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TESTO Commento su At 2,1-11; Sal 103; Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23-26

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Pentecoste (Anno C) - Messa del Giorno (08/06/2025)

Vangelo: At 2,1-11; Sal 103; Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23-26 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Gv 14,15-16.23-26

15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre,

23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.

25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.

Non è casuale che la festa di Pentecoste cada in primavera. A lungo attesa, impazientemente invocata, la primavera si è finalmente manifestata. Una nuova primavera. Stagione strana, carica di forti contrasti, di repentini mutamenti. Prevalgono, in essa, momenti dolci, quelli in cui ti senti invaso da un'euforia strana, dalla voglia di uscire dal buio della casa per immergerti nella luminosità del tempo, dal bisogno di rinnovarti e di cambiare qualcosa dentro e fuori di te, di fare progetti, di esprimere la tua gioia (e che importa se in modo un po' chiassoso?), di abbandonare il pessimismo perché l'inverno è finito, il gelo non morde più il corpo e la volontà: il seme, sepolto sotto la neve, incomincia a germogliare.
Oggi, Pentecoste, è la primavera della nostra vita cristiana. Tempo di cambiamento, di rinnovamento. Ce lo ricorda Giovanni, riferendo le parole del Maestro: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
Lo Spirito che ci è stato donato ci fa uomini nuovi, ricchi di passione e di slancio, vivi. Ci rinnova in quella capacità di amare sempre e tutti - todos, todos, todos... come ripeteva - quasi un ritornello - papa Francesco, senza distinzioni, senza paure, sapendo che amare è il sacramento della nostra presenza nel mondo. Ci insegna ad attribuire a Dio il bellissimo nome di «comunione». Ci rende creativi e coraggiosi, capaci di rischiare la nostra esistenza e di scommettere le nostre scelte di vita. Ci aiuta a sognare in grande, anche nelle nostre piccole comunità cristiane che spesso riproducono il cenacolo dalle porte chiuse nel quale si erano rinchiusi i discepoli impauriti. Ci aiuta a superare la crisi del nostro tempo, l'eclissi della speranza, la fuga dall'utopia. Ci dona l'intelligenza della Parola del Signore e l'impegno a essere fedeli all'Evangelo anche nei tempi più difficili della nostra storia di credenti. Ci impegna a essere persone caratterizzate da una profonda unità interiore, voce mai afona dei poveri, degli oppressi, degli emarginati, di tutti i piccoli che non hanno voce. Ci fa tensione di comunione e ci convince al perdono reciproco.
I «discepoli di Emmaus» hanno fatto questa esperienza dello Spirito. Noi sentivamo come un fuoco nel nostro cuore, quando egli lungo la via ci parlava... (Lc 24,32). Vale anche per noi. Un fuoco... mille fuochi, mille segni di una Pentecoste che ha rotto definitivamente le fitte maglie delle nostre catene, mille roghi che ardono nel cuore del mondo e lungo le vie tormentate della storia. Ma anche lungo le vie tormentate della Chiesa. Commentando l'elezione del nuovo Papa, un prete affermava con la sicurezza di chi «la sa lunga» che finalmente ci voleva un Papa che mettesse un po' d'ordine dopo il «tornado» di papa Francesco. Ma se lo Spirito fosse nel tornado, piuttosto che nell'ordine? A me piace immaginarlo così, intento a scombinare i nostri disegni di prudenza, che non sempre è una virtù teologale, e di paura di perdere dei privilegi, mentre troppe donne e troppi uomini, troppi bambini sono ancora oggi in catene, troppi giovani non hanno conosciuto altra vita se non quella dentro un recinto: e fili spinati ricorrono con tragica ossessione nei loro sogni notturni. Ma lo Spirito non è incatenato, è dirompente nel tornado, la Parola non è mai compressa tra i ceppi. La Parola trasforma i gemiti degli oppressi in canti di libertà. Fa fiorire il deserto, là dove l'aridità pare prendere il sopravvento. Perché il fuoco arde, arde ancora. Non si spegne mai nelle nostre notti.
