TESTO Commento su Matteo 12,38-42
Missionari della Via Missionari della Via - Veritas in Caritate
Lunedì della XVI settimana del Tempo Ordinario (Anno I) (21/07/2025)
Vangelo: Mt 12,38-42
La pretesa di avere segni equivale a quella rigidità calcolata che vuole misurare l'opera di Dio, possederla. Questa è la modalità tipica delle persone egocentriche e anche quella degli scrupolosi, che vogliono capire con esattezza, avere segni certissimi dell'opera di Dio, attirare ogni cosa verso la propria comprensione. La pretesa chiude la porta alla fede e anche alla meraviglia. Si meraviglia solo chi sa accogliere la bellezza con animo lieto e semplice. I bambini sono i maestri della meraviglia, per loro è semplice cogliere un segno, perché sanno essere aperti. Noi spesso non ci convertiamo perché passiamo il tempo a calcolare i guadagni di ogni cosa, perciò impariamo a vivere pretendendo. Lo facciamo a casa quando chiediamo l'attenzione degli altri, quando ogni nostro servizio deve essere notato e riconosciuto altrimenti ci comportiamo come vittime di sfruttamento, quando pretendiamo persino l'amore dell'altro secondo le nostre condizioni, quando il nostro valore si misura dai complimenti che riceviamo. Lo facciamo anche a lavoro dove tutti devono operare secondo i nostri criteri altrimenti ci lamentiamo di continuo, tutti devono corrispondere alle nostre aspettative. Soprattutto la mancanza di maturità e le relazioni tossiche conseguenti ci espongono a pretendere dagli altri. Anche con Dio, purtroppo, possiamo fare così! L'ottusità con la quale chiudiamo il nostro cuore ci espone alla mancanza di conversione e a non riconoscere l'opera di Dio, nella pretesa di volerla calcolare. Uno dei motivi fondamentali è che spesso procediamo per estremi, per cui vogliamo dei segni per avere sicurezze assolute e certissime, oppure alcuni vivono di segni e rendono la fede un'esperienza evanescente che rifiuta ogni ragionamento come un limite alla propria espressione emozionale. C'è poi una modalità matura, ecco il segno di Giona, che ci richiama a una concretezza del vivere: Dio ci vuole in rapporto con Lui. Giona dovette fare i conti con la sua visione delle cose e imparare ad accettare la realtà senza scappare via. Ogni relazione autentica è un camminare insieme, si conosce e accoglie Dio, non calcolando o inventandosi una versione fantasiosa della Sua presenza, ma camminando con Lui, convertendosi a quello che Dio realmente è, seguendolo come Signore della nostra vita.
«Quante cose sappiamo interpretare? Il rumore della nostra macchina, il rumore della caldaia... e lo sappiamo fare perché abbiamo una familiarità con questi oggetti. Siamo abituati a campare con il ronzio del frigorifero in cucina, quindi lo sentiamo. Il problema di Dio è lo stesso, bisogna imparare a campare con Dio [...] abituarsi al rumore di sottofondo, dopodiché uno sente le differenze, riconosce. Non c'è una via più breve. Come in tutti i rapporti, all'inizio uno è molto preoccupato di cosa fa, come si veste, cosa deve dire... anche con Dio all'inizio è così: uno è molto preoccupato di ciò che deve fare, quanto tempo dedicare alla Bibbia, con quale metodo... e questo va benissimo, però dovremmo avere la sapienza di renderci conto che non è così importante, ma va bene perché riempie l'attesa di arrivare ad una familiarità» (Stella Morra).