TESTO Commento su Giovanni 14,23-29
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VI Domenica di Pasqua (Anno C) (25/05/2025)
Vangelo: Gv 14,23-29

23Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. 24Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
25Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. 26Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
27Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. 28Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. 29Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Quintino Venneri
Viviamo in un tempo in cui tutto tende a sfilarsi: le relazioni, le parole date, le promesse. Siamo più abituati a lasciare che a restare. Eppure, il Vangelo di oggi comincia proprio con questa parola: dimora.
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».
Dimorare, non transitare. Abitare, non visitare. Restare dentro la vita dell'altro anche quando non conviene. Ma è ancora possibile? In un tempo di fughe, chi resta davvero?
Egli non cerca credenti perfetti ma case imperfette dove abitare. Non ci chiede performance religiose, ma fedeltà quotidiana alla sua Parola, cioè alla sua visione del mondo, alla sua logica.
Ma noi ci fidiamo davvero di questa logica? Riusciamo a credere che Dio voglia entrare nella nostra vita non quando è sistemata, ma proprio quando è in bilico?
A ben vedere, questa domanda attraversa i testi proposti oggi.
Nel libro degli Atti, la Chiesa è chiamata a discernere: che cosa chiedere davvero a chi crede? Che pesi togliere, che fardelli non imporre? La risposta arriva chiara: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro obbligo...».
È un passaggio di maturità. La comunità cristiana non si rifugia nella regola per sentirsi al sicuro, ma ascolta lo Spirito. E decide di fidarsi.
E noi, nelle nostre comunità, cosa vogliamo costruire: luoghi di controllo o spazi di fiducia? Continuiamo a rendere Dio complicato, o proviamo a renderlo abitabile?
Anche l'Apocalisse ci parla di abitare, ma capovolge ogni attesa: la città santa non ha tempio.
Perché? Perché Dio stesso è la luce, il tempio, la presenza. Non c'è bisogno di separare il sacro dal profano: tutto può diventare dimora, se lasciamo entrare la luce.
Ma noi, nella vita di ogni giorno, dove cerchiamo Dio? Nei riti, nei luoghi “religiosi”, o anche nelle pieghe ferite del reale?
E in fondo, la vera domanda che percorre queste letture è questa: chi siamo quando le cose si complicano? Quando la fede non è chiara, quando le strade si biforcano, quando le domande superano le risposte - noi dove stiamo?
Gesù non offre garanzie. Non dice che andrà tutto liscio. Ma promette una pace diversa, non come la dà il mondo. Una pace che non è assenza di problemi, ma presenza dentro i problemi. Una quiete interiore che nasce non dalla fuga, ma dal radicamento.
Siamo disposti ad accogliere questa pace, che non ci evita le ferite, ma ci dà la forza di attraversarle?
Gesù se ne sta andando, eppure assicura: «Io torno a voi».
È un Dio che parte ma non abbandona, che si allontana per poter restare in un modo più profondo. Non lo vedremo più come prima, ma se impariamo ad ascoltarlo, a fidarci della sua parola, allora la sua presenza non ci mancherà.
Allora, oggi, tra tutte le cose che ci abitano, una domanda va ascoltata: cosa vogliamo che resti davvero nella nostra vita? E cosa siamo disposti a lasciar andare per far spazio a ciò che conta?