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TESTO Il club degli eletti

don Fulvio Bertellini

II Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (19/01/2003)

Vangelo: Gv 1,35-42 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 1,35-42

35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.

40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – 42e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

Per poter essere il maestro che parla alle folle, Gesù ha bisogno intorno a sé di un gruppetto di discepoli. Così era l'usanza dei rabbini: ogni maestro era tenuto a radunare intorno a sé un gruppo di discepoli, possibilmente numeroso. Si trattava però di un gruppo chiuso: una specie di club degli eletti, i veri conoscitori della Legge di Dio, separati dagli ignoranti che non la conoscono. Entrare nel club non era difficile; ma pur sempre di club si trattava.

Nuovo inizio

Gesù va al di là dell'usanza rabbinica: non vuole costituire intorno a sé il club degli eletti, ma dare inizio al nuovo Israele. Per questo ne costituisce dodici come apostoli: non perché siano i migliori, ma per dare il segnale che da loro parte la rigenerazione del popolo di Dio. Gesù non vuole essere un predicatore solitario e generico: vuole incontrare dal vivo le persone, stabilire con loro un rapporto personale. Nel gruppo dei discepoli Gesù comincia a praticare dal vivo il comandamento antico e nuovo dell'amore, declinato secondo la legge antica e sempre valida (ama il prossimo tuo come te stesso), ma anche nella sua forma nuova ed esigente, che verrà formalizzata prima della Passione (amatevi come io vi ho amato).

A servizio dell'unico

I discepoli e gli apostoli in particolare sono come la cassa di risonanza, l'amplificatore delle sue parole, il lampadario che riflette la sua luce e la diffonde nell'ambiente. Il primato spetta sempre a lui, al Maestro. Lui stesso lo dirà in seguito: "un discepolo non è da più del suo maestro...", e più duramente ancora "né un servo è da più del suo padrone". Nel Vangelo di oggi il primato di Gesù si manifesta nel momento cruciale della vocazione, altra differenza determinante tra il maestro Gesù e i rabbini del suo tempo. Chiunque poteva chiedere di entrare a far parte del gruppo dei discepoli di un rabbi, e sperare di diventarlo a sua volta. I discepoli invece sono chiamati. Per vie strane a volte, un po' particolari (come è il brano che consideriamo oggi), ma pur sempre chiamati.

La profezia

Tutto comincia da Giovanni Battista. Molti dei discepoli di Gesù sono stati discepoli di Giovanni. Per loro scelta. Ma come diventano discepoli di Gesù? All'inizio devono fidarsi di una parola del loro maestro di partenza. E' una prima chiamata, che ha per oggetto Gesù: "Ecco l'agnello di Dio!". E' una parola misteriosa, simbolica, tipica del linguaggio profetico del Battista. E' quanto basta per suscitare una ricerca, per "preparare la via", per disporre il cuore a interrogarsi. Il compito del Battista era esattamente questo; ma doveva poi venire colui che "è più forte di lui".

La chiamata

Mentre i due credono di cercarlo, è Gesù che li nota, li sceglie, si volta e chiede "Che cercate?" ed essi rispondono secondo le loro possibilità: "Maestro, dove abiti?". Per loro Gesù è un maestro come tutti gli altri, un uomo come tutti gli altri, che ha una casa e che si può visitare, per fare la richiesta di entrare nel club dei suoi discepoli. Ma Gesù non risponde con un luogo preciso. Nel tipico stile giovanneo, la sua risposta è allusiva e simbolica.

Dove abita il Maestro

Gesù risponde "venite e vedrete", ma nel racconto la casa di Gesù non è indicata, e la frase successiva non rende giustizia nella traduzione italiana al sottile gioco di parole greco. Potremmo rendere "Andarono dunque e videro dove ABITAVA e quel giorno ABITARONO presso di lui". (Da notare che le famose parole della parabola della vite usano lo stesso verbo: "Io sono la vite e voi i tralci: ABITATE in me, e io in voi", e ancora "ABITATE nel mio amore": solo che in italiano dobbiamo tradurre, a seconda del contesto, ora con "abitare", ora con "rimanere"). L'evangelista fa passare in secondo piano il luogo fisico dell'abitazione di Gesù, e mette in rilievo lo stare con lui. Ciò che i discepoli devono "vedere" non è un luogo, ma l'esperienza dello stare con Gesù. "Venite e vedrete" significa dunque "seguitemi, e vedrete che cosa significa stare con me, cominciare a godere del Regno di Dio, e vedrete che non abito in una casa, ma dovunque mi chiama la mia missione di annunciare...".

