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TESTO Va', la tua fede ti ha salvato

padre Antonio Rungi

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (29/10/2006)

Vangelo: Mc 10,46-52 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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46E giunsero a Gerico. Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». 49Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». 50Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». 52E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

La vista è un dono essenziale per la vita umana e per le relazioni interpersonali. Lo sanno benissimo coloro che questo dono ce l'hanno e lo sanno molto meglio coloro che ne sono privi e che hanno bisogno di continua assistenza materiale per vivere in libertà. E nonostante i grandi progressi della medicina e della tecnica, il problema della mancanza della vista è e rimane serio per i non vedenti.

Il Vangelo che ascoltiamo oggi ci riporta il miracolo della guarigione di una persona cieca. Si tratta di Bartimeo, figlio di Timeo, che chiede con fede e coraggio a Gesù di guarirlo da quella sua cecità che lo limita di fatto e lo costringe a chiedere aiuto e a mendicare. Il racconto del Vangelo è molto preciso, segno evidente che la narrazione del miracolo di Gesù nella prima comunità era ben conosciuto. E ciò si può spiegare dal fatto che Bartimeo, una volta guarito, si pose alla sequela di Cristo, in segno di riconoscenza, ma soprattutto perché aveva ottenuto qualcosa molto di più grande dello stesso miracolo, e cioè la fede. Non a caso nella Scrittura il vedere è strettamente legato al concetto della fede.

"In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!". Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!". Allora Gesù si fermò e disse: "Chiamatelo!". E chiamarono il cieco dicendogli: "Coraggio! Alzati, ti chiama!". Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: "Che vuoi che io ti faccia?". E il cieco a lui: "Rabbunì, che io riabbia la vista!". E Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato". E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada".

Leggere questo testo del Vangelo, oggi in un contesto di mancanza di fede in tante persone che si dicono credenti e soprattutto nel contesto di un mondo completamente secolarizzato e tendente all'ateismo teorico e pratico, in un mondo in cui si crede solo al potere della tecnica e della scienza, ci rincuora. Esso ci invita ad avere fiducia in Dio e contare e scommettere su Dio, per Dio nulla è impossibile, anche i miracoli più grandi. Ma per ottenere queste grazie singolari, al di là del dono della guarigione, è necessario avere una fede grande, forte, che sappia gridare in mezzo a tanto caos o a tanto deserto, a tante insensibilità, a tanti tentativi di far tacere il grido di coloro che chiedono e sperano sull'aiuto di Dio. Bartimeo è quest'uomo di fede che, toccato dalla grazia dell'incontro con Gesù, è capace non solo di chiedere con umiltà, ma di ottenere anche quello che ha chiesto. La conseguenza del suo chiedere è il non andare via, ma mettersi a seguire. Quel dono trasforma la sua vita fisica, ma trasforma soprattutto il suo cuore e la sua mente. Egli è guarito prima di tutto nell'anima, in quanto ha riacquistato la dignità di persona. E' Gesù a ridare a quest'uomo un degno posto nella società, nel suo gruppo, in un mondo che emargina, in una situazione sociale che discrimina. Egli riporta al centro la dignità della persona, fosse anche la più deforme fisicamente o limitata nelle sue capacità di muoversi e di agire da solo. E' qui il grande miracolo compiuto da Gesù e che gli stessi suo discepoli stentarono a capire, considerato che erano molti a volerlo far tacere e a non esprimere a Gesù ciò che sentiva nel suo profondo di chiedergli senza timore. E' proprio vero che la fede dei semplici, quella spontanea, che non calcola i rischi e che rischia di fatto, tocca più direttamente il cuore di Dio e lo muove a compassione. Certo, di fronte alle tante esigenze di benessere fisico che molte volte manca nella vita di tante persone e soprattutto di fronte alle richieste di miracoli per la guarigione di se stessi e degli altri quando subentrano mali incurabili e terribili e la misericordia di Dio non si percepisce in modo evidente e la sua protezione non la si sente davvero, potrebbe ingenerarsi lo scoraggiamento, la ribellione e forse la perdita della stessa fiducia o fede in Dio. La croce, la morte non fa piacere a nessuno e neppure allo stesso Gesù Cristo che, di certo, non andò al Calvario sorridendo e ballando, ma soffrendo terribilmente, a partire dall'orto del Getsemani, quando di fronte alla sua imminente passione e morte in croce, chiese al Padre la possibilità che "passi da me questo calice". Segno evidente dell'umanità di Cristo che davanti alla sofferenza non può che chiedere a Dio che l'allontani. Ma aggiunge comunque "si faccia la tua volontà". Molta difficoltà per comprendere Dio sta proprio nel fatto che egli essendo Padre non può volere la sofferenza e la morte dei suoi figli. Ma il dolore e la morte sono entrati nel mondo con il peccato originale e Dio, nel mistero della pasqua del suo Figlio, riscatta l'uomo proprio dalla condizione di peccato, da questa antica schiavitù. Resta da debellare l'unico nemico rimasto che è la morte e ciò avverrà, secondo la nostra fede, con il definitivo avvento di Dio nella storia dell'umanità, quando non ci sarà più né morte, né lutto, né dolore alcuno. In questo cammino della nostra esistenza, che sempre più incrocia la sofferenza, il nostro sguardo non può che essere rivolto ad una persona precisa e questi è Gesù Crocifisso. La sua sofferenza è amore ed egli ha sofferto ed è morto per amore. Ogni sofferenza e morte umana si comprende alla luce della sofferenza del Crocifisso, ma soprattutto alla luce del Crocifisso Risorto.

