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VI domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno A) (08/10/2023)

Vangelo: Lc 17,7-10 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,7-10

7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Mi prendo la libertà di accogliere una traduzione diversa da quella che ci è stata proposta nelle parole finali della parabola di Luca. Il brano chiude: "Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili". Ebbene l'aggettivo greco, tradotto "inutili", secondo autorevoli esegeti può assumere altre sfumature, anche quella di "piccoli", "poveri", nel senso di "siamo poveri servi", "siamo semplicemente servi". Tutt'altro che inutili. Tant'è che dicono: "Abbiamo fatto quanto dovevamo fare", cioè ingegnandoci in quello che ci era stato ordinato. Sappiamo di non aver fatto chissà che cosa, ma era quello che ci toccava.

A proposito del nostro brano, devo anche confessare che le parole del padrone della parabola, nei confronti del servo che fa ritorno a casa dopo aver arato e pascolato, a volte mi sconcertano per la sensazione, che mi lasciano, di un predominio fuori misura del ruolo, quasi al padrone poco importasse della stanchezza del servo; una difesa dei ruoli, come dicesse: "I ruoli sono ruoli, e sono sacri; sarai anche stanco morto, ma prima tocca a me mangiare, tu mi servi; poi toccherà a te". Leggo e mi capita di correre d'istinto ad altri brani del vangelo nel tentativo di non cedere all'ombra. Come non pensare a Gesù che si stringe le vesti e passa a lavare i piedi dei discepoli? Come non pensare a Gesù che quando ci avrà preparato un posto nei cieli - ce lo ha promesso - passerà lui a servirci? E non mancherà molto, che passerà a servire anche uno piccolo e indegno come me.

Anche lui semplicemente servo, perdutamente servo. Diceva: "Sono stato in mezzo a voi come uno che serve", ridando onore e bellezza alla dimensione del servire. E se il servire fosse il senso, il senso profondo, del nostro vivere? E non è forse vero che leggi negli occhi il baratro di un fallimento quando uno arriva a dirti "Io non sevo a nulla"? "Semplicemente servi", e non a servizio delle proprie ambizioni, dei propri interessi, ma del bene comune. Sta qui la salvezza del mondo, perché è nel sentirci servi, onorati di servire, che cresce l'orizzonte del bene comune. Confessiamolo: noi rimaniamo incantati ogni volta che qualcuno, silenziando gli applausi, dice - e lo senti sincero - "Ho fatto quello che dovevo fare". Sono da ricercare tra questi i veri servitori di una chiesa, di un paese, di una terra. Piccoli e operosi. Una piccolezza che non è ignavia, ma passione di servire, senza incensi, nel quotidiano.

Vi ho confessato le domande che ci lascia il testo di Luca, lascia anche spiragli. Abbiamo cercato qualche fessura. Ebbene di domande è colmo il testo di Giobbe, anzi il libro è una domanda. Penso sia legittimo chiederci se il taglio del brano operato dalla Liturgia non sia fuorviante perché sembra evocare la figura di un Giobbe arreso di fronte alle sue sventure, la tradizionale "pazienza di Giobbe", quasi una piccolezza arresa per fede: "Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: "Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!"".

Basta scorrere qualche riga del racconto per scoprire che Giobbe è tutt'altro che un uomo placato. Giobbe non chiude la domanda sulla sventura; spogliato di tutto, senza colpa alcuna, nudo, dalla sua nudità - gli rimane la voce - chiede conto a Dio, lo chiama a processo, gli chiede ragione del dolore degli innocenti: lo mette alle strette, rasentando con il suo grido la bestemmia. Si ribella alle facili risposte religiose, all'argomentare distaccato ed esangue degli amici teologi, che risolvono il problema attribuendo il male a una colpa. Tra parentesi, oggi forse meno, ma accade ancora che si attribuisca la causa della sofferenza alla responsabilità di chi la sta patendo: "Se la sono cercata" si dice.

E Dio - questo fa impressione - lungo tutto il percorso del libro si guarda dallo zittire Giobbe, non si sottrae alla sua inquietante requisitoria, Anzi, se zittisce qualcuno, zittisce i teologi e i loro teoremi. E rimangono le domande sul male. E' vero, è previsto un finale di riabilitazione per Giobbe, ma è anche vero che alcuni studiosi sono arrivati a pensare che qualcuno abbia rivisto il finale perché sarebbe stato devastante che il libro terminasse senza risposta, con aperta una domanda, e quale domanda! Stare nella domanda e non venir meno alla fede. "La verità" scrive Mons. José Tolentino Mendonça "è che nel Libro di Giobbe siamo rappresentati tutti, credenti e non credenti, convertiti, inquieti, residenti e pellegrini. Giobbe ci ricorda come la sofferenza più grande stia nel non trovare un senso alla vita e nel dubitare se essa non sia, in fondo, che una passione inutile.

Per questo la sua protesta costituisce una straordinaria catechesi che ci dice che la fede non è una zona di conforto, bensì un libro di inquietudine che è sempre in corso di rifacimento". Leggendo il brano di Luca parlavamo di una piccolezza operosa; leggendo il libro di Giobbe ci sembra di scoprire una nudità interrogante. E quindi un invito a non cedere alle rapide risposte, a non cedere alla tentazione di chiamare bestemmie le proteste dei disperati, un invito a portare con tutti anche il peso del non capire. Alla fine mi ritorna una preghiera che - vi confesso - mi è molto cara, quella del padre di un ragazzo epilettico di cui narra il vangelo di Marco: il padre racconta a Gesù la storia di quel suo figlio disturbato. Alla fine gli dice: "Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci". Gesù gli disse: "Se tu puoi! Tutto è possibile per chi crede". Il padre del fanciullo rispose subito ad alta voce: "Credo; aiuta la mia incredulità!"

"Credo, Signore, aiuta la mia incredulità".

 

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