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mons. Antonio Riboldi

XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (20/08/2006)

Vangelo: Gv 6,51-58 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Come il solito, cerchiamo di immaginarci tra la folla impressionata dalla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Crede di avere trovato finalmente uno che l'avrebbe liberata dai mali che sembrano la grande ombra che oscura la vita. Ieri, oggi, sempre.

Davvero non siamo nell'Eden, ma sembra che tutto sia vittima di un disordine di giustizia, di mancanza di senso nella vita, e quello che fa male, di essere gli uni contro gli altri, anziché essere gli uni con gli altri. Ed a volte sembra di avere i sentimenti di stanchezza che ebbe il profeta Elia. "In quel tempo Elìa si inoltrò nel deserto, una giornata di cammino, e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri".
Si coricò e si addormentò sotto il ginepro.

Allora, ecco un angelo lo toccò e gli disse: "Alzati e mangia!". Egli si alzò e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio di acqua.
Mangiò e bevve, quindi tornò a coricarsi.

Venne di nuovo l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: "Su, mangia perché è troppo lungo per te il cammino". Si alzò, mangiò e bevve.

Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti, fino al monte di Dio, l'Oreb" (1Re 19,4-8).

Meraviglia la forza di quel pane venuto dal cielo e di quell'acqua che dettero la forza incredibile di riprendere il cammino, per quaranta giorni e quaranta notti.

Ma è la 'figura' di quanto Gesù propone non solo a quella folla che lo aveva rincorso, ma a tutti noi, ieri, oggi, sempre. Avevano la certezza che da Lui potevano ottenere materialmente quei miracoli che la scienza non sa fare.

Miracoli che si limitano al benessere del corpo; miracoli che si fermano al benessere qui, ma il più delle volte non sfiorano il benessere della vita che va oltre.

Quante volte capita che la nostra fede in Dio si fermi sulla soglia di un miracolo chiesto e non ottenuto e quindi si sciolga, a volte, con lo sdegno di chi non è stato ascoltato.

Ma è proprio vero che Dio non ascolta? E dove e come, davvero, Dio si fa vicino a noi, mostrando il suo infinito amore, che va certamente oltre quanto chiediamo, anche se quello che chiediamo, come una guarigione, è di per sé cosa buona?

Se riduciamo la grandezza dell' amore nell'avere un bene che di per sé è buono, ma molto limitato, abbiamo certamente una fede molto labile e fuorviante.

Gesù, nel suo discorso alla folla, va oltre questo limite e ci fa dono di un amore che più grande di così non può esistere, se non in Dio.

Racconta Giovanni l'evangelista: "In quel tempo i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: "lo sono il pane disceso dal cielo".

Una affermazione davvero non facile a capirsi con il metro del materialismo di ieri e di sempre.

Ed allora quella folla, passando da un entusiasmo che l'aveva spinta a rincorrerLo, esprime critica e mormorazione. Incredibile! Riesce difficile spiegarsi come si possa passare da una ricerca appassionata di una persona, al cercare di farla a pezzi nella stima e nell'amore.

"E dicevano: Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?"

La risposta di Gesù non si fa attendere: "Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato: e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta infatti scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio".

Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti: questo (il mio) è il pane che discende dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò
è la mia carne per la vita del mondo" (Gv 6,41-52).

Incredibile, meraviglioso, che Gesù spieghi chi davvero Lui è per noi: "il pane della vita".

E sappiamo tutti come quando parliamo di pane parliamo di crescita di vita corporale...anche se oggi magari si mangia altro.

Ma che Gesù affermi che Lui si lascia sbriciolare, fino a diventare pane perché noi conosciamo la gioia della vera vita, per chi non sa cosa voglia dire dare tutto quando si ama, può esaltare o fare 'mormorare'.

Eppure a volte, anche noi quando vogliamo esprimere come vorremmo vivere dell'amore di un altro, diciamo: "Potessi ti mangerei" ossia vivrei non solo con te, ma di te. Parole forti e meravigliose che chissà quante volte abbiamo sentito o dette.

E sembrano in qualche modo spiegare quello che Gesù diceva alla folla.

L'amore, quello vero, che è la gioia e la bellezza del cuore, dono del Padre, quando è grande, 'vive' di chi ama e chi è amato diventa "pane della vita". "Se non ci fosse quella persona che amo tanto, morrei. Lui, lei è in fondo "il pane della mia vita".

Forse troppe volte quando parliamo di amore, parliamo di un sentimento che sfiora solo la superficie della nostra esistenza e non è felicità piena: dura quanto dura e finisce nell'album dei ricordi, dove finiscono tanti sposi e spose e tanti amici, che credevano di amarsi ma non hanno saputo essere "pane della vita".

Ed è proprio qui che veniamo a conoscere la povertà nostra e del nostro cuore.

Ma anche quando riusciamo a diventare 'pane' per chi amiamo, il nostro è sempre povero amore.

Ma che Gesù si offra ad essere pane della vita, pane disceso dal cielo, davvero fa impressione, o almeno dovrebbe dare tale serenità e forza, in ogni circostanza, perché se sostenuti da tale "Pane" si può tutto, ma davvero tutto.

Mia mamma in questo era davvero maestra. Da ragazza fino alla morte non lasciava passare giorno senza nutrirsi di quel "pane" ossia di Dio.

E volle che la comunione le venisse data ogni giorno, anche da ammalata, da immobilizzata, ma - lucida. Un giorno che, tornando da non so dove, le portai un bouquet di fiori, credendo di farla felice, mi guardò con aria seria e espresse il suo stupore con questo amaro rimprovero: "Tu vescovo mi porti i fiori...sono più intelligenti i tuoi fratelli che mi hanno portato la Santa Comunione. Senza "quel pane" non avrei certamente la forza di portare sulle spalle la famiglia". E, subito dopo la mia Prima Comunione, volle che ogni mattina prima di andare a scuola mi recassi in Chiesa per ricevere Gesù. Era tempo di digiuno. Tornavo di corsa a casa dopo la Comunione per fare colazione. Ho sempre davanti agli occhi mia mamma che mi attendeva sulla porta di casa. In una mano vi era un pezzo di pane e nell'altra la cartella per la scuola. Quel pezzo di pane doveva essere la mia colazione. Davanti al mio lamento, 'ho fame', rispondeva: "Nella vita meglio una buona Comunione che una bella colazione!" Dove è finito oggi questo desiderio del "pane della vita", ossia del dono che Gesù fa di Sé, fino a diventare nostro pane? L'eclissi di Dio, come qualcuno definisce oggi l'assenza negli uomini dei valori della vita e quindi dell'amore, certamente è dovuta a questo "pane" che non raccogliamo, per la ragione che non conosciamo ancora la totalità di Dio, che si dona fino a farsi vita.

E allora capita; come nel racconto di Elia, il senso di vuoto che ci fa desiderare di morire. Dovremmo allora nutrirci di quel pane che è alla portata di tutti, per avere la forza di camminare fino "all'Oreb", la montagna di Dio.

Mi piace offrire a voi quanto di sé disse il grande Giovanni Paolo II, che certamente è maestro di vita cristiana a proposito dell'Eucaristia.

"Quando penso alla Eucaristia, guardando alla mia vita di sacerdote, di Vescovo, di Successore di Pietro, mi viene spontaneo ricordare i tanti momenti, i tanti luoghi in cui mi è stato concesso di celebrarla.

Ricordo la chiesa parrocchiale di Niengrowic, dove svolsi il mio primo incarico pastorale, la collegiata di S. Floriano a Cracovia, la cattedrale di Wawel, la basilica di S. Pietro e le tante basiliche e chiese di Roma e del mondo intero. Ho potuto celebrare la S. Messa in cappelle poste sui sentieri di montagna, sulle sponde dei laghi, sulle rive del mare.

L'ho celebrata su altari costruiti negli stadi, nelle piazze delle città. Questo scenario così variegato delle mie celebrazioni eucaristiche me ne fa sperimentare fortemente il carattere universale e, per così dire, cosmico. Sì, cosmico.

Perché anche quando viene celebrata nel piccolo altare di una chiesa di campagna, l'Eucaristia è sempre celebrata, in un certo senso, "sull'altare del mondo".
Essa unisce il cielo e la terra.

Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo per restituire tutto il creato, in un superiore atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla" (Ec. et Euc. n.8).

Come "camminando sui passi" del S.Padre, ricordo una visita ad Auschwitz, il famoso campo di sterminio, visitato recentemente da Papa Benedetto XVI.

Ottenni di celebrare (cosa rarissima) la S. Messa accanto a quello che è chiamato il 'muro delle fucilazioni'. A fianco erano le celle dove furono fatti morire di fame e sete i dieci condannati tra cui il S. Massimiliano Kolbe. Ed era come un sentire il canto di Massimiliano che incoraggiava i condannati. Quel "canto" mi dava tutta la bellezza del "pane disceso dal cielo", che era la forza del martirio.
Avrei voluto che non finisse mai quella Messa...

Ma ho sempre l'impressione che tra vita e Messa non vi siano spazi vuoti.

 

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