Che cosa hanno fatto?

Un vuoto nella narrazione segue l'annotazione di tempo: "erano circa le quattro del pomeriggio". Quanto tempo passa dopo? Che cosa fanno là, dove abita Gesù? Che cosa fanno mentre ABITANO con lui? C'è qui un vuoto narrativo. La descrizione viene sospesa, non perché i fatti non siano importanti, ma perché sono inesprimibili. E perciò sono affidati al silenzio. Sta al lettore fermarsi, e prendere respiro, o lasciare un ampio spazio di silenzio, per contemplare la scena: Gesù e i discepoli. E che in quel tempo sia accaduto qualcosa di straordinario, lo vediamo dalla scena successiva. Andrea, fratello di Simone, sente subito l'esigenza di raccontare, di comunicare quello che ha vissuto: "Abbiamo trovato il Messia!".

Il nome nuovo

Anche Pietro potrebbe pensare di non essere stato chiamato da Gesù, ma dal fratello Andrea. E invece è sempre Gesù che, pur accogliendo l'occasione, mette il suo sigillo sulla sua vocazione. "Tu sei Simone, figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa". E' una missione quella che Gesù affida da subito a Pietro: essere roccia, la base sicura su cui potrà edificarsi la comunità cristiana. Prima ancora che Pietro possa rendersene conto, ha già ricevuto la chiamata di Gesù. E noi, conosciamo la nostra vocazione? O ci illudiamo di aver scelto noi la nostra vita? O che altri l'abbiano scelta per noi? Quale nome nuovo ha per noi il Maestro?


Flash sulla Prima lettura

"In quei giorni Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l'arca di Dio...": il fanciullo Samuele si trova nel tempio al servizio di Dio, perché consacrato dalla madre Anna, dopo la sua nascita miracolosa. Anna infatti era rimasta a lungo sterile, dovendo anche subire le beffe della seconda moglie del marito, e aveva invocato da Dio la nascita di un figlio, promettendo di dedicarlo interamente al suo servizio. Dopo la nascita del bambino, Anna aveva mantenuto fedelmente la sua promessa.

"In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore": si tratta qui della conoscenza profonda, esperienziale di Dio. La "parola del Signore" è la parola profetica, l'esperienza con cui un uomo riceve una rivelazione particolare della volontà di Dio nell'oggi. Samuele deve imparare questo dal suo maestro Eli, attraverso un lungo apprendistato.

"Il Signore tornò a chiamare "Samuele!" per la terza volta...": l'apprendimento di Samuele è riassunto secondo uno schema narrativo tipico della Bibbia ebraica, con tre fallimenti e una riuscita. Solo alla fine Samuele impara a rispondere alla chiamata di Dio. Questo dovrebbe confortarci ed educarci a vivere meglio i nostri fallimenti e le nostre fatiche. Non sempre siamo pronti e preparati ad accogliere la chiamata di Dio che ci raggiunge nella nostra vita quotidiana. Ma non è un motivo per demoralizzarci e gettare la spugna.

Flash sulla II lettura

"Fuggite la fornicazione!". Il problema a cui Paolo si riferisce in questo brano sembra essere la frequentazione di prostitute e la giustificazione dei costumi sessuali piuttosto disinvolti per i quali era famosa la città di Corinto. In nome della libertà che viene dalla fede in Cristo, sembrava ad alcuni di poter fare qualunque cosa. Sostanzialmente nella nostra società non siamo molto lontani dai Corinti di allora. E' forte la tentazione di vivere la sessualità come un fattore indifferente alla vita di fede: un po' come il mangiare e il bere, che non intacca la vita dello spirito, purché non si esageri e "non si faccia del male a nessuno". Anzi, nella nostra cultura la sessualità è vista come uno dei fattori essenziali di realizzazione della persona.

Paolo non si riduce alla condanna dei singoli atteggiamenti, ma fa comprendere ai Corinzi e a noi la posta in gioco: non possiamo separare il corpo e lo spirito, non possiamo dividere l'unità della persona. Tutti interi siamo salvati da Cristo, e tutto il nostro essere deve vivere in unione con il Signore risorto: "chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito" e "il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo". Per cui ogni uso sbagliato della sessualità incide sulla coscienza e sull'intera persona, e rischia di minare l'intima unione che ci lega al Cristo risorto. Si noti come Paolo argomenti con serenità e pazienza, su un tema che allora come oggi risulta per molti non immediatamente comprensibile. L'apostolo non si sofferma più di tanto a soppesare gli errori, ma conclude indicando una via positiva: "glorificate dunque Dio nel vostro corpo!".

 

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