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TESTO Commento su Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46

CPM-ITALIA Centri di Preparazione al Matrimonio (coppie - famiglie)  

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) - Cristo Re (26/11/2023)

Vangelo: Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 25,31-46

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

Non è tra quelle facili la lettura dell'evangelo di oggi, ultima domenica dell'anno liturgico, prima dell'inizio, con l'Avvento, del nuovo anno.
Il tema è quello del giudizio finale e, in una società dedita alla pastorizia, il punto di riferimento è ovviamente il pastore e il suo rapporto con le pecore: una per una, non il gregge inteso come unità indifferenziata. Ezechiele, il grande profeta nato a Gerusalemme e morto a Babilonia circa sei secoli prima di Cristo, in un brano di grande e commovente poesia, profetizza che il Signore radunerà le sue pecore, le farà pascolare e le farà riposare. Splendido questo concetto del riposo al quale ognuno di noi anela. E ne avrà cura: “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (34,16). Ma prima aveva detto: “Guai ai pastori d'Israele che pascolano se stessi. I pastori non dovrebbero invece pascere il gregge?”(v.2). E poi quel salmo che spesso cantiamo distrattamente in chiesa senza gustarlo fino in fondo, ma che, secondo alcuni esegeti, avrebbe addirittura una proprietà terapeutica, capace cioè, ripetuto e cantato (splendida la versione poetica di David Maria Turoldo), di sanare le nostre ferite, di aiutare le nostre fatiche: Il Signore è il mio pastore...
Veniamo ora a Matteo 25, 31-46: è un testo sull'escatologia e aveva ragione il compianto Vittorio Croce, grande e umile teologo, già direttore responsabile di Famiglia domani, nel dire che oggi si tende a rimuovere ogni discorso sui tempi ultimi, sul giudizio finale: su di essi pare essere calata una sorta di “congiura del silenzio”, dopo il tanto che se n'è fatto nel passato in termini terrorizzanti (cfr. Vittorio Croce, Quando Dio sarà tutto in tutti. L'escatologia, Piemme, Casale M.to 1987).
Mi chiedo però se sia giusto vivere angosciati con la paura di Dio. Mi chiedo altresì - scusandomi per questa confessione personale - quale sarebbe l'esito della mia fede sempre a tentoni se non la sorreggesse la speranza, addirittura la convinzione, che l'amore di Dio è realtà troppo seria per poter essere contaminata dalla mia provvisoria ed approssimativa idea della sua giustizia. Quale giustizia? Quella dei politici che chiamano Dio a testimone per giustificare il loro misfatti? Quelli che lo accomunano a Patria e Famiglia per rifarsi una verginità mai posseduta? Quelli che lo immaginano con le armi in pugno per difendere sacri confini e avallare la Conquista? Quella dei cardinali che benedicono le armi dei padroni del mondo? Sono propenso a credere che Dio sia assai meno armato di quanto lo faccia certa politica, e assai meno complicato di quanto lo faccia una certa teologia. Ne ha consapevolezza addirittura la pietà popolare quando, nel corso della recita del Rosario, indirizza a Gesù la preghiera di Fatima: “Gesù mio, perdona le nostre colpe... porta in cielo tutte le anime specialmente le più bisognose della tua misericordia”. Splendida definizione dell'apocatastasi, il ristabilimento finale e definitivo di tutta la creazione nell'ordine voluto dal Creatore: il Regno. In cui convergono tutte le creature. Non quelle buone (le pecore), escluse quelle cattive (i capri). Tutte. Come? Questo è un mistero difficilmente sondabile, ma forse è importante incominciare a evitare letture frettolose, letteralistiche, fondamentalistiche della Parola. Letture che ci forniscono alibi e tentazioni discriminatorie.
Va anche aggiunto che la pagina dell'evangelo di oggi non è facile perché - posti di fronte alla severa lezione di Gesù - ci troviamo come spiazzati, con i ponti tagliati dietro le spalle, senza vie di scampo. Ma di quale lezione si tratta?
Riferendosi proprio ai “tempi ultimi”, in una potente lezione di escatologia, Gesù dice: “Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,34-40).
Si tratta di una prospettiva non solo religiosa, ma storica. E allora la storia - presentata in una tale prospettiva, troppo obbligante per essere considerata di dettaglio - diventa una partita giocata a tutto campo. Non servono le furbizie dilatorie, né risulta possibile fare il “catenaccio” o sperare di salvarci in angolo. In altre parole, più rigorose, è fuori di dubbio che saremo tutti giudicati sull'amore; che siamo già, anzi, oggi, qui e ora, giudicati sull'amore, dalla storia e nella storia: non se inneggiamo o meno a Dio, Patria e Famiglia, bensì sulla nostra disponibilità a liberare la storia stessa, preoccupandoci di coloro che hanno fame, sete, che sono colpiti dall'AIDS, che vagano e muoiono nel deserto e nel Mediterraneo sperando nell'ospitalità di Paesi inospitali, che vivono, senza acqua, elettricità e servizi igienici in sterminati campi profughi, che marciscono nelle lugubri prigioni di ogni parte del mondo, che attendono il giorno dell'esecuzione nei Paesi (in)civili in cui ancora si commina la pena di morte... “Soprattutto quelli più bisognosi della tua misericordia...”. C'è da rabbrividire al pensare al tradimento di queste parole.
