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TESTO Commento su Marco 4,35-41

mons. Ilvo Corniglia

XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (25/06/2006)

Vangelo: Mc 4,35-41 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Questo episodio si svolge al termine di una giornata molto impegnativa e faticosa per Gesù. L'ha trascorsa a contatto di una folla enorme, a cui ha offerto il proprio insegnamento in parabole. L'evangelista ne ha riportate alcune. Come già in altre circostanze, dopo aver istruito la folla, Gesù desidera donare una rivelazione più approfondita al gruppo dei discepoli. Quale rivelazione? Quale passo ulteriore nei suoi confronti vuol portarli a fare? Il racconto è singolarmente colorito e ricco di particolari, permeato da una tale freschezza e vivacità da suscitare il sospetto che alla sua origine ci sia la testimonianza di uno che ha preso parte all'avvenimento e di cui Marco riporta fedelmente il ricordo, cioè Pietro. Marco è appunto suo discepolo. Anche per tale ragione, questa pagina ci consente di rivivere in prima persona la scena che descrive, non rimanendo semplici spettatori, ma lasciandoci coinvolgere direttamente. Siamo, così, aiutati a focalizzare nuovi aspetti nella persona di Gesù e nella nostra relazione con Lui. Proviamo a pensare che anche noi facciamo parte, in senso vero, di questo gruppo di discepoli che eseguono il comando di Gesù: "Passiamo all'altra riva".

La barca che compie la traversata del lago può richiamarci simbolicamente il viaggio della vita: la traversata verso la sponda dell'eternità che compie una singola persona, una coppia, una famiglia, una comunità, la Chiesa intera. È un dono immenso - lo si scoprirà meglio in seguito – che sulla barca, compagno di traversata, ci sia Gesù con noi. La sua presenza non ci risparmia pericoli e bufere. Scoppia la tempesta. Non è insolito che sul lago di Tiberiade, a causa della sua particolare conformazione geografica, le acque vengano sconvolte da venti forti e improvvisi.

Il "dramma", come viene narrato dall'evangelista, si snoda in una sequenza di scene costruite sul contrasto. Non può non impressionare la scena iniziale: la barca sta per essere sommersa dalla furia della tempesta, mentre Gesù dorme un sonno profondo e tranquillo. È l'unica volta che nei Vangeli Gesù è presentato mentre dorme. Come interpretare tale sonno? Gesù è veramente stanco. Dopo una giornata di predicazione in cui ha speso tante energie, non avverte neppure il fragore del vento e delle onde. Cogliamo qui la reale umanità di Gesù. Ma dovremmo aggiungere qualche altra spiegazione: Gesù si fida dei suoi, non dubita della loro responsabilità e capacità professionale. Soprattutto, però, il suo atteggiamento pare carico di mistero: il suo sonno tranquillo sembra significare la serena fiducia in Dio, la fiducia del Figlio che si sente protetto e amato dal Padre, tra le sue braccia, anche nell'imperversare della tempesta.

La seconda scena – centrale e particolarmente solenne – esprime la tensione fra due atteggiamenti contrastanti: da una parte l'ansietà e la paura di quei pescatori di mestiere che ritengono la situazione irreparabile e scuotono Gesù: "Maestro, non ti importa che moriamo?". Dall'altra parte la sovrana maestà di Gesù che, senza perdere la calma, "destatosi, sgridò il vento e disse al mare: 'Taci, calmati!'. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia". Contrasto non meno impressionante si coglie tra l'infuriare della tempesta e l'improvvisa, immediata bonaccia.

Segue la terza scena. Se al mare sconvolto è subentrata la "quiete dopo la tempesta", ora l'agitazione sembra trasferirsi nel cuore dei discepoli: un "grande timore" li invade. Un'inquietudine, una paura nuova, molto diversa da quella provocata dalla tempesta sul lago. È il brivido che afferra l'uomo quando sperimenta la presenza del divino. In che senso? Nell'intervento di Gesù, i discepoli vedono l'agire onnipotente di Dio. Secondo la concezione biblica, il mare agitato è simbolo di tutte le forze negative, "sataniche", ostili a Dio e all'uomo. Soltanto Dio può dominarlo e ha su di esso un potere assoluto. È quanto poeticamente afferma Dio stesso nel brano di Giobbe (38, 1.8-11: I lettura): quando il mare nasceva e cominciava a espandersi caoticamente, Lui lo aveva racchiuso entro confini da non varcare. Il Sal. resp. (107,23-31.28-31), poi, è una preghiera di lode e di ringraziamento a Dio che "ridusse la tempesta alla calma", liberando da morte sicura coloro che viaggiavano sul mare. Ora i discepoli vedono che Gesù esercita il potere stesso di Dio. Colpisce il fatto che Gesù si rivolge al mare in modo personalizzato: "Lo sgridò...Taci!". Lo stesso gesto e la stessa parola li abbiamo già incontrati nell'episodio della guarigione di un indemoniato (Mc 1,25: domenica IV T.O). Il mare agitato è, appunto, presentato come un attacco di Satana, che Gesù però riduce all'impotenza. Perché i discepoli, allora, non lo proclamano Dio? Da ebrei "monoteisti", non possono pensare Dio se non unico e invisibile, mentre vedono un uomo compiere tali prodigi. Da qui il "grande timore".