Lo Spirito è la medicina per la nostra aridità, la fonte della nostra gioia spirituale. Ma qui serve un attento discernimento. Poiché non è sempre facile distinguere la sua voce da quella delle pulsioni interiori inconsce, può accadere che, pur nella ricerca di fedeltà al Dio-Comunione, la nostra auto-ammirazione e un certo narcisismo spirituale abbiano il sopravvento. Come siamo bravi! Quanto siamo diversi dagli altri...! Crediamo di essere disponibili gratuitamente agli altri e in realtà cerchiamo la nostra autoaffermazione e, in tal modo, finiamo di essere gli oppressori degli altri. E qui può intervenire lo Spirito che ci dona una crisi salutare. Anche una sorta di aridità spirituale (come non ricordare le pagine splendide di Teresa di Lisieux?) può essere un dono dello Spirito e, se saremo attenti, scopriremo che gradualmente Egli ci porterà dalla dispersione verso il molteplice alla conversione verso l'Uno.
Oggi, Pentecoste, è la primavera della Chiesa.
La Chiesa è il sacramento, il segno rivelatore dello Spirito e anch'essa, come ci hanno dimostrato con la loro vita e con la loro morte, papa Giovanni e papa Francesco, deve muoversi in una prospettiva di comunione. Bellissima l'idea di papa Francesco, che - poco prima di morire - ha voluto farsi portare in carrozzella in mezzo alla gente vestito in abiti civili, per dire alle sorelle e ai fratelli «Sono uno di voi» e per fare questo è necessario «svestirsi» del ruolo, abbandonare i simboli di un'identità (e di un potere) che spesso allontanano dalla comunione e poter dire: «Sono qui con voi, i vostri problemi non sono così diversi dai miei, abbiamo in comune la nostra fragilità, io non sono che un uomo». Cogliere questo frutto dello Spirito è davvero un grande dono. Ogni membro della Chiesa - Papa, vescovi, ogni cristiano - ha il dovere di essere, in questa tensione verso la perfetta unità, la «tromba dello Spirito», secondo la meravigliosa espressione che Giovanni XXIII rivolgeva a Primo Mazzolari, riabilitando ufficialmente, dopo anni di sofferenze, di umiliazioni e di emarginazione che la Chiesa è spesso capace di offrire ai suoi figli, uno degli anticipatori del Concilio. Davvero i profeti sono la voce dello Spirito. Forse non crediamo abbastanza alla profezia per immaginare una Chiesa che non si identifichi in una delle forme storiche di presenza assunte nel tempo, ma che si lasci guidare solo da quella voce. Questo è il nostro dramma. Spesso si cede alla tentazione di mondanizzarsi, e si dimentica l'incarnazione.
Basta poco, bastano pochi gesti per essere fedeli allo Spirito. Un piccolo esempio. Nel preciso momento in cui scrivo queste note, un piccolo gruppo della parrocchia di Cavagnolo (TO) si trova in pellegrinaggio ad Alcoy, in Spagna, nella provincia di Alicante, dove un'altra «tromba dello Spirito», il giovane cavagnolese Casimiro Barello, di cui è in corso la causa di beatificazione, conosciuto come il camminatore contemplante, è morto, dopo una vita di fatica e di stenti, il 9 marzo 1884. Aveva 27 anni e aveva trascorso la maggior parte della sua vita camminando per migliaia e migliaia di chilometri, scalzo e vestito poveramente per annunciare le meraviglie del Signore, guidato solo dallo Spirito che oggi festeggiamo. La schiena a pezzi e i piedi piagati. Per dire che il fuoco arde ancora. Non si spegne mai nei deserti aridi delle nostre povere vite.
C'è una bella poesia di Tagore, coevo di Casimiro che dice tutto questo in una sintesi mirabile:

Se non dici parola
empirò il mio cuore col tuo silenzio
e lo saprò sopportare.
Sarò immobile ad attendere,
a testa china,
come fa la notte paziente
nelle sue veglie stellate.
Verrà certamente il mattino,
svanirà l'oscurità...e la tua voce
si riverserà per il cielo
in torrenti d'oro.
Allora sulle ali del canto,
dal nido di ognuno dei miei uccellini,
si leveranno le tue parole,
e le tue melodie fioriranno
in tutte le mie foreste.

Rabindranath Tagore, Gitanjali, Dalai Editore, Milano 2006

Così, nel deserto, con Casimiro, attendiamo anche noi, Lui, silenziosamente. Tutto è grazia.

Traccia per la revisione di vita
- Come vivo, in quanto singolo, la Pentecoste? Quale passione spirituale mi anima? Quali impegni mi propone?
- Come viviamo la Pentecoste, come coppia e famiglia? Quali impegni concreti siamo in grado di assumere per annunciare la presenza dello Spirito nella nostra vita?
- Quale testimonianza dello Spirito diamo nella nostra comunità? Esiste in essa la tensione ad aprire le porte, anziché rinchiuderci in una sorta di narcisismo spirituale?

Luigi Ghia - Direttore di Famiglia domani

 

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