TESTO Commento su Sap 9,13-18; Sal 89; Fm 1,9-10.12-17; Lc 14,25-33
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XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (07/09/2025)
Vangelo: Sap 9,13-18; Sal 89; Fm 1,9-10.12-17; Lc 14,25-33

In quel tempo, 25una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo... Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14,25-33).
Forse abituati alle sottili e astute mediazioni tra l'esigenza di aderire alla Parola di liberazione che ci offre l'Evangelo di Gesù, e quella di salvare, nel modo meno indolore possibile, la nostra non sempre innocente tranquillità di vita, proviamo un senso acuto di disagio di fronte a questo messaggio del Cristo la cui durezza non è solo apparente e le cui parole entrano come lama tagliente nella nostra coscienza per esplorarla, per interpellarla, per metterne a nudo i condizionamenti.
Ma è proprio un peso insopportabile quello che il Maestro ci propone? A me pare che Egli, con le sue parole, condanni piuttosto l'atteggiamento farisaico di coloro che, per inveterata abitudine, sono portati a caricare sulle spalle degli altri - ogni tempo ha i suoi poveri - i fardelli pesanti derivanti dalla rubricistica e ossessiva interpretazione della Legge.
La legge delle croce non è scritta su alcun codice: per comprenderla e accettarla occorre raggiungere (e questo è, sì, faticoso) un'intelligenza pasquale della fede. Essa segna, passo dopo passo, la strada in salita che una folla immensa - todos, todos, todos, avrebbe detto Francesco - tutta quella che compone il nostro variegato universo di persone, percorre faticosamente per intravedere, al di là delle creste dei monti che sempre lo celano, l'orizzonte puro di una liberazione definitiva. Dato universale, per ogni antropologia e ogni teologia degna del nome, premessa indispensabile di ogni ecumenismo, perché l'unità non si patteggia tra istituzioni né tra accomodamenti: essa si fa tra donne e uomini che scoprono, seguendo le vie spesso impervie e anomale dello Spirito, la strada comune della croce.
Non è una croce qualsiasi: è la “nostra” croce. Non sempre è facile comprendere, tra la somma delle inquietudini che ci sommergono, quale essa sia. Ancora più difficile accettarla.
A livello personale può essere accettare noi stessi, le nostre contraddizioni, le nostre incoerenze, le irrisolte tensioni verso il bene, segnate dall'incapacità quotidiana di realizzarle. O forse accettare la fatica di dire un sì definitivo alla vita, a una chiamata che ci pone continuamente all'interno di situazioni nelle quali lo sforzo per diventare persone autonome e responsabili - le due categorie che definiscono la persona - non si realizza nell'eccezionalità della situazione, ma in una quotidianità stressante e, apparentemente, banale. Perché ognuno di noi vorrebbe sempre essere quello che non è, fare quello che altri fanno, e una delle cose più difficili dell'esistenza umana è raggiungere un equilibrio personalizzante, evitando da un lato la tentazione del riflusso nella banalizzazione della propria esistenza preda delle sirene incantatrici dell'inutile, e dall'altro l'evasione a livello di fantasia in dimensioni che non sono le nostre.
La nostra croce sarà forse quella di accettare l'infinita lontananza di Dio, il suo ineliminabile silenzio: una fede oscura in cui non c'è spazio per le certezze assolute; una preghiera che non riesce mai a librarsi nella dimensione della contemplazione e fatta spesso di parole vuote, inconcludenti, narcisistiche, capaci solo di transitare da autocompiacimenti a colpevolizzazioni; e tentare di estrarre, da questo stato di imperfezione, le parole di una fede pura, essenziale, liberata da sovrapposizioni anche “religiose”, da incrostazioni magiche... Questa operazione è sicuramente la più dolorosa per il credente, perché passa per l'annullamento di tutte le sicurezze, un po' come, per l'alpinista, dover superare un liscio canalino di verglas per raggiungere la vetta. È l'esperienza che i grandi mistici, da san Giovanni della Croce a santa Teresa d'Avila, hanno riassunto in una parola, nada, nulla, per poter finalmente esclamare che solo Dios basta.
Sarà ancora, forse, e questo è particolarmente attuale oggi, soffrire per la mancata realizzazione di una pace autentica, per le tragiche sbruffonate del tycoon di turno, attorniato e omaggiato da devoti scodinzolanti, per le delinquenziali operazioni militari di politici senza scrupoli per eliminare interi popoli, per le troppe e silenziose complicità che legano guerra e oppressione, per gli inspiegabili silenzi di donne e uomini, di politici, che si qualificano “cristiani”, ma che non si decidono di prendere le distanze da ogni forma di imperialismo e di ideologia divisiva (“prima gli italiani...”!), autentica via diabolica che blocca il raggiungimento di una fraternità reale e non solo proclamata sulle piazze e dagli studi televisivi.
Non si possono comprendere tutti questi percorsi “di croce” senza fare ancora una volta riferimento alle parole di Gesù: “ Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Portare la propria croce significa dunque convertirsi alla povertà, ma a una povertà di sostanza, non di apparenza, perché non basta mimare i poveri, occorre entrare in una cultura di povertà, ragionare “come loro”, perché la liberazione, cioè la salvezza, passa attraverso loro, non certo attraverso i ricchi e i guerrafondai. Scriveva Ernesto Balducci: “Il crogiolo profetico del Vangelo è, per statuto divino, la comunità dei poveri. E per noi, che poveri non siamo, non vi sarà salvezza se non quando saremo disposti ad andare a scuola dai poveri piuttosto che a un'Università pontificia (dalla prefazione a Sauro Garzi, Filippine: teologia della lotta e liberazione nazionale, Cittadella, Assisi 1986.
Per la nostra revisione di vita
1) Come coppia e come famiglia che cosa facciamo concretamente per seguire il nuovo cammino religioso e etico - prendere la propria croce - che Gesù ci indica per arrivare a Dio? Sappiamo leggere e accettare la presenza della croce nel nostro rapporto di coppia?
2) Che rapporto abbiamo con coloro che si definiscono «non praticanti»? Sappiamo leggere la presenza di Dio anche in loro? Diamo loro «ospitalità»? Ci sentiamo uniti a loro, oppure separati? Il nostro comportamento li avvicina o li allontana? Quale rapporto abbiamo nei confronti della povertà? Siamo disposti ad andare a scuola dai poveri?
Luigi Ghia Direttore di Famiglia domani