Il testo della Lettera agli Ebrei ci introduce ad una comprensione più chiara della missione di Cristo tra gli uomini: "Ogni sommo sacerdote, scelto fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore, essendo anch'egli rivestito di debolezza, a motivo della quale deve offrire anche per se stesso sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne. Nello stesso modo Cristo non si attribuì la gloria di sommo sacerdote, ma gliela conferì colui che gli disse: "Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato". Come in un altro passo dice: "Tu sei sacerdote per sempre, alla maniera di Melchisedek". "Gesù sente la giusta compassione per noi e ci è vicino quando meno lo sentiamo e quando meno lo riconosciamo. Egli è la nostra forza e la nostra speranza, nei momenti più difficili della nostra vita.

La preghiera che apre la liturgia di questa Domenica ci aiuti a comprendere esattamente il senso del nostro patire e morire: "O Dio, luce ai ciechi e gioia ai tribolati, che nel tuo Figlio unigenito ci hai dato il sacerdote giusto e compassionevole verso coloro che gemono nell'oppressione e nel pianto, ascolta il grido della nostra preghiera: fa' che tutti gli uomini riconoscono in lui la tenerezza del tuo amore di Padre e si mettano in cammino verso di te". Questa apertura alla speranza cristiana ci deve accompagnare in ogni istante della nostra vita terrena. La parola di Dio di questa domenica ci dice esattamente tutto questo. Lo comprendiamo dalla lettura del testo del profeta Geremia, nel quale ascoltiamo queste meravigliose parole di speranza: "Così dice il Signore: "Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: Il Signore ha salvato il suo popolo, un resto di Israele".Ecco li riconduco dal paese del settentrione e li raduno dall'estremità della terra; fra di essi sono il cieco e lo zoppo, la donna incinta e la partoriente; ritorneranno qui in gran folla. Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni; li condurrò a fiumi d'acqua per una strada diritta in cui non inciamperanno; perché io sono un padre per Israele, Efraim è il mio primogenito".

Vogliano riconoscere con umiltà, nonostante le nostre quotidiane croci e sofferenze che davvero il Signore ha fatto grandi cose per noi, come recitiamo oggi nel salmo responsoriale, il cui testo è tratto dal Salmo 125. In esso leggiamo e sperimentiamo la bontà di Dio anche nel tempo dell'esilio, del nostro allontanarci da lui per rincorrere altre illusorie felicità e gioie che non potremo mai trovare pienamente al di fuori di un riferimento spirituale a lui: "Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia. Riconduci, Signore, i nostri prigionieri, come i torrenti del Nègheb. Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo. Nell'andare, se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con giubilo, portando i suoi covoni". E' l'esperienza di quanti si allontano da Dio e nella conversione a lui, nel recuperare la fede e fiducia in lui, assaporano la vera gioia. Quella gioia che nonostante le sofferenze ognuno può trovare e ritrovare solo in Gesù Cristo, fonte vera di ogni gioia certa e duratura.

 

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