TESTO Senza appello
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (28/09/2025)
Vangelo: Lc 16,19-31

In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «19C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. 25Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. 27E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. 29Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. 30E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. 31Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Domenica scorsa ci siamo lasciati con il Maestro che ci invitava a farci degli amici attraverso la disonesta ricchezza, narrandoci una parabola in cui tesseva le lodi di un amministratore disonesto, il quale, finito sul lastrico, si era servito dei beni materiali del suo padrone - per tanto tempo da lui sperperati - per fare del bene agli altri, sperando di ottenerne altrettanto. La conclusione a cui giungeva Gesù è che la ricchezza (pur essendo intrinsecamente disonesta) non è di per sé un male, se non la si considera come una divinità, ma come un modo per giungere a Dio. E allora, come mai oggi Gesù ci racconta una parabola nella quale sembra non lasciare scampo a chi è ricco? Cos'ha fatto questo ricco (da sempre definito “epulone”, ovvero “banchettatore”) per finire irreversibilmente nel mondo delle tenebre? Era una buona forchetta e amava vestirsi bene, d'accordo: ma è forse un male, tutto questo? Sta forse approfittando di ricchezze altrui, per fare questi banchetti? Se sono soldi suoi, faccia pure quello che vuole: male non pare averne fatto a nessuno. Tantomeno al povero Lazzaro che stava seduto fuori da casa sua...
C'è però un piccolo particolare, collocato tra la conclusione della parabola di domenica scorsa e quella di oggi. È un versetto che non abbiamo letto nella liturgia, il versetto 14, nel quale si dice che i farisei, attaccati al denaro, si burlavano di lui, dopo aver ascoltato dal Maestro la frase finale della parabola dell'amministratore disonesto: “Non potete servire Dio e la ricchezza”. La ricchezza, per i farisei e per buona parte del mondo giudaico, era segno della benedizione di Dio. Se un uomo possedeva molti beni e ne approfittava per il proprio lieto vivere, non faceva altro che rendere lode a Dio per quanto da lui aveva ricevuto. Per di più, la legge del contrappasso di dantesca memoria - chi nella vita ha fatto del male, nell'aldilà riceverà altrettanto - anche qualora a quel tempo fosse già conosciuta e apprezzata, in questo caso non poteva comunque essere applicata: il ricco epulone non ha fatto nulla di male. Eppure, qualcuno che subisce un torto c'è, e ha un nome: Lazzaro, il povero. E il torto lo subisce non direttamente dal ricco, ma da lei: dalla ricchezza che, pur non facendo del ricco una persona malvagia, di per se stessa è disonesta, ovvero non ha in sé alcuna sicurezza da offrire. Soprattutto quando arriva ad accecare chi la possiede, come il ricco della parabola di oggi, uno che grazie alla ricchezza ha tutto: denaro, vestiti preziosi e cibi succulenti, tutto! Ha pure un povero, fuori dalla sua porta: un povero che sembra quasi una sua proprietà.
Ma il povero ha qualcosa che il ricco non ha: un nome. Ovvero, un'identità, una dignità, una percezione precisa di chi egli è nella vita. Il ricco ha tutto ma non ha un nome, ovvero è nessuno. Il povero, invece, non ha nulla, ma è qualcuno, è Lazzaro, che paradossalmente significa “Dio è il mio aiuto”. Ma come può avvenire - secondo il pensiero dei farisei - che Dio corra in aiuto di una persona che la vita ha maledetto, lasciandolo senza alcun bene materiale? Per coprirsi, non ha vestiti, ma piaghe; per mangiare, non ha cibi, ma briciole che di per sé sono della tavola dei ricchi (vuoi vedere che le ha rubate?); per curarsi, non ha medici, ma un branco di cani che leccano le sue ferite (per lo meno, qualcuno che mostra a lui pietà e misericordia esiste...). Per fortuna che il ricco non si accorge di averlo fuori dalla porta: è così brutto vedere mendicanti puzzolenti e purulenti stipati fuori da luoghi lussuosi! Meglio farli sparire dalla propria vista: e infatti, il ricco non lo vede, perché accecato dalle sue ricchezze. Dio però ci vede bene: e ascolta pure bene, soprattutto il grido del povero. Ci pensa lui a togliere Lazzaro dalla vista del ricco, per farlo portare dagli angeli accanto ad Abramo. Così il ricco potrà continuare a banchettare senza vedere scene raccapriccianti fuori dalla porta della sua villa.
Eppure, un giorno muore anche il ricco: con tutti i suoi beni, non ha potuto impedire alla vita di fare il suo corso. Nessuno viene a prenderlo per portarlo in cielo: di lui si sa solo che fu sepolto, una bella pietra sopra ed è tutto finito! Magari fosse tutto finito... Anche lui va in un altro mondo (e i farisei che ascoltano Gesù lo sanno bene, perché credono alla risurrezione dei morti), solo che là non lo aspettano i suoi beni, ma solo tenebre e tormenti. E finalmente gli si aprono gli occhi, e ci vede bene perché vede di lontano Abramo e Lazzaro, il povero, accanto a lui. E inizia a fare ciò che nella vita non ha mai fatto: grida di dolore. E osa dire ciò che non ha mai detto: chiamare Abramo “Padre”, e soprattutto chiamare Lazzaro per nome. Quindi... vuol dire che lo conosceva bene, quando era vivo! Sapeva chi era, nella vita terrena! Il ricco non era cieco: ci vedeva bene, ma non voleva vedere Lazzaro perché gli dava fastidio! Sapeva chi era, perché abitava fuori dalla sua porta, e per lui non ha fatto nulla! Avrebbe potuto fare come l'amministratore disonesto: usare la ricchezza disonesta per fare del bene, e per di più in modo onesto perché erano soldi suoi! Si è proprio dimenticato...
Ma Dio no, non dimentica: e Abramo invita il ricco quantomeno a “ricordarsi” come stavano le cose nella vita, e a prendere coscienza che adesso tutto si è ribaltato. Per di più, il giudizio di Dio è inappellabile, e cercare di ricorrere alla sua misericordia per avere anche solo una goccia d'acqua è come voler percorrere un “grande abisso”: niente da fare, la misericordia di Dio è finita. E non solo per il ricco: anche per i cinque fratelli, a cui il ricco, preso da improbabili sentimenti di pietà, vorrebbe inviare Lazzaro (come se fosse il suo servo) perché “li ammonisca severamente e non vengano anch'essi in quel luogo di tormento”! Ma Abramo taglia corto con questi tardivi e inutili sprazzi di pietismo: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro”. Non servono a niente le apparizioni miracolistiche di defunti e nemmeno le rievocazioni di spiriti e fantasmi a far cambiare la testa a chi non vuol cambiarla, o a far aprire gli occhi a chi non vuole aprirli!
Che mondo disumano, quello creato dalla ricchezza disonesta e cieca! Quando finirà tutto questo? A volte, pare che di fronte alla logica del Dio denaro non esista soluzione alcuna. Ma non è così. La parabola è fin troppo chiara. Come lo è la frase finale della prima lettura, quella del profeta Amos: “Cesserà l'orgia dei dissoluti”. E questa sentenza di Dio sulla ricchezza, per di più, è inappellabile.