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TESTO Un grido di libertà

don Alberto Brignoli  

XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (05/11/2023)

Vangelo: Mt 23,1-12 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, 1Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.

8Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.

Si sentono spesso dire, tra i cristiani, frasi del tipo: “Io non vado più in chiesa al mio paese perché non sopporto il mio prete”; “Io credo in Dio e negli insegnamenti della Chiesa, ma non frequento per via degli scandali che ci sono tra il clero”; “Io vorrei poter credere nel Vangelo, ma quando vedo e ascolto tutte le norme della Chiesa, soprattutto in materia morale, perdo la fede”.

Se devo essere sincero e onesto, non posso che ammettere che il più delle volte tutto questo corrisponde a verità. Spesso, è vero, si tratta di scuse pure e semplici per giustificare la propria accidia in materia di fede: sarebbe come dire “Non mangio più frutta e verdura perché il fruttivendolo del mio paese è antipatico”... Ciò nulla toglie, tuttavia, al fatto che noi, ministri dell'altare, o comunque chiamati a un ruolo istituzionale nella Chiesa, abbiamo tra le mani una grossa responsabilità, che può fortemente condizionare la vita di fede dei nostri cristiani. Quanto viene espresso da Gesù nel Vangelo di oggi (una delle tante invettive contro le autorità religiose del suo tempo), possiamo sintetizzarlo attraverso due proverbi, uno appartenente alla lingua italiana (“Predicano bene e razzolano male”) e l'altro più “nostrano”, più “locale”, che traduco così: “Con preti e frati, togliersi il cappello e lasciarli andare per la loro strada”.

Tuttavia, questo semplificherebbe e banalizzerebbe pure la portata del Vangelo di oggi. Sarebbe sufficiente, infatti, prendere in considerazione la limitatezza umana che comunque contraddistingue i membri del clero o i rappresentanti religiosi, tanto al maschile come al femminile, e attribuire i loro errati comportamenti, le loro incoerenze, le loro infedeltà, il loro pessimo carattere al fatto di essere persone umane come tutte le altre: senza, per questo, doverli giustificare, soprattutto quando commettono cose aberranti.

Ma il discorso di Gesù nel Vangelo è molto più profondo, perché non riguarda solo il comportamento, bensì l'insegnamento e la dottrina delle autorità religiose del suo tempo. Proprio all'inizio del suo discorso alla folla, Gesù afferma che scribi e farisei si sono seduti “sulla cattedra di Mosè”: la “cattedra” era lo scranno principale della sinagoga, collocato frontalmente rispetto agli altri posti, che in origine era stato pensato per essere lasciato di proposito vuoto e ben adornato perché, qualora Mosè fosse tornato, avrebbe avuto la possibilità di sedersi al posto che gli competeva come giudice e legislatore. Con il tempo, poi, è stato occupato da scribi e farisei nella loro funzione di insegnanti della Torah, e Gesù approfitta di questo cambiamento storico per dire come essi abbiano di fatto “usurpato” quel posto, atteggiandosi a interpretatori ufficiali della Legge, al posto di Mosè.

Qual era lo scopo principale di questo atteggiamento di interpretazione esclusiva della Legge di Mosè da parte delle autorità di quel tempo? Gesù ce lo dice in maniera chiara nella seconda parte del testo: esercitare il potere sul popolo, ergendosi a maestri, padri e guide di quelle persone che, fidandosi di loro in quanto dotti e preparati, consegnavano nelle loro mani uno dei beni più preziosi che il Signore ha dato agli uomini, ossia la libertà della coscienza. Avere in mano le coscienze delle persone, soprattutto di quelle meno preparate di loro culturalmente e religiosamente, significava, per scribi e farisei, avere la possibilità di manipolare il popolo in base alle loro scelte, alla loro linea politica, ai fini che decidevano di volta in volta di perseguire.

Venendo ai nostri giorni, ci verrebbe da pensare che oggi, grazie a Dio, non è più così: un'accresciuta preparazione culturale, anche solo attraverso un grado di alfabetizzazione maggiore rispetto al passato, difficilmente porta i cristiani di qualsiasi latitudine a lasciarsi manipolare da qualsivoglia autorità religiosa, per quanto autorevole essa sia. Eppure, episodi di tentata manipolazione delle coscienze, di plagio delle convinzioni religiose e spirituali, e soprattutto di imposizione di dottrine che vengono legate sulle spalle della gente come “fardelli pesanti e difficili da portare” (per riprendere le parole di Gesù) nella Chiesa non sono mai venuti meno, e continuano a tutt'oggi. Sarebbe sufficiente parlare di tutti quei precetti, decreti e norme espressi nella dottrina morale della Chiesa in ordine, ad esempio, alla morale matrimoniale, sessuale e affettiva, con l'esclusione dalla Comunione Eucaristica - spesso fatta in modo arbitrario, tra l'altro - delle persone separate e risposate, oppure conviventi. A parte il fatto che certe normative (così come altre indicazioni relative alla vita affettiva e di coppia) vengano stabilite da chi, riguardo alla vita matrimoniale o di coppia non avrebbe da dire ‘sto granché, per via della scelta di vita celibataria, ci troviamo molto spesso - e non solo in questo ambito - di fronte a norme e dottrine pesantemente collocate sulle spalle della gente, che hanno certamente un loro senso e un loro significato, ma che spesso vengono imposte senza tener conto dei drammi, delle fatiche, delle sofferenze che stanno dietro a tante situazioni, e ancor peggio senza tenere conto dell'ineludibile primato della coscienza personale.

Sono passati meno di 60 anni (e nella Chiesa significa l'altro ieri) da quel 7 dicembre 1965 nel quale, a conclusione del Concilio Vaticano II - nel cui solco ci auguriamo che il Sinodo attuale continui a lavorare - la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes recitava così: “Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità”.

Il riferimento alla coscienza personale, pur non essendo infallibile, non può essere spazzato via senza mezzi termini da dottrine, norme e precetti che servono solo a dare sicurezza a chi, nella Chiesa, è chiamato ad applicarli ma non a rispettarli, visto che non lo riguardano. Ma il rischio più grande, in tutto questo, è quello di passare sopra alla bellezza del Vangelo, che non può mai essere un fardello opprimente, bensì un annuncio e un grido di libertà.

 

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