TESTO A 360 gradi...
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
VI Domenica di Pasqua (Anno C) (25/05/2025)
Vangelo: Gv 14,23-29

23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. 28Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
Quasi senza accorgercene, magari perché presi dall'ascolto dei racconti di apparizione, oppure dalla narrazione continuata e avvincente degli Atti degli Apostoli, in questo tempo di Pasqua stiamo leggendo, con la stessa continuità, anche il libro dell'Apocalisse: non è certo il testo della Bibbia di più facile lettura, ma non per questo non dobbiamo provare, almeno qualche volta, a commentarne il contenuto.
Ebbene, oggi Giovanni, nella seconda lettura, descrive la visione della Nuova Gerusalemme che “scende dal cielo... risplendente della gloria di Dio”. Le simbologie e i significati legati a questa descrizione sono molteplici: ma quello che a me colpisce è il particolare di queste “dodici porte”, tre per ognuno dei quattro punti cardinali della città, quasi a sottolineare l'apertura universale di questa città a ogni realtà umana. Se è vero (come pare) che la Nuova Gerusalemme celeste è il modello della Comunità dei credenti, ossia della Chiesa, a cui la comunità di Giovanni guarda come a qualcosa cui bisogna tendere, allora questa Chiesa si caratterizza per le sue numerose porte, aperte su ogni lato dell'umanità, su ogni frontiera, su ogni uomo.
Proprio come la Chiesa che esce dal Concilio di Gerusalemme, il primo della storia, di cui ci parla la prima lettura. La situazione discussa all'interno del gruppo dei primi discepoli riguardava il modo di vivere la religione cristiana: il cristianesimo è il compimento della legge giudaica oppure ne rappresenta un superamento e quindi una novità, pur derivando da essa? Per essere dei buoni cristiani, bisogna essere prima di tutto dei buoni osservanti della legge giudaica (come lo fu Gesù, del resto) oppure si può arrivare alla fede cristiana a prescindere dal passaggio attraverso la religione di Israele? Se per essere buoni cristiani occorre anzitutto essere osservanti della legge giudaica, come la mettiamo (si chiesero allora i discepoli) con i greci, con gli abitanti della Siria, dell'Asia Minore, dell'area Balcanica, della Turchia e alla fine di Roma che - grazie soprattutto alla predicazione di Paolo e di Barnaba - avevano abbracciato il cristianesimo senza passare attraverso il giudaismo, bensì provenendo direttamente da quello che allora era considerato “paganesimo”? Se poi a questo aggiungiamo il fatto che c'erano “alcuni venuti dalla Giudea” che, per i propri interessi, volevano costringere gli altri a giungere alla salvezza attraverso quello che essi consideravano l'unico cammino possibile, cioè quello della Legge di Mosè, allora l'idea del cristianesimo come religione universale, e della Chiesa come realtà aperta a ogni uomo, inizia davvero a scricchiolare.
Sono questioni che a noi paiono ormai superate: che uno sia italiano o africano o indiano o sudamericano o australiano, poco conta, perché possa dirsi cristiano. Il messaggio di Cristo è per tutti, è universale: tuttavia, non diamo per scontato che la Chiesa oggi abbia ormai acquisito una piena dimensione di universalità. A livello territoriale, non si discute: non esiste paese al mondo, salve alcune rarissime eccezioni, in cui non ci sia almeno un battezzato. Ma a livello culturale, teologico e soprattutto sul piano dell'etica e del comportamento cristiano, ci sono ancora parecchie difficoltà ad accettare la “cattolicità”, l'universalità del messaggio cristiano come qualcosa di specifico, di caratteristico della nostra fede. Ancora oggi, la Chiesa, pur avendo ben presente il modello della Gerusalemme Celeste a cui deve tendere, fatica a mantenere aperte su ogni punto cardinale quelle “dodici porte” di cui l'Apocalisse ci parla.
Abbiamo ancora troppe chiese che lasciano chiuse le loro porte “a ogni uomo”; sono troppe le chiese con le porte chiuse! E non mi riferisco agli edifici religiosi, che per ragioni pratiche molte volte sono costretti a chiudere i loro battenti al termine di una funzione liturgica per evitare il trafugamento di opere d'arte.
Mi riferisco invece alle chiese nel senso di “comunità di credenti”, che spesso chiudono le loro porte invece di aprirle. Mi riferisco a comunità di credenti che invece di accogliere allontanano la gente.
Mi riferisco a quelle comunità di credenti che a parole dicono: “Ci vuole gente nuova”; poi però quando arriva qualcuno di nuovo, con atteggiamenti tipici della peggior gelosia gli si impedisce di inserirsi in un cammino di fede e di impegno pastorale con idee nuove perché “qui si è sempre fatto così”.
Mi riferisco anche a comunità di credenti dirette e manipolate da cristiani ben pensanti di prima categoria e di alto profilo culturale che vorrebbero (come i giudei della prima lettura) imporre agli altri un modo di vivere la fede che nemmeno loro sono in grado di portare avanti con coerenza.
Mi riferisco a coloro che fanno del cristianesimo una religione dell'aut - aut (“O vivi così o non sei cristiano”) invece di adottare uno stile dell'et - et, dando spazio e posto a ognuno nella Chiesa, ognuno con le proprie peculiarità e i propri modi di vivere la fede, della quale, peraltro, nessuno è padrone se non Dio Padre e suo Figlio Gesù, i quali - sono parole del Vangelo - “vengono da noi e prendono dimora in noi, se osserviamo la sua parola”. E la sua parola è una sola: amore.
Certamente, su alcune cose di fondo bisogna intendersi, perché la Chiesa non è un concentrato di anarchie. Anche la Chiesa che esce dal Concilio di Gerusalemme ne esce dando come indicazioni alcune “cose necessarie a cui attenersi” e sulle quali è bene che ci sia anche oggi ampia condivisione. Ma se facciamo caso alle “cose necessarie a cui attenersi” indicate nei versetti finali del brano degli Atti degli Apostoli, ci rendiamo conto di come la maggior parte di esse siano legate a situazioni ben precise, determinate da un ben preciso contesto storico e culturale (“astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime”), cose che vanno continuamente rilette e riadattate alla luce dei tempi che stiamo vivendo.
Se la Chiesa non è capace di rileggere il messaggio cristiano alla luce dei tempi, delle culture e delle situazioni che si trova a vivere nel prosieguo della storia, rischia di non essere più immagine di quella Gerusalemme del cielo con le dodici porte aperte in ogni direzione: diventerà sempre più un baluardo inaccessibile, una fortezza inespugnabile, perfetta, inattaccabile, ma alla fine rischierà di rimanere desolatamente vuota.
Il Concilio Vaticano II l'aveva colto già cinquant'anni fa: “É dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna, infatti, conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”. (Gaudium et Spes, 4).
Per fare questo, però, ci vogliono una mente e un cuore aperti alla voce dello Spirito, il quale - ce lo ha promesso quest'oggi Gesù - “ci insegnerà ogni cosa”.