In quest'ultima scena due domande offrono il significato profondo di tutto l'episodio.

La prima domanda risuona sulle labbra di Gesù. Dopo aver "sgridato" il mare, ora rimprovera i discepoli: "Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?". Credere significa contare su Dio e sulla sua onnipotenza, sentirsi avvolti dalla sua presenza, pur nelle circostanze più tragiche e fin nel naufragio totale dell'esistenza. Presenza di Dio che si attua e opera in Gesù. Guardare soltanto al pericolo e alle forza del male che ci aggrediscono lasciandoci paralizzare dalla paura, e non invece a Gesù, al quale si deve una fiducia senza condizioni e senza limiti; vivere e reagire come se Dio non ci fosse e non fosse qui con noi in Gesù: tutto questo è semplice mancanza di fede. Nella vita della Chiesa, come di ogni credente, la paura deve essere bandita. Non c'è infatti nessuna situazione, per quanto tempestosa, che Gesù non sia in grado di domare. Fiducia che anche il sonno di Gesù ci richiama, come sopra s'è detto: la serena fiducia del Figlio che dorme in braccio a suo Padre. E tale fiducia vuole partecipare anche a noi. Allora ognuno potrà ripetere in tutta verità col credente dei salmi: "Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre" (Sal. 131,2). Come pure: "In pace mi corico e subito mi addormento (senza bisogno di tranquillanti): tu solo, Signore, al sicuro mi fai riposare". (Sal. 4,9).

La seconda domanda, sulla bocca dei discepoli, riguarda l'identità di Gesù: "Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?". Davanti alla potenza sovrumana, anzi divina, manifestata da Gesù, il loro interrogativo, colmo di stupore, esprime la ricerca e l'attesa di una risposta. Chi viene in qualunque modo a contatto con Gesù non può sottrarsi a tale domanda. Non può eluderla. È una domanda che, una volta posta sinceramente, impegna in una ricerca che non si arresta più. Una ricerca che diventa scoperta progressiva. Diventa sorpresa continua. Diventa amicizia che cresce. Diventa comunione gioiosa. Così è stato per i primi discepoli. Così può essere per ciascuno di noi. "Chi è costui?" può diventare in modo estremamente personalizzato: "Io chi sono per te?". Ogni passo che si muove in questo cammino è risposta sempre alla stessa domanda. Una risposta che non riesce mai a essere esaustiva, perché Colui che la provoca è l'infinita meraviglia e l'inesauribile novità di Dio. Non si finisce di conoscerlo. Non si finisce di crescere nel rapporto con Lui.

Questo rapporto ce lo richiama san Paolo nella seconda lettura (2Cor. 5,14-17): "L'amore di Cristo" - cioè l'amore che animava Cristo nel soffrire e morire per noi e che il Risorto porta a noi in modo vivo e attuale – "ci spinge". Questo verbo ha propriamente più di un significato. L'amore che Cristo indirizza a noi ci "contiene", ci avvolge e così unifica il molteplice della nostra vita riempiendola di senso e di armonia. Un amore, anche, che "coinvolge" i credenti sospingendoli a "non vivere più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro", condividendo il suo stile di umile servizio, amando col suo stesso amore comunicato a loro. Ecco così delineata l'esistenza cristiana: vivere per Cristo e, in unione con Lui, per i fratelli.

"Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove". Il credente vive in uno stato di novità permanente. È una persona nuova, che pensa, agisce, ama in modo nuovo, il modo di Gesù. "Il cuore di Paolo era il cuore di Cristo" (s. Giovanni Crisostomo). Non deve valere anche per me e per te?

La domanda su Gesù ("Chi è dunque costui?") è spenta dentro di noi? Oppure rimane viva nel nostro cuore e si esprime nel desiderio e nell'impegno di un rapporto più profondo con Lui?

Proviamo a verificare il nostro comportamento durante le tempeste più o meno gravi in cui incorriamo nel cammino della vita. Meritiamo il rimprovero di Gesù?

Oggi si celebra la "Giornata per la carità del Papa". Dargli concretamente una mano perché possa praticare, anche a nome nostro, l'accoglienza, la carità su scala mondiale: tutto questo è per ciascuno di noi un contributo originale a "globalizzare" la solidarietà, la carità.

 

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