'è pure un'altra giustizia che deve essere fatta: quella di lasciare i popoli in pace e auto-determinarsi, finendola col depredarli in tutto, pure nella loro cultura. Dico questo riferendomi al paese dove vivo, il Brasile, che è il cortile degli USA. Se guardiamo al resto dell'America Latina, all'Africa e all'Asia, cosa non fa il nostro modello culturale economico neoliberale! La fratellanza non si costruisce sul Dio denaro, con la forza militare. I poveri non si aiutano stanziando miliardi; bensì rispettando la loro dignità e praticando la giustizia: devolvendo ciò che abbiamo loro rubato. Quando ritroveremo la gioia di vivere, magari con poco, ma da veri fratelli?

 

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