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TESTO Salvati, non solo sanati

Paolo Curtaz  

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (14/10/2001)

Vangelo: Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,11-19

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Il Vangelo di oggi ci pone di fronte ad un ennesimo tema che ci sta molto a cuore e che tutti - prima o poi - dobbiamo affrontare: il tema della malattia. I dieci lebbrosi che implorano la guarigione, come Naaman il Siro della prima lettura, sono l'immagine dell'impotenza dell'uomo di fronte alla debolezza fisica e psicologica: il ricco e potente Naaman viene mandato dal profeta Eliseo su suggerimento di una schiava ebrea, ultima chance che ha, così simile alla muta disperazione dei famigliari dei malati che si aggrappano ad ogni flebile speranza. Gesù ascolta il loro grido e li guarisce, invitandoli a compiere il gesto della constatazione ufficiale della guarigione davanti ad un sacerdote, unico modo per essere riammessi alla vita della comunità.

Uno solo torna a ringraziare, pieno di fede, come Naaman Siro. Gesù, affranto, constata che dieci sono stati sanati, ma uno solo salvato.

Cosa dice questa pagina al discepolo? Quale suggerimento a chi vuole vivere con fede la presenza del Signore?

Dieci lebbrosi, uno di loro è samaritano. Questa prima annotazione ci rivela un dato semplicissimo: la sofferenza ci accomuna. Gli ebrei consideravano i vicini samaritani "cani bastardi" e come tali venivano trattati. Eppure qui tutti gridano ma, una volta guariti, le differenze tornano (mistero dell'umana fragilità!): nove vanno al Tempio e il samaritano, di nuovo solo, senza un Tempio in cui essere accolto, corre dal Tempio della gloria di Dio che è Gesù. Notate la freschezza di questo racconto, il gesto pieno di stupore, euforico del samaritano: "tornò indietro lodando Dio a gran voce", non può tacere, urla la sua gioia, la sua solitudine e la sua emarginazione sono finalmente finiti. E gli altri? - nota Gesù - nulla, spariti, scomparsi. Maillot, un autore francese, commenta questo brano dicendo che: "guarire gli uomini dalla loro ingratitudine è ben più difficile che guarirli dalle loro malattie". Cosa ci dice questo brano? Credo due lezioni fondamentali: la prima è che essere guariti non significa essere salvati. I nove ingrati sono la perfetta icona di un cristianesimo purtroppo ancora diffuso, che ricorre a Dio come ad un potente guaritore (una specie di mago...) da invocare nei momenti di guai. Che triste immagine di Dio si fabbricano coloro che a lui ricorrono "quando c'è bisogno", che lasciano Dio ben lontano dalle loro scelte, dalla loro famiglia, salvo poi arrabbiarsi e tiralo in ballo quando qualcosa va storto nei loro (badate, non nei suoi) progetti.

I nove sono guariti: hanno ottenuto ciò che chiedevano. Ma non sono salvati. Rimasti chiusi nella loro parziale e distorta visione di Dio, guariti dalla lebbra sulla pelle, non vedono neppure la lebbra che hanno nel cuore. Che rapporto abbiamo con questo Dio cui spesse volte ci avviciniamo nei momenti di bisogno? Non è forse un Dio dei rimedi impossibili quello che spesse volte invochiamo? No: Dio non è il Tempio in cui abitare, ma il Potente da corrompere e convincere. Che triste idea di Dio! Una visione della fede superstiziosa e magica, che accusa di Dio delle nostre malattie (dove sta scritto che siamo invincibili? Chi ce l'ha fatto credere?), che mette Dio alla sbarra, accusandolo.

Davanti alla sofferenza, come i due ladroni sulla croce, possiamo bestemmiare Dio accusandolo di indifferenza. O accorgerci che sta morendo accanto a noi. Cadere nella disperazione, o ai piedi della croce. Gesù ci dice che la salute non è tutto, come spesse volte affermiamo. Certo: è un bene essenziale, prezioso, da custodire ed invocare. Ma non è vero che "basta la salute"; più della salute c'è la salvezza. Conosco malati relativamente felici e pieni di Dio, e splendidi giovani in piena forma che si buttano via nella droga. La salvezza è un benessere più profondo, assoluto, uno scoprirsi al centro di un Progetto d'amore...

La seconda lezione, straordinaria, è il senso della gratitudine di quest'uomo. La gratitudine, la festa, lo stupore, sono atteggiamenti connaturali all'uomo, eppure così poco spesso manifestati nella nostra vita. Siamo tutti molto lamentosi, sempre pronti a sottolineare il negativo che pesa come un macigno nelle nostre bilance. Diamo tutto per scontato: è normale esistere, vivere, respirare, amare; normale e dovuto nutrirsi, lavarsi, abitare, lavorare... Il nostro sguardo, un po' assuefatto dalle troppe cose troppo scontate, non sa più aprirsi alla gratitudine. Come vorrei vedere uscire dalla mia chiesa - almeno d'ogni tanto! - qualcuno che torna a casa sua lodando Dio a gran voce... Come vorrei vedere più sorrisi sulle bocche dei cristiani, più lode nelle loro preghiere, più gratitudine nei gesti di coloro che, guariti dalle loro solitudini interiori e dalla lebbra che è il peccato, sono anche salvati e fatti Figli di Dio. Un sano esercizio alla lode dovrebbe essere insegnato ai nostri ragazzi, non come pesante moralismo ("i giovani d'oggi hanno tutto"), ma come educazione allo stupore.

Infine: due samaritani (stranieri-avversari-nemici) incontrano Dio. La guerra è ormai realtà drammatica ma, agli occhi di Dio, l'uomo è sempre solo qualcuno che cerca la guarigione dalla lebbra dell'incomprensione. Sia questa una settimana di preghiera, di guarigione dalla lebbra della violenza.

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