Posto così, il discorso potrebbe apparire fin troppo semplicistico per non sollevare obiezioni. Una è quella, ormai lisa e consunta, tanto è stata sventolata, di far consistere il cristianesimo in una sorta di sociologismo facile al quale - immediatamente - viene applicato l'aggettivo “marxista”. Il cristianesimo è una cosa seria, dicono taluni, non roba da cattocomunisti o da preti in odore di marxismo. Gente anche simpatica, talvolta, ma da tenere un po' alla larga perché rompono gli schemi dell'economia classica. La fanno semplice, loro... Aprire le frontiere... Accogliere i migranti... Detassare i poveri e aumentare le tasse ai ricchi (lo dice anche la Costituzione italiana)... Se dessimo loro retta, dove andremmo a finire? E i preti facciano i preti, senza immischiarsi.
Che fare, allora? In quale direzione muoverci come cristiani? Seguire un percorso “orizzontale” oppure uno “verticale”? A chi ha ancora questi dubbi vorrei dire umilmente che l'impegno “verticale” con Dio e quello “orizzontale” con i fratelli non sono certo scindibili. Credo anche, ma qui il discorso si fa ancora più complesso, che la ricerca di uno “specifico cristiano” possa diventare momento alienante e dissociativo. Cerchiamo invece uno “specifico umano”, e urgentemente, in un tempo in cui l'umanità viene continuamente calpestata.
In realtà, oggi tutte le comunità cristiane possono dire di farsi carico, in qualche modo, del problema della povertà: i centri di ascolto Caritas sono diffusi e impegnati... spesso giorno e notte. Questo è confortante. Ma siamo poi sicuri che quando affrontiamo il problema della povertà e degli “ultimi” siamo davvero attenti alla causa, più che ai sintomi? Mi impegno “per” i poveri o “con” i poveri? Siamo disposti a leggere la storia dalla parte degli ultimi, cogliendo con prontezza e sensibilità quelle contraddizioni che generano le differenze? Se il contatto con i poveri non mi porta a vedere con i loro occhi il mondo, la storia, il mercato, i meccanismi economici, e i processi culturali e politici attraverso i quali si attua oggi la loro esclusione, non contribuisco a risolvere il problema perenne delle ingiustizie. Rischio, anzi, di percorrere una via parallela a quella via di liberazione che - lo dice il Vangelo non la Sociologia - proprio da un lieto annuncio ai poveri si origina. Rischio di fare i miei interessi da ricco anche “facendo del bene”. Rischio di dire “I like” (oggi lo si fa su tutto...) anche ai fautori (che, ahimè, stanno crescendo) di Dio, Patria e Famiglia.
Mi si potrà obiettare facilmente che l'Evangelo di oggi non ci chiede di “fare politica”, ma di sfamare chi ha fame e di dissetare chi ha sete. Perché in loro vedo il Cristo che ha fame e che ha sete. Ma come faccio a vederlo se non faccio con lui un tratto di strada; se non vedo la realtà con i suoi occhi? Se con lui non mi impegno a dare un giudizio critico sulla storia? Ora, vedere la storia con gli occhiali dei poveri è già una ragione sufficiente per “fare politica”, soprattutto per rifiutare certe politiche. Non nel nome di un'ideologia, ma di un'etica. E di una scommessa di vita in vista del Regno: che va realizzato nel quotidiano e soprattutto pregato. Scrive Origene, finissimo teologo, direttore della scuola catechetica di Alessandria d'Egitto (183-84 - 253-54):
“Ma questo regno di Dio, che è in noi, col nostro instancabile procedere giungerà al suo compimento, quando si avvererà ciò che afferma l'Apostolo del Cristo. Quando cioè egli, dopo aver sottomesso tutti i suoi nemici, consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor 15, 24.28). Perciò preghiamo senza stancarci. Facciamolo con una disposizione interiore sublimata e come divinizzata dalla presenza del Verbo. Diciamo al nostro Padre che è in cielo: «Sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno» (Mt 6, 9-10). Ricordiamo che il regno di Dio non può accordarsi con il regno del peccato, come non vi è rapporto tra la giustizia e l'iniquità né unione tra la luce e le tenebre né intesa tra Cristo e Beliar (cfr. 2 Cor 6, 14-15) [Dall'opuscolo «La preghiera» di Origène, sacerdote (Cap. 25; PG 11, 495-499)].

Traccia per la revisione di vita.
- Nonostante le difficoltà che incontriamo, riusciamo sempre a leggere gli avvenimenti quotidiani, la storia, con gli occhi dei poveri, noi che poveri non siamo?; riusciamo ad essere per loro e con loro i testimoni della speranza?
- Che cosa facciamo per trasmettere a chi ci vive accanto, in famiglia, sul lavoro, nella vita sociale e politica, la proposta di superare un orizzonte terreno di tranquillità e di utilità immediata, in vista dell'accoglienza di un Regno di giustizia e di pace? Quali impegni concreti ci sentiamo di assumere in questa prospettiva?
- Chiediamoci, pacatamente, senza animosità: che cosa annuncia oggi, concretamente, la nostra comunità cristiana?

LUIGI GHIA - Direttore della rivista “Famiglia domani”